478°-A DORINDA IVEONTE INCONTRA I FAMILIARI, LERINDA E GLI AMICI

Iveonte aveva appena fatto pochi passi nel dirigersi alle porte della città, allorquando gli apparve la diva Kronel, la quale gli disse:

«Non avevi forse cercato la tua spada e il tuo cavallo, Iveonte? Ebbene, sono venuta a recapitarteli con l’anello. Mio padre Kron e mio zio Locus ti permettono ancora di portarlo al dito! Sei contento della loro generosità, che hanno voluto dimostrarti con esso?»

«Che bella sorpresa mi hai fatta, mia dolce diva! Ti sono grato per esserti preoccupata di mettermi a disposizione la mia spada e il mio cavallo. Riguardo poi al portentoso anello, come potrei non esserne contento? Anzi, ringrazia l’una e l’altra eccelsa divinità per aver continuato a metterlo a mia disposizione. Spero di non aver deluso tuo padre e tuo zio nella mia recente missione, la quale era rivolta a salvare l’universo dalla furia distruttiva del dio Buziur, che agiva stando all’interno della supercorazzata Kosmivora.»

«Potevi mai tu deluderli, mio imbattibile guerriero? Invece ti faccio presente che entrambi hanno ammirato il tuo prode coraggio e il tuo spirito combattentistico, che non sono mai venuti meno anche nelle situazioni più ardue e più problematiche. Sai una cosa, Iveonte? Il mio genitore è a conoscenza del debole che ho per te. Oserei dire che quasi se ne compiace e mi lascia libera di corteggiarti!»

«Dici sul serio, Kronel? Se è vero quanto hai asserito, allora mi viene pure da sospettare che il tuo divino genitore sia al corrente delle compenetrazioni di tipo sessuale che ci sono state fra di noi. Oppure mi sbaglio a pensare una cosa del genere?»

«Potresti essere nel giusto, mio pupillo, considerato che egli ha seguitato a tenermi sotto controllo, da quando il dio della saggezza Osur ti consegnò l’anello di mio padre. Ma ciò non deve crearti alcun problema, Iveonte, poiché egli desidera soltanto la mia felicità e vede di buon occhio chiunque me la procuri in qualsiasi forma. Perciò, anziché darti pensiero a causa di tale sospetto, prèstati a farmi sapere cosa intendi fare adesso, che stai per entrare nella città che ti diede i natali. Allora vuoi appagare questo mio pio desiderio?»

«Se proprio ci tieni a saperlo, mia divina protettrice, passo subito a contentarti. Per prima cosa, intendo correre alla reggia di mio padre, poiché in me c’è un’ansia terribile di abbracciare i miei genitori. Dopo raggiungerò mio cugino Leruob e la mia Lerinda, che non so neppure dove viva ora, per cui dovrò farmelo dire da chi ne è a conoscenza. Comunque, pure i miei amici, primo fra tutti Lucebio, hanno diritto di ricevere la mia visita, volendo essi accogliermi con un forte abbraccio e con una stretta di mano. Infine chiederò a mio padre quale provvedimento vorrà prendere, dopo che avrò messo piede nella reggia. Ma sono del parere che egli allo stato attuale, essendo il suo stato di salute assai cagionevole, vorrà abdicare al trono in mio favore.»

«Naturalmente, Iveonte, in seguito vorrai andare anche a trovare tua sorella Rindella e il tuo amico fraterno Francide, i quali adesso si ritrovano ad essere marito e moglie, come regnanti di Actina.»

«Sarà senz’altro così, soave diva. In quel luogo, approfitterò anche per incontrarmi con i miei amici Astoride e Tionteo. Già, dimenticavo che quest’ultimo da poco è diventato sovrano di Terdiba, per cui vi dovrò fare una sosta per salutarlo ed invitarlo alle mie nozze.»

«A proposito del tuo prossimo viaggio, mio pupillo, sono convinta che vorrai anche condurti nella Berieskania, essendo tu desideroso di salutare tutti i tuoi zii e i tuoi cugini materni.»

«Certamente, Kronel! Ad ogni modo, sarà il leggendario mio nonno Nurdok, che vorrò vedere più di tutti! Ma questo già lo sai.»

«Invece, mio invincibile guerriero, riguardo al tuo ultracentenario avo, a Geput avrai la sgradita sorpresa di trovarlo morto e sepolto.»

«Mi dispiace molto che egli abbia smesso di esistere, Kronel. Vorrà dire che andrò sulla sua tomba a venerarlo e a dargli l’estremo addio.»

«Se sei d’accordo, Iveonte, vorrei essere con te, quando intraprenderai il tuo lungo viaggio. Di sicuro ti toccherà farlo volando, anche perché diversamente ti sarebbe impossibile.»

«Come potrei essere in disaccordo con te, mia amabile diva? La tua compagnia mi renderà il viaggio meno noioso. Allora ci conto, Kronel!»

«Mio designato re della Città Invitta, ora ti lascio, poiché non intendo farti rimandare più a lungo il ritorno alla reggia di tuo padre, che dentro di te stai bramando come non mai. Al nostro prossimo incontro!»

Una volta scomparsa la diva alla sua vista, Iveonte montò a cavallo e si avviò verso le porte di Dorinda, da dove si diresse verso la reggia. Quando l’ebbe raggiunta, le guardie, che erano di servizio al Corpo di Guardia, non conoscendolo, subito lo fermarono. Fu Liciut a chiedergli dove stesse andando in groppa al suo cavallo, facendogli anche presente che era vietato agli estranei entrare nella reggia. Specialmente poi se il loro ingresso avveniva, stando in sella alla sua bestia. Allora il principe ereditario, volendo scherzare sul suo doveroso fermo da parte del gendarme, si espresse al suo interlocutore con tali parole:

«Non mi dire che è vietato anche a colui che sta per diventare il tuo sovrano! Sarebbe il colmo! Ma ti sei reso conto del tuo comportamento, il quale potrebbe farti licenziare in tronco? Anzi, perché non fai condurre il mio cavallo nella stalla regia da una delle guardie qui presenti?»

A quelle sue parole, Liciut, che lo avevano fermato, rimase di stucco, non sapendo come prendere le parole dello sconosciuto. Così alla fine ritenne cosa saggia chiamare il suo comandante, perché fosse lui a sbrogliare la matassa, al posto suo. Quando poi venne fuori il soprintendente al Corpo di Guardia, il quale era di prima nomina, essendogli stata conferita da Lucebio, si rivolse al giovane, che anche per lui era una persona sconosciuta, dicendogli:

«Sono il comandante Polen. Posso sapere chi sei? Il mio vice è venuto a riferirmi ciò che poco fa hai dichiarato a lui e agli altri suoi tre colleghi. Ciò è avvenuto, quando essi ti hanno vietato l’accesso alla reggia, per non avere in tuo possesso il nostro lasciapassare. Sappi che possono mettere piede a corte solo coloro che ci hanno esibito le loro generalità ed hanno ottenuto il nostro permesso d’ingresso. Allora vuoi essere così gentile da provarci la tua identità e riferirci il motivo per cui vuoi essere ricevuto a corte dal nostro sovrano? Sappi che è l’illustre Lucebio che attualmente fa le sue veci, a causa del precario stato di salute in cui versa il nostro nobile re Cloronte.»

«Questo me lo immaginavo, comandante Polen, poiché ero già a conoscenza della salute piuttosto ridotta male di mio padre. Vado appunto a prendere il suo posto, visto che egli ha stabilito di abdicare al trono e di lasciarmi diventare suo successore. Adesso hai compreso chi sono? A dire il vero, mi ero già presentato al tuo vice, anche se in modo non del tutto canonico. Comunque, egli ha fatto solo il suo dovere!»

«Dunque, tu saresti davvero il principe Iveonte, il guerriero più decantato dal saggio Lucebio, nonché dai miei amici Solcio, il più bravo dei tuoi ex allievi, e da Zipro, il più bravo degli ex allievi del re Francide. Oh, che gioia e quale onore per me trovarmi a parlare con te a tu per tu. Se poi venissi degnato anche di una tua stretta di mano, la gioia, che è già immensa in me, diventerebbe incommensurabile!»

«Certo che ti do la mia mano, per una forte stretta! Se sei amico di Solcio e di Zipro, sono convinto che te la meriti senza meno!»

Così dicendogli, Iveonte, restando in sella, gli allungò la sua mano destra. Allora Polen non perse tempo ad allungargli anche la sua, perché entrambe le mani si congiungessero e dessero luogo ad una forte presa, come da lui desiderato. Quando infine le due mani si staccarono, Polen, in preda ad una contentezza infinita, si rivolse al suo leggendario interlocutore e gli disse:

«Ti ringrazio, illustre principe Iveonte. Ora puoi condurti dai tuoi nobili genitori e dal sapiente Lucebio. Essi non vedono l’ora di riaverti con loro per fare esplodere i loro cuori in una gioia incontenibile. Se poi consegni il tuo cavallo ad un mio gendarme qui presente, ci penserà lui a condurtelo presso le stalle regie, dove inviterà lo stalliere che vi presta servizio ad abbiadarlo e a farlo riposare con la massima cura.»

Iveonte, accettando all’istante il consiglio del comandante Polen, subito smontò di sella e porse le sue redini nelle mani della guardia che si era avvicinata per prenderle, dietro ordine del suo superiore. A quel punto, egli, salutato il giovane comandante con una pacca sulla spalla, si congedò da lui per raggiungere la reggia del padre.

Mentre vi accedeva, il principe ereditario di Dorinda s’imbatté nel cugino materno. Nell’incontrarsi nell’atrio regale, essi furono immensamente felici; inoltre si affrettarono a stringersi fortemente la mano e ad abbracciarsi, manifestando una grande commozione, la quale brillava nei loro occhi lucenti. Ma fu Leruob ad aprire bocca per primo. Mentr’era in preda all’emozione, egli si diede a dirgli:

«Finalmente a casa tua, cugino mio caro! Bentornato fra parenti ed amici! Dopo quest’ultima tua missione, spero che tu ti sia liberato per sempre da ogni altro impegno per conto delle tue divinità protettrici. Adesso hai bisogno di un’esistenza tranquilla e di vivere la tua serena vita accanto ai tuoi genitori e alla tua Lerinda. Ella ti dovrà dare molti vispi figli, che allieteranno così la vostra famiglia.»

«Grazie, Leruob, per la tua calda accoglienza! Ti prometto che per me non ci saranno più missioni che mi terranno lontano da Dorinda, come l’ultima che mi ha consentito di esservi di molto aiuto. Comunque, ti anticipo che qualche viaggetto mi attende ancora. Con esso, però, non avranno niente a che vedere le divinità che mi proteggono. Per questo, prima che avvengano la mia incoronazione a re della mia città e il mio matrimonio con la mia ragazza, dovrò intraprendere il viaggio, che mi condurrà anche a Geput, nella tua Berieskania. Ma non temere, cugino: esso non durerà molto, poiché non lo farà in groppa al mio cavallo! Come già ne sei al corrente, grazie a questo mio anello, posso volare ad una velocità che neppure immagini!»

«Mi dici, Iveonte, perché hai deciso di fare questo viaggio e quali altre mete esso avrà, anche se qualcosa riesco a prefigurarmelo?»

«Le destinazioni del mio viaggio saranno quattro, Leruob. La mia prima visita ci sarà a Terdiba, dove raggiungerò il mio amico Tionteo, che è diventato re di quella città. La seconda avverrà a Casunna, dove c’è il re Raco, che è il fratello della mia Lerinda. La terza mi condurrà ad Actina, dove visiterò mia sorella Rindella, mio cognato Francide e il mio amico Astoride. La quarta e l’ultima mi porterà a Geput, il tuo borgo natio. Nelle tre città edelcadiche, la mia visita avrà come scopo le due partecipazioni a tali persone della mia nomina ufficiale a re di Dorinda, siccome mio padre abdicherà in mio favore; nonché del mio matrimonio con Lerinda, il quale ci sarà a breve distanza di tempo dalla mia incoronazione. Nello stesso tempo, le inviterò a tali due solenni cerimonie. Naturalmente, anche tu, fino a quando esse non si saranno concluse, resterai mio ospite ed invitato speciale.»

«Grazie, cugino. Sarò molto lieto di presenziare la tua incoronazione e il tuo matrimonio. Ma non mi hai ancora detto perché vuoi andare anche a Geput. Di certo, non avrai anche deciso d’invitare nostro nonno alle tue nozze, siccome la sua età ultracentenaria non glielo consentirebbe. Allora vuoi dirmi la ragione per cui ci vai?»

«Essa è molto semplice, cugino. Vado sulla sua tomba per onorare le sue spoglie mortali. La sua salma oramai giace da molte lune sottoterra, per cui già si comincia a pensare al nuovo superum della Berieskania. Tutti i tuoi parenti, me compreso, sono persuasi che soltanto tu puoi riuscire a prendere possesso di tale importante carica e continuare a dare lustro alla tua prestigiosa casata. Del resto ne era convinto anche il nostro leggendario nonno.»

Nell’apprendere la morte dell’avo paterno, Leruob ci rimase molto male e se ne addolorò così tanto, che cominciarono a lacrimargli gli occhi, per cui s’interessò distrattamente alle restanti parole del cugino. Dopo, cercando di asciugarsi le tiepide lacrime, le quali gli scendevano giù per le gote, si rivolse all’amico, chiedendogli:

«Quando hai saputo, Iveonte, che il nostro carissimo nonno era morto? Scommetto che ti avrà informato la tua diva protettrice!»

«Non ti sei sbagliato, Leruob, a pensarla così. Solo che non mi è stato possibile essere presente alle sue esequie, essendo impegnato in una mia delicata missione. Allora mi ripromisi che un giorno sarei andato a piangermelo sulla sua tomba per onorare la sua salma.»

«Oh, se potessi venire con te, quando affronterai il nuovo viaggio, cugino, per piangerci insieme sulla sua tomba la morte del nonno! Ma so già che un fatto del genere mi sarebbe impossibile, siccome, diversamente da te, il viaggio mi risulterebbe lunghissimo. Vorrà dire che lo farò da solo, al mio ritorno a Geput. Prima, però, voglio assistere ai due eventi, che per me sono molto importanti: la tua incoronazione a sovrano di Dorinda e il tuo matrimonio con la principessa Lerinda. Solo dopo ripartirò per la Berieskania con i miei uomini, i quali giustamente vogliono appagare il desiderio di raggiungere i loro familiari, che non vedono da un sacco di tempo.»

«Allora, Leruob, adesso lasciami raggiungere i miei genitori, Lucebio e la mia amata Lerinda, essendo ansioso di riabbracciarli.»

«Fai bene, Iveonte, a raggiungere i miei zii nel loro reparto. A corte, però, non potrai incontrare Lucebio e la tua promessa sposa!»

«Perché mai, cugino, il mio incontro con loro non potrà avvenire, per cui dovrò fare a meno di riabbracciarli?»

«Proprio stamattina, Iveonte, il saggio Lucebio è voluto andare a fare una visita al suo amico Sosimo. Allora si sono unite a lui anche la sua donna e la tua amata. Adesso ne conosci il motivo. Comunque, se lo desideri, in un salto vado da loro ad avvertirli che sei rientrato. Tanto, non mi costa nulla andare alla casa di Sosimo e tornare alla reggia!»

«Invece, Leruob, lasciali pure godersi la loro visita presso il possidente Sosimo. Anche perché, una volta che mi sarò rivisto con i miei genitori, ci farò anch’io una scappatina. Così ne approfitterò per salutare pure i padroni di casa e ringraziarli per l’ospitalità offerta alla mia Lerinda e a mio cognato Raco, l’attuale re di Casunna.»

Poco dopo Iveonte corse nel reparto dei suoi genitori, ma non ve li trovò. La servitù di corte lo mise al corrente che essi, proprio un attimo prima, avevano deciso di fare quattro passi nel patio. Allora egli si affrettò a raggiungerli; ma li trovò seduti sopra una panchina, poiché la loro breve passeggiata era già terminata. Al suo apparire davanti ai loro occhi, i due regnanti se ne rallegrarono a non finire. Anzi, stavano per alzarsi, essendo desiderosi di abbracciarselo e di baciarselo. Ma Iveonte, vietandoglielo, fu lui a piegarsi su di loro e a soddisfarli nel loro affettuoso gesto genitoriale; né egli si comportò da meno nei loro confronti, poiché gli fece sentire l’intero suo amore filiale ad entrambi. Dopo il principe sedette insieme con i suoi genitori, consapevole che entrambi bramavano scambiare quattro chiacchiere con lui. Soprattutto essi volevano sentirsi dire dal figlio che non li avrebbe più lasciati e che, da quel giorno, sarebbe sempre vissuto con loro. Il primo a parlare al suo primogenito fu il re Cloronte, il quale gli si espresse con queste parole:

«Ora che sei di nuovo tra noi, Iveonte, cosa dobbiamo aspettarci da te? Sei ritornato nella nostra reggia per viverci per sempre, oppure è prevista una nuova tua assenza, che ti allontanerà da noi? Tua madre ed io non sai quanto peniamo, ogni volta che ci lasci soli per andare dietro a nuove imprese per inseguire trionfi e gloria!»

«Questa volta, padre, tu e la mamma potete stare tranquilli perché ho smesso di dedicarmi a simili cose, che in verità non sono stato mai io a cercare; invece mi sono capitate per puro caso. Ma da oggi in avanti, avrò altri problemi da risolvere, che riguarderanno la mia vita in Dorinda. Dovrò anche dare a te una mano a regnare, dal momento che le tue condizioni di salute non ti consentono di attendere con tutto te stesso al disbrigo dei vari affari di stato.»

«Visto che hai tirato in ballo questo argomento, figlio mio, desidero farti presente che le mie fragili forze non mi permettono più di reggere alla fatica che comporta l’amministrazione del mio regno. Allora, come già ti avevo annunciato ad Actina, ho stabilito di abdicare alla corona, perché tu mi succeda e governi la nostra città come si deve. Sono convinto che, una volta salito al trono, saprai governare il tuo popolo, che è quello dorindano, con giustizia e con saggezza.»

«Padre, acconsentirò a quanto ti sei prefisso, dopo che ti avrò chiarito due cose: prima, non ho mai ambito a scavalcarti e a non avere nessuno al disopra di me, non ritenendomi un arrivista per natura; seconda, accetto di succederti sul trono, soltanto perché la tua abdicazione è resa necessaria dalle tue condizioni di salute estremamente precarie, le quali ti si aggraverebbero di più nelle vesti di sovrano. Quindi, accetto volentieri la mia successione a te nella guida del nostro popolo, il quale, oggi come oggi, ha bisogno di risollevarsi dall’abiezione in cui è stato tenuto per moltissimo tempo, fino alla data odierna.»

«Mi fa piacere, Iveonte, trovarti d’accordo con la mia decisione irrevocabile. Per cui domani darò mandato a Lucebio di avviare la procedura di abdicazione da parte mia e quella della tua successione al trono. Così la tua incoronazione potrà aversi nei tempi che tu riterrai necessari, siccome vorrai che ad essa ci siano presenti tutte le persone che ti sono particolarmente care. Le quali dovranno avere quel margine di tempo che le faccia trovare in Dorinda alcuni giorni di anticipo. Sono sicuro, figlio mio, che vorrai anche far seguire un paio di giorni dopo le tue nozze con la principessa Lerinda, ad evitare che le persone che abitano in città remote si sottopongano ad un duplice viaggio. Non è vero, figliolo, che ho ragione a pensarla così?»

«Non ti sbagli, padre mio. Ora fammi dare alla mamma una notizia funesta. Ma, a mio avviso, all’età di centoquattro anni, una persona ha pure il diritto di morire per liberarsi dei suoi numerosi acciacchi, quando essi seguitano a perseguitarlo ogni attimo dei suoi lunghi giorni!»

«Così, Iveonte, è morto il mio longevo genitore?» con fare compunto, intervenne a dirgli la madre, mentre si lasciava sfuggire alcune lacrime dovute al suo pianto sommesso «La tua osservazione, figlio mio, è stata giusta e la rispetto. Per cui anche il mio dolore ne esce ridimensionato, mostrandomi rispettosa delle leggi naturali. Ma lo stesso avverto un leggero malore, per cui desidero rientrare nel nostro alloggio e concedermi un po’ di riposo. Tu, figlio mio, mi aiuterai a raggiungerlo con minore sforzo, se mi sosterrai con il tuo forte braccio. Sono certa che esso mi risulterà di grandissimo giovamento, mentre mi strascico a stento nel mio avanzare, a causa della mia vecchiaia e del mio stato di salute.»

Iveonte, dopo essersi prestato ad aiutare la madre ed aver accompagnato i suoi genitori nel loro alloggio, li salutò con affetto e si congedò da loro, volendo raggiungere al più presto il palazzo di Sosimo. Ma una volta abbandonato l’atrio della reggia, si avvide che davanti al suo ingresso c’era il cugino che lo attendeva con i due cavalli già bardati. Leruob, non appena lo vide venir fuori, gli disse:

«Iveonte, i cavalli sono già sellati per montarli e farci portare dall’amico di Lucebio. Ti dispiace se vengo anch’io con te, cugino?»

«Certo che no, Leruob! La tua compagnia mi risulterà senz’altro assai gradita, mentre ci conduciamo dal generoso Sosimo.»

La galoppata era appena iniziata, allorché s’imbatterono in uno squadrone di cavalleria. Era la Guardia d’Onore che rientrava alla reggia, dopo aver accompagnato la principessa Lerinda, Madissa e Lucebio a casa dell’amico di quest’ultimo. Ne erano a capo il nuovo comandante Solcio e il suo vice Zipro. Allora entrambi, avendo riconosciuto Iveonte, subito diressero i loro cavalli verso di lui. Dopo che lo ebbero raggiunto, fu il suo ex allievo a parlargli per entrambi, dicendogli:

«Illustre principe Iveonte, siamo ai tuoi ordini! Per noi è una grande gioia averti di nuovo in mezzo a noi. Adesso, se ci è consentito, vorremmo avere l’onore di stringerti la mano.»

«Come potrei negarvelo, se siete stati gli allievi più in gamba, tra quelli che venivano allenati da me e da mio cognato re Francide?»

Avvenute le due vigorose strette di mano, Solcio si diede a gridare: “Lunga vita al principe ereditario di Dorinda, il quale molto presto diventerà il nostro sovrano! Che le mie guardie, giurandoti fedeltà, come stiamo facendo io e il mio vice, vi porgano lo stesso augurio!”

Allora il centinaio di guardie, che erano al suo comando, non persero tempo ad imitare il loro comandante, formulando ad alta voce al principe Iveonte il medesimo augurio, unitamente al giuramento. Ma dopo fu Zipro a gridare alle guardie: “Accostatevi tutte sul lato sinistro e permettete il libero passaggio al nostro amato principe, nonché prossimo re!”

Di lì a poco, i due cugini raggiunsero la loro meta, dove Iveonte stupì tutti quanti con la sua presenza improvvisa. Anche se tutti ne gioirono immensamente, fu la sua ragazza a superare tutti i presenti in gioia e in commozione. Appena lo scorse, gli si lanciò contro e lo avvinse con le sue braccia, tra calde lacrime di gioia. Ad ogni modo, Lerinda alla fine dovette disgiungersi da lui, per permettergli di salutare le restanti persone che erano presenti con una bella stretta di mano. Mentre poi le domande fioccavano da ciascuna di loro, ad un certo punto si sentì poco lontano una voce, la quale gridava forte: “Lasciatemi salutare il principe Iveonte e stringergli anche la mano, poiché ne avverto un grandissimo bisogno!” Era il cieco Croscione che urlava in quel modo, intanto che procedeva verso quella parte del cortile dove molte voci non smettevano di farsi udire. Mentre avanzava, egli non smetteva di brancolare, poiché in quel momento non aveva nessuno che gli desse un aiuto per permettergli di orientarsi nello spazio. Appena lo scorse, Iveonte gli corse incontro. Una volta che lo ebbe avvicinato, gli prese la mano destra. Dopo, stringendogliela forte, gli si espresse con queste parole:

«Sono Iveonte, Croscione. Eccomi qui ad appagare il tuo desiderio. Oltre alla mia stretta di mano, posso fare qualcos’altro per te?»

«Principe, se non ti disturba la mia richiesta, vorrei che la tua mano restasse attaccata alla mia ancora pochi secondi. Tu non immagini quanto essa risulti salutare al mio organismo! Dentro di me non ho mai provato le sensazioni che sto avvertendo in questo momento. Tutti i miei organi ne stanno beneficiando alla grande! Avverto quasi un vigore nuovo, che circola dentro di me da capo a piedi, trasfondendo in ogni organo del mio corpo forze nuove e rigenerative. Anche nelle alle mie orbite stanno procurando un benessere incomprensibile. Mi chiedo, nobile Iveonte, cosa mi sta succedendo? Percepisco perfino la luce che vi penetra, come se avessi di nuovo gli occhi! Adesso provo ad aprire le palpebre… Ma io ci vedo!... Mi è ritornata la vista!... Gli occhi hanno ripreso ad esserci nelle orbite!...»

«Mi fa piacere, Croscione, di esserti accaduto ciò che affermi. Devi sapere, però, che non sono stato io ad operare il miracolo in te; bensì il mio anello, il quale ha delle proprietà taumaturgiche.»

Alla fine tutti si rallegrarono con l’ex consigliere del re Cotuldo, per essere stato miracolato dall’anello di Iveonte. Subito dopo, evitandosi altri indugi, Iveonte, Lucebio, Leruob, Lerinda e Madissa se ne ritornarono alla reggia, dove fecero propagare la notizia della guarigione di Croscione, che da poco aveva riacquistato la vista.

Anche il re Cloronte lo venne a sapere. A tale riguardo, mandò a chiamare il suo primogenito, avendo bisogno di chiarirgli alcune cose. Quando poi il figlio fu al suo cospetto, il sovrano gli disse:

«Se è vero, Iveonte, quanto ho appreso su Coscione, sono spinto a pensare che egli davvero sia diventato un uomo retto, senza più pecche sulla coscienza e profondamente pentito di ogni suo reato commesso in passato, quando era a servizio del proprio sovrano Cotuldo.»

«Come mai, padre, mi stai facendo un tale parlare, a proposito del miracolato Croscione? Io sono certo che, se il mio anello lo ha beneficiato, il suo ravvedimento e il suo pentimento sono fuori discussioni, altrimenti il prodigioso evento non ci sarebbe stato!»

«Se ho voluto averne la conferma da te, figlio mio, un motivo c’è senza meno. Qualche mese fa, siccome il campo dei ribelli era stato smantellato per sempre, Croscione rimase senza un posto in cui alloggiare. Allora Lucebio mi venne a chiedere se poteva mettergli a disposizione lo stesso alloggio che gli era stato assegnato dal re Cotuldo nella reggia. Ma io ricusai la sua proposta, pur persuadendomi che il mio rifiuto non veniva accettato di buon grado dal mio amico. Adesso, invece, vorrei riparare al mio errore di allora e consentire a Croscione di occupare l’alloggio di un tempo. Faccio bene, Iveonte, a ricredermi nei riguardi dell’ex consigliere di Cotuldo?»

«Padre, se vuoi che ti parli sinceramente, ti dico che quella volta sbagliasti a rifiutare a Croscione l’alloggio che ti aveva richiesto. Per sua fortuna, le cose gli andarono meglio che se fosse stata esaudita la sua domanda, poiché dove ora vive, non ha niente da invidiare all’alloggio di cui ti aveva fatto richiesta. Ciò significa che ogni tuo ripensamento a suo favore, oggi come oggi, non avrebbe più senso. Comunque, percorrere una via di conciliazione dà sempre più soddisfazioni che relegarsi in un atto di orgoglio basato sulla vendetta.»

Nel pomeriggio Iveonte ebbe due incontri importanti, il primo con la sua Lerinda e il secondo con Lucebio. Mentre s’intratteneva con la sua ragazza, naturalmente, fu dato maggiore spazio alla questione sentimentale, per cui la passione e l’amore, dopo aver preso il volo, si espressero con la massima intensità possibile. L’uno e l’altra cercarono di recuperare il tempo perduto durante l’assenza del giovane da Dorinda. Così si amarono in modo dolce e profondo, come due innamorati che anelavano al godimento più piacevole e appagante.

Nell’incontro avuto con Lucebio, invece, all’inizio Iveonte preferì affrontare i tre problemi importanti, che andavano risolti a medio termine. Il primo era stato quello inerente all’abdicazione paterna; invece i restanti due avevano riguardato la sua successione al padre sul trono di Dorinda e il suo matrimonio con la principessa Lerinda. Ci si era trovati d’accordo nel ritenere che l’incoronazione e le nozze sarebbero dovute avvenire, dopo che tutti gli invitati alle due cerimonie fossero stati presenti, e che le due cerimonie sarebbero dovute essere molto ravvicinate, per evitare agli stessi un doppio viaggio a Dorinda. Ad ogni modo, Lucebio si offrì lui di predisporre ogni cosa dal punto di vista sia legale e religioso che organizzativo. Messe in chiaro tali cose, Lucebio, volendo farsi spiegare da lui alcuni fatti che considerava inconcepibili, gli disse:

«Iveonte, sono alcuni giorni che non riesco a darmi pace, a causa di alcuni fatti che mi sono successi. A volte sono tentato di considerarli delle visioni oniriche, ritenendoli frutti irreali vissuti in sogno. Altre volte, al contrario, mi risulta difficile capacitarmi che essi non sono reali. Allora dovrai essere tu ad aiutarmi a giungere alla verità, siccome solo con il tuo aiuto potrò impadronirmene senza errori.»

«Lucebio, raccontami quali sono questi fatti che non si fanno collocare da te né in una dimensione reale né in quella irreale. Dopo, cercherò di esprimerti il mio parere in proposito, pur di farti comprendere da che parte sta la verità e di tranquillizzarti per sempre. Intesi?»

«Un mattino, al sorgere del sole, mi trovavo a sonnecchiare nella mia camera, quando una forte luce, inondandomi, mi fece svegliare. Allora mi vidi davanti una bella fanciulla, la quale mi si presentò quale tua dea tutelare. Ella subito mi fece presente che non era venuta a darmi tue notizie; ma per avvertire i tuoi congiunti e i tuoi amici che presto nell’universo ci sarebbero stati eventi catastrofici, a causa di una divinità malefica divenuta più potente del padre, il dio Kron, e dello zio, il dio Locus. In seguito a tale catastrofe, oltre a restare distrutto il nostro mondo, tutti saremmo morti. Per fortuna, dopo saresti intervenuto tu a rimettere le cose a posto, sconfiggendo prima la forza del male e poi riportando ogni cosa al suo precedente stato. Così il nostro mondo sarebbe ritornato ad esistere e noi ci saremmo ritrovati a trascorrere la medesima esistenza, riprendendo a viverla dal punto esatto in cui ci era stata carpita insieme con la distruzione del nostro pianeta. Ma un particolare che non mi convince non si lascia intendere bene da me, amico mio.»

«Esso quale sarebbe, Lucebio? Se non ti dispiace, vorrei venirne a conoscenza anch’io, per darti le giuste delucidazioni.»

«Io sono convinto che le calamità annunciate dalla tua dea protettrice si sono verificate puntualmente. Anzi, ne ho vissuto fin troppo le varie terribili fasi, perché io possa dimenticarle! Ma non comprendo per quale motivo sono il solo a rammentarle. Dunque, mi domando: l’apparizione della dea e la catastrofe universale sono state degli autentici sogni oppure esse si sono avverate realmente?»

«Ebbene, Lucebio, tu non sei stato vittima di allucinazioni o di visioni oniriche inesistenti; ma l’uno e l’altro evento ci sono stati per davvero, per cui devi smetterla di rimuginarci sopra invano. In quel frattempo, io mi sono trovato a possedere di un potere grandissimo, il quale mi ha reso in grado di debellare la forza devastante della malefica creatura e di riportare il nostro mondo, con tutti gli esseri viventi che lo abitavano, allo stesso stato che avevano un attimo prima dell’avvenuto cataclisma cosmico. In più, esso ha fatto in modo che ogni essere umano, tranne te, ricordasse quanto è successo, ad evitare che gli orrendi fatti continuassero a terrorizzarlo. Ne approfitto, amico mio, per comunicarti che mi attende un nuovo viaggio, con il quale dovrò condurmi ad invitare alla mia incoronazione e al mio matrimonio le persone che ne sono degne. Inoltre, dovrò andare in Berieskania, essendo mio dovere visitare la tomba del mio nonno materno, il leggendario Nurdok, ed onorare la sua salma, nonché dargli il mio ultimo addio.»

«Sul serio dici, principe Iveonte? Dovresti saperlo che tale tuo viaggio ti porterebbe via un sacco di tempo! Non vorrai forse dire addio all’incoronazione e al matrimonio! Non ci posso credere!»

«Che sciocco che sei, Lucebio! Non dovrò mica viaggiare, stando a cavallo! Hai scordato che il mio anello può anche farmi volare nello spazio ad una velocità impressionante? Sappi che, nel tempo di un giorno, posso perfino arrivare nella remota Berieskania e ritornarne! Ad ogni modo, siccome dovrò restarci almeno un’intera giornata presso le persone che andrò a raggiungere, mi ci vorranno almeno dieci giorni, prima che mi rifaccia vivo in Dorinda. Invece non potranno essere altrettanto veloci a presentarsi nella nostra città quanti sarò andato ad invitare alle due cerimonie, che mi vedranno prima incoronare sovrano della mia città e poi sposare la mia Lerinda.»

«Hai ragione, Iveonte, sono stato stupido a non pensare che il tuo anello portentoso possa permetterti ogni cosa, perfino di superare grandissime distanze in poco tempo. Ma ne hai parlato già anche ai tuoi genitori e alla tua ragazza? Sono certo che anch’essi, quando gli riferirai sul nuovo viaggio, si spaventeranno, ignari del modo in cui lo affronterai e del tempo che ti ci vorrà per portarlo a termine.»

«Vado adesso a parlarne agli uni e all’altra, considerato che dovrò affrettarmi a partire, dovendo dare ai miei invitati il tempo necessario per arrivare a Dorinda prima delle due cerimonie.»

Messe al corrente le persone che dovevano sapere del viaggio che stava per intraprendere, il giorno dopo Iveonte spiccò il volo dal belvedere della reggia verso il cielo infinito. Era con lui anche la diva Kronel, la quale gli aveva già fatto presente tre giorni prima, ossia quando gli era apparsa nei pressi delle porte di Dorinda, che sarebbe stata felice di accompagnarlo nel suo viaggio avente come mete alcune città edelcadiche e il borgo beriesko di Geput.

La città, nella quale Iveonte fece la sua prima tappa, fu Terdiba, dove adesso regnava il suo amico Tionteo, il quale aveva anche sposato Dildia, la sorella di Astoride. Egli si presentò all’improvviso a lui e lo mise al corrente che presto nella città di Dorinda ci sarebbero state la sua incoronazione e le sue nozze. Dopo le partecipazioni delle due cerimonie, lo invitò anche a presenziarle, poiché sarebbe stato un invitato gradito. Allora l’amico sovrano fu molto lieto di esserne stato avvertito e gli promise che non sarebbe mancato insieme con la sua consorte, la regina Dildia, e con una scorta di soldati. Poiché essa si trovava da quelle parti, Iveonte fece presente all’amico Tionteo che andava ad invitare anche la famiglia del defunto Tio. Il quale era stato il maestro d’armi e di arti marziali suo e del re Francide. Essa era composta dalla vedova Luta e dai figli Zilio ed Ucleo. Era sua intenzione indirizzarli alla reggia di Terdiba per farli viaggiare con la comitiva terdibana nel trasferirsi a Dorinda. Il re Tionteo gli promise che avrebbe accolto i tre familiari con tutti i riguardi, ospitandoli nella sua reggia e facendoli viaggiare con loro.

Così il giorno dopo il giovane principe si presentò anche alla famiglia di Tio, la quale ora viveva in una bellissima fattoria, dove si erano dati all’agricoltura. Essi furono molto felici di rivederlo e di stargli insieme, anche se fu per brevissimo tempo. Inoltre, accettarono volentieri da lui l’invito alla sua incoronazione e alle sue nozze. Gli promisero anche che, riguardo alla loro andata a Dorinda, essi avrebbero fatto com’egli gli aveva consigliato. Quanto alla tappa successiva del suo viaggio, Iveonte la fece a Casunna, dove s’incontrò con il cognato Raco, mettendolo al corrente che presto ci sarebbero state la sua incoronazione e le sue nozze con la sorella Lerinda. Nello stesso tempo, lo invitò a tali cerimonie. Il re Raco ne fu lietissimo. Avendo poi appreso che Iveonte andava ad invitare anche i regnanti di Actina, i quali erano il suo amico fraterno Francide e la sorella Rindella, lo pregò di riferirgli che li attendeva a Casunna, da dove poi, dopo un giorno di rilassante riposo, sarebbero ripartiti insieme alla volta della città di Dorinda.

Quando Iveonte si presentò alla reggia di Actina, dove aveva stabilito di fare la quarta tappa del suo viaggio, la sua inattesa presenza a corte stupì quanti lo conoscevano. Anzi, quel giorno s’intrattenevano tutti a festeggiare nel patio il compleanno del piccolo Ivun. Il quale era il primogenito dei regnanti della Città Santa e compiva quel giorno il suo primo anno di vita. Quando Iveonte vi si condusse anche lui, vi trovò l’amico fraterno, la sorella Rindella, Tionteo e la sua consorte Godesia, la nobildonna Talinda, la sacerdotessa Retinia e Dumio, il nuovo Sommo dei Sacerdoti. Non serve dire che essi furono tutti oltremodo felici di rivederlo, specialmente in quella circostanza, nella quale Iveonte ebbe modo di conoscere il figlio della sorella, che era il suo primo nipotino. Subito dopo egli partecipò ai presenti le due bellissime notizie, che erano la sua incoronazione a re di Dorinda e il suo matrimonio con Lerinda. Nello stesso tempo, gli annunciò che sarebbero stati degli invitati assai graditi alle due cerimonie che lo riguardavano. Ma anche gli fece presente che il re Raco li attendeva nella sua reggia, perché vi trascorressero un ragionevole tempo di relax, prima di continuare il loro viaggio per la Città Invitta. Ovviamente, avrebbero preso parte alle due solenni cerimonie i regnanti di Actina e la coppia di freschi sposi formata da Tionteo e dalla principessa Godesia.

A quel punto, restava ad Iveonte di fare la sua ultima tappa, che era il borgo di Geput. Quando lo raggiunse, tutti i suoi parenti di parte di madre lo accolsero con gioia e calore; ma anche vollero apprendere tante cose che concernevano lui e Leruob. Quando poi seppero che egli a breve sarebbe stato incoronato re della sua città e si sarebbe anche sposato, tutti si congratularono con il nipote e cugino e gli espressero le loro più vive felicitazioni. Nella stessa giornata, dietro espresso desiderio di Iveonte, lo zio Deloz lo accompagnò sulla tomba del suo defunto genitore, dove erano stati deposti i resti mortali del leggendario Nurdok. Una volta presso il tumulo, il giovane, con il cuore afflitto e con l’animo angustiato, si pianse la morte del compianto nonno. Il cui valore aveva brillato sopra tutti gli eroi, poiché aveva illuminato la sua esistenza con atti d’indubbio eroismo e d’irreprensibile integrità morale. Infine si rivolse a lui, proferendo le seguenti parole: “Nonno carissimo, sono venuto ad onorare la tua salma, essendo stata la tua esistenza densa di gesta eroiche. Durante la quale, ti sei anche dimostrato uno stratega di altissimo livello, facendo conseguire all’esercito beriesko grandiose vittorie contro chi ha osato invadere la Berieskania. Che il tuo nome e la tua gloria possano resistere alle ingiurie del tempo, affinché, lungo il trascorrere dei secoli, vengano sempre ricordati con ammirazione e con devozione! Addio, nonno!” Dopo quelle sue parole, Iveonte diede un abbraccio al suo parente accompagnatore e volò via verso il cielo, lasciando lo zio attonito e con il naso all’insù, mentre si dava a seguirlo senza parole e con il fiato sospeso.