471°-NEL FRATTEMPO COS’ERA ACCADUTO NELLA BERIESKANIA?

Avendo ricevuto il comando dell’esercito beriesko dal nipote Leruob, l’anziano Allemb, che era il dodicesimo figlio di Nurdok, il vecchissimo superum della Berieskania, senza perdere tempo si era messo in marcia verso la sua remota regione. Il cammino di ritorno, allo stesso modo di quello dell’andata, aveva costretto i soldati ad andare incontro ad infinite traversie. Ma quando l’esercito si trovava a due terzi del percorso, a Geput stavano accadendo fatti alquanto spiacevoli, che adesso ci diamo a conoscere, per dovere di cronaca.

In precedenza abbiamo appreso che il luogo di venerazione dedicato al dio Mainanun si trovava nella regione della Sandar, a dieci miglia da Geput. Esso era il loro santuario di culto e di preghiere, oltre che meta di pellegrinaggio, da parte delle quattro tribù che appartenevano alla Berieskania. Si trattava di un antro alquanto ampio e capiente, il quale veniva illuminato in continuazione da una ventina di fiaccole fissate sulle scarne pareti. Nella profonda caverna, si trovava l’altare dei sacrifici, sul quale ogni dieci giorni i Berieski immolavano al loro dio protettore una giovenca ed un agnello, allo scopo di propiziarselo e di riceverne infinite grazie. Dietro l’ara, ad un metro di distanza, si scorgeva un cippo di dura roccia alto due metri, che sosteneva un vaso emisferico di terracotta. In esso non smetteva mai di agitarsi una grossa lingua di fuoco, la quale, secondo il popolo beriesko, non poteva essere che la manifestazione concreta dei diversi moti d’animo della loro divinità. Inoltre, esso era convinto che la rossastra e volubile fiamma veniva alimentata direttamente dal dio Mainanun. All’interno del sobrio tempio, non essendoci bisogno di alimentare la divina fiamma, a prendersi cura delle altre cose c’erano undici sacerdotesse. La più anziana di loro era detta Somma Sacerdotessa, alla quale spettava officiare i vari sacrifici. Comunque, ella era coadiuvata dalle altre consorelle, che prendevano posto cinque per ciascun lato dell’altare. Il loro compito era quello di darsi con grazia a dei volteggi stupendi, intanto che indossavano dei veli policromi e trasparenti, che ne facevano trasparire le sottostanti nudità.

Riportati alla memoria del lettore questi scarsi particolari, possiamo andare avanti a raccontare i fatti che erano accaduti nella remota Berieskania, mentre l’esercito beriesko cercava di raggiungerla, dopo aver lasciato l’Edelcadia e adesso si stava avvicinando ad essa.

Ebbene, tre giorni prima, allo spuntare dell'alba, la Somma Sacerdotessa Demia, la quale era succeduta ad Elsena in tale importante carica, dopo essersi svegliata, si era condotta nel tempio del divino Mainanun. Quando era giunta nell'antro del dio, ella era rimasta molto sorpresa nel constatare che la sua fiamma non vi era più accesa. Invece nei giorni precedenti, mostrandosi alcune volte ondeggiante e altre volte convulsa, vi aveva continuato ad esprimere la presenza della divinità. Allora, senza perdere tempo, ne era uscita sconvolta e terrorizzata. Poco dopo, montata a cavallo, la religiosa si era diretta in direzione di Geput, che era distante dieci miglia, essendo sua intenzione mettere al corrente il suo superum del terribile evento. Giunta in presenza del più autorevole dei Berieski, la poveretta, intanto che si dava a piangere e ad urlare, aveva iniziato a riferirgli:

«Insigne Nurdok, questo è un giorno di sventura per l’intera Berieskania, siccome il dio Mainanun ci ha abbandonati di nuovo, dopo esservi ritornato per breve tempo. Sono convinta che il suo abbandono ci preannuncia che le più grandi sventure sono dietro l’angolo per tutti noi Berieski. Il guaio è che, non sapendo noi come placare la sua collera, ci troviamo nella brutta situazione di non poterle eludere!»

«Vuoi mettermi al corrente, Demia, di come sei venuta a conoscenza di ciò che mi hai appena riferito? Dimmi però ogni cosa con calma, perché la mia tarda età mi fa avere difficoltà a seguirti.»

«Stamani, nella mia solita visita al tempio, ho scoperto che la fiamma del nostro dio era spenta del tutto, per cui aveva cessato di manifestarci gli stati d’animo che ci provengono da lui. Adesso puoi comprendere perché sono disperata e preoccupata a non dirsi.»

«Come fai, sacerdotessa Demia, ad essere certa che lo spegnimento della fiamma è stato provocato dal fatto che il nostro dio ci ha lasciati? Al posto tuo, ci penserei un sacco di volte, prima di affermare una cosa simile! Potrebbe anche non avere una base solida tale tua affermazione, siccome tutti possiamo sbagliarci. Secondo me, non puoi asserire con certezza che lo smorzamento della divina fiamma sta ad indicare anche la sparizione del nostro dio dal sacro santuario. Per questo è immotivato il tuo nervosismo fuori luogo!»

«Al contrario di te, capo supremo della Berieskania, io ne sono persuasa al di là di ogni ragionevole dubbio, visto che considero una prova inconfutabile la spenta fiamma, la quale manifestava la presenza del dio in mezzo a noi, pronto ad elargirci ogni tipo di dono.»

«Hai forse dimenticato, reverenda religiosa, che la tua ex superiora, che era anche una mia parente, affermò la stessa cosa, quando in altra circostanza la medesima fiamma ebbe ancora a smorzarsi? Eppure, il dio Mainanun l’anno successivo fece la sua ricomparsa, contrariamente a ciò che ella aveva temuto. Questo dovrebbe convincerti che anche il tuo cervello sta prendendo lucciole per lanterne, esagerando nella valutazione dell’evento! Perciò bisogna solo attendere il suo nuovo ritorno.»

«Invece, saggio Nurdok, pure allora la consorella Elsena non si sbagliava per niente. Quanto al rientro della nostra divinità nel suo tempio, che ci fu circa dodici mesi dopo, esso avvenne, solo grazie al sacrificio della tua parente. Ella s’immolò al dio perché egli non abbandonasse il nostro popolo beriesko e facesse il suo ritorno alla sua dimora terrena.»

«Se vuoi pensarla in questo modo, Demia, sei libera di farlo. Ma non attenderti da me un uguale atteggiamento. Anzi, non mi sento affatto di crearmi dei problemi simili, visto che i miei centoquattro anni già me ne procurano abbastanza. La mia debolezza organica e la mia vista appannata rappresentano per me già di per sé delle molestie intollerabili. Perciò la mia tardissima età mi porta soltanto a pensare che presto la morte mi farà la sua visita e mi avvolgerà nel suo manto nero, privandomi dei miei sensi vitali. Perciò ti conviene lasciarmi in pace, senza che altre preoccupazioni vengano ad assillarmi in questa mia tarda età!»

«Possibile, mio superum, che non ti dai pensiero di ciò che potrebbe capitarci, a causa dell’abbandono da parte del nostro divino protettore, che è il dio dei venti? A confronto delle sventure immani che ci potranno derivarci, la tua morte risulta ben poca cosa. Dovresti saperlo!»

«È pacifico pensare che la mia morte sia vicina. Ma ti assicuro, Demia, che voi tutti che mi sopravvivrete non andrete incontro a nessuna calamità perniciosa, da parte di qualche divinità malefica. Anzi, in quel caso non sarà la nostra divinità a proteggerci da essa. Ne sono certo!»

«Ma che dici mai, illustre Nurdok? Se lo vuoi sapere, considero una bestemmia quanto hai appena dichiarato! Chi, se non il divino Mainanun, potrebbe correre in nostra difesa, qualora ci trovassimo nella sventura di venire attaccati da qualche divinità malefica?»

«Come già lo feci presente alla mia cugina Elsena, colui che ci potrebbe difendere da tale divinità sarebbe soltanto mio nipote Iveonte, il figlio della mia ultimogenita Elinnia. La quale andò in sposa al re Cloronte, il sovrano della più potente città dell’Edelcadia, ossia Dorinda. Per questo, attuale Somma Sacerdotessa, dovresti fare a meno di preoccuparti, nel caso che qualche divinità malefica, più potente anche del nostro dio Mainanun, tentasse di arrecarci del male.»

«Perché dovrei crederti, eccellente Nurdok, se questo tuo nipote, di nome Iveonte è un essere mortale? Da quando in qua, un uomo dovrebbe dimostrarsi più in gamba di una divinità, specialmente poi se ci riferiamo al nostro divino Mainanun, che è un dio molto potente?»

«Ragioni così, religiosa Demia, poiché non ti ho riferito che mio nipote gode della simpatia e della protezione delle due divinità benefiche più potenti dell’universo, che gli permettono di fare anche dei prodigi. Lo mettono in grado perfino di affrontare le divinità malefiche e di sconfiggerle. Adesso ti sei convinta anche tu che io non ti sto mica raccontando cose campate in aria? Quindi, ti conviene avere la massima fiducia in me. In questo modo, farai sparire in te ogni timore e ti riapproprierai della tua calma. Allora mi dai retta?»

«Prima di esprimermi in tal senso, insuperabile Nurdok, voglio sapere da te se la tua illustre parente credette alle tue parole, quando le rendesti note le stesse cose che hai detto a me. Comunque, da come ella si comportò dopo, sono propensa a credere che ella allora non ti diede ascolto. Me lo puoi confermare tu stesso.»

«Infatti, rispettabile religiosa, non ti sei sbagliata a pensarla così. Elsena ritenne sacrileghe le mie affermazioni, per cui la fecero scappare via disorientata, ma con il fermo proposito di attuare quanto si era messa in testa in quello stesso giorno. Dopo ebbi una gran pena per la sventurata, la quale si era sacrificata al suo dio senza batter ciglio.»

«Allora, stimatissimo Nurdok, perché vorresti che io non seguissi l’esempio della mia prestigiosa consorella di un tempo? Anzi, sarò ancora più rigorosa di lei, se ci tieni a saperlo, in modo che la nostra somma divinità apprezzi al massimo il mio gesto e si decida a tornare fra noi!»

«Non comprendo il senso delle tue parole, reverenda religiosa. Per favore, vorresti spiegarmi meglio ciò che intendi fare nella situazione che oggi ci si presenta? Se la mia interpretazione delle tue parole è esatta, saresti capace di essere più folle della mia defunta parente. Non è vero che hai posto mente a qualcosa di terribilmente irreparabile?»

«Invece non ti rendo noto, eroico Nurdok, ciò che ho stabilito di realizzare oggi stesso; ma stanne certo che ne verrai a conoscenza molto presto. Ti faccio solenne promessa!»

«Se vuoi pensarla così, devota religiosa, rispetto la tua decisione. Ma spero che le tue parole non nascondano qualcosa di tragico, poiché non avrebbe senso. A questo punto, però, dobbiamo lasciarci, siccome la stanchezza ha cominciato a tiranneggiarmi nuovamente.»

Dopo tale intervento di Nurdok, il quale con esso l’aveva anche congedata, la Somma Sacerdotessa non aveva osato dire altro. Perciò aveva lasciato la dimora del superum e si era diretta al sacro tempio. Giunto nelle sue vicinanze, ella aveva radunato le dieci sacerdotesse sue coadiuvanti e si era data ad esprimersi a tutte loro con le seguenti parole:

«Mie carissime consorelle, mie subalterne, sto ritornando dal nostro egregio superum, al quale ho fatto presente che si è spenta in modo inatteso la fiamma che veniva alimentata dalla presenza nel tempio del nostro divino Mainanun. Gli ho anche chiarito che ciò può essere dipeso unicamente dall’abbandono della nostra divinità della sua sacra dimora, lasciandoci privi della sua protezione. Ma egli è stato di tutt’altro parere, circa lo spegnimento del sacro fuoco e non ha voluto affatto credere che qualcosa di terribile stia per colpire il nostro popolo, magari proveniente da una divinità malefica con poteri superiori ai suoi. Inoltre, quasi con atteggiamento blasfemo, mi ha assicurato che, nel caso dovesse accadere un fatto del genere, ci penserebbe suo nipote Iveonte a difenderci da essa, essendo egli in grado di farlo più del nostro eccelso dio del vento. Ma noi non saremo mai d’accordo con le sue empie affermazioni e ci comporteremo di conseguenza. Non siete forse d’accordo?»

«Non pensi, nostra reverendissima superiora,» le aveva obiettato la consorella Ganel «che sia il nostro capo supremo ad essere nel giusto e non tu? Inoltre, hai omesso di esplicitarci il senso della tua ultima frase, secondo la quale dovremmo agire come reazione alla sua posizione presa, in merito alla sparizione della divina fiamma.»

«Possibile, consorella Ganel, che osi parteggiare per il superum, anziché uniformarti al mio pensiero, che è il solo ad essere nel giusto, poiché è a favore della nostra somma divinità? Sbagli a non perorare la mia fervente fede nel nostro divino Mainanun. Perciò t’invito a fare ammenda della tua colpa, perché egli ti perdoni e ti faccia seguire la retta via.»

«In verità, Somma Sacerdotessa, non oserei mai mettere in dubbio il tuo pensiero, che propende per la sparizione del nostro dio dal suo sacro antro. Volevo solo porti davanti all’ipotesi che il nostro superum potesse avere ragione; ma solo in riferimento alla sua incredulità manifestata, dopo la tua asserzione secondo la quale la nostra divinità ci aveva abbandonati. Fatto quindi tale chiarimento, ritorno a chiederti come vorresti risolvere il nostro problema attinente all’abbandono da parte del dio Mainanun. Sono certa che pure le altre consorelle vorrebbero saperlo, dal momento che lo leggo chiaramente sui loro volti.»

«Sorvolando sul primo tasto della questione, il quale è quello che mi ha messo in contrasto con il nostro illustre superum, mia cara consorella Ganel, che sei anche la mia vicaria, adesso passo immediatamente a spiegare a te e alle altre consorelle cosa intendo farvi attuare, allo scopo d’indurre la nostra divinità a ripensarci e a fare ritorno tra i Berieski. Andando sulla falsariga della nostra ex Somma Sacerdotessa, dovremo ricorrere pure noi all’immolazione. Questa volta, però, dovrà esserci il sacrificio al nostro dio del vento non solo mio, ma dell’intera nostra comunità religiosa, ossia dovranno esserci undici immolazioni in piena regola. Esse dovranno servire a farlo impietosire e a spingerlo a cambiare idea nei nostri confronti.»

«Non credi, nostra superiora Demia, che debba essere il nostro concistoro ad esprimersi su una decisione di tale rilevanza, anche perché è in gioco il sacrificio di tutte noi? A mio avviso, nonostante tu sia la Somma Sacerdotessa, non puoi decidere da sola su una questione, la quale ha come obiettivo il nostro suicidio in massa.»

«Forse hai ragione, Ganel, considerato che mi sono spinta fin dove non dovevo, facendo a meno del vostro parere. Vorrà dire che lo faccio adesso, mettendo ai voti la mia iniziativa, che mira al rientro nel suo tempio della nostra eminente divinità. Perciò invito ad alzare la mano quelle consorelle che sono d’accordo con la mia decisione.»

Non c’era stata neppure una religiosa subalterna che aveva osato non alzare la mano. Probabilmente, a fare agire così ciascuna di loro, era stata la sua fede oppure il timore di mettersi contro la propria superiora. Perciò quanto stabilito dalla Somma Sacerdotessa era stato approvato a unanimità. Subito dopo, ad ogni modo, la sua vicaria era ancora intervenuta a farle la seguente domanda:

«Adesso che la tua lodevole iniziativa è stata avallata pure dal nostro consenso, reverenda Demia, vorremmo conoscere come dovrà avvenire il nostro sacrificio. Ci sarà un unico rogo per tutte noi oppure ciascuna avrà il proprio su cui immolarsi, pienamente convinta, al dio Mainanun?»

«Invece, Ganel, ci sarà un’unica pira collettiva, poiché in questo modo attireremo maggiormente l’attenzione della nostra divinità e la indurremo ad impietosirsi e a rientrare nel suo tempio, dove ogni giorno lo abbiamo sempre servito, inneggiando alla sua gloria. Quindi, diamoci da fare a procurarci il materiale che ci occorrerà per formare la grande catasta di legna, come tronchi, fascine e paglia. Dopo ci sistemeremo sopra di essa, prima d’incendiarla e di farci bruciare dalle volubili fiamme. È necessario che ogni cosa si trovi preparata, quando l’imbrunire sarà al suo inizio e le tenebre saranno prossime ad arrivare. In quell’ora del giorno, le vampe dell’incendio s’innalzeranno enormi verso il cielo e verranno scorte dal dio Mainanun. Così lo metteremo al corrente della nostra devota immolazione e gli faremo fare ritorno nel suo tempio.»

Quando il rogo era stato approntato, secondo le indicazioni della Somma Sacerdotessa, la quale lo aveva voluto di forma quadrata e con i lati lunghi sette metri, il morente giorno si avviava ormai alla sua fine. Allora la superiora Demia, appoggiata ad uno dei fianchi della massa di legna una scala con pochi pioli, aveva invitato le consorelle sue subalterne a salire sopra la grande pira e a trovarvi posto in posizione prona. Ella, reggendo parecchi legacci di pelle, le aveva seguite poco dopo e si era data a fare loro il seguente discorso: “Mie care consorelle, la paura del fuoco e le scottature iniziali potrebbero spingervi a saltare giù dal rogo e a sfuggire alle lingue di fuoco, arrecando una imperdonabile offesa alla nostra divinità. Perciò, ad evitare che ciò avvenga, vi legherò i polsi e le caviglie; così non vi permetterò di cedere a tali tentazioni. Solamente dopo, scenderò dalla pira, appiccherò il fuoco tutt’intorno ad essa e vi salirò di nuovo, perché affronti insieme a voi il supremo sacrificio. Ora consentitemi di portare a termine quest’ultimo lavoro, il quale vi sarà molto utile per affrontare a fronte alta la vostra immolazione.”

Le dieci religiose sue subalterne avevano acconsentito che la loro superiora legasse ad ognuna di loro mani e piedi, magari serbando nel loro animo amareggiato una occulta protesta. Allora ella, dopo avere eseguito il lavoro di legatura, si era affrettata a ridiscendere dal rogo e a dare alle fiamme la sua intera parte laterale. Di lì a poco, prima che le fiamme potessero vietarglielo, non aveva perso tempo a salirvi di nuovo sopra e ad unirsi alle altre consorelle, perché affrontassero insieme il progettato sacrificio con la massima devozione. Negli istanti stessi che il fuoco divampava furioso e minacciava d’invadere a momenti la totale massa lignea, le undici sacerdotesse si erano messe ad invocare il loro dio, che era il protettore della Berieskania, con queste sentite parole: “Dio Mainanun, accogli la supplica delle tue fedeli religiose, le quali si stanno immolando, esclusivamente perché tu ci ripensi e ritorni ad abitare nel tuo tempio. Allora vi farai brillare la tua fiamma sfavillante più luminosa di questo falò, che è prossimo a bruciarci vive. Noi ci immoliamo in tuo onore, con la speranza che la nostra immolazione ti spinga a redimere l’intero nostro popolo e ad onorarlo con la tua presenza.”

Quando infine l’invocazione era terminata, il fumo aveva invaso ogni angolo dell’immensa catasta di legna. Ma le fiamme non lo avevano lasciato andare da solo sulla sua parte superiore perché lo avevano seguito a breve distanza di tempo. A quel punto, le religiose poverette avevano smesso i loro continui accessi di tosse ed avevano iniziato ad emettere urla di dolore terebrante, fino a quando non era sopravvenuta la morte.

La mattina seguente erano giunti nei pressi del tempio di Mainanun i due figli più anziani di Nurdok con un piccolo drappello. Essi, che erano il primogenito Feron e il secondogenito Sultek, vi erano stati inviati dal padre, avendo presentito qualcosa di tragico dalle parole della nuova Somma Sacerdotessa. Ad ogni modo, la sua preoccupazione era stata soltanto nei confronti di colei che aveva sostituito la defunta parente Elsena, ma non anche verso le restanti religiose. Ebbene, una volta in prossimità del sacro antro, all’istante quanti vi erano pervenuti si erano resi conto dell’immane tragedia, che si era consumata in quel luogo. A quel macabro spettacolo, che si era presentato ai loro occhi terribile ed agghiacciante, in un primo momento essi si erano sentiti mancare il respiro; ma poi avevano badato a recuperare i loro resti mortali e a portarseli a Geput. Nel loro borgo, c’era stato così in onore delle undici derelitte una solenne cerimonia funebre e si era permesso alle loro spoglie ridotte in ceneri d’intraprendere il loro ultimo viaggio verso il regno dello spirito. Ma perché esso avvenisse, era stato necessario chiuderle in una cassa di legno incatramata ed abbandonarle alla corrente del Sundro, che era il loro fiume sacro che sfociava in mare aperto.

Il suicidio collettivo delle sacerdotesse del dio Mainanun, sebbene egli non lo avesse approvato per averlo considerato inutile e folle, ugualmente aveva addolorato Nurdok, che in quel momento si ritrovava ad essere una vecchia quercia prossima ad essere abbattuta dalle forze tempestose della natura. Infatti, la sua decrepita esistenza faceva fatica a giostrarsela come gli riusciva in modo eccellente da giovane. Naturalmente, ci si riferiva sia al suo fisico che al suo animo, essendo l’uno e l’altro oramai impossibilitati a reggere alle calamità più disastrose provenienti dagli elementi naturali e dalle tristi vicende umane.


Erano trascorsi una decina di giorni da quando era avvenuto il sacrificio delle undici religiose del dio Mainanun. A causa del quale, nel borgo di Geput alcune persone continuavano a rattristarsi e a piangersi il loro suicidio, fra cui era compreso anche il Superum della Berieskania. Costui, in verità, a differenza degli altri Berieski, anziché darsi al dolore e al pianto, si era fatto immergere dalla tristezza in una profonda meditazione, il cui argomento aveva riguardato il destino degli uomini, che era diverso per ognuno di loro. Infatti, come a tutti era noto, la loro nascita non riservava ai nuovi esseri viventi la medesima esistenza: essi sarebbero vissuti alcuni nell’agiatezza o nella povertà, altri nella gloria o nell’abiezione, altri ancora nella salute o nella malattia. C’erano solo pochi casi singoli, i quali facevano rifulgere le vite di alcuni personaggi di eroismo o di grandezza spirituale; ma non mancavano quelli che infangavano la loro esistenza con turpi azioni.

Un giorno Nurdok stava navigando in una delle sue solite meditazioni, allorquando era stato raggiunto dal suo ottavo figlio, il quale si era dato a parlargli in questa maniera:

«Padre, la nostra famiglia è stata colpita da una grande sciagura, la quale non ci sarebbe proprio voluta. Essa, quando ne verrai a conoscenza, ti risulterà talmente terribile, che temo perfino che potresti morirne dal dolore. Perciò non so come comunicartela.»

«Ti decidi, Celton, a dirmi ciò che sei venuto a riferirmi? Facendo così, ossia annunciandomi disgrazie che poi non mi sveli, mi fai solo innervosire. Allora vuoi raccontarmi, figlio, di cosa si tratta? Inoltre, non azzardarti più a dirmi che non riuscirei a reggere alla notizia di una sciagura che si è abbattuta sul nostro casato! Adesso, quindi, affréttati a mettermi al corrente della calamità, che qualche mio discendente ha avuto la sfortuna di subire.»

«Durante il temporale di stamattina, padre, una folgore ha colpito la casa del nostro congiunto Pamur, quando l’intera famiglia era riparata all’interno di essa. Nessuno era assente da casa, per cui insieme con lui sono rimasti uccisi la moglie Selan, i figli Marsek, Ceduon, Sistrus e Arcupes, nonché le figlie Loifen e Korpel. Di conseguenza, sono tutti morti, essendo stati fulminati dalle scariche terrificanti, le quali hanno perfino bruciata la loro abitazione. Non sei d’accordo anche tu che per noi essa rappresenta una sventura tremenda, che in futuro non facilmente riusciremo a dimenticare?»

«Poveri il mio quarto figlio e i suoi sette congiunti! Una sciagura peggiore non poteva capitargli! Il loro è stato un destino crudele ed ingiusto! Adesso non bisogna perdere tempo, Celton. Raduna al più presto gli altri tuoi fratelli e i loro figli, poiché occorre mettere a punto lo svolgimento delle esequie in onore delle sventurate vittime nostre parenti. Ti raccomando: non fate mancargli dei solenni funerali, degni del loro rango. Datene annuncio anche ai conductor della Berieskania, perché si presentino per onorare le loro salme. La cerimonia funebre dovrà esserci dopo il loro arrivo. Nel frattempo, raccoglierete le ceneri dei nostri congiunti colpiti dalla malasorte dentro una cassa di legno, che racchiuderete in una camicia di catrame. Figlio mio, non attardarti oltre presso di me, siccome dei compiti importanti attendono te e gli altri parenti!»

Allertati dal loro longevo genitore, gli altri dieci figli presenti in Geput, con la collaborazione dei loro familiari, avevano fatto in modo che i preparativi per il funerale dei loro congiunti venissero allestiti in pompa magna e fossero terminati, prima dell’arrivo dei conductor delle altre tre regioni. Essi, alla ferale notizia, immediatamente si erano messi in marcia per raggiungere il remoto borgo di Geput, scortati ognuno da un centinaio di guerrieri. Così, il giorno dopo che tuti loro vi avevano posto piede, si erano celebrati i funerali degli sventurati folgorati. Anche Nurdok, nonostante la sua tarda età che gli arrecava un sacco di acciacchi, aveva voluto prendere parte alla sacra funzione religiosa. Per il rispetto che nutriva per il loro amatissimo superum, ad essa avevano partecipato tutti gli abitanti di Geput, i quali avevano desiderato esprimergli le loro più sentite condoglianze, estendendole anche ai suoi figli e ai suoi nipoti.

Se con la fine della cerimonia funebre negli animi di quanti li avevano presenziati si era andato spegnendo ogni strascico di essa, compreso il dolore e l’amarezza che li avevano pervasi, come di solito avviene, per il costernato Nurdok il risultato era stato diverso. In lui, una volta venuto meno ogni strascico delle esequie, era cominciato ad aversi un vuoto incolmabile di sofferenza, la quale non smetteva di angustiarlo in modo terribile. Egli non riusciva a far svanire davanti ai suoi occhi il volto del figlio Pamur e quelli dei suoi familiari, i quali insieme gli si agitavano in una cornice di spasimi e di lividi atteggiamenti. Per cui essi gli toglievano l’appetito di giorno e il sonno di notte, trasformandogli l’esistenza in un coacervo di malesseri e d’inquietudini, i quali finivano per mordergli atrocemente la coscienza e per privarlo di ogni pacata serenità.

Allora, a causa del nuovo stato di cose che tendeva a comprimergli l’intero essere in una sfocata visione della realtà circostante, aveva cessato di esercitare ogni funzione fisiologica del suo corpo e ogni potere della sua mente, mostrandosi riluttante ad ogni cibo e ad ogni pensiero. Perciò, in capo ad un mese, essendosi ridotto ad uno stato cachettico, il suo organismo era stato abbandonato da ogni tipo di forza vitale e al suo posto si era instaurato poco alla volta il processo che lo aveva condotto tirannicamente ed irrimediabilmente alla morte.

Nurdok era deceduto nel pomeriggio di un giorno estivo, mentr’era seduto sopra il suo seggiolone. Nessuno se n’era accorto, poiché egli si trovava solo nel suo alloggio. Si era appreso il suo decesso verso sera, quando era andata a trovarlo la nipote, che ogni giorno gli portava i pasti del pranzo e della cena. Allora ella subito aveva allarmato gli altri parenti, che erano i figli e i nipoti del superum. Essi si erano dati ad adoperarsi per lui, come già avevano fatto per la sventurata famiglia del loro defunto familiare Pamur. Siccome il giorno prima si era appreso da due messaggeri che l’esercito beriesko era prossimo a rientrare dall’Edelcadia, giustamente si era deciso di attendere il suo rientro per celebrare i funerali dell’insigne uomo. In verità, si era dovuto attendere ancora dieci giorni, perché i soldati berieski giungessero a Geput. Il quale lasso di tempo aveva consentito anche ai conductor delle altre tre regioni di pervenire in tempo alle esequie del loro illustre superum.

La nuova funzione religiosa, come ci si aspettava, aveva avuto una solennità indescrivibile, essendo Nurdok la prima personalità della Berieskania e l’eroe decantato dell’esercito, non riuscendosi a pensare ad uno stratega che fosse superiore a lui. L’intero popolo di Geput, commosso ed afflitto, si era dato a piangerselo con l’animo immerso nel più grande cordoglio. Invece, affranti dal sommo dispiacere, lo avevano pianto di più gli undici figli e i sessantasei nipoti presenti, che non avevano smesso di versare per lui infinite lacrime amare. L’esercito aveva voluto formare, lateralmente alla via che conduceva al Sundro, due file lunghissime, le quali partivano dal borgo di Geput e giungevano fino alla riva orientale del sacro fiume. Così i soldati lo avevano venerato lungo tutto il percorso, mentre sul carro funebre si lasciava condurre da una coppia di due splendidi cavalli neri, la cui testa era ornata con uno stupendo cimiero rosa. In verità, per chi, se non per lui, si poteva avere una tale premura e si poteva dimostrare un sentimento di così profondo ossequio? Perciò al leggendario stratega e all’invincibile condottiero di eserciti, che aveva rappresentato per il popolo beriesko la somma moralità, la somma giustizia e la somma perizia in campo militare, unanime si levò da esso un fervore di ammirazione e di esaltazione, desideroso di esprimergli il massimo rispetto. Nessuno avrebbe potuto negare che la sua esistenza ultracentenaria era riuscita a coronarsi delle migliori virtù, quelle che non avevano mai smesso di renderlo l’uomo più retto e più ineccepibile, quanto a moralità e all’alto senso del dovere. Inoltre, egli era stato un cultore di virtù militari, che ne avevano fatto l’eroe che si era ritrovato ad essere, finché la morte non lo aveva raggiunto.