468°-LA VITA DI RUTOS SUL PROPRIO PIANETA TERTUN

Rutos era nato trentadue anni prima in una zona boschiva, che era situata a venti miglia dalla sua città. I suoi genitori, che lo avevano allevato fino all’età di cinque anni, erano stati Tuop, il padre, e Suem, la madre. I poveretti erano stati trucidati da una banda di malviventi, i quali avevano risparmiato il loro unico figlio di cinque anni, ma solo allo scopo di venderlo al mercato degli schiavi di Navel, poiché volevano ricavare dalla sua vendita un congruo guadagno. In quel luogo, i suoi acquirenti erano stati due coniugi di passaggio in quella città, entrambi quarantenni, i cui nomi erano Vuan, quello del marito, e Luet, quello della moglie. In passato, l’uno e l’altra erano vissuti a Guzen. Ma dopo il loro matrimonio, essi avevano lasciato la loro città per andarsene a vivere tra i monti, che si elevavano a nord di essa. Eppure l’uomo, dieci anni prima, aveva aperto in Guzen una rinomata scuola d’armi e di arti marziali, essendo un eccellente maestro nell’impartire le sue lezioni nei due generi di combattimento. Per questo l’abbandono della propria città natale era avvenuto con un certo rimpianto. Tale sua decisione c’era stata esclusivamente per accontentare la moglie. La quale, dopo la tragica morte del loro figlioletto, che era stato travolto da un carro, aveva preso in odio la vita cittadina. Ma per loro sfortuna, in seguito Vuan e Luet non erano riusciti ad avere altri figli.

La matura coppia aveva acquistato il bambino cinquenne non per crescerlo come schiavo, ma per adottarlo come loro figlio, dovendo egli sostituire quello perito nel mortale incidente, il cui nome era Supus. In un primo momento, perciò, la moglie avrebbe voluto che il nuovo bambino entrato a far parte della famiglia prendesse il nome del loro figlio morto. Invece Vuan l’aveva convinta a non cambiare il nome al loro figlio adottivo, siccome egli si era già abituato ad essere chiamato con il nome che gli avevano dato i suoi genitori naturali. Esso, oltretutto, gli piaceva molto. Appresa poi da Rutos la triste sorte capitata ai suoi genitori, Vuan e Luet si erano dati ad avere cura di lui in maniera ineccepibile, essendo intenzionati a fargli dimenticare la triste esperienza passata e a farlo vivere nella massima serenità. Così, una volta ritornati nella loro casa situata tra le montagne, avevano voluto procurargli un cagnolino. Il quale avrebbe dovuto fargli da amico di gioco durante le sue giornate, quando non era impegnato a seguire le lezioni del padre adottivo. Infatti, costui, già da quando Rutos aveva appena sei anni, ossia l’anno dopo che lo avevano adottato, aveva iniziato ad esercitarlo nelle arti marziali, rimandando invece la sua esercitazione nell’uso delle armi ad una età maggiore, cioè nella sua adolescenza.

Il piccolo allievo aveva quattordici anni, quando un mattino Vuan aveva deciso d’impegnarlo per l’ennesima volta nell’apprendimento delle arti marziali, le quali quel giorno prevedevano l’uso delle aste. Mentre così lo faceva esercitare, era successo che un proprio colpo per errore aveva investito appieno il braccio di Rutos. Allora, prevedendo la rottura del radio e dell’ulna, visto che il ragazzo aveva cercato di pararlo con l’avambraccio destro, egli se n’era preoccupato tantissimo. Invece, contrariamente alle sue previsioni, ambedue gli ossi, sebbene non fossero ancora del tutto cresciuti, erano rimasti illesi. Comunque, Rutos, al forte colpo ricevuto, non aveva accusato il benché minimo dolore. A quello strano prodigio, Vuan, si era stupito non poco, per cui gli aveva domandato:

«Mi dici, Rutos, come mai il tuo avambraccio non si è fratturato e tu stesso non hai provato neppure un po’ di dolore, dopo aver subito il forte colpo della mia asta? Io non riesco a spiegarmelo!»

«Non te lo so dire, padre. Appena mi sono accorto che la tua asta mi stava investendo, ho desiderato che il mio braccio fosse di ferro. Così, al mio desiderio, il colpo mi si è fatto avvertire, come se fossero stati dei fili d’erba a colpirlo; però non mi è sfuggito il sordo rumore metallico provocato dalla tua asta nell’abbattersi sul mio arto.»

«Ehi, Rutos, non mi stai mica prendendo in giro? Non è possibile che sia avvenuto quanto hai voluto farmi credere! Non sei mica diventato un mago, già alla tua tenera età? Sappi che non me la dai a bere!»

«Io non voglio farti credere un bel niente, padre mio. Ho soltanto risposto alla tua domanda, riferendoti ciò che realmente mi è accaduto. La cosa importante è che il mio braccio non si è rotto ed ha retto al colpo della tua asta, quasi fosse stato davvero di ferro!»

«Su questo ti do ragione, figlio mio; ma vorrei capacitarmi di come sia avvenuto un fatto del genere. Solo che, per sincerarmi come stanno realmente le cose, avrei bisogno di fare un nuovo tentativo sul tuo corpo. Rutos, tu te la senti di affrontare un’altra prova, in modo che entrambi scopriamo se ciò che ti è accaduto può ancora succederti? Sappi, però, che potresti andare incontro ad uno spiacevole inconveniente, qualora i fatti non fossero quelli che mi hai raccontati, essendo essi andati in una maniera differente. Allora facciamo questo esperimento?»

«Padre, se proprio ci tieni ad approfondire quanto mi è accaduto, non ho difficoltà ad accontentarti. Ma mi dici a quale rischio vorresti sottopormi, pur di appurare la verità su di me? Spero che esso non sia talmente pericoloso, da provocarmi la morte!»

«Ma cosa hai pensato, Rutos! In un primo momento, figlio mio, avevo deciso di colpirti una gamba con un mio dardo; invece poi, temendo di farti molto male, ho rinunciato a fare tale tentativo.»

«Quindi, padre, non dovrò più attendermi da te alcuna minaccia intenta a ferirmi? Se lo vuoi sapere, il tuo ripensamento non mi garba per nulla, siccome desideravo anch’io conoscere la verità sulla mia persona per sapermi regolare in avvenire e gestire bene la mia vita, nel caso che mi capiterà una situazione del genere.»

«Rutos, ti ho detto forse che la mia rinuncia è definitiva? Non mi sembra che mi sia espresso in questo modo! Perciò l’esperimento sul tuo corpo ci sarà, ma senza eccedere nella mia offesa su di esso. Intesi?»

«Allora mi riferisci, padre, come intendi agire contro qualche sua parte, al fine di avere risposte certe su ciò che mi è successo poco fa? Sappi che sono ansioso di apprenderlo e attendo la tua verifica!»

«Mi servirò di un aculeo di riccio, figlio, per avere la certezza che il prodigio c’è stato sul serio sulla tua persona. In quel caso, sono sicuro che esso si ripeterà. Se non mi sbaglio, in casa dovremmo averne, da quando abbiamo ucciso l’ultimo riccio. Tua madre ne fa vari usi.»

«Sono contento, babbo, che tra poco sperimenteremo se si è trattato di un prodigio del tutto casuale o se il mio corpo, in sintonia con la mia mente, reagisce ogni volta come abbiamo visto, stupendoci a non dirsi.»

Quando Vuan era venuto in possesso dell’aculeo, siccome se lo era fatto dare dalla moglie, si era messo a pungere più volte con esso le varie parti anteriori del corpo del figlio, cercando invano di perforarle. Allora si era reso conto che nell’adolescente si trattava di un portento continuativo, poiché esso si ripeteva, ogni volta che la sua mente lo invocava a difesa del corpo. Grazie al quale, esso diveniva di una durezza che, ad un tempo, non si lasciava trapassare da niente e non faceva accusare alcun dolore a chi veniva investito da colpi anche mortali. A quella scoperta, il padre e il figlio ne erano stati immensamente felici. Ma nell’adulto era sorta una piccola perplessità sul caso. Secondo lui, se ciò si verificava, quando un ipotetico pericolo si apprestava ad investire Rutos, lasciandosi avvertire da lui, cosa sarebbe successo, se esso lo avesse investito a sua insaputa? Quindi, volendo appurarlo senza equivoci, egli si apprestò a sperimentarlo; ma tenendolo nascosto al figlio. Così, rivolgendosi a lui all’improvviso, gli aveva fatto presente:

«Rutos, ti sei accorto che alle tue spalle un banco di nuvole, solcando il cielo, si sta avvicinando a noi con modesta velocità? Anzi, esso presto c’inonderà di pioggia e ci renderà entrambi zuppi!»

Alle parole del padre, il giovinetto si era affrettato a voltarsi indietro e a rendersi conto di quanto il genitore gli aveva affermato. Ma nell’esatto momento che egli si era girato a guardare la parte di cielo situata dietro di sé, Vuan gli aveva infilato sul dorso l’aculeo che ancora teneva in mano. Questa volta, però, esso gli si era infilato nelle tenere carni, dalle quali si era messo a stillare del sangue. Da parte sua, Rutos aveva emesso un grido di dolore. Dopo, voltatosi di nuovo verso il padre, gli aveva fatto presente:

«Dunque, padre, l’arrivo delle nuvole è stata tutta una tua finzione per farmi volgerti la schiena, avendo deciso di conficcarvi l’aculeo e renderti conto così se il prodigio avveniva, anche quando il pericolo mi minacciava senza che io lo prevedessi! Hai fatto bene a fare un simile esperimento. In questo modo, abbiamo appurato la verità, riguardo a ciò che mi accade, ossia che soltanto se i miei occhi avvertono il pericolo incombente, il mio corpo non viene danneggiato. Quando invece i miei occhi lo ignorano, il mio dono fortunato se ne va a farsi friggere. Comunque, è già un bene che io adesso lo sappia, perché in avvenire saprò regolarmi, quando mi troverò ad ingaggiare un combattimento!»

«Hai ragione, Rutos. Ma non dovrai preoccuparti della tua difesa, dal momento che, con le mie lezioni d’armi e di arti marziali, ti renderò un guerriero invincibile. Perciò la tua preparazione nelle une e nelle altre seguiterà ad esserci ancora per molti anni. Essa ci sarà, fino a quando non le padroneggerai egregiamente, come non saprà fare nessun altro combattente al mondo!»

Vuan aveva avuto ragione, visto che in una decina d’anni era riuscito a fare del figlio adottivo un guerriero insuperabile, facendogli raggiungere uno spirito combattentistico ineguagliabile, grazie al quale eccellevano in lui il coraggio, l’ardimento e l’eroismo. Perciò, quando aveva compiuto i suoi ventiquattro anni, Rutos si presentava atleticamente forte, combattivamente invincibile ed eccellentemente preparato in ogni tipo di lotta e nell’uso di qualunque tipo di armi. Nelle quali poteva affermarsi di aver raggiunto la quasi perfezione. Inoltre, in lui si presentava abbastanza utile l’involontario fenomeno d’invulnerabilità, il quale si verificava, ogni volta che l’arma del nemico avesse cercato di trafiggergli il corpo oppure quando qualche altro pericolo avesse tentato d’investirlo in modo mortalmente traumatico. Nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno, Rutos, mentre pranzava con i suoi genitori putativi, ad un certo punto, si era rivolto al capofamiglia e gli aveva detto:

«Padre, da quando mi hai raccontato le disgrazie dei nostri compatrioti Braki, che tuttora continuano ad essere trattati come schiavi dai Dacivi, non riesco a darmi pace. Io anelo di continuo a liberarli dalla loro attuale schiavitù. Tu che ne dici, se prendo la decisione di andare in loro aiuto? Vorrei che tu non ti opponessi ad essa!»

«Invece, figlio mio, la trovo ammirevole! Se ci tieni a saperlo, verrei anch’io con te, se mi fosse possibile. Così ti darei una mano a frantumare gli oppressori della nostra gente. Ma tu lo sai che non possiamo lasciare sola tua madre in questa casa e metterla in grave pericolo, da parte di malintenzionati occasionali. Rammenti che già i tuoi due genitori naturali furono uccisi da persone malavitose, soltanto perché i poveretti non sapevano difendersi? Perciò evitiamo di lasciare sola in casa tua madre.»

«Allora, padre, se sei anche tu d’accordo, partirò domani stesso alla volta di Guzen, dove mi darò a studiare un piano per annientare tutti i Dacivi che vi vivono da aguzzini. Ho compreso pure perché non mi accompagni per spalleggiarmi nella mia lotta, che prevedo dura e lunga. Anche a me la sua morte recherebbe un immenso dolore, se la mamma venisse uccisa da malviventi che fossero di passaggio da queste parti.»


Il giorno dopo, il giovane Rutos, alle prime luci dell’alba, salutati i suoi genitori con un caldo abbraccio, era salito in groppa al suo cavallo ed aveva preso il sentiero che conduceva a Guzen. Vi era giunto al tramonto, senza avere incontrato difficoltà ad entrarvi. Ma una volta dentro la città, si era dato a camminare tra la folla, non sapendo dove andare e chi contattare per avere notizie sui nemici navelesi. Solo dopo una mezzora di cammino, si era imbattuto in un drappello di soldati invasori. I militari, pur tra le proteste dei suoi parenti, si traevano dietro una bella fanciulla, la quale anch’ella gli si opponeva energicamente. A tale visione antipatica, il giovane era intervenuto e non aveva esitato a prendere le parti della poveretta, assalendo ed uccidendo quelli che cercavano di portarsela via. Allora, all’energica azione del prode cavaliere sconosciuto, i familiari della fanciulla non avevano perso tempo a ringraziarlo. Inoltre, un fratello di lei aveva voluto metterlo in guardia da ciò che di sicuro sarebbe avvenuto dopo. Perciò gli si era rivolto, dicendo:

«Grazie, giovane forestiero, per aver difeso mia sorella. Adesso però ti sei cacciato nei pasticci a causa sua. Ben presto i commilitoni di quelli che hai ucciso ti daranno la caccia e non ti molleranno, fino a quando non ti avranno scovato e non te l’avranno fatta pagare duramente. Nel frattempo, io consiglierei di far sparire i loro corpi in un modo qualsiasi, affinché la scoperta della loro uccisione avvenga il più tardi possibile. A proposito, il mio nome è Gìuz e quello di mia sorella è Faen. Ci piacerebbe conoscere anche il tuo, se non ti dispiace. Così dopo potremo chiamarci con i nostri nomi. Allora ci dici qual è il tuo nome?»

«Io mi chiamo Rutos, simpatico Giuz, e non sono affatto un forestiero. Io appartengo alla tua stessa gente, ma sono vissuto sempre lontano da Guzen. Ho ventiquattro anni e penso che tu e tua sorella siate miei coetanei, se gli occhi non m’ingannano. Come giustamente mi hai fatto presente, per prima cosa ci conviene occultare le salme della decina di soldati da me sterminati, prima che un’altra pattuglia dei nostri nemici si trovi a passare da queste parti e li scopra. Una volta provveduto al loro occultamento, sapete dirmi dove potrò rifugiarmi, dal momento che sono appena arrivato in città? In verità, avrei anche da riposarmi e da sfamarmi, considerato che ho viaggiato per l’intera giornata
«Stasera sarai ospitato in casa nostra, Rutos, dove, oltre a trovare riposo, mia madre baderà a prepararti anche un pasto sostanzioso. Riguardo alla nostra età, suppergiù essa si avvicina di molto alla tua. Mia sorella ha un anno più di te, mentre io domani ne compirò venticinque. Entrambi siamo nati, poco prima che mia madre diventasse vedova, a causa del tradimento operato dal re Renut contro il nostro esercito, durante il quale anche nostro padre fu ucciso durante il sonno, che i Dacivi provocarono in tutti i nostri soldati. Ma adesso mi dici, Rutos, come hai fatto a raggiungere alla tua età una preparazione d’armi, che a me è parsa un vero prodigio? Avrai avuto senz’altro un bravissimo maestro!»

«Infatti, non ti sbagli, Giuz. Mio padre, il quale mi ha preparato nell’uso delle armi e nelle arti marziali, era un esimio maestro in entrambe le discipline, facendomi diventare bravo quanto lo era lui.»

«Vorrei sapere da te, Rutos, come mai sei venuto a vivere nella nostra città, dove viviamo da schiavi, quando invece potevi startene dalle tue parti, dove il sapore della libertà ti rallegrava lo spirito e ti faceva nascere nell’animo una grande beatitudine.»

«Giuz, l’obiettivo della mia venuta in Guzen, è la liberazione di tutti i Braki dal giogo dacivino. Ma prima dovrò preparare i giovani guzenesi, molti dei quali oggigiorno sono orfani di padre, nell’uso delle armi e nelle arti marziali. Così dopo saranno pronti a combattere contro i nostri odiosi nemici. Non vedo l’ora di annientarli dal primo all’ultimo, grazie anche alla loro collaborazione. La quale mi sarà molto preziosa, dopo che essi saranno preparati egregiamente da me. Adesso conosci pure il motivo che mi ha spinto nella mia città occupata dagli stranieri!»

«Sono felice, Rutos, di quanto ti sei prefisso di fare a favore dei tuoi concittadini. A questo punto, però, occorre affrettarci a nascondere i cadaveri dei soldati uccisi e a raggiungere la mia casa, dove nostra madre sta vivendo dei momenti terribili, per avere assistito al rapimento di mia sorella Faen, avvenuto nella nostra abitazione.»

Nella traslazione delle salme dei Dacivi, avevano preso parte anche alcuni robusti giovani Braki, i quali erano presenti sul posto. Per cui l’opera del loro occultamento era avvenuta celermente. Esse erano state gettate in un precipizio profondo, che si trovava non molto lontano da quella strada in cui Rutos li aveva ammazzati come cani.

Il mattino seguente, come da istruzioni impartite da Rutos, il giovane Giuz e cinque suoi compagni già si erano dati a trasmettere la notizia a tutti i giovani della città dell’arrivo in Guzen di un formidabile campione nell’uso delle armi e nelle arti marziali. Il quale aveva deciso di mettersi a loro disposizione per esercitarli nelle une e nelle altre con l’obiettivo di farli ribellare agl’invasori Dacivi e di annientare quanti di loro risiedevano nella loro città. Così, al termine di quel segreto passaparola, l’intera gioventù maschile guzenese aveva aderito all’iniziativa dell’imbattibile campione venuto da fuori. Inoltre, in piena segretezza, da parte dei giovani Braki, si era iniziato ad esercitarsi nelle armi e nelle arti marziali. I luoghi scelti per le esercitazioni erano stati sia gli stabili cittadini abbandonati sia le macchie poco frequentate dai contadini e dai soldati intenti a perlustrare le compagne circostanti le mura.

Nel giro di un semestre, erano stati resi abili alle armi oltre tremila giovani. Per cui essi, capitanati da Rutos, avevano deciso di liberarsi dei loro invasori dacivini. Per la loro liberazione, avevano scelto una notte devastata da un terribile fortunale, quando era sembrato che si fossero aperte le cateratte del cielo, mentre il vento si era messo a frastornare ogni cosa con il suo urlio pazzesco. Era stato in quelle ore cieche, illuminate di tanto in tanto dalla livida ed accecante luce dei fulmini, che i giovani Braki si erano mossi ed erano andati alla ricerca delle case dove alloggiavano i soldati navelesi. Una volta raggiunti, essi li avevano freddati nel sonno con grande soddisfazione. Dopo aver eliminato tutti i gendarmi di guardia, erano entrati perfino nella reggia, dove avevano ucciso anche il loro viceré Tobet. Nel frattempo che la notizia della rivolta dei Braki nella loro città non aveva raggiunto Navel e il suo sovrano Renut, in Guzen si era continuato ad arruolare nel ricostituito esercito guzenese altri giovani, partendo da quelli che avevano sedici anni di età, fino ad ingrossare le sue file di altri ventimila combattenti audaci. Quelli più grandi, oltre a liberare la loro città dai nemici, erano pure desiderosi di vendicarsi dei loro genitori uccisi a tradimento.

Siccome ogni mese un migliaio di Dacivi partiva da Navel per rifornirsi di viveri nella città da loro conquistata, Rutos aveva voluto approfittare di quell’occasione per dare la prima lezione all’esercito nemico. Infatti, quando i mille soldati navelesi si erano fatti vivi con i loro numerosi carri vuoti, duemila giovani al suo comando li avevano assaliti e trafitti mortalmente con i loro archi. Dopo averli decapitati, avevano riempito i carri con i loro corpi acefali e le loro teste mozze. Infine erano stati un centinaio di loro a ricondurre i carri presso le mura di Navel, dove avevano subito ripreso il viaggio di ritorno alla loro città, per evitare la furiosa reazione dei commilitoni di coloro che erano stati da loro uccisi.

Ciò che aveva stupefatto maggiormente i giovani Braki era stato il fatto che Rutos, nel tiro con l’arco, li aveva costretti ad esercitarsi aventi come bersaglio il proprio corpo. Perciò, durante tale esercitazione, essi spesso avevano esitato ad effettuare i loro tiri mirati contro il tronco del loro maestro, temendo di fargli del male. Ma poi, vedendo che le frecce rimbalzavano a terra senza conficcarsi dentro di esso, si erano tranquillizzati ed avevano continuato a colpirlo. Naturalmente, avendo Rutos messo in mostra quella sua straordinaria prerogativa, tutti i suoi allievi si erano convinti che egli, oltre ad essere un ineguagliabile maestro, era anche invulnerabile. La qual cosa li aveva spronati a seguirlo fino in fondo in quell’impresa, che aveva come obiettivi la liberazione del loro popolo dai Dacivi e il proposito di vendicarsi della morte delle migliaia dei loro genitori vilmente assassinati dagli stessi. In tal modo, quando in seguito il sovrano di Navel per ritorsione aveva ordinato una severa punizione contro gli uccisori dei suoi uomini addetti all’accaparramento dei viveri presso i Braki, costoro si erano fatti trovare già pronti prima nella loro reazione ad essa e poi nella loro controffensiva contro i nemici. I quali non se la sarebbero mai aspettata un’impresa del genere da parte dei loro oppressi, che essi erano abituati a trattare come schiavi.

Nella battaglia, che aveva avuto luogo un paio di mesi dopo, l’esercito brakese aveva ottenuto una completa vittoria, grazie anche alle ottime qualità di stratega del loro comandante Rutos. Egli, infatti, aveva attirato i nemici in un avvallamento, il quale presentava piccole alture laterali, sulle cui cime erano stati appostati gli uomini di Guzen di età superiore ai cinquantacinque anni. A loro era assegnato il compito di lanciare conto i soldati dacivini nuvoli di frecce e di gettare contro gli stessi macigni di varie grandezze; ma soltanto dopo che essi fossero stati attratti in quel luogo di combattimento. In verità, si era trattato di un fondovalle senza uscita, scelto da Rutos come loro campo di battaglia. La sua strategia era stata quella che ora viene riportata. Innanzitutto aveva sistemato gli ultracinquantacinquenni sulle alture laterali di quella piana ristretta, che non aveva sbocco. In seguito, dei ventimila giovani guzenesi che erano al suo comando, ne aveva posto la metà sotto il comando di Giuz. Egli avrebbe dovuto tenerli nascosti al nemico in arrivo e li avrebbe fatti intervenire contro di esso, non appena fosse entrato interamente nel fondovalle, intanto che inseguiva i loro commilitoni guidati dal loro comandante. Difatti, dopo essersi trovato di fronte al grosso dell’esercito dacivino, Rutos con i suoi combattenti avrebbe dovuto fingere una fuga verso il vallone e vi si sarebbe dovuto rifugiare, essendo sicuro che il nemico si sarebbe dato ad inseguirli. Ma una volta raggiunto il fondo della piccola piana chiusa, i Braki avrebbero dovuto attendere i Dacivi, che erano desiderosi di sterminarli, ed accendere così il sanguinoso conflitto. Comunque, esso era previsto, solo dopo che i nemici fossero stati decimati dai Braki appostati sulle alture circostanti. Nel frattempo, però, sarebbero intervenuti anche gli uomini comandati da Giuz, i quali avrebbero completato l’imbottigliamento a danno dei Navelesi. Allora costoro, venendo assaliti da più parti, non avrebbero avuto scampo e sarebbero stati totalmente annientati con la gioia del popolo brakese.

Le operazioni di guerra si erano svolte esattamente come aveva pianificato Rutos, per cui l’esercito guzenese aveva ottenuto pieno successo dalla battaglia campale, riscuotendo il meritato trionfo. Esso, infatti, aveva anche permesso ai Braki di vendicarsi degli assassini dei loro genitori. Quanto alla città di Navel, Rutos, che il popolo aveva voluto nominare nuovo re di Guzen, aveva evitato di farla mettere a ferro e a fuoco. Invece aveva preferito che i suoi abitanti non venissero tartassati dal suo popolo e cominciassero a vedersela da soli nella gestione del loro governo e della loro sopravvivenza, a patto che si disfacessero del loro re Renut, in qualsiasi modo avessero voluto.

Dopo essere stato incoronato sovrano di Guzen, Rutos aveva stabilito di sposare la sorella dell’ex re Tamed, che era stato ucciso dai soldati dacivini tanti anni addietro, il cui nome era Esen. In occasione del loro matrimonio, nella loro città c’erano stati dieci giorni di solenni festeggiamenti. Ai quali l’intera cittadinanza era stata ben lieta di partecipare, siccome c’erano da consumare ettolitri di vino e pietanze succulente a non finire per tutto il periodo di festa. Anzi, nessun cittadino aveva osato declinare il festoso invito del loro benamato sovrano.