33-L'ipersenso

L‘ipersenso occupava la zona mediana dell’istinto e la sua collocazione in esso non era affatto casuale. Interposto com’era tra un senso divoratore di dati percettivi ed un conscio arbitro insindacabile della loro manipolazione, esso partecipava allo stesso tempo della natura di entrambi e di nessuno di loro. In realtà, l'ipersenso allacciava con i medesimi dei rapporti così ambigui e discontinui, che rendevano arduo coglierne la natura e le finalità. Per tale motivo, tutta la sua attività risultava quanto mai enigmatica e misteriosa. Da quella sua descrizione introduttiva, sommaria e sbrigativa, l’ipersenso, per le sue specificità latenti e per il suo contenuto criptico, già si prefigurava come la parte istintiva più complessa e più ardua da interpretarsi. Ad ogni modo, bisognava pur sconfessare quelle mere apparenze e trovare la chiave interpretativa che risultasse idonea ad aprirne le porte e a svelarne i recessi più reconditi. Ecco perché lo studio che ne seguì da parte mia, avvalendosi delle poderose armi in mio possesso, che mai avevano conosciuto lo smacco della sconfitta, orientò i suoi sforzi in quella direzione.

Allora le mie prime domande sull'ipersenso furono le seguenti: Perché aveva preso un nome simile? Perché gli era stata assegnata la parte mediana dell’istinto? Voleva esso significare ugualmente un’attività sensoriale, però con una formula di conduzione completamente diversa? Oppure stava ad indicare un certo tipo di attività, la quale trascendeva quella sensoria? Comunque, poteva anche rappresentare una sovreccitazione della stessa, come puro fenomeno di autodifesa! Ebbene, circa quanto aveva attinenza con il suo nome, era ancora prematuro avanzare delle ipotesi di qualunque tipo, per il fatto che la sua attribuzione immancabilmente doveva essere scaturita dal contesto della sua attività e delle sue prerogative; ma io non ero stato ancora reso edotto né dell’una né delle altre. Per il momento, dunque, dovevo accantonare ogni illazione in merito, se non volevo andare incontro ad un sicuro insuccesso e ad una grande perdita di tempo. Semmai dopo, a conclusione della mia indagine sull’ipersenso, sarebbe stato più ragionevole trarne le debite considerazioni anche sul nome che gli veniva attribuito.

L’ipersenso, avvolto come si presentava nella sua coltre brumosa, faceva immaginare che avrebbe rappresentato una beffarda sfida e un ostacolo insormontabile per chiunque avesse osato indagarlo in profondità. Invece se la sarebbe cavata altrimenti il mio occhio indagatore, il quale si preparava a penetrare l’ipersenso con pertinacia, dopo averne fiaccato la protervia. Infatti, davanti al mio sguardo tenace, immediatamente vidi prima dissolversi ogni più ostinata resistenza, che derivava dal suo aspetto nebuloso, e poi lo vidi apparirmi nella sua nudità diafana. La quale, per questo, rendeva molto visibile la sua tridimensionalità planare. Senza dubbio, un ipersenso, il quale si dimostrava tridimensionale e piatto allo stesso tempo, non era cosa abbastanza facile da accettarsi e da comprendersi, quantunque la sua trasparenza consentisse di considerare il problema da svariate angolazioni. Ma, per mia fortuna, l’apparente paradosso, lungi dall’inibirmi ogni tentativo di sondaggio, rendeva ancor più infrenabile in me l’ansia sia di diagnosticarlo nei suoi più arcani dilemmi sia di esaminare i molteplici risvolti di quella complessa situazione che in esso si aveva.

Ad un mio primo esame della sua essenza costitutiva e della sua funzionalità intrinseca, l’ipersenso mi si rivelò come un mosaico di pulsioni che si reprimevano in sé stesse, osteggiando deliberatamente ogni sorta di soddisfacimento dilatatorio e caldeggiando invece ogni frustrazione comprimente. Ma i motivi di quel loro comportamento strano, che appariva un’autentica vocazione masochistica al suicidio, per il momento mi risultavano totalmente sconosciuti. Forse ciò era dovuto al fatto che tra loro e me si frapponeva ancora parecchio materiale di ricognizione e di studio. Perciò quel nonsenso del comportamento delle sue pulsioni, da un lato, mi disorientò moltissimo; dall’altro, invece, mi sollecitò a raccapezzarlo, attraverso un approfondimento che mi si sarebbe rivelato tutt’altro che semplice ed agevole. Io, però, pur di dipanare quell’intricata matassa, ero disposto ad andare avanti, fino in capo al mondo oppure a contare tutti i granelli di sabbia di un deserto. Anche perché il tempo non mi sarebbe mancato, se avessi voluto insistere in una conta del genere. Forse mi sarei pure divertito a contarli uno per uno, dal primo all’ultimo. Naturalmente, l’unico problema sarebbe stato costituito dalla noia, la quale, pur di mostrarmi la sua intenzione di assillarmi, alla fine mi avrebbe costretto a desistere da quel mio proposito ghiribizzoso. Infine, in seguito ad una mia indagine più approfondita, la costituzione, la natura e la funzione dell’ipersenso mi si rivelarono quali in effetti erano in ogni loro aspetto.

Costitutivamente inteso, l’ipersenso aveva la forma di un favo; però il suo aspetto era quello di una ciambella, con le cellette ricoperte di una tenue membrana opaca ed espansibile. Anzi, l’intero apparato costitutivo del favo risultava composto di una struttura pellicolare retrattile e dilatabile. La quale era alla base dello strano fenomeno della tridimensionalità planare, che si verificava nell’ipersenso. Sbocconcellata nelle varie cellette, l’essenza dell’ipersenso soffriva enormemente per la sua frammentazione, per cui andava cercando ad ogni costo la loro unificazione, senza mai smettere di rinunciare ad essa. In un certo senso, anche se era stata sbrindellata a livello di costituzione, nella sua intrinsecità essa si sentiva una unica entità e, in pari tempo, avvertiva l’esigenza di sentirsi tale pure nella sua costituzione. La sua natura, infatti, era sostanzialmente unitaria e mal si sopportata nell’abito della divisione. Perciò faceva ogni sforzo possibile, pur di riuscire ad ottenere la ricomposizione di sé e a vedersi trasformata in un unico blocco omogeneo e monolitico. Nell’ottica di tali sforzi ed aspirazioni, i quali si rivelavano ad essa congeniali, veniva attribuito alla natura dell’ipersenso un alto grado di bellicosità e di strategia mirata. Le sue qualità combattive si adoperavano strenuamente, perché chi se ne fosse servito non avrebbe portato avanti invano la sua lotta. Anche se poi, per ironia della sorte, la natura bellicosa e strategica dell’ipersenso, almeno per quanto riguardava il suo sogno di pervenire all'unità, era condannata a non sortire mai l’effetto sperato. Ciò nonostante, la sua battaglia seguitava ardimentosa, indomita e perenne. Ma in quale maniera e con il conseguimento di quali concreti risultati?

L’ipersenso era convinto che, quanto più fosse riuscito a comprimere la sua essenza in uno spazio meno voluminoso, tanto più la sua multipla scissione sarebbe stata meno appariscente e la sua unione sarebbe stata accettata come un fatto più plausibile. In conseguenza di quella sua convinzione, partivano da esso direttive a tutte le sue particelle, affinché si impegnassero e si applicassero in una attività di ritrazione. Ecco perché, dall’esterno, sembrava che esse venissero aspirate da una forza interna, poiché pareva che seguissero il vortice di un folle risucchio. Il quale, da parte sua, finiva per spiaccicarle contro le esili pareti del loro minuscolo involucro. Al contrario, erano le stesse piccole essenze frazionate dell'ipersenso a reagire in modo convulso, contraendosi e rattrappendosi in uno schiacciamento sempre più riduttore di spessore. Così facendo, secondo loro, alla fine l’intero favo avrebbe perso ogni consistenza ed ogni attributo tridimensionali; inoltre, avrebbe assunto una forma essenzialmente piatta, a guisa di una corona circolare. In pari tempo, esse si preoccupavano che l'ipersenso non incorresse in deformazioni di tipo estensivo, le quali avrebbero potuto compromettere in qualche maniera l’attività del senso e del conscio. I quali organi confinavano con l'ipersenso, essendo questo situato in mezzo a loro.

L’appiattimento dell’abitacolo dell’ipersenso, però non poteva risultare un fatto statico e continuativo, a causa dell’alta frequenza di instabilità che si rinveniva nella sua essenza. Quest’ultima, per la sua natura, era impossibilitata a fissarsi in una posizione di staticità e di immobilità durature. Per questo l’alternarsi delle due fasi di appiattimento e di ispessimento era così veloce e fugace, da apparire come un rincorrersi ed un sorpassarsi a vicenda tra due entità l’una piatta e l’altra tridimensionale. Era in questo modo che l’ipersenso creava il fenomeno della sua tridimensionalità planare, da cui gli derivavano alcune specificità abnormi. Esse avevano il compito di reintegrare quelle inefficienze di vario tipo che il regno vegetale si trovava ad accusare in particolari frangenti della sua esistenza, le quali erano ritenute foriere di immani catastrofi. La sua tridimensionalità planare, in questo modo, obbligava l’ipersenso a destreggiarsi fra due esistenze non sempre compatibili fra di loro. L’una, quella originale, la quale si presentava con mille sfaccettature, poteva considerarsi una ripercussione della sua costituzione tridimensionale. L’altra, quella che si era instaurata al suo fianco subito dopo, mostrava il preciso intento di interrompere lo statu quo fin dal suo primo nascere, non gradendo il principio della divisione già insito nella medesima. Comunque, la seconda esistenza premeva per uno stabile appiattimento dell’ipersenso fisiologico, scorgendo in esso anche la unitarietà della natura dello stesso. Quindi, era proprio dalla sua insistente lotta di contrapposizione alla prima esistenza che nell'ipersenso prendeva forma e consistenza il coesistere di due modi esistenziali che si guerreggiavano a oltranza. La doppia esistenza dell’ipersenso non ingenerava in esso delle confusioni e neppure vi suscitava problematiche di sorta. Semmai era essa a trovarne sempre la giusta soluzione, quando vi giungevano da uno scomparto limitrofo, inidoneo o impossibilitato a risolverle.

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