479°-L’INCORONAZIONE DI IVEONTE E IL SUO MATRIMONIO CON LERINDA

Il primo gruppo di coloro che erano stati invitati a prendere parte all’incoronazione e al matrimonio del principe Iveonte fu quello di Terdiba, il quale veniva scortato da una trentina di gendarmi. Ad esso si era unita la famiglia del defunto Tio, come le aveva consigliato l’illustre allievo del loro congiunto estinto. Per disposizione del re Cloronte, con la quale era stato d’accordo anche il figlio, le scorte armate che proteggevano i nobili invitati, dovevano restare a bivaccare all’esterno delle mura di Dorinda. Comunque, alle porte della città, le persone scortate venivano prelevate da un drappello di cinquanta gendarmi appartenenti alla Guardia d’Onore, che erano comandati da Zipro. Esso vi si conduceva, ogni volta che veniva messo al corrente dell’arrivo di qualche sovrano oppure di una sua rappresentanza giunta per congratularsi con il nuovo re in pectore e felicitarsi con lui per l’imminente matrimonio con la sua amata regina. Presa poi l’intera comitiva terdibana sotto la propria protezione, Zipro si diede ad accompagnare i suoi componenti a corte. In quel luogo, essi sarebbero stati sistemati in eleganti ambienti dalle persone addette, perché l’ospitalità risultasse la più confortevole possibile. La qual cosa avvenne, immediatamente dopo che, dalle porte della città, essi furono trasferiti nella reggia. Avvisato poi dallo stesso Zipro del loro trasferimento a corte, il principe Iveonte invitò Lucebio ad interessarsi alla famiglia del defunto Tio. Nel frattempo, lui avrebbe accolto l’amico re Tionteo, che lo aveva accompagnato per l’intero viaggio che lo aveva condotto sulle coste del Mare delle Tempeste.

Il saggio uomo accolse volentieri l’invito del principe, per cui andò incontro ai familiari del grande maestro d’armi e li condusse nel patio, dove intraprese con loro una piacevole conversazione. Sia la vedova Luta che i suoi due figli Zilio ed Ucleo furono lieti d’incontrarsi con Lucebio, essendo consapevoli dei profondi rapporti di amicizia che c’erano stati fra il saggio uomo e il loro congiunto morto. Invece la donna preferì anche ricordare i begli anni, anche se erano stati pochi, durante i quali il consorte frequentava la corte e se ne ritornava a casa con la sua patente espressione di uomo felice. Ella sapeva pure che quell’aria di festa, che egli si portava appresso quando rincasava la sera, era dovuta alla sua frequentazione dell’amico Lucebio e del re Kodrun, che lo tenevano in grande considerazione. Tra le altre cose, l’uomo incaricato a riceverli e ad intrattenerli gli aveva riferito che Iveonte sarebbe stato con loro al più presto, ossia non appena si fosse liberato dell’amico Tionteo, che era il re di Terdiba. Il quale, per espresso desiderio dello stesso Iveonte, di buon grado si era preso cura di loro prima e durante il loro viaggio a Dorinda. Infatti, il principe, dopo aver consigliato al sovrano terdibano di visitare la Città Invitta con la stessa scorta che li aveva accompagnati alla reggia, si congedò da lui e dalla sua consorte Dildia. Ma subito dopo raggiunse nel patio i carissimi familiari del compianto Tio.

Non appena se li ritrovò davanti, Iveonte si commosse tantissimo, mentre delle manifestazioni di giubilo ci furono da parte di tutti e quattro. Anche Luta e i suoi figli si presentavano emozionati al massimo: quasi non riuscivano a contenere la loro comprensibile emozione. Naturalmente, tutta l’intensità emotiva del momento, la quale era da considerarsi densa di pathos, si era espressa fra strette di mano ed abbracci intensamente vissuti. Quando infine ogni emozione ed ogni euforia scemarono nei loro gaudiosi e festanti animi, il giovane principe pregò i suoi preziosi ospiti e il saggio amico di mettersi a sedere sopra due panchine attigue, dopo averle sistemate frontalmente. Così fece occupare l’una dai tre familiari; invece sull’altra sedettero lui e Lucebio. Una volta seduti, Iveonte, rivolgendosi a Luta e ai suoi figli, iniziò a dire:

«Dovrei chiedervi come è andato il viaggio; ma, da ciò che mi ha riferito il re Tionteo, so già che è andato tutto bene e che avete pure pernottato nella reggia di Terdiba. Non è vero che è stato così?»

«Infatti, principe Iveonte,» gli rispose la donna «non ci possiamo lamentare di nulla. Grazie alla tua intercessione, il tuo amico sovrano ci ha trattati con i guanti, mostrandoci una squisitezza di modi unica. Perciò te ne siamo grati e riconoscenti.»

«Voi non mi dovete niente, signora Luta, poiché è stato il minimo che potevo fare per voi. Ma adesso fatemi apprendere qualcosa della vostra vita che conducete dalle vostre parti. Non vi domando se avete bisogno di qualcosa in senso pecuniario, dal momento che so che il pentito predone di Kuercos si è preoccupato di mettervi in buono stato almeno sotto quell’aspetto. A proposito, adesso come si comporta in seno alla vostra famiglia? Egli vi dà un valido aiuto nel disbrigo delle vostre faccende familiari? Intendo saperlo. Prima, però, voglio far presente a te e ai tuoi figli che, nelle nostre conversazioni private, dovete rivolgervi a me, chiamandomi solo con il mio nome, senza farlo precedere da alcun titolo nobiliare. Consideratemi come se io fossi un membro della vostra famiglia. Mi sono spiegato?»

«Ti ringraziamo, Iveonte, per la stima che ci mostri. Riferendomi poi a Murzo, in verità egli ha cessato di vivere da due anni. Dopo un biennio di duro lavoro, che ci ha aiutati a mettere su una nostra fattoria, il poveretto è stato colto da un brutto male ed è morto. Egli diceva che, anche se potevamo avere tutto il denaro che volevamo, era meglio che ci dedicassimo ad un lavoro, poiché soltanto esso nobilita l’uomo e lo rende soddisfatto della propria esistenza. Per questo ci consigliò di darci al lavoro dei campi, il quale, secondo lui, rende industriosi coloro che lo svolgono con passione e con la massima dedizione.»

«Mi dispiace per lui. Quando sono stato a casa vostra, incalzato dalla premura di ripartire al più presto, non mi sono neppure accorto della sua assenza da casa. Ad ogni modo, sono contento che avete seguito il suo consiglio, che trovo molto saggio. Chi trascorre il tempo nell’ozio, dandosi ad una vita sregolata e dissoluta, prima o poi, avrà da fare i conti con una realtà assai amara, la quale lo farà pentire di essersi immesso nel tunnel del dolce far niente. Ora, però, mentre Lucebio intratterrà Zilio ed Ucleo nel patio, signora Luta, tu verrai con me, poiché voglio che si compia un atto di giustizia, da parte di qualcuno.»

A dire il vero, quelle parole di Iveonte risultarono incomprensibili al saggio uomo, non essendosi reso conto a cosa egli si fosse voluto riferire. Ma poi rinunciò a capirci qualcosa e badò a discorrere con i due giovani, essendo desideroso di tirargli di bocca varie notizie su di loro.

L’amico principe, invece, in compagnia della vedova di Tio, tirò dritto per la sua strada. Si fermò, solo quando raggiunse i suoi genitori. A quel punto, si rivolse al capofamiglia e gli fece presente:

«Padre, la signora, che ti ho portato a conoscere, era la consorte di Tio, l’insuperabile maestro d’armi e di arti marziali, nonché preparato in ogni campo del sapere, per cui Lucebio se ne servì per arricchire la sua cultura. Se la memoria non ti tradisce, egli e il tuo eroico genitore Kodrun ebbero un ruolo di primo piano nel fare in modo che i Berieski non occupassero l’intera Edelcadia, asservendone così i vari popoli.»

«In verità, figlio mio, non ti seguo. Vuoi dirmi perché l’hai condotta al mio cospetto? Ha forse ella da chiedermi qualcosa, a cui potevi pensarci personalmente anche tu? Comunque, oltre che dirle che mi ha fatto piacere conoscerla, non saprei cos’altro esprimerle da parte mia! Invece il tuo disappunto, che ti si legge con chiarezza sul volto, non ti trova d’accordo con me. Allora vuoi farmi comprendere dove ho sbagliato?»

«Padre mio, il marito di questa donna, nonostante non lo meritasse, solo perché ti lasciavi manovrare da tuo cugino Iveonte, che lo avversava a morte ingiustificatamente, ricevette da te dei grandissimi torti. La cosa peggiore fu che con il tuo atteggiamento, oltre a commettere contro di lui delle gravi ingiustizie, portasti la nostra Dorinda alla massima rovina. Avendola smilitarizzata fino all’osso, trascinasti il nostro popolo nel baratro della schiavitù. Dopo la scomparsa di Tio, non ti garbò neppure il fatto che fosse Lucebio ad aiutarli economicamente. Allora, con la scusa di mandarlo in missione presso la corte di Actina, lo allontanasti da loro, perché gli venisse meno la sua beneficenza. Non puoi negare tutto quanto ti ho riportato, quasi facendotene una colpa!»

«Cloronte,» la regina Elinnia intervenne ad approvare il figlio «è tutto vero quello che ti sta rinfacciando il nostro Iveonte. A quel tempo, accettando i consigli dell’antipatico tuo cugino, che per questo non riuscii mai a sopportare, prima mettesti sul lastrico un uomo così completo che nell’Edelcadia non ce n’era un altro della sua tempra. Dopo invece facilitasti agli altri re la conquista della tua città.»

«C’è poi da aggiungere, padre, che, se io esisto ancora e mi ritrovo con una immensa cultura, oltre che un uomo d’armi eccezionale, lo devo soltanto a Tio, il quale nella foresta mi salvò da morte certa e mi rese un combattente formidabile. Come vedi, adesso dovrebbe esserti chiaro il motivo per cui ho condotto in tua presenza la vedova Luta. La quale pure rimase vittima, insieme con i suoi figli, dell’avversione che nutrivi verso il marito. Ma ora pensiamo al presente, il quale pretende che chi commise tanti tremendi errori nel passato oggi ha l’obbligo di presentare le scuse più sentite alla moglie del defunto Tio e siano resi al marito i dovuti onori postumi.»

Dopo che ebbe termine il giusto rinfaccio del suo primogenito, il re Cloronte, avendo accusato il colpo, si rivolse alla donna e le disse:

«Signora Luta, mio figlio ha proprio ragione. Dopo aver sbagliato, non posso dispensarmi dallo scusarmi con te e con i tuoi figli. Perciò comincio col fare ammenda di tutte le mie gravi colpe commesse nei confronti del compianto tuo marito e dei suoi familiari. Consigliato male dal mio unico cugino, continuai a promulgare leggi che andavano contro gl’interessi dell’uomo che meritava il mio rispetto e la mia fiducia, senza tener conto che stavo agendo anche contro la mia città e il mio popolo. A quel tempo, non diedi ascolto neppure al saggio Lucebio, il quale cercava in tutti i modi di farmi comprendere che stavo sbagliando a tenere il mio atteggiamento privo di logica. Anche la mia Elinnia cercava di convincermi che dovevo dare retta a Lucebio, anziché a mio cugino, che riteneva viscido e vendicativo. Ora che mi trovo di fronte a questa amara realtà, mi suggerisci, gentile signora, in che modo posso farmi scusare da te e dai tuoi figli? Siccome non posso redimermi, migliorando le vostre condizioni economiche, perché mio figlio mi ha messo al corrente che sotto tale aspetto non avete bisogno di alcun aiuto, non so in quale altra maniera potrei farmi perdonare da voi. Inoltre, poiché tra poco Iveonte mi sostituirà nel governo della città, sono certo che da lui potrete avere tutto ciò di cui verrete ad avere bisogno. Per questo potrò sdebitarmi con te e con i tuoi figli, unicamente facendo una piena confessione dei miei errori passati commessi a vostro danno.»

«Re Cloronte, oramai quello che è fatto è fatto, per cui sarei del parere di metterci una pietra sopra. Piuttosto vorrei che, alla memoria del re Kodrun e di mio marito, nell’atrio della reggia venissero posti i loro busti di marmo sopra un unico basamento. Il quale dovrà riportare una stele commemorativa, con la seguente scritta: “Questi sono i due insigni uomini, che evitarono ai popoli edelcadici di essere sottomessi dai Berieski e di essere aggiogati al loro servaggio.” Ecco, sovrano di Dorinda, quanto rivendico per il defunto mio Tio, affinché il suo valore d’insuperabile maestro d’armi e di arti marziali gli sia riconosciuto almeno postumo e resti così nella memoria dei posteri per il tempo avvenire.»

«Quello che è giusto è giusto, signora Luta. Ma poiché non potrò occuparmene io di persona, dal momento che sto per abdicare in favore del qui presente mio figlio Iveonte, sarà lui a far sì che il tuo desiderio venga esaudito appieno. Adesso egli s’impegnerà con me che, dopo la sua incoronazione e il suo matrimonio, incaricherà il migliore scultore di Dorinda di scolpire i due busti e di realizzare nell’atrio della reggia l’opera scultorea, come da te suggerita.»

«Sono contento, padre,» gli promise il figlio «di assumermi tale impegno, poiché l’opera rivendicata dalla consorte del mio insigne maestro sarà come se fossi io stesso a volerla. Per cui la sua realizzazione avverrà senza meno, non appena si saranno svolte le due cerimonie che mi riguarderanno in modo personale.»

L’iniziativa del principe Iveonte fu gradita in particolar modo da Lucebio, non appena ne fu messo al corrente. Secondo lui, finalmente si rendeva giustizia e merito alla nobile figura dell’amico Tio, oltre che alla sua famiglia. Essa, com’egli rammentava, per lungo tempo si era vista estraniare da ogni ambiente sociale per una colpa che non aveva commessa, dopo essere stata di fatto vittima di un ostracismo non dichiarato dal sovrano. Il quale aveva preferito tenerlo larvato, ad evitare di prestare il fianco al biasimo o a qualche critica ostile di qualcuno.

Il secondo e ultimo gruppo d’invitati si presentò alle porte di Dorinda una ventina di giorni dopo. Esso era costituito dalla regina Rindella, dal re Francide, dal re Raco, da Astoride e dalla sua consorte principessa Godesia. Anche alle loro scorte armate fu vietato l’accesso in città; invece gl’illustri invitati furono accompagnati alla reggia da Zipro e dalle sue guardie, com’era avvenuto con i regnanti di Terdiba e con i familiari di Tio. Una volta a corte, ci furono vari incroci d’incontri, tutti vivamente graditi, i quali s’intrecciarono tra gioie e compiacimenti raggianti. Ma adesso ci diamo a ricordarli tutti.

La regina Rindella e il re Francide furono felici d’incontrarsi con i regnanti di Dorinda, che erano i genitori dell’una e i suoceri dell’altro; ma li riempì particolarmente di gioia l’incontro con il principe ereditario Iveonte, il quale per l’una rappresentava il fratello e per l’altro l’amico fraterno e cognato. Ma il suo incontro fu anche benaccetto dall’amico Astoride e dal cognato re Raco, il quale si profuse in affetto nei confronti della sorella Lerinda. Comunque, anche il re Tionteo ricevette volentieri gli abbracci del re Francide e di Astoride, il quale adesso gli era amico e cognato. Quando infine queste ultime due persone ebbero il loro incontro con la famiglia del defunto Tio, essi restarono prigionieri di una commozione incredibile, riempiendoli di una gioia grandissima.

A corte, avvenuti i loro cordiali incontri, gli invitati furono accompagnati dalla servitù ai loro alloggi, dove trovarono tutto l’occorrente per dedicarsi alle loro rilassanti abluzioni. Ma dopo sarebbe seguito il cambio degli abiti, sostituendoli con gli eleganti e ricchi vestiari, per essere in gran gala durante il pasto serale. Noi ci dispensiamo dal descrivere le varie vesti maschili e femminili indossate dagli invitati, ad evitare di annoiare il lettore. Egli, mostrandosene insofferente, finirebbe per scambiare la loro descrizione con un atto fastidioso di smanceria. Così pure faremo a meno d’interessarci ai loro discorsi da tavola, i quali di solito dicono tutto e niente, essendo influenzati da intemperanti libagioni e da stravizi sfrenati, i quali possono dar luogo solo a parole senza senso.

Il giorno successivo all’arrivo della seconda ondata d’invitati, che probabilmente sarebbero stati gli ultimi, già si mise in moto la macchina dei preparativi delle due cerimonie. Con la prima delle quali, per motivi di salute, ci sarebbe stata l’abdicazione al trono del re Cloronte a favore del primogenito Iveonte e l’incoronazione di quest’ultimo. La seconda, invece, prevedeva il matrimonio di Iveonte, dopo essere diventato sovrano, con la principessa Lerinda. Sarebbero stati testimoni di nozze il re Francide e la regina Rindella, rispettivamente amico fraterno e sorella dello sposo. Essi gli avrebbero anche fatto dono delle fedi nuziali, che erano di oro zecchino. A proposito del matrimonio, che ci sarebbe stato tre giorni dopo l’incoronazione, va chiarito che, non essendoci in Dorinda un tempio dedicato al dio Matarum, esso sarebbe stato celebrato nella spaziosa piazza rettangolare antistante alla reggia, sui cui lati maggiori vi erano costruiti sontuosi edifici architettonici con portici. Così avrebbero potuto assistere alla sua celebrazione, oltre alla casta nobiliare, tutti i Dorindani comuni, ossia quelli che non potevano vantarsi di un antico e nobile lignaggio. Nella solenne cerimonia, avrebbe officiato il religioso Rolp, che era il decano dei dieci matarumidi esistenti in città, i quali erano sacerdoti del dio Matarum. Comunque, i restanti nove matarumidi lo avrebbero coadiuvato nella sacra funzione religiosa, indossando splendidi paramenti sacri.

Stilata la scaletta delle fasi organizzative delle tre cerimonie previste a breve termine, furono inviati per le strade di Dorinda cinque banditori reali, con il compito di annunciare all’intero popolo quanto si stava preparando in città. L’annuncio, che ciascuno gridava, fu il seguente: “Dorindani, udite, udite ciò che vi sto partecipando, per conto delle alte sfere di corte. Il re Cloronte, per motivi di salute, domani abdicherà in favore del suo primogenito, che è il principe Iveonte, il quale nello stesso giorno sarà anche incoronato re di Dorinda ed elevato al trono. Trascorsi poi tre giorni, il nostro nuovo sovrano sposerà la principessa Lerinda. Il loro matrimonio sarà celebrato nella grande piazza, che sta davanti alla reggia. Tutti i cittadini sono invitati a presenziare la funzione religiosa, la quale consacrerà marito e moglie i due principi nubendi. Ma essi sono soprattutto invitati a prendere parte al grande banchetto nuziale, che gli sposi offriranno ai loro sudditi senza badare a spese.”

Le tre liete nuove furono accolte dal popolo con immenso piacere; però si preparò ad attendere con animo giulivo la sola celebrazione del matrimonio. Infatti, soltanto i nobili avrebbero potuto assistere alle altre due cerimonie, che erano l’abdicazione del re Cloronte e l’incoronazione del suo primogenito. Ciò, perché la sala del trono poteva accogliere solamente un ristretto numero di persone.


Il giorno dopo, a metà mattinata, i sovrani di Dorinda già sedevano sul trono, quando le persone invitate ad assistere all’annunciata abdicazione del re Cloronte iniziarono a presentarsi nella sala del trono. A quell’ora del giorno, essa si presentava già riccamente addobbata, con drappeggi disposti sulle pareti laterali ad arte. Inoltre, un centinaio di guardie, indossando sgargianti livree ed armate di lunghe alabarde, restavano in piedi lungo le due pareti laterali, in un atteggiamento statuario e con lo sguardo fisso nel vuoto.

Il re dorindano, non appena tutti gl’invitati si furono presentati nella sala del trono, tra i quali c’erano anche Sosimo, la moglie Deisa e Croscione, si alzò dal seggio reale ed iniziò a parlare così:

“O voi tutti, che siete presenti in questa sala, annuncio la mia seguente decisione: oggi abdico a favore di mio figlio Iveonte. La mia rinuncia è dovuta al mio stato di salute, che i lunghi anni di carcere hanno reso molto provato e malsano. Ma non vi nascondo che essa mi è stata dettata anche da un senso di colpevolezza, poiché fu mia la colpa, se Dorinda si ritrovò talmente snervata e logorata, che alla fine non ebbe la forza di reagire al tradimento di sovrani senza onore. Oggi ciò che conta è che il mio primogenito, godendo anche del favore di alcune divinità benefiche, può considerarsi il più grande sovrano non solo dell’Edelcadia, ma anche del mondo intero. Adesso consegno la mia corona, che il re Nortano di Actina regalò a mio padre Kodrun, nelle mani di Rolp, il decano dei matarumidi dorindani. Dopo dovrà essere lui ad incoronare mio figlio re della Città Invitta, la quale, quando sarà Iveonte a governarla, potrà ben fregiarsi di un simile titolo. Allora si potrà essere certi che il tempo è galantuomo. Adesso mi metto da parte, amici miei tutti, per dare spazio alla persona più meritevole di me di essere un sovrano!”

Nel proferire le sue ultime parole, il re Cloronte si tolse la corona dal capo e la depose nelle mani dell’autorevole religioso, che si era appena avvicinato per riceverla dal re abdicatario. A sua volta, il decano consegnò la corona ad uno dei suoi sacerdoti, il quale, in attesa che essa cingesse il capo del legittimo sovrano, andò a posarla sopra un piedistallo di marmo. Esso, che era decorato con artistici fregi e con bassorilievi floreali, si trovava sulla destra del trono del sovrano. Un attimo dopo, i due ex regnanti abbandonarono i loro seggi reali ed andarono ad occupare i loro nuovi posti. Si trattava di due scranne, che erano state già predisposte per loro due sul lato sinistro della sala, a cinque metri dai troni. Ma la regina Elinnia, prima di lasciare il suo trono, si era tolta la sua corona e ve l’aveva lasciata sopra.

A quel punto, il decano dei matarumidi, il quale era rimasto allo stesso posto, aveva invitato il principe Iveonte a raggiungerlo e ad inginocchiarsi davanti a lui. A genuflessione avvenuta, un sacerdote porse la corona al suo superiore, che la depose sul capo del principe. Subito dopo, un altro sacerdote consegnò l’ampolla contenente l’olio sacro al suo decano. Allora costui, dopo aver intinto il pollice destro l’untuoso liquido, unse con esso la fronte del principe, dicendogli: “Ti ungo sovrano di Dorinda e ti trasmetto il potere regale, a cui tutti i tuoi sudditi sono tenuti a sottostare e ad ubbidire. Lunga vita al re Iveonte!” L’ultima frase del religioso fu ripetuta per tre volte consecutive da quanti assistevano al rito, il quale si stava svolgendo con grande solennità e magnificenza. Ma poi la sala riecheggiò di prolungati applausi, mentre le tube squillavano e vi risuonavano con fragranza. Nel frattempo che tutti lo applaudivano, il nuovo sovrano della Città Invitta andò ad occupare il seggio, che ora gli spettava di diritto. Anche perché adesso stava per iniziare la fila di coloro che gli si dovevano presentare per stringergli la mano, congratularsi con lui e, da parte di alcuni, anche per riverirlo. Prima, però, nonostante la principessa Lerinda non fosse ancora la sua consorte, il re Iveonte lo stesso volle che ella gli sedesse accanto per tutto il tempo che avrebbe ricevuto gli altri ospiti per la nuova funzione di rito, consistente nella manifestazione di felicitazioni e deferenze da parte dei convenuti. Comunque, nel presentarsi a lui da parte di quelli che presenziavano la cerimonia, era da rispettarsi un certo ordine, il quale era stato voluto dal saggio Lucebio in persona.

I primi a raggiungerlo presso il trono furono Cloronte, Elinnia e Leruob. Se il cugino si affrettò a congratularsi con lui con una stretta di mano e con un abbraccio vivamente sentiti, i suoi genitori, dopo che si furono avvicinati al figlio, emozionati e con occhi lacrimosi, se lo abbracciarono con calore e davano ad intendere che non volevano più staccarsi da lui. Alla fine, allungando la mano anche alla principessa Lerinda, la ringraziarono per la felicità che stava procurando al loro primogenito. Soltanto allora essi se ne ritornarono a sedere sulle loro scranne.

Dopo toccò congratularsi con il cognato e con il fratello, che era stato appena proclamato re di Dorinda, ai regnanti di Actina, ossia il re Francide e la regina Rindella. Anch’essi si lanciarono fra le braccia del re Iveonte con una felicità incommensurabile; ma, altrettanto ai loro occhi, non mancarono delle tiepide lacrime, che gli venivano giù per le gote. Anche la stretta di mano finale, che essi si diedero, la quale fu estesa anche alla principessa Lerinda, si rivelò di una forza così piena da immergersi nel sovrumano. Infine, congratulandosi e felicitandosi con lui, i regnanti di Actina lo lasciarono e ritornarono ad occupare i loro posti.

Fu poi la volta del celibe sovrano di Casunna, il re Raco, che era suo prossimo cognato. Anch’egli, facendosi inebriare dal massimo gaudio, si accostò al neo re di Dorinda. Quando gli fu al cospetto, si lanciò ad abbracciarselo, proprio come se gli fosse stato un fratello. In quel momento, egli si rendeva conto di non aver mai provato una gioia così ineffabile nel proprio animo. Specialmente perché la sorella Lerinda, alla quale era molto legato, fra tutte le regine, sarebbe stata la più fortunata, poiché sarebbe andata in sposa al sovrano, che era da considerarsi in assoluto il migliore uomo del mondo. Anche il re casunnano, al termine delle congratulazioni e delle felicitazioni, ritornò al suo posto per stare attento agli altri invitati che presto si sarebbero presentati, ossia quelli che a breve lo avrebbero seguito nell’assolvimento dello stesso compito.

Allora si affrettarono a presentarsi al re Iveonte i reali di Terdiba, che erano il re Tionteo e la regina Dildia. Entrambi, come coloro che li avevano preceduti, furono immensamente lieti di trovarsi alla sua presenza. Ma se il sovrano terdibano volle profondere abbracci solo con l’amico, rammentando il lunghissimo viaggio affrontato insieme, la regina sua consorte si prestò ad abbracciarsi la sua donna. Infine, dopo essersi congratulati e felicitati con il re Iveonte, anch’essi, mostrandosi assai commossi, fecero ritorno ai rispettivi posti, quelli che gli erano stati assegnati prima della cerimonia.

Dopo che la coppia regale di Terdiba fece ritorno fra gli altri invitati, toccò al gruppo dei non titolati e dei non familiari avvicinarsi ai due troni ed esprimere al nuovo sovrano di Dorinda il loro rispetto ossequioso, prima ancora di rallegrarsi con lui per l’alto compito ricevuto dall’autorevole religioso Rolp. Si trattò dei seguenti invitati: la vedova Luta e i suoi due figli Zilio ed Ucleo; Sosimo e la sua consorte Deisa; Croscione e il quartetto di giovani formato da Solcio, il comandante della Guardia d’Onore, e dal suo vice Zipro; da Polen, il soprintendente al Corpo di Guardia, e dal suo vice Liciut.

Gli ultimi quattro giovani, però, dopo uscirono dalla sala del trono. Con il resto della Guardia d’Onore e con i gendarmi del Corpo di Guardia, essi dovevano badare perché nessuna moltitudine di cittadini si accalcasse negli spazi interni della reggia. Infatti, era possibile che essi, essendo venuti a conoscenza dell’incoronazione del nuovo sovrano, vi si sarebbero potuti affollare, superando il Corpo di Guardia.

Lucebio fu l’ultimo a presentarsi al re Iveonte, perché lo riverisse nella maniera più adatta. Nell’occasione, egli preferì farsi accompagnare da Madissa, che era la sua donna, e da Telda, che era la nutrice della principessa Lerinda. Ma quando gli abbracci, le strette di mano, le congratulazioni e le felicitazioni ebbero termine, il saggio uomo, dopo aver pregato le due donne di andare a riprendere i loro posti fra gli altri invitati, si voltò verso quanti erano presenti nella sala del trono e si diede a fare il seguente breve panegirico, a favore del sovrano:

“Mi rivolgo a tutti voi intervenuti all’incoronazione del re Iveonte, che con giubilo avete voluto partecipare a questa importante solenne cerimonia, per soffermarmi a tessere l’elogio del sovrano della Città Invitta. La quale, dopo anni di totale schiavitù, grazie al re Iveonte, risorgerà alla grandezza di un tempo, quella che le aveva procurata il re Kodrun. Non occorre dirvi che l’attuale re, pur essendo stato il defunto suo nonno un sovrano di sommo valore, lo ha superato di gran lunga. Inoltre, oltre ad essere un guerriero invincibile per merito suo, egli è il protetto delle divinità benefiche, le quali gli permettono di sconfiggere perfino le loro avversarie divinità malefiche. Grazie al suo anello, è anche in grado di operare miracoli. L’ultimo suo miracolato è stato Croscione, facendogli recuperare la vista, pur essendo condannato a cecità perenne. Il recente evento miracoloso risale a pochi giorni fa. Perciò gloria a lui per l’eternità, augurandogli che nell’Edelcadia egli non abbia mai da lottare contro popoli amici, per colpa dei loro scapestrati sovrani. Adesso che vi ho riferito quanto avevo da dirvi, se anche il mio re è d’accordo, possiamo uscire da questa sala e rilassarci all’esterno.”

Il re Iveonte non aveva ancora dato il suo consenso alla proposta finale di Lucebio, allorché Zipro si presentò nella sala del trono con molta fretta, chiedendo udienza al sovrano. Una volta che l’ebbe ricevuta, egli si diede a dirgli:

«Re Iveonte, fuori abbiamo un problema. Una moltitudine di persone, che provengono da vari posti molto remoti, insistono a volere essere ricevuti da te. Affermano che il Grande Eroe non può negare loro udienza, dopo che li ha salvati dalle più disparate sventure. Portano con loro anche dei regali da offrirti, come ringraziamento del bene da te ricevuto. Allora come dobbiamo comportarci con tali persone, che non sono state da te invitate? Aspettiamo il tuo ordine.»

«Vicecomandante Zipro, mi dici come hanno fatto esse a trovarsi fuori di qui, senza essere stato tu ad accompagnarcele, come si era stabilito? Perché alle porte della città non sono state fermate?»

«La risposta è molto semplice, sire. Nessuno le ha viste arrivare: né alle porte di Dorinda né al Posto di Guardia. Esse sono apparse improvvise davanti al portone dell’atrio. Ecco come stanno le cose!»

«Allora, Zipro, immaginando quali persone esse possano essere, anche se poi mi risulta impossibile che siano riuscite a trovarsi in tempo utile dove sono, permettete loro di entrare, ma non tutte insieme. Ogni volta dovranno essere quelle appartenenti allo stesso popolo.»

Per primi, entrarono quelli di Borchio. Il loro gruppo era formato da Speon, dalla moglie Fisia e da altri quattro loro conterranei maschi, tra i quali c’era anche l’oste Ekso. Questi ultimi reggevano un forziere di media dimensione con dentro ricchi doni. Si era unito a loro anche il sacerdote Tusco, il quale faceva da loro portavoce. Il re Iveonte le riconobbe subito e fu molto lieto di vedersele davanti. Fu il figlio dei defunti Bulkar e Senia a parlare per tutti, dicendo:

«Amico mio, siamo qui per riverirti, avendo saputo che stavi per essere incoronato re. Ti siamo grati per averci liberati dal Grande Lupo, a causa del quale ogni mese a Borchio veniva rapita e sacrificata una giovane vergine. Adesso che sei diventato il sovrano di questa meravigliosa città, ci congratuliamo e ci felicitiamo con te. Avendo anche appreso che dopo l’incoronazione ti saresti sposato, abbiamo ritenuto doveroso portarti un modesto presente.»

«Mi dici, Tusco, chi vi ha informati delle mie due cerimonie e come avete fatto a superare una così enorme distanza in poco tempo?»

«Re Iveonte, ce lo chiedi proprio tu, che dovresti saperlo meglio di noi? Ci sarà senz’altro qualche tua divina protettrice che avrebbe potuto farlo, per cui non si è dispensata dall’informarci di ogni cosa e dal compiere un simile prodigio. Adesso, però, ci congediamo da te, eroe prediletto degli dèi benigni. Che il destino riservi a te e alla tua compagna lunga vita, serenità e tantissima felicità!»

Iveonte comprese subito chi poteva essere stata ad informare tali persone della sua incoronazione e del suo matrimonio e a farle trovare nella reggia in tempo utile per congratularsi con lui. Perciò si astenne dal fare le medesime domande a quelle che le avrebbero seguite nella sala del trono con lo stesso scopo.

Per secondi, fecero il loro ingresso quelli di Lutrosiak. Il loro gruppo era costituito dal lutrosoan Sitruo, dalla moglie Scitea, dal loro figlio Esio e da quattro Lutros, i quali reggevano anch’essi un forziere colmo di doni. Essi, dopo essersi congratulati con il re Iveonte, che per loro era il Grande Eroe, lo ringraziarono per averli liberati dal mostruoso Zikul, a cui ogni mese erano obbligati ad immolare sei adolescenti. Dopo si ritirarono dalla sala del trono emozionati come non mai, lasciando per i futuri sposi i loro modesti doni. Comunque, Iveonte si allietò anche alla loro vista, per cui non seppe trattenere qualche attimo di viva commozione, la quale non sfuggì alla principessa Lerinda.

Per terzi, si presentarono al sovrano di Dorinda quelli del villaggio moianese. Il loro gruppo era formato dal capo Gudra, dalla moglie Grisia, dai loro figli Kuanda e Tungo, nonché da quattro Moian maschi, i quali pure reggevano un forziere colmo di doni. Cogliendo l’occasione, il capo dei Moian volle ringraziare il re Iveonte per tutto quanto aveva fatto a favore suo e dei figli. Dopo lui e la moglie si congratularono con il loro benefattore e gli lasciarono i loro doni per il suo imminente matrimonio con la donna dei suoi sogni.

Per quarti, ebbero il permesso di entrare nella sala del trono quelli della Valle Maledetta. Formavano il loro gruppo il capo drucifino Tillisan, la moglie Liusa e quattro Drucifi maschi, che pure reggevano un forziere ricco di doni. Anche con loro si ripetettero le stesse cose: strette di mano, congratulazioni e felicitazioni, oltre alla consegna dei regali per gli sposi, che le persone addette subito s’incaricavano di esporli alla vista di quanti si trovavano nella sala del trono.

Per quinti, ebbero l’accesso alla sala del trono quelli del villaggio Cerd, il cui gruppo era composto dal capo Croed, dalla figlia Tillia e da quattro Cerdi maschi, che reggevano un forziere carico di doni per gli sposi, il cui matrimonio ci sarebbe stato a giorni. Anche con loro non ci fu niente di differente dagli altri, poiché l’incontro del padre e della figlia con il re Iveonte si svolse con la massima cortesia e l’esposizione dei doni ebbe il tempo necessario.

Per sesti, accedettero alla sala del trono quelli delle Terre senza Pace. Costituivano il loro gruppo il capo boiosino Duzon con il figlio Nolup, il capo normukese Felub con la figlia Elkes, Eliun e la sua ragazza Nepda. Questa volta reggevano il forziere dei doni i due capi, avendo essi un fisico poderoso di oltre due metri. Avvenute le strette di mano, le congratulazioni e le felicitazioni, Duzon e Felub, dopo aver ringraziato il re Iveonte per aver salvato i figli da morte certa e per aver rappacificato i loro popoli, furono lieti di regalare ai prossimi sposi i loro regali, ritenendolo un atto doveroso.

Per settimi, furono gli Zeiv a presentarsi nella sala del trono, il cui gruppo era formato dal capo zeivino Seruk, dai tre fratelli Ekuob, Versut e Bulus, nonché da quattro Zeiv maschi, che reggevano un forziere con vari doni da regalare agli sposi. Ma prima essi badarono a congratularsi con il re Iveonte, per essere diventato sovrano di una potente città, con una vigorosa stretta di mano. Dopo dovettero ritirarsi per far posto agli altri gruppi in arrivo.

Le visite singole furono due: quella del tardunukese Mendus e quella del mago Zurlof. Il primo, oltre a congratularsi e a felicitarsi con il re Iveonte, lo ringraziò vivamente quanto aveva fatto per il suo villaggio, trasformando i giovani bastardi che vi vivevano in modelli di ragazzi educati e rispettosi di persone anziane e vecchie. Il suo regalo fu una gabbia con dentro un merlo parlante, che consegnò nelle stesse mani del sovrano. Mentre costui reggeva la gabbia, l’uccello gli gridò: “Buongiorno, re Iveonte! Sono sicuro che noi due andremo d’accordo. A patto che mi tratti bene nel mangiare!” A quelle tre frasi del volatile, il re Iveonte scoppiò dalle risa, venendo imitato da tutti coloro che si trovavano nella sala del trono.

Quanto al mago Zurlof, dopo aver fatto il suo dovere preteso dalla circostanza, a proposito del regalo che aveva deciso di fare agli sposi novelli, egli si rivolse al sovrano di Dorinda e gli fece presente:

«Re Iveonte, amico mio, siccome riportasti in vita mia madre, che era morta da più di duemila anni, come ringraziamento, voglio fare a te e alla tua imminente sposa un dono eccezionale, che nessuno potrebbe mai immaginare. Esso vi farà trascorrere un matrimonio sereno, libero da assilli, che una cerimonia del genere è solita procurare agli sposi, tenendoli sotto continua tensione. Infatti, sarà il pensiero della riuscita del festino a preoccuparli, chiedendosi se essa sarà quella desiderata. Specialmente quando ad esso dovrà prendere parte un’intera città!»

«Ci dici, Mago dei maghi, come vorresti evitarci di mostrarci pensierosi, in occasione del nostro sposalizio, che sarà il nostro giorno più bello della nostra vita? Anche se, come tu hai affermato, esso ci terrà con il fiato sospeso, fino a quando il banchetto nuziale non si sarà del tutto concluso? Sto aspettando la tua risposta.»

«Re Iveonte, sai benissimo quante persone dovranno prendere parte al pranzo delle tue nozze. Esse saranno un numero considerevole, tenuto conto che l’intero tuo popolo vorrà festeggiare il tuo matrimonio, come pure sarà dato libero accesso a Dorinda alle scorte dei sovrani da te invitati, che ora stazionano all’aperto fuori città. Ebbene, siccome la tua servitù sarà molto esigua per far fronte sia all’allestimento delle tavole che alla preparazione delle pietanze, ho deciso di vedermela tutto da me. Vedrai che, non appena la funzione religiosa delle tue nozze si sarà conclusa, in poco tempo disseminerò la piazza e le strade che occorrono per lo svolgimento del banchetto di tavole con sopra una sontuosa imbandigione e di sgabelli.»

«Ti prendo sulla parola, mago Zurlof. Perciò quel giorno terrò tutti i miei servi in panciolle, a godersi soltanto il mio matrimonio con la mia dolce Lerinda. Ma bada a non farmi fare una brutta figura!»

Dopo le ultime parole del sovrano, il mago di Tasmina lasciò la sala del trono e si appartò in qualche posto nascosto della città. Allora in essa venne meno la cerimonia dell’incoronazione, gli invitati iniziarono a sfollare lentamente. Alcuni di loro, come Lucebio e gli altri sovrani presenti, preoccupati, chiesero al re Iveonte come faceva a fidarsi della promessa di Zurlof, che ritenevano impossibile da mantenersi anche da una divinità. Ma il loro amico li rassicurò che il mago l’avrebbe senz’altro mantenuta, grazie alla sua onniap che tutto poteva, anche quando egli non stava sulla sua Isola della Morte, a patto che non si trovasse a competere con una divinità.


Al sorgere del quarto giorno, essendosi all’inizio dell’estate, il cielo appariva azzurro, macchiettato da rade nuvole grigiastre; invece la temperatura, che era quella di un clima continentale, era cominciata a salire gradatamente. Le strade erano ancora deserte, poiché la gente, a quell’ora del giorno, preferiva dormirsela, sebbene quel giorno fosse caratterizzato dal matrimonio del loro sovrano e dal banchetto nuziale. Il quale avrebbe messo a disposizione di tutti i cittadini un pranzo pantagruelico. Coloro che furono costretti a svegliarsi all’alba rimasero sbalorditi dal fatto che la grande piazza antistante alla reggia e le vie adiacenti si presentavano abbellite con festoni preparati con rami di fiori e di foglie, che erano intrecciati fra loro. Non mancavano nemmeno pezzi di stoffa, che in varie parti della città addobbavano palazzi e porticati. Eppure la sera precedente non si era vista neppure l’ombra di tali ornamenti artistici. Essi notavano anche che al centro della piazza c’era costruito un palco alto un metro, con ripiano di velluto e rivestito con ghirlande floreali, al quale si accedeva tramite una scaletta di legno. Quando nella reggia ci fu la sveglia generale da parte di tutti i residenti e gli ospitati, dovendo essi prepararsi per la solenne cerimonia che ci sarebbe stata in mattinata, si sparse subito la voce di quanto era avvenuto in piazza e in alcune strade di Dorinda. Ma se tutti se ne meravigliarono, il re Iveonte si convinse che solo il mago Zurlof poteva averlo fatto senza alcuna difficoltà.

Un’ora prima di mezzogiorno, il re Iveonte, in mezzo ad una doppia fila di guardie d’onore ed avente ai due lati il re Francide e il comandante della Guardia d’Onore, che era Solcio, si mosse a piedi dalla reggia per raggiungere il palco, sul quale doveva essere celebrato il matrimonio. Su di esso lo attendevano il decano dei matarumidi e quattro sacerdoti, che erano disposti ai suoi angoli ed agitavano dei turiboli d’argento, dai quali facevano uscire sia il fumo che l’aroma d’incenso. Ma mezzora dopo arrivò anche la principessa Lerinda, sempre in mezzo a due file di guardie d’onore. L’accompagnavano la regina Rindella e il fratello re Raco, intanto che una folla festante l’accoglieva lungo il breve percorso. Insieme con lei, sul palco salì soltanto la regina Rindella, poiché ella e il marito Francide dovevano fare da testimoni. Ad ogni modo, entrambi gli sposi vestivano casacche scollate di tessuto pregiato, che scendevano fino alle caviglie, rosa quella di lei e bianca quella di lui. Se la prima metteva in risalto artistici disegni floreali, la seconda metteva in mostra dei bassorilievi ispirati a combattimenti sia campali che a cavallo. Al centro di entrambe si scorgevano due corone ricamate, dorata quella di lui ed argentea quella di lei. Quando tutti e due gli sposi furono sul palco, il decano Rolp li fece inginocchiare su due cuscini. Dopo averli incensati con il turibolo, si rivolse prima al sovrano e gli chiese:

«Tu, re Iveonte, cosa vuoi fare della principessa Lerinda, la quale sta alla tua sinistra? Se vuoi prenderla come legittima tua moglie per l’intera tua esistenza, devi soltanto rispondermi: “Lo voglio!”»

Alla risposta affermativa del sovrano, il religioso si rivolse a colei che aspirava a diventare la sua consorte, e le domandò:

«Tu, principessa Lerinda, cosa vuoi fare del re Iveonte, il quale è alla tua destra? Se vuoi prenderlo come legittimo tuo marito per l’intera tua esistenza, devi soltanto rispondermi: “Lo voglio!”»

Alla risposta affermativa anche da parte di lei, il decano, intanto che li incensava di nuovo, disse a loro due:

«Allora vi dichiaro marito e moglie, vita natural durante. Che i presenti testimoni, dopo avervi infilato l’anello all’indice sinistro, siano garanti del vostro comportamento coniugale, il quale dovrà rifuggire dall’adulterio ed avere come principio l’uguaglianza dei coniugi.»

Non appena gli anelli risultarono infilati ai due diti, il decano esclamò: “Lunga vita agli sposi!” A loro volta, anche i testimoni ripeterono l’esclamazione del religioso. Allora essa ebbe eco prima in coloro che circondavano il palco e poi in tutti gli altri che occupavano la piazza, mentre si davano a battimani senza fine. Ad un certo momento, però, mentre la gente esultava di gioia, osannava agli sposi e si dava a battere le mani, il cielo cominciò ad offuscarsi, poiché densi e neri nuvoloni giungevano tempestosi per nascondere il sole. Nello stesso tempo, fulmini e tuoni spuntavano da ogni parte con l’intento di terrorizzare l’esultante ed osannante folla. A quella esibizione naturale tutt’altro che bella, prima che la pioggia iniziasse a diluviare dappertutto, non mancò un fuggifuggi generale: la minoranza dei presenti, che comprendeva sposi, padrini ed invitati, scappava verso la reggia; la maggioranza di loro preferiva dirigersi verso casa. Alla fine, senza che il nubifragio ci fosse stato, la piazza e le strade di Dorinda restarono completamente deserte ed avvolte in un buio pesto. A corte ci fu bisogno perfino di accendere lanterne e fiaccole per produrvi una sufficiente illuminazione.

Mentre gli sposi e i loro invitati erano nella sala del trono, il re Raco si rivolse al cognato e gli fece presente:

«Iveonte, non credi di esserti fidato un po’ troppo del mago Zurlof? Egli, al posto dell’eccezionale convito che ti aveva promesso, ha preferito guastarti la giornata di matrimonio. Adesso andrai tu a riferire al tuo popolo perché è venuto meno il banchetto che gli avevi promesso?»

«Non preoccuparti, Raco, perché il popolo banchetterà lo stesso alla salute degli sposi. Hai dimenticato che ho sempre il mio asso nella manica, grazie al quale non sarò mai costretto a fare una brutta figura? Inoltre, confido ancora nel Mago dei maghi, che considero un ottimo mio amico, per cui da lui non riceverei mai uno sfregio!»

«Allora come ti spieghi, cognato mio, questo maltempo, il quale ha abbuiato perfino ogni cosa? Io lo considero un autentico dispetto!»

«Stanne certo, re Raco,» fu il re Tionteo a rispondergli «che il mio amico te lo spiegherà senza meno. Per tutto il tempo che ho avuto il piacere di conoscerlo, mi riferisco al suo viaggio di andata e ritorno da Tasmina, egli ha sempre avuto una pezza giustificativa ad ogni sua affermazione, anche quando ero convinto che non poteva esserci. Perciò pure adesso saprà darti una risposta che lo giustifichi.»

«Se è vero ciò che dici, re Tionteo, dovrà essere lui a darmi la giusta risposta, circa il maltempo sopravvenuto alla sua cerimonia nuziale.»

«Ed io te la do immediatamente, cognato mio!» gli affermò il marito della sorella «Con la sua tenebra, il mago ha voluto svuotare piazza e strade per riempirle dopo di quanto mi aveva promesso. Se l’una e le altre fossero rimaste piene zeppe di gente, come avrebbe fatto lui a farci trovare quanto occorreva per il sontuoso banchetto? Vedrai che egli, con il ritorno del sole, farà trovare già tutto pronto sia nell’ampia piazza che nelle vie laterali.»

Alle parole del re Iveonte, tutti provarono una grande meraviglia e attesero come non mai che il sole ritornasse a risplendere nel cielo, per vedere compiuto il miracolo del mago, come da lui annunciato. Invece il sovrano di Terdiba volle asserire a quello di Casunna:

«Hai visto, re Raco, che tuo cognato anche adesso ha saputo giustificare il temporale in atto? Da parte mia, gli credo!»

«Comunque, re Tionteo, è ancora tutto da vedersi, poiché dobbiamo ancora sincerarci se quanto ha pensato il marito di mia sorella corrisponde al vero. Perciò attendiamo, prima di emettere il nostro giudizio definitivo sull’argomento che stiamo trattando.»

Il re Raco aveva appena finito di parlare, allorquando si era visto il sole rifarsi vivo nel cielo e riempire di vivida luce l’intera città. Allora ci si era resi conto che la piazza e le strade adiacenti non erano più vuote. Al contrario, esse erano interamente occupate da lunghe tavole imbandite con sontuosità. Vi si scorgevano sopra caraffe colme di vini squisiti e le migliori specialità gastronomiche. La grande tavola, intorno alla quale dovevano sedere i sovrani di Dorinda e i loro ospiti, risultava nello spazio situato fra il Corpo di Guardia e l’ingresso ai reparti reali. A quel punto il re Raco dovette ammettere che aveva avuto ragione Iveonte a fidarsi del Mago dei maghi, avendo costui mantenuto la parola.

Alla notizia di quanto era apparso nella piazza e nelle strade di Dorinda, la gente si riversò fuori delle case, non volendo perdersi la bella occasione di farsi una bella scorpacciata delle migliori leccornie e di tracannare una gran quantità di vino, che risultava abboccato, amabile e dolce. Anche gli sposi e i loro invitati sedettero a tavola e si diedero a mangiare con gusto, poiché le gustose pietanze e gli ottimi vini si trovavano già bell’e pronti sulla tavola. Le une e gli altri, comunque, avevano il dono di non esaurirsi mai. Le caraffe con i diversi tipi di vini e i vassoi con le varie specie di carni, non appena venivano svuotati, ritornavano subito ad essere pieni, senza che nessun commensale se ne accorgesse. Il pranzo durò fino a sera, ma prima che le buie tenebre venissero ad oscurare ogni luogo. Allora quasi tutti sentirono la necessità di allontanarsi dalle numerose mense e di rientrare nelle loro case per dar sfogo al loro sonno, che aveva iniziato ad impossessarsi di loro. Nella piazza e nelle strade restarono soltanto quelle poche persone che, essendo ubriache fradicie, preferirono passare l’intera nottata a sragionare all’addiaccio, sfornando sproloqui a non finire.

Il giorno seguente, dopo essersi trattenuti a colazione nella reggia ed essersi ripetuti gli abbracci e le congratulazioni con il re Iveonte e la regina Lerinda, tuti gli invitati decisero di far ritorno alle loro città, dovendo essi affrontare un lungo viaggio. Era previsto per i soli regnanti di Actina, per Astoride e per Godesia, una breve sosta nella reggia di Casunna, dove sarebbero stati ospitati dal re Raco.

Quanto agli altri ospiti giunti da terre remotissime, i quali avevano sorpreso il re Iveonte, essi se ne ritornarono ai loro villaggi allo stesso modo che si erano presentati nella reggia di Dorinda. Ma siccome il lettore ne è all’oscuro, è nostro dovere spiegargli ogni cosa. Era stata la diva Kronel a prendere una decisione del genere. Prima si era presentata a casa di Speon e gli aveva parlato così:

«Se ti sono apparsa all’improvviso, Speon, è perché sono la diva protettrice del tuo amico Iveonte. Lo sai che egli sta per essere incoronato re di Dorinda e per sposarsi con la sua Lerinda?»

«Mi fa piacere per lui, amabile diva. Egli si merita ogni bene!»

«Ti piacerebbe essere presente alle due cerimonie, magari con la tua bella Fisia? Se tu fossi d’accordo, potrei io farvi trovare in tempo nella reggia dorindana. Al ritorno, penserei anch’io al vostro viaggio, rendendovelo il più agevole possibile. Allora accetti?»

Avute tali garanzie dalla diva, Speon aveva accettato, mettendone al corrente anche la consorte Fisia, che ne era stata molto felice.

Ebbene, la diva Kronel aveva agito allo stesso modo con tutti gli altri che erano stati beneficiati dal suo pupillo, i quali avevano acconsentito alla sua allettante proposta. Una volta che aveva ricevuto il loro consenso, ella prima li trasportò in uno stesso luogo e poi li addormentò. Dopo, in un attimo, li aveva fatti trovare tutti davanti al cancello principale della reggia di Dorinda.