473°-COS'ERA SUCCESSO INVECE A CASUNNA E A DORINDA?

Come avevamo già visto, il re Raco, dopo aver lasciato la sorella Lerinda ospite del generoso Sosimo, aveva ripreso la via del ritorno a Casunna, dove si era insediato per la prima volta in qualità di sovrano. Nella sua città, la sua permanenza da re vi durava da quasi un bimestre, quando vi aveva fatto ritorno il suo consigliere Merion. Costui, dopo essere stato costretto dal mago Ghirdo a seguirlo sotto le mura di Actina, alla fine era riuscito a sottrarsi all’assedio ed aveva raggiunto la città natale, tranquillizzando così il suo nuovo re. Venuto poi a sapere dal suo attuale sovrano ogni cosa sugli Umanuk e che uno di loro aveva assunto le sembianze del defunto re Cotuldo, egli non riusciva a credere a quanto si era verificato in ogni città edelcadica, ad eccezione di quella di Actina. Ma lo aveva reso particolarmente felice la bella notizia che il fratello del re Raco era rimasto vittima dell’Umanuk di Dorinda, lasciando sul trono di Casunna colui che prima vi svolgeva le funzioni di viceré.

Poco dopo, il neo sovrano lo aveva distratto da tale evento, che aveva appreso con gioia. Infatti, egli si era dato a dirgli:

«Merion, nella reggia adesso abbiamo un grosso problema; ma tu te ne sei già reso conto. Si tratta della guarnigione dorindana, che attualmente la presidia, onde prevenire le intenzioni per niente rassicuranti da parte di persone inclini alla violenza e al depredamento. Almeno per il momento, perciò, dovremo tenercela, poiché essa ci fa comodo, fino a quando non ci sarà nel palazzo reale e in città la ricostituzione di una gendarmeria e di un esercito regolari, capaci cioè di far fronte a qualsiasi evenienza in odore d’illegalità. Anzi, se i Dorindani si trovano qui, devo ringraziare il saggio Lucebio, che ha permesso il loro trasferimento nella mia reggia. Ma sono sicuro che essi non vedono l’ora di far ritorno presso le loro famiglie, siccome la permanenza nella nostra città può risultare a tutti loro un grande sacrificio. Ad ogni modo, quando arriverà il giorno che potranno andarsene via, gli offrirò una lauta ricompensa, poiché sarà mio dovere ringraziarli per il loro sevizio volontario nella mia reggia.»

«Come intendi affrontare, mio sovrano, quello che tu consideri un problema? Secondo me, potevi anche fare a meno di considerarlo tale, visto che per me si tratta solamente di una seccatura vera e propria, di cui ci libereremo presto. Allora hai già qualche idea, a tale riguardo?»

«Se lo vuoi sapere, Merion, avevo pensato di affidare a te l’incarico di cominciare a sostituire gli attuali soldati dorindani, che prestano il loro servizio irregolare, con una milizia degna di tale nome, formata da soli Casunnani. Ma ho pensato anche che ci conviene attendere ancora alcuni giorni, poiché corrono voci, secondo le quali Actina non è più assediata dagli eserciti coalizzati. Per cui i soldati sopravvissuti all’assedio hanno ripreso la via di ritorno alle loro città. Sono convinto che fra loro molti facevano servizio nell’esercito di Casunna; perciò essi senz’altro rientreranno nei ranghi. Inoltre, ci sarà bisogno di sostituire i loro commilitoni caduti durante l’assedio. Ebbene, per la loro sostituzione, verranno reclutati i soli giovani che risulteranno loro familiari o loro parenti.»

«Forse hai ragione tu, re Raco. Prima di ricostituire il vecchio apparato militare nella nostra città, sarà meglio aspettare che ritornino a Casunna tutti i reduci dell’insana guerra voluta dagli Umanuk. Dopo avremo meno problemi a riformarlo e a renderlo efficiente in poco tempo. Nel frattempo, sempre che tu sia d’accordo, vorrei fare un sondaggio esplorativo nella guarnigione dorindana e vedere quanti fra quelli che ne fanno parte sarebbero disposti a prestare servizio regolare nel nostro esercito. Così inizierei a scozzonare nei loro futuri doveri militari quanti intendessero diventare effettivi nell’attuale loro incarico provvisorio.»

«Secondo me, Merion, la tua è una buona idea. Perciò ti autorizzo già adesso ad informarti quanti Dorindani sono disposti a far parte della nostra milizia e a trapiantarsi a Casunna, trasferendovisi con le loro famiglie. Inoltre, ti do carta bianca nell’assumere a mio servizio tutti coloro che si dichiareranno favorevoli ad arruolarsi.»

Dopo essere stati interpellati circa la loro definitiva permanenza nell’esercito casunnano, trasformandosi da ausiliari in gendarmi effettivi, soltanto un terzo dei Dorindani aveva deciso di cogliere la bella occasione. Così avevano dato il loro assenso alla proposta del consigliere del re Raco. Allora costui si era messo subito all’opera per prepararli nei loro futuri doveri, ma rendendoli anche edotti dei loro diritti. Comunque, durante il mese successivo, pochi per volta, si era fatto vivo un gruppo consistente di soldati, i quali nel periodo prebellico già facevano parte dell’esercito. Ma c’era voluto un trimestre pieno, prima che in Casunna venisse reintegrato l’intero organico militare. Quanto ai Dorindani, che non avevano voluto essere assunti nella gendarmeria in servizio presso la reggia casunnana, non avevano perso tempo a rimettersi in cammino verso la loro città, essendo anche ansiosi di raggiungere al più presto le loro famiglie, però dopo avere ricevuto dal re Raco un lauto compenso.

A quel punto, il sovrano di Casunna si era convinto che ogni cosa nella propria città aveva ripreso il suo ritmo di sempre. Infatti, adesso non c’era più il timore che delle bande di furfanti della peggiore risma, approfittando della scarsa sorveglianza e dell’insufficiente difesa esistenti in città, potessero assaltare la reggia e trafugarvi gli oggetti preziosi. In quel caso, non era neppure da escludersi che le stesse persone scalmanate avrebbero potuto mettere a repentaglio la vita degli uomini posti a guardia dei tesori in essa custoditi, sorvegliandoli giorno e notte. Invece, in riferimento alla pacifica esistenza di un tempo, la quale secondo lui era ricominciata ad esserci nella sua città, il re casunnano si era illuso, siccome un ingiusto malcontento si era dato a serpeggiare fra i suoi sudditi. Ne era responsabile un certo Buvon, che aveva la convinzione che il re Francide aveva fatto uccidere il fratello Cotuldo per succedergli sul trono. Il Casunnano era stato così convincente presso i suoi concittadini nel sostenere la propria tesi, da istigarli alla ribellione generale e alla disobbedienza nei confronti dell’attuale sovrano. Così, quando meno se l’aspettava, il fratello di Lerinda, a causa del suo suddito disinformato dei fatti, si era trovato a fronteggiare una situazione piuttosto difficile.

In ogni piazza della città erano cominciati ad aversi vari torbidi, durante i quali il popolo osteggiava apertamente il sovrano e lo invitava a rinunciare al trono, non essendo una persona degna di regnare. Alcuni invitavano gli altri ad assaltare in massa la reggia e a fare giustizia con le proprie mani; ma all’inizio non tutti condividevano un invito del genere. Intanto la sommossa popolare si espandeva a macchia d’olio, raggiungendo ogni angolo di Casunna. Non si poteva affermare che quelle dimostrazioni della cittadinanza a lui ostili non avessero impensierito il re Raco. Al contrario, esse lo avevano allarmato sempre di più, fino a quando non aveva sentito il dovere di prendere qualche provvedimento avverso ai più facinorosi di quelle piazzate, le quali erano da ritenersi del tutto illegali. Perciò aveva preso la decisione d’intervenire con determinazione contro coloro che fomentavano tali disordini, nonché contro quelli che vi prendevano parte, appunto per reprimerli con la forza.

In quella circostanza, la sua prima mossa era stata quella d’inviare contro di loro un grosso contingente di truppe bene armate. Esse avrebbero dovuto disperderli, ma senza eseguire alcun arresto anche nei confronti di quanti si fossero dimostrati i più esagitati nelle diverse schermaglie da loro messe in atto. Invece, per non essere ricorse alla mano pesante fin dall’inizio contro i rivoltosi, le milizie regie alla fine avevano subito il loro contrattacco e a malapena si erano salvate con la fuga. Dopo l’insuccesso dei suoi gendarmi, il sovrano di Casunna aveva stabilito di mutare atteggiamento nella lotta contro coloro che miravano a detronizzarlo, sebbene fosse contrario alle maniere forti. Ma il suo popolo non gli permetteva altra alternativa ed egli era costretto a ricorrervi, smettendo di curarsi delle gravi conseguenze che ne potevano derivare. Solo che non era riuscito a disporre di una parte dell’esercito per domare la sommossa dei cittadini che si mostravano tenaci oppositori del suo regno, siccome a torto lo tacciavano di fratricidio. Per cui costoro, mediante il passaparola, infine si erano radunati tutti intorno alla reggia, per non permettere al loro monarca di uscirne e di svignarsela.

Per il momento, i rivoltosi non osavano assalire i gendarmi posti a difesa del palazzo reale, ma si limitavano a far giungere al loro sovrano grida di protesta, come le seguenti: “Sporco fratricida, rinuncia al trono, del quale non sei degno! Sovrano senza onore, fatti giudicare dal tuo popolo, che sa quale provvedimento prendere contro la tua persona! È stata una tua grave colpa macchiarti del sangue di tuo fratello, per essere stato spinto dalla cupidigia di potere! Vieni fuori, farabutto di un re, se non vuoi che veniamo noi da te e facciamo giustizia mediante un processo sommario, quale appunto ti meriti!”

Da parte sua, il sovrano aveva evitato di esporsi alle loro minacce; ma lo avrebbe fatto, se al suo fianco avesse avuto il cognato Iveonte, poiché soltanto lui avrebbe saputo come affrontare quel difficile caso. Il quale ingiustamente lo stava mettendo in pericolo di morte. Allora aveva invitato Merion a presentarsi al proprio popolo, affinché lo facesse rinsavire, raccontandogli la verità sulla morte di suo fratello Cotuldo, e lo discolpasse dalle accuse che esso gli muoveva. Il suo consigliere, però, benché ce la mettesse tutta, pur di far ragionare i suoi concittadini e fargli recuperare il buonsenso, non era riuscito ad ottenere tale risultato. Perciò, continuando la salvezza del suo re ad essere a rischio, si era deciso a rientrare a corte e a raggiungere il suo re Raco. Intanto, all’esterno la gente, sempre indotta da persone pervicacemente contrarie al loro sovrano, si era decisa a spazzare via la guardia regia e a raggiungere il monarca, che non osava presentarsi ad essa e farsi giudicare.

Perciò erano già iniziati i primi tafferugli tra i gendarmi e i numerosi dimostranti, venendo a volte perfino alle mani, allorquando c’era stato un prodigio inatteso. Il quale aveva costretto gli uni e gli altri a troncare ogni azione di lotta fra loro. Ad un tratto, una luce folgorante aveva abbagliato i loro occhi, costringendoli a coprirseli con le mani per non venirne accecati. Dopo essere venuto meno il bagliore, tutti avevano visto, sospesa nell’aria, una figura dalle impeccabili sembianze, la quale non aveva tardato ad aprire bocca e a fare loro il seguente discorso:

“Smettetela di prendervi a botte, se non volete che vi fulmini e vi faccia diventare ospiti della morte! Chiedo a voi Casunnani, che in questo momento vi state comportando come sudditi senza cervello, perché vi ostinate ad insistere nel vostro marcio torto? Chi vi ha detto che il re Raco ha complottato contro il proprio fratello e ha anche commissionato il suo assassinio a gente senza scrupoli? Invece vi faccio presente che vi hanno fatto credere il falso, quando vi hanno riferito una notizia simile. Il re Cotuldo e gli altri regnanti dell’Edelcadia, ad eccezione di quello di Actina, sono stati uccisi da esseri malvagi, i quali godevano anche dell’immortalità. Essi avevano pure assunto i loro volti e li hanno sostituiti sui loro troni. Per qual motivo? Per spingere voi e gli altri popoli edelcadici ad una guerra contro la Città Santa, come è avvenuto. Ma il loro piano è fallito, grazie all’intervento di un eroe eccezionale, il quale li ha uccisi tutti, liberando la città actinese dal loro assedio. Perciò, se non volete che io vi punisca severamente, rinsavite finché siete in tempo, poiché dopo non risponderò delle mie azioni, le quali vi risulteranno tremende e micidiali!”

All’apparizione della divina immagine, tutti i Casunnani aggressori all’istante avevano cessato di assalire i gendarmi. Avendo poi appreso la verità sul loro nuovo sovrano, essi si erano dati a chiedergli scusa per l’ingiusta offesa ricevuta da loro. Alla fine se n’erano ritornati alle loro case, essendo persuasi che il loro ex viceré era una persona perbene e non un fratricida, come si era voluto dipingerlo dai suoi accusatori.

Al lettore, che non lo avesse ancora compreso, a proposito della misteriosa comparsa al di sopra della reggia, sveliamo subito che si era trattato della diva Kronel. Ella, essendosi resa conto che il cognato del suo pupillo navigava in cattive acque, aveva voluto aiutarlo ad uscirne sano e salvo, come appunto era stato. In verità, il re Raco non aveva avuto dubbi che a toglierlo dai guai era stato la dea amica del fidanzato della sorella e ne aveva gioito moltissimo.

Lasciamo adesso Casunna e trasferiamoci a Dorinda per sincerarci di come procedevano le cose nella città fondata dal re Kodrun, il defunto nonno paterno di Iveonte.


Nella Città Invitta, finalmente si era cominciato a respirare una fragrante aria di libertà, siccome i Dorindani, a qualunque categoria appartenessero, dopo l’uscita di scena del re Cotuldo e il ritorno dei legittimi regnanti nella loro città, si sentivano affrancati da ogni ingiusto servaggio. Perciò il sentirsi liberi inebriava il loro animo e li metteva di fronte ad una realtà nuova, la quale gli faceva dare sfogo come non mai al loro spirito di autentico patriottismo. Soprattutto continuavano ad esserci, da parte delle persone avanti con gli anni, ossia di quelle attempate, esaltazioni a favore del loro re Cloronte, siccome esse si mostravano appagate della sua presenza in Dorinda. Ma più che cercare di renderci conto della soddisfazione dei loro sudditi, a noi occorre approfondire il trascorrere del tempo dei due regnanti, che da poco avevano ripreso a viverlo, sotto una luce diversa. La quale li andava colmando d’ingenti gradevoli sensazioni, quasi simili a quelle che già avevano vissuto in quella stessa reggia.

Allora iniziamo col dire che, essendo passati un bel po’ di anni da quel tempo remoto, cioè da quando il vigore circolava nel loro intero organismo, essi stavano affrontando la nuova esistenza con minore entusiasmo. Anche perché gli acciacchi di ogni sorta, i quali erano dovuti alla loro età e in special modo alla grama esistenza condotta fino a quel momento, non li facevano sentire adatti a condurre una vita di corte. Adesso l’uno e l’altra, poiché la stanchezza si faceva avvertire ad ogni loro minimo sforzo, venivano spinti a cercare soltanto riposo, preferibilmente in un luogo lontano da ogni trambusto. Invece non disdegnavano la compagnia delle due persone che, dopo i loro figli Iveonte e Rindella, amavano di più, le quali erano Lucebio e Madissa. Ovviamente, se al re Cloronte interessava conversare con il suo saggio amico e suo ex consigliere, la regina Elinnia voleva intrattenersi con la sua ex prima damigella d’onore. Inoltre, il sovrano dorindano aveva voluto che fosse Lucebio a portare avanti il governo della città, come già stava facendo da alcuni mesi, almeno fino a quando il suo primogenito Iveonte non si sarebbe presentato a corte. Così, al suo ritorno, egli avrebbe abdicato in suo favore, facendolo diventare il nuovo degno sovrano di Dorinda. Volendosi tirare in ballo anche la principessa Lerinda, per conoscere i suoi rapporti con l’anziana coppia di sovrani, bisogna chiarire alcune cose. Specialmente il re Cloronte, non aveva visto di buon occhio il fidanzamento del loro primogenito con la sorella di chi, dopo avergli usurpato il trono, lo aveva condannato insieme con la moglie al carcere a vita. Ma poi entrambi i coniugi regali, dopo averla frequentata da vicino, si erano capacitati che la ragazza, grazie alla sua amabilità e all’immenso amore che gli voleva, avrebbe reso il loro primogenito oltremodo felice. La principessa, da parte sua, tutti i giorni andava a trovarli, cercando di essere ad entrambi utile a qualunque costo.

Per l’intercessione di Lucebio, dopo il loro giuramento di fedeltà al loro re, Solcio era stato nominato Comandante della Guardia d’Onore, carica già ricoperta dal nonno Sosimo; mentre Polen aveva assunto il comando del Corpo di Guardia, che era situato all’ingresso della reggia. In verità, la seconda carica era stata proposta a Zipro; ma egli aveva preferito fare da vice al suo amico Solcio, volendo stare a contatto con lui il più possibile. Invece il figlio del defunto Trisippo aveva nominato, quale suo vice, l’amico Liciut, che aveva accolto con gioia tale nomina. Sosimo, da parte sua, quando aveva appreso che al suo nipote preferito era stata conferita dal re Cloronte l’alta carica da lui occupata un tempo, ne era stato lietissimo. Ma era convinto che era stato l’amico Lucebio a proporre al sovrano di Dorinda quell’ambita nomina a favore di Solcio. Comunque, egli non aveva potuto negare che il nipote se l’era guadagnata per i suoi alti meriti.

Dopo che tutti gli ex ribelli avevano sloggiato dall’altopiano, che fino a poco prima era stato usato come loro nuovo campo, naturalmente insieme con le loro famiglie, anche Croscione aveva dovuto cambiare casa. Allora Lucebio gli aveva prospettato le due seguenti alternative: poteva scegliere tra l’andare a vivere presso la reggia del re Raco oppure restare a Dorinda, occupando la stessa stanza che gli aveva assegnato il re Cotuldo, dopo che era rimasto cieco. Egli, pur non gradendo nessuna di tali opzioni, aveva dato la sua preferenza alla seconda delle due. Lucebio, però, avrebbe dovuto prima chiedere ed ottenere l’autorizzazione del sovrano, circa il suo alloggiamento nella reggia. In cuor suo, però, non era sicuro che l’amico re gliel’avrebbe concessa, trattandosi dell’uomo che aveva fatto molto male ai suoi sudditi, in qualità di braccio destro dell’odioso re Cotuldo. Così il giorno successivo, nella tarda mattinata, quando i regnanti si erano già alzati dal letto ed avevano anche fatto colazione, Lucebio si era presentato al re Cloronte. Costui, nel vederselo davanti, subito gli si era rivolto, dicendo:

«Hai fatto bene, amico mio, a venirmi a trovare! Sai, stamattina avevo proprio bisogno di te! Ad ogni modo, non è nulla d’importante. Non sono da prendersi in considerazione neppure gli affari di stato.»

«Perché mai, amico mio, oggi ti necessita la mia compagnia? Spero che la tua salute non c’entri in questo tuo desiderio odierno!»

«Puoi stare tranquillo, mio caro Lucebio, poiché, almeno nel fisico, non posso lamentarmi. Te lo posso assicurare!»

«Allora, mio sovrano, a cosa è dovuto questo tuo bisogno di avermi vicino, visto che ti senti bene fisicamente e non ti preoccupa niente che possa essere attribuito al governo della nostra città? Me lo dici, sire?»

«Stamani, pupillo del mio defunto genitore, mi sento soltanto un po’ spossato, per cui la spossatezza mi deprime il morale. Ma sono sicuro che mi basta una bella conversazione con te per allontanare da me la cupezza della mia psiche e recuperare così la mia serenità.»

«Re Cloronte, se il conversare con me riuscirà a guarirti del male passeggero di questa mattina, trasferiamoci subito nel patio, dove ci daremo a chiacchierare per tutto il tempo che vorrai. Così approfitterò per farti anche una mia richiesta, la quale riguarda un caso pietoso, che vorrei si risolvesse con un gesto caritatevole da parte tua.»

«Se anche tu necessiti di avere un colloquio con me, amico mio, affrettiamoci a raggiungere il luogo da te suggerito, dove potremo parlare nella massima tranquillità. Ma prima mi devi promettere che, una volta che avremo raggiunto il patio, non ti azzarderai ad usare nei miei confronti alcun titolo regale, come sire, re, sovrano, e via dicendo. Invece ti rivolgerai a me, chiamandomi solamente Cloronte, come se fosse un tuo fratello, proprio come faceva il mio genitore. Ci siamo intesi?»

«Te lo prometto, amico mio, perché gli ordini di un sovrano non si discutono, ma si eseguono sempre con la più grande ubbidienza!»

Poco tempo dopo, essi si trovavano già nel meraviglioso giardino della reggia, dove un’abbondanza di fiori stupendi facevano mostra dei loro colori sgargianti e diffondevano nelle aree adiacenti i loro intensi effluvi profumati. Dopo esserci stati un centinaio di passi da parte loro, i due amici si erano seduti sopra una panchina marmorea. Era stato Lucebio a parlare per primo, chiedendo al suo sovrano:

«Mi dici adesso, Cloronte, cos’è che ti priva della serenità, per cui ti senti anche psichicamente un pochino depresso?»

«In verità, Lucebio, non te lo so spiegare con esattezza; però in me c’è qualcosa che mi fa essere giù di corda. Anzi, non riesco neppure a raccapezzarmi. Forse perché regna in me una grande confusione mentale, la quale mi toglie perfino la voglia di agire e di pensare. Ma sono certo che, facendo quattro chiacchiere con te, vincerò la mia attuale abulia. Ne sono convinto!»

«Lo penso anch’io, amico mio, poiché noto in te unicamente dei sintomi di una lieve depressione, i quali spariranno durante la nostra conversazione. Ma sono portato a credere che questi tuoi momenti di confusione e d’incertezza siano dovuti all’assenza del tuo primogenito da Dorinda. Soprattutto al fatto che temi che egli non possa farcela nella sua nuova missione e che non lo rivedremo mai più in mezzo a noi. Invece devi scacciare da te un pensiero simile, siccome tuo figlio Iveonte è destinato a trionfare su chiunque e su tutto. Perciò presto egli farà ritorno a Dorinda, da orgoglioso vincitore.»

«Grazie, Lucebio, per le tue incoraggianti parole, poiché esse mi stanno infondendo una illimitata fiducia in mio figlio. Inoltre, scacciando da me l’angoscia, mi fanno sentire meglio. Adesso che mi sovviene, non mi avevi detto che avevi una richiesta da farmi e che essa era attinente ad un caso pietoso? Ma prima che io ne venga a conoscenza, c’era proprio la necessità di rivolgerti a me, quando invece potevi tu stesso risolvere la questione che ti sei trovato a gestire? Sapevi già che nelle tue mani avevo riposto ogni potere e che tutto ciò che per te andava bene era benaccetto anche a me.»

«Questo è vero, Cloronte. Ma la questione, che avevo da sottoporti, rivestiva un carattere delicato ed avevo bisogno della tua autorizzazione per essere risolta, senza che poi avessi a pentirmene, se dopo tu non saresti stato d’accordo. Ad ogni modo, se dipendesse da me, io non sarei contrario a mostrarmi misericordioso con il soggetto del caso pietoso, sul quale tra poco ti riferirò.»

«Allora sentiamo di cosa si tratta, caro amico mio. Così dopo saprò dirti anche se hai fatto bene a chiedere la mia autorizzazione oppure sarebbe stato bastevole la tua decisione a portare in porto il caso che avevi avuto tra le mani.»

«Eccomi qui a relazionarti sul caso in questione nei minimi dettagli, mio caro Cloronte, in modo che tu possa avere a disposizione tutti gli elementi sufficienti a permetterti di decidere con consapevolezza e con giustizia. Quando tu eri in prigione, intanto che il re Cotuldo vessava il nostro popolo, il tiranno aveva incaricato il suo braccio destro Croscione di dare la caccia ai ribelli e d’intervenire con espoliazioni indebite contro i possidenti Dorindani. Molti di loro, infatti, per essersi ribellati, sono stati uccisi oppure sono stati messi a marcire nelle prigioni. Insomma, nella nostra città egli rappresentava il terrore personificato, visto che ogni giorno vi seminava morti e vi commetteva abusi, senza usare la misericordia con nessuno.»

«Non mi dire, Lucebio, che è proprio lui il soggetto del caso pietoso, per cui dovrei esprimermi a suo favore oppure contro di lui!»

«Certo che è lui, amico mio! Ma lasciami proseguire nella mia relazione sul medesimo, senza saltare le cose importanti che lo riguardano. Ebbene, in seguito, al tempo che tuo figlio Iveonte e i suoi amici Francide ed Astoride si unirono a noi ribelli, cioè quando il tuo primogenito risultava anche il fidanzato della principessa Lerinda, il duro Croscione si ritrovò ad essere cieco. Fu allora che egli, avendo cominciato a stimare tuo figlio, gli chiese anche di permettergli di venire ad abitare nel mio campo. In tale circostanza, gli fece pure presente che sapeva ogni cosa sui ribelli e che egli sarebbe stato dalla nostra parte. Noi lo accettammo con riserva. Quando poi Iveonte e i suoi amici lasciarono il mio campo, Croscione si è sempre comportato come un vero ribelle e, nelle sue possibilità, ha cercato di esserci molto utile. Prese a cuore anche la situazione di tua figlia Rindella, quando ella corse il pericolo di morte, a causa di una setta religiosa che cercava di sacrificarla al loro dio. Alla fine, insomma, egli si è anche guadagnato la mia amicizia.»

«Adesso che mi hai esposto a grandi linee la vita di tale personaggio, Lucebio, mi vuoi dire qual è il problema che dovrei risolvere, il quale non potrà che interessare lui? Attendo apprenderlo da te.»

«Prima di venirsene a vivere presso di noi, il suo sovrano gli aveva assegnato nella reggia una stanza, dove potere trascorrere le sue giornate, non essendoci nessuno che si prendesse cura di lui e lo conducesse fuori di tanto in tanto a prendere una boccata d’aria. Così, adesso che il campo dei ribelli non esiste più, egli mi ha chiesto di ritornare ad abitare lo stesso luogo, poiché non gli farebbe piacere andarsene a vivere a Casunna, presso la reggia del re Raco. Quindi, quale risposta dovrò dargli? Ti ricordo che tuo figlio Iveonte, nella sua infinita bontà d’animo, avrebbe accolto la sua richiesta.»

«Per il momento, Lucebio, essendo il sovrano di Dorinda, decido io in merito. Perciò non sono disposto a dare ospitalità proprio nella mia reggia a colui che per molti anni non ha fatto altro che perseguitare la mia gente, facendola soffrire moltissimo. Già è troppo che non lo condanno alla pena capitale e gli consento di andarsene a vivere nella sua Casunna. Anzi, non permetterò neppure a parte dei miei soldati di accompagnarlo in quella città. Ecco quanto Croscione si merita, per la sua cattiveria dimostrata verso il mio popolo, intanto che la mia consorte ed io marcivamo in una prigione!»

«Sei sicuro, amico mio, che non ci vuoi ripensare? Nessun perdono riesce a nascere in te verso di lui, pur tenendo presente che tuo figlio Iveonte lo ha già perdonato, avendo creduto nella sua attuale buonafede? Anch’io sarei contento, se da parte tua ci fosse un atto di clemenza verso colui che si è pentito del suo infame passato ed abbracciò lealmente la nostra causa, cercando in tutti i modi di darci degli ottimi consigli, pur di tirarci fuori dalle nostre difficoltà.»

«Così ho deciso, Lucebio, e così dovrà essere! Al massimo gli consento di rimanere nella mia città, nel caso che ci sia qualcuno a badare alla sua vita, visto che il suo stato di cecità gli crea non pochi problemi. Quando poi sul trono di Dorinda ci sarà il mio Iveonte, deciderà lui quale nuova sistemazione vorrà assegnargli. Adesso però, amico mio, riaccompagnami dalla mia consorte, poiché comincio a non sopportare più il non averla accanto. Quando sono vicino a lei, i miei acciacchi vengono avvertiti di meno dal mio organismo.»

Nel pomeriggio di quello stesso giorno, Lucebio si era rincontrato con l’ex consigliere del defunto re Cotuldo e gli aveva chiarito:

«Mio caro Croscione, in mattinata ho parlato al mio amico re della tua situazione per una tua sistemazione nella reggia, proponendogli quella che già ti aveva assegnata il tuo sovrano. Ma egli non ne ha voluto sapere, dichiarandomi che non darà mai ospitalità all’uomo che in passato è stato inflessibile verso il suo popolo, maltrattandolo nel peggiore dei modi. Pur facendogli presente che il figlio Iveonte ti aveva già perdonato, lo stesso è rimasto irremovibile nella sua decisione. Secondo lui, già ti concede abbastanza, se ti evita la condanna a morte e ti lascia vivere in Dorinda. In seguito ci penserà suo figlio a sistemarti nel luogo che egli sceglierà per te.»

«Capisco il re Cloronte, mio caro Lucebio. Ma come farò io a vivere da solo in Dorinda, senza avere una casa dove abitare e qualcuno che mi accudisca? Io ho bisogno di una persona pia che badi a me!»

«Questo è senz’altro vero, Croscione. Perciò non ti si può abbandonare in balia della tua cecità. Comunque, ti prometto che entro domani riuscirò a trovare un rimedio alla tua infelice situazione. Esso ti risulterà anche migliore di quella che sarebbe dovuta essere per te una emarginazione nell’angusta stanzetta della reggia.»

«Ti ringrazio, Lucebio. Forse immagino pure il posto dove hai deciso di portarmi a vivere. Ebbene, nel palazzo del tuo amico Sosimo, il quale abbonda di generosità, mi sentirei più a mio agio, essendoci già vissuto per breve tempo. Nella sua casa mi sono trovato molto bene. Oppure mi sono sbaglio a pensare a lui?»

«È proprio lì che ho pensato di sistemarti, Croscione, anche se dovrà esserci ancora l’approvazione del mio amico. Ma sono sicuro che egli, memore di quanto allora facesti per la sua famiglia, sottraendola alle grinfie del re Cotuldo, ti accetterà volentieri nella sua casa. Quindi, domani stesso andrò a parlargli del tuo caso.»

Come aveva immaginato Lucebio, il suo amico Sosimo aveva accettato di buon grado di ospitare Crocione nella sua casa, anche perché intendeva disobbligarsi con lui di quanto egli aveva fatto per la sua famiglia, evitando ad essa di trovarsi in cattive acque. Ciò era avvenuto, quando lo stalliere Comun aveva denunciato l’intera sua famiglia come ribelli e i soldati erano già sul punto di arrestarli tutti.