467-RAPPORTI TESI DA SECOLI TRA I BRAKI E I DACIVI

L'eroico Rutos era vissuto quattro secoli prima sul pianeta Tertun, che orbitava intorno alla stella Fares, la quale si trovava nella galassia di Varuz. Insieme con esso, descrivevano le loro orbite intorno alla medesima stella altri due pianeti, i quali, rispetto a Tertun, erano da considerarsi entrambi più piccoli e più lontani da essa. Si trattava dei seguenti corpi planetari: Paeb, che era il meno distante dalla stella, e Oltup, quello che distava di più dal suo sole. I Tertunidi costituivano una razza con le seguenti caratteristiche fisiche: altezza media intorno ai due metri, pelle molto chiara, orecchie atrofizzate, naso come i Terrestri, testa allungata con calotta cranica scarsamente ricoperta da capelli. Quanto ai popoli che abitavano il pianeta Tertun, ce ne stavano soltanto due: l'uno era costituito dai Braki, che abitavano nella città di Guzen, nella quale regnava il re Tamed; l'altro era costituito dai Dacivi, che vivevano nella città di Navel, dove il re risultava Renut. I due popoli del pianeta, in verità, facevano tutt'altro che andare d'amore e d'accordo, a causa della loro propensione alla guerra. Essa, anche per un nonnulla, a volte provocava fra di loro lo scoppio delle ostilità e il ricorso alle armi con conseguente spargimento di sangue, quasi sempre immotivato. Entrambi, fin dai tempi immemorabili della loro storia, si erano comportati sempre così e non si conoscevano le ragioni che li spingevano ad agire in quel modo inspiegabile, da ritenersi folle.

Alla nascita di Rutos, la quale era avvenuta sei secoli prima nella città di Guzen, i rapporti fra i Braki e i Dacivi continuavano ad essere gli stessi, sempre tesi e pronti a battagliare fra di loro soltanto per un motivo di orgoglio, senza curarsi delle migliaia di vittime che venivano mietute nell'uno e nell'altro esercito. Infatti, ogni loro guerra non poteva che portare ad un tale tragico risultato, rendendo vedove una infinità di mogli ed orfani un maggior numero di bambini. Il quale spesso risultava anche triplicato, rispetto a quello delle donne in stato di vedovanza. Ma ciò nonostante, tali popoli si infischiavano di quelle considerevoli perdite di vite umane, che si avevano durante ogni conflitto da loro provocato.

Al tempo a cui ci stiamo riferendo, ossia quando Rutos aveva emesso i suoi primi vagiti, i due giovani re Tamed e Renut, come già è stato fatto presente, regnavano rispettivamente sulle città di Guzen e di Navel. Essi avevano ereditato dai loro genitori quel terribile fardello, che non consentiva all'uno e all'altro di assicurare ai loro popoli una pace serena e duratura. Se vogliamo precisare meglio la situazione, solamente al re Renut quel clima ostile alla cessazione delle ostilità non dispiaceva. Egli, considerandolo un testamento spirituale che aveva ereditato dal padre, mai e poi mai si sarebbe opposto ai continui conflitti che si avevano fra i due popoli, poiché accettare la loro cessazione significava tradire il defunto suo genitore e gli antenati che lo avevano preceduto nel tempo. Perciò aveva voluto continuare a percorrere quella strada, che essi gli indicavano dall'oltretomba. Al contrario di lui, di tutt'altro avviso si mostrava il re Tamed, il quale, fin dal suo primo insediamento sul trono di Guzen, dopo una profonda meditazione, era addivenuto alla consapevolezza che lo stato di cose esistente fra il suo popolo e quello dacivino era da reputarsi errato e bisognava adoperarsi perché esso avesse termine. Ma perché ci fosse il cambiamento di rotta, doveva essere convinto pure il par suo, che era il re Renut. Perciò aveva deciso di confrontarsi con lui su tale delicato argomento per cercare un accordo circa una definitiva soppressione dell'atavico malanimo esistente fra i Braki e i Dacivi.

A tale proposito, il sovrano aveva inviato due suoi ambasciatoti presso il sovrano di Navel, perché gli annunciassero la sua intenzione di parlamentare con lui in un luogo situato a metà strada fra le loro città. Sarebbe stato consentito ad ognuno di loro di farsi accompagnare da un centinaio di soldati. Inoltre, i suoi legati avrebbero dovuto metterlo al corrente che in tale incontro gli avrebbe fatto delle importanti proposte giovevoli a tutti e due i loro popoli. Avendo il suo omologo accettato l'invito, l'incontro si era avuto nella località da lui indicata, per cui c'era potuto essere il loro colloquio alla presenza degli alti ufficiali dei rispettivi eserciti. Una volta l'uno di fronte all'altro, era stato il re Tamed a rivolgersi per primo al sovrano di Navel. Egli aveva incominciato a dirgli:

«Ti ringrazio, re Renut, di avere accettato il mio invito. Ora spero pure che la proposta, che sto per farti, sarà di tuo gradimento perché prevede il bene comune dei nostri popoli. Essi da secoli vengono costretti a farsi guerra e sono tenuti sotto la pressione dell'odio, che non smettono di esprimersi a vicenda, senza che ci sia una ragione plausibile.»

«Non posso risponderti, re Tamed, se prima non mi avrai messo a conoscenza di ciò che intendi propormi. Soltanto dopo ti darò la mia risposta, positiva o negativa che vorrò farla essere!»

«Ebbene, re Renut, non trovando giusto il modo di comportarsi dei Braki e dei Dacivi, i quali da secoli si trasmettono un astio atavico implacabile, senza che vi sia un motivo giustificato, avrei pensato con il tuo appoggio di sopprimerlo per sempre. Così subito dopo inizieranno ad esserci nelle nostre città serenità e pace. Anzi, potranno aversi perfino degli scambi commerciali e competizioni di tipo agonistico, non essendoci più lo spettro della guerra a rovinare la loro esistenza. Allora come ti sembra questa mia proposta, che ritengo abbastanza ragionevole?»

«In verità, re Tamed, io ho già giurato a mio padre che, durante il mio regno, avrei abbracciato per il mio popolo l'esistente politica di belligeranza a oltranza nei confronti dei Braki, volendo prendere esempio dai nostri progenitori. E siccome tu hai deciso di non farla più contare presso il tuo popolo, non so se a torto oppure a ragione, vorresti che anch'io ci facessi un pensierino ed andassi contro tendenza, per il benessere dei Dacivi. Ma mi spieghi come fra i nostri due popoli dovrebbero mutare le cose, instaurando fra di loro il clima di pace da te auspicato? Se sarai capace di convincermi, ti seguirò senza meno nel tuo progetto.»

«Sovrano di Navel, nessun Brako e nessun Dacivo può chiudere gli occhi e fingere di non vedere le cose orribili, a cui diamo luogo con le nostre guerre. La disperazione delle nostre vedove, a causa della morte dei loro mariti; nonché i pianti dei nostri orfani, a causa della morte dei loro padri, sono fatti che non possono essere ignorati da noi, seguendo la politica dello struzzo. Non possiamo fare come tale uccello, il quale nasconde la testa tra la sabbia, quando viene investito da un pericolo, senza affrontarlo con determinazione. Perciò, da parte nostra, dobbiamo adoperarci per il cambiamento, sostituendo nei nostri popoli la pace alla guerra, la gioia alla tristezza, la serenità al turbamento, il rispetto al disprezzo. Una volta instaurato tale clima tra i nostri popoli, incoraggeremo fra di loro anche gli scambi commerciali. Magari potranno esserci pure dei matrimoni, se l'amore sboccerà fra i nostri giovani! Inoltre, potranno organizzarsi giochi e gare, che faranno sì che i Braki e i Dacivi si divertano e si affrontino pacificamente e con sportività. Ecco tutto!»

«Riflettendoci bene, re Tamed, probabilmente hai ragione tu a pensarla in tal modo. Per questo ti prometto che, una volta a corte, mediterò ancora di più sulla tua proposta. Ma dovrai concedermi solo dieci giorni di tempo per farti pervenire la mia risposta. Nel frattempo, dovrai portare pazienza ed attendere che essa ti arrivi conforme ai tuoi desideri.»

Il sovrano di Guzen, essendo stato d'accordo con quanto gli proponeva il re Renut, aveva voluto separarsi da lui con una cordiale stretta di mano. Raggiunta poi la propria città, aveva cominciato ad aspettare la risposta che gli sarebbe giunta dal re navelese, augurandosi che essa sarebbe stata affermativa. Quando il tempo di attesa aveva avuto termine, egli aveva ricevuto la risposta del sovrano di Navel tramite i suoi legati. Essi gli avevano annunciato che il loro re era d'accordo con la sua proposta e che si sarebbe fatto sentire quanto prima per discutere sul processo di pace fra i loro popoli. Il nuovo incontro fra i due sovrani c'era stato un mese dopo, quando il re di Navel aveva fatto una sorpresa a quello di Guzen, siccome si era presentato davanti alle mura con una scorta di cento soldati. Una volta che si erano trovati l'uno di fronte all'altro tra i giardini pensili della sua reggia, il sovrano Tamed si era affrettato a conoscere quanto il re Renut avrebbe proposto per favorire il processo di pace fra le loro due città. Perciò gli aveva domandato:

«Sovrano di Navel, vedo che, come annunciato, ti sei presentato a me per trattare la questione della pace, che in avvenire dovrà esserci tra i nostri popoli. Se mi dici come intendi fare cessare fra di noi la peste nera della guerra, sono qui tutto intento ad ascoltarti.»

«Ammetto, re Tamed, che la tua proposta è molto nobile, per cui essa viene da me accolta con favore. Perciò oggi sono qui per costruire insieme una pace duratura, la quale non dovrà mai venire meno. Ebbene, a tale proposito, avrei pensato di cominciare a farla nascere fra i nostri agguerriti eserciti, prima che tra i nostri popoli e tra le nostre città.»

«In che senso, re Renut? In verità, comprendo poco questa tua idea, la quale è fuori dalla mia immaginazione. Quindi, vorresti spiegarti meglio, se non ti dispiace?»

«Il mio esercito dovrà presentarsi davanti alle mura di Guzen disarmato ed attendere che il tuo ne esca. Avvenuta l'uscita dei tuoi soldati dalla città, essi si daranno ad abbracciare quelli miei, che li imiteranno nell'affettuoso gesto. Al termine degli abbracci, si darà inizio ad un colossale banchetto, durante il quale si mangerà e si berrà a crepapelle. Anche noi due staremo in mezzo a loro e gli faremo da esempio nella nascente pace fra i Braki e i Dacivi. Così, dopo una notte trascorsa all'addiaccio, il mio esercito farà ritorno a Navel.»

«Consisterà solo in questo il nostro processo di pace, re Renut? Oppure c'è qualcos'altro che devo ancora sapere, a tale riguardo?»

«In verità, re Tamed, dopo ci sarà bisogno di un nuovo incontro fra i nostri due eserciti. Questa volta, però, esso dovrà avvenire nelle adiacenze delle mura della mia città, dove ci saremo ancora noi in mezzo ai nostri soldati per dare maggiore efficacia al nostro processo di pace. La nostra presenza, infatti, sarà di esempio a tutti loro; anzi, essi comprenderanno che si sta trattando di qualcosa di molto serio, che noi loro sovrani intendiamo realizzare a qualsiasi costo.»

«Forse hai ragione tu, re Renut, a pensarla in questa maniera. Seguendo la prassi da te proposta, di sicuro convinceremo i Braki e i Dacivi che noi due intendiamo fare sul serio. Dopo il secondo incontro dei loro eserciti, essi inizieranno a sognare la nuova era, che avrà come obiettivo la pace fra i due popoli, la cui durata dovrà superare ogni tempo.»

Definito il modo con cui volevano avviare il processo di pace fra i loro popoli, i due sovrani si erano congedati con una calorosa stretta di mano. In apparenza, le due mani congiunte erano sembrate trasmettersi un ardente calore, a testimonianza che vi erano coinvolti anche il proprio onore e la propria onestà. Ma sarebbero poi andate le cose come le avevano fatte apparire nel loro incontro, il quale si era voluto ispirare ad un profondo senso di fratellanza e di collaborazione? Per accertarcene, non ci resta che attendere e seguire i due grandi raduni presso le due città, da parte di entrambi gli eserciti. Infatti, in quei luoghi essi avrebbero dato la dimostrazione della loro buonafede di mettere in atto il processo di pace auspicato dai propri sovrani. In tal modo, avrebbero dimostrato che la loro onestà e la loro lealtà erano a tutta prova e non mistificatorie. Comunque, almeno durante il primo raduno dei due eserciti, le cose erano filate lisce come l'olio, siccome in effetti fra di loro c'erano stati i previsti abbracci fraterni, dopo che gli uni e gli altri si erano presentati disarmati nei pressi della città di Guzen. Inoltre, essi si erano dati a banchettare e a gozzovigliare per l'intera giornata, ossia fino a quando i soldati navelesi non si erano congedati da quelli guzenesi e non avevano intrapreso il ritorno alla loro città.

Ma non la stessa cosa sarebbe avvenuta nel loro secondo incontro nei dintorni di Navel, poiché il sovrano di quella città aveva predisposto per l'esercito ospite ben altra accoglienza, totalmente priva dello spirito di fratellanza, che si era vissuto nel primo raduno. A parte gli iniziali salamelecchi e i falsi abbracci fraterni, con i quali i soldati navelesi avevano accolto quelli di Guzen, il resto della giornata si era contraddistinto con atti ignominiosi di tradimento e di assassini. Tra poco scopriremo in che modo quelle malvagie azioni si erano avute alla luce del sole, calpestando l'onore e la dignità dell'uomo giusto.

Durante il pantagruelico pranzo che era avvenuto nelle prime ore pomeridiane, il quale era stato allestito con una magnificenza invidiabile nei luoghi antistanti alle mura, si era servito dell'ottimo vino dentro brocche di terracotta. Queste, che all'apparenza erano tutte identiche, invece c'era qualcosa che le contraddistingueva. Sulla parte panciuta della metà di tali recipienti poteva scorgersi un pallino nero, il quale segnalava ai bevitori navelesi che il vino in esso contenuto era avvelenato con un potente tossico ad azione ritardante. Per cui i Dacivi erano attenti a non servirsi di tali brocche nel versarsi da bene; anzi, mescevano il vino da esse, esclusivamente quando riempivano le ciotole dei Braki. Così, nel giro di sei ore, tutti i soldati guzenesi giacevano sul terreno morti per avvelenamento, compreso il loro re Tamed. Per cui, già in serata, i Dacivi si erano dati a bruciare i loro corpi su grandi pire, onde evitare il pericolo di una vera epidemia nella loro vicina città.

Il mattino dopo, ogni lavoro riguardante la cremazione delle salme dei loro nemici era stato ultimato dai soldati navelesi. Essi, perciò, avevano potuto concedersi il riposo non fruito nella nottata con un buon sonno. Ma nelle ore pomeridiane, per ordine del loro sovrano, essi si trovavano già in assetto di guerra, dovendo andare ad assediare la città nemica per sottomettere i suoi abitanti al loro esercito. Essi oramai avevano davanti la strada spianata per conseguire i loro facili obiettivi, i quali erano la presa di Guzen, il suo depredamento e lo stupro di migliaia di donne, la maggior parte delle quali erano divenute da poco vedove. Così, quando tre giorni dopo i Dacivi si erano presentati sotto le mura della città dei Braki, i pochi addetti alla sua difesa non avevano compreso che si stava attuando l'occupazione della loro città da parte dei nemici, credendoli mischiati ai loro commilitoni e in vena di festeggiare e di continuare a fare baldoria. Per cui non avevano esitato a spalancargli le porte cittadine da loro custodite; inoltre, si erano affrettati ad abbandonarle e ad andargli incontro, desiderosi di prendere parte a tanta euforia di massa. Invece, quando si erano resi conto della realtà dei fatti, non avevano avuto neppure il tempo di un ripensamento, essendosi visti trucidare in brevissimo tempo dall'invadente valanga di nemici.

Una volta in Guzen, i Dacivi si erano dati a saccheggiare l'intera città, occupando tutte le sue strade e compiendovi numerosi atti di violenza e di sopruso, senza astenersi dalla violenza carnale a danno delle donne nubili e sposate. Le une avevano dovuto subire le loro deflorazioni e le altre i loro stupri, senza potersi opporre in qualche maniera. Quando infine i soprusi da parte dei Dacivi avevano avuto termine in città per volontà del loro re Renut, costui aveva fatto sapere alla popolazione guzenese, oramai composta da quasi tutte donne, che da quel giorno egli sarebbe stato il sovrano di entrambi i popoli. Per questo la metà del suo esercito sarebbe rimasta di stanza in Guzen a tempo indeterminato, minacciando pene severissime contro coloro che avrebbero tentato di ribellarsi ai suoi soldati. Fra le altre cose, essendo stati uccisi la maggior parte dei loro uomini, egli imponeva alle donne guzenesi di dedicarsi ai lavori dei campi, poiché con il ricavato della terra avrebbero dovuto sfamare ambedue i popoli. Solo le puerpere avrebbero potuto astenersi dal lavoro agricolo, dovendo allattare i loro neonati. Esse avrebbero dovuto pure accudire i bambini svezzati delle altre donne, sfamandoli e trattenendoli in vari giochi.

Con il passare degli anni, nella città dei Braki le cose erano andate peggiorando, siccome il re Renut, che aveva stabile dimora nella reggia di Navel, aveva iniziato ad accanirsi contro i suoi abitanti, trattandoli come schiavi. In verità, a quell'epoca la popolazione era costituita da bambini, da persone anziane e da vecchie, nonché da donne adolescenti, giovani e mature, la cui età era compresa fra i tredici e i sessant'anni. Erano proprio queste ultime a sacrificarsi nei lavori dei campi durante l'intera giornata; invece a sera, una volta rientrate in famiglia, si preoccupavano dei servizi inerenti alla casa. Inoltre, in Guzen, avveniva sempre più spesso che i soldati navelesi, per un nonnulla, condannavano alla fustigazione qualche vecchio della città. In quel caso, venivano date sulla nuda schiena del malcapitato non meno di dieci dure nerbate, le quali gli causavano delle piaghe profonde e sanguinanti; ma soprattutto gli procuravano molto dolore, sia mentre le riceveva sia dopo averle ricevute. Quanto agli sverginamenti delle adolescenti e agli stupri delle donne di maggiore età, da parte dei soldati navelesi, essi erano all'ordine del giorno. Difatti i primi venivano consumati durante la giornata; mentre i secondi venivano compiuti in serata, quando le donne lavoratrici facevano ritorno dai campi. Nel darsi alle loro violenze carnali, tali soldati agivano con strafottenza ed inoculando molto malessere nelle persone anziane e in quelle in cui la senilità si manifestava oramai galoppante. Forse non era neppure un male quel tipo di sopruso da parte dei soldati nei confronti del sesso debole, poiché la pratica del sesso, imposto o consenziente che fosse, essendo un atto fisiologico indispensabile, era da considerarsi salutare nelle donne violentate, che a volte ne ricavavano pure piacere. Anzi, con esso si sopperiva anche al pericolo della denatalità, che si sarebbe potuto presentare in avvenire, dopo che i loro uomini erano stati tutti uccisi in modo infamante.

Dopo l'occupazione di Guzen da parte dei Dacivi, tutti i bambini che nascevano, fossero essi maschi o femmine, venivano ritenuti bastardi tanto dai Braki quanto dai soldati navelesi, anche perché era impossibile risalire ai loro veri padri. Secondo loro, i bambini partoriti, poiché le loro madri avevano avuto rapporti con diversi soldati, non risultava possibile individuarne i veri padri anche da parte loro. Comunque, era previsto che, via via che i bambini e le bambine minorenni avessero compiuto i quindici anni di età, gli uni e le altre avrebbero dovuto affiancare le donne lavoratrici nei lavori campestri, dando loro un valido aiuto.

Quando erano trascorsi venti anni dall'occupazione della loro città da parte dei Dacivi, Guzen poteva contare su un gran numero di giovani, i quali, sistematicamente, erano stati avviati ai lavori dei campi. In verità, intanto che si dedicavano a simili lavori, grazie anche ai commenti dei loro nonni materni, avevano cominciato ad anelare alla libertà, essendo tale desiderio divenuto in loro insopprimibile. Ma ritrovandosi ad essere non avvezzi alle armi e senza un capo carismatico che li incitasse alla rivolta, essi non se la sentivano di affrontare quelli che li tenevano in schiavitù e finivano così per rinunciare al loro nobile sogno. Per loro fortuna, una persona del genere era nata e cresciuta al pari di loro, per cui ben presto gli si sarebbe presentata e si sarebbe messa alla loro guida, allo scopo di condurli al riscatto della loro gente dai malvisti invasori. Si trattava di Rutos, colui che stava per diventare il loro eroe liberatore, dopo essersi messo alla loro testa.