458°-MATRUS DIVENTA UN GIGANTE DALL’ENORME COSTITUZIONE

Nella suska del nord, dove il limiur era Nartos, conduceva la sua tranquilla esistenza l’artigiano Matrus, il cui unico cespite gli proveniva dal suo mestiere di vasaio, che egli esercitava con molta perizia. Tutti i Pices del suo villaggio lo stimavano un provetto esecutore dei suoi lavori artigianali, i quali venivano rappresentati dai suoi magnifici vasi. Essi assumevano dimensioni e fogge diverse nelle sue abili mani creatrici. A quell’epoca, egli aveva trentasei anni e dedicava il suo tempo unicamente al suo lavoro. Pur essendo ancora scapolo, non ci pensava ad ammogliarsi, per cui alcuni suoi conterranei a torto lo tacciavano di misoginia. Anche se in effetti non era questo il motivo che lo teneva lontano dall’avere rapporti con una donna e, di conseguenza, dal pensare al matrimonio. Scavando nel passato della sua famiglia, però, ci troviamo di fronte ad episodi poco edificanti. I quali, a mano a mano che il tempo era trascorso, avevano contribuito a rendere il solitario Matrus refrattario sia all’amore verso una donna sia alla vita di coppia. Quest’ultima, specialmente, era la cosa che osteggiava di più, per le ragioni che ora conosceremo.

In un certo senso, la solitudine gli era stata procurata dalla perdita dei suoi genitori, già quando aveva cinque anni. Per questo in seguito era vissuto nella capanna dello zio paterno, il quale non era riuscito ad avere dalla moglie i figli che aveva sempre desiderato. Per tale ragione la rimproverava in continuazione per la sua sterilità, dando così luogo alle solite liti quotidiane, che non di rado si trasformavano in vere e proprie baruffe. Dai cinque anni in poi, quindi, il poveretto ogni giorno si era dovuto sorbire le litigate tra lo zio e la sua consorte. Ma esse scoppiavano in famiglia anche per motivi di gelosia, da parte del parente stretto nei confronti della zia acquisita. Riferendoci più in particolare agli zii, i quali, dopo la morte del padre e della madre, erano divenuti suoi genitori adottivi, l’uomo si chiamava Nares, mentre il nome della donna era Obel. La professione dello zio, che faceva il vasaio, gli aveva permesso di apprenderla in modo così egregio, che già a quindici anni nella sua suska Matrus poteva considerarsi il migliore in tale campo.

Quando il ragazzo aveva sedici anni, lo zio, accusandola d’infedeltà per averlo tradito con l’erbivendolo suo dirimpettaio, l’aveva assalita con un coltello da cucina. Con esso l’aveva trafitta più volte all’addome, finché ella non era caduta morta per terra. L’adolescente, che in quella occasione si trovava in casa, aveva assistito impotente al delitto e ne era rimasto scombussolato in maniera traumatica. Il giorno stesso che aveva assassinato la moglie, lo zio era stato arrestato e trasferito alla suska centrale, per essere processato dall’apposita commissione. Allora essa, dopo averlo giudicato colpevole di omicidio, lo aveva inviato dal posust, perché emettesse la sua sentenza a carico dell’uxoricida. Così il capo dei Pices lo aveva condannato alla pena di morte, la quale era avvenuta tramite la decapitazione. In merito alla sua condanna, la gente del luogo non si era trovata tutta d’accordo, poiché essa si era divisa in innocentisti e colpevolisti, raggiungendo quasi la parità nel giudicarlo.

Matrus, lungi dall’esprimere il proprio giudizio sul delitto commesso dal fratello del padre, non aveva voluto sentir parlare né della sua colpevolezza né della sua innocenza. Invece aveva cercato di dimenticare prima possibile quella scioccante esperienza. Inoltre, rilevata l’attività dello zio ed applicandosi in essa con il massimo impegno, aveva badato a cancellare dalla memoria ogni strascico di quel terribile episodio, il quale era accaduto nella sua nuova famiglia.

Dopo quel fatto di sangue che c’era stato da parte dello zio sulla consorte, per Matrus gli anni erano trascorsi sereni, poiché la sua professione di competente vasaio gli fruttava parecchio. Ma nonostante le sue consistenti entrate, le quali facevano invidia a qualcuno, egli non aveva mai pensato di farsi una propria famiglia, sposando una donna del luogo. Eppure ce n’erano alcune che lo avrebbero sposato volentieri! Perciò la sua vita da misantropo lo aveva messo in cattiva luce agli occhi dei suoi conterranei. Secondo loro, con le sue ricchezze, egli poteva rendere felice qualche ragazza bisognosa del posto, unendosi con lei in matrimonio e fondando insieme un nucleo familiare allietato da tanti piccoli paffutelli.

In seguito, l’apprezzato vasaio aveva compiuto trentasei anni da pochi giorni, allorché si era ritrovato ad affrontare un inatteso grattacapo. Essendosi in piena estate, egli preferiva lavorare all’aperto, ossia davanti alla sua capanna, dove portava i suoi attrezzi, l’argilla da modellare e l’acqua. Per cui spesso capitava che qualche passante si soffermasse a seguirlo, mentre dava vita e forma alle sue preziose opere di terracotta.

Nel frattempo, c’era anche chi, a sua insaputa, covava un’annosa invidia verso di lui. Egli aveva perfino deciso di giocargli uno scherzo di pessimo gusto. Si trattava di un altro artigiano, che esercitava, ad una ventina di metri dalla sua capanna, lo stesso mestiere, ma con scarsa stima da parte dei suoi conterranei. Con il suo scherzo pervaso d’indubbia malignità, il suo concorrente di professione, il cui nome era Popon, si proponeva di macchinare la sua rovina e procurare a sé il benessere che gli sarebbe derivato da essa. Se vogliamo dirla tutta, l’invidioso vasaio, oltre che rovinare la persona che i Pices preferivano a lui come artigiano, aveva un altro problema da risolvere. Ecco perché, con quel suo diabolico e delittuoso stratagemma, intendeva liberarsi di due piccioni con una fava. Egli, che era ammogliato con tre figli a carico, aveva preso una cotta per un’altra donna della sua suska; ma non poteva unirsi con lei, finché fosse rimasta in vita la sua consorte. Allora, nello stesso tempo, aveva stabilito di conseguire l’uno e l’altro obiettivo, come adesso viene raccontato.

Un mattino, quando il canto del gallo tardava ancora a farsi sentire, Popon, che era ancora a letto, visto che anche la moglie già aveva aperto gli occhi, prendendola per mano, le aveva detto:

«Secondo te, Ramal, ti sembra giusto che il vasaio Matrus, che vive da solo e non ha neppure un figlio da sfamare, venga baciato dalla fortuna più di me e che ogni giorno guadagni il quadruplo di quello che racimolo io con il mio lavoro? Moglie mia, pronùnciati a tale riguardo e dimmi se questa per te non è un’ingiustizia, da parte del cieco destino!»

«Come potrei pensarla diversamente da te, mio Popon? Ma anche se il mio pensiero concorda con il tuo, ciò riesce forse a mutare le cose storte in questa vita, facendole diventare dritte? Certo che no!»

«Hai ragione, mia cara consorte, a porre il problema in questi termini. Ma non ti sei mai chiesta se esiste una scappatoia che possa raggirare il destino, rendendo noi ricchi e lui povero?»

«Avrei forse dovuto chiedermelo, amore mio? Se lo avessi fatto, non mi dire che sarebbero cambiate le cose per noi e per i nostri bambini! Tu credi che sarebbe stato possibile? No, di certo!»

«Mentre egli è intento a lavorare fuori della sua capanna, mia cara, noi potremmo introdurci in essa e sottrargli tutto il denaro da lui accumulato per anni. Naturalmente, ci entreremmo dalla parte di dietro, dopo averci aperto un varco sulla sua superficie posteriore. Adopereremmo il nostro coltellaccio da cucina per praticarvi una fessura bastevole a farci entrare. Allora, Ramal, mi daresti una mano a portare in porto questo mio disegno, che ho appena sfornato dal mio geniale cervello? Sappi che lo faresti pure per i nostri figli!»

«Come potrei rifiutarmi, Popon, se c’è di mezzo il benessere dei nostri tre gioielli? Perciò stamattina stessa realizzeremo il tuo bel progetto, a dispetto del ricco sfondato Matrus!»

A metà mattinata, i due consorti erano già pronti per intraprendere la loro sporca missione, per cui avevano raggiunto l’abitazione del vasaio dalla parte di dietro. Così, approfittando che in quel momento egli veniva distratto da un passante che gli chiedeva informazioni sui prezzi dei suoi prodotti artigianali, si erano affrettati a praticarvi la giusta apertura che gli aveva consentito l’accesso. Una volta all’interno della capanna di Matrus, l’uomo, anziché badare a cercare il denaro nascosto dell’artigiano con la moglie, appunto come si era convenuto, ad un tratto, aggredendola alle spalle, aveva preferito colpirla in testa con un vaso e stordirla. Vibrandole poi diversi colpi all’addome col coltellaccio portato da casa, l’aveva uccisa ed era scappato via, lasciando per terra l’arma del delitto.

Un’ora più tardi, volendo mostrare ad un suo virtuale acquirente l’intera sua produzione di vasi, Matrus lo aveva accompagnato nella sua capanna. Ma lì avevano trovato la povera Ramal che giaceva morta sul pavimento, essendo stata accoltellata poco prima dal marito. Allora entrambi erano inorriditi; però era stato il solo vasaio a precipitarsi ad avvertire i tutori dell’ordine del cruento misfatto, il quale era stato consumato nella propria dimora a sua insaputa. I soldati, dopo aver eseguito i rilievi necessari per inquadrare il fatto di sangue in un’ottica che risultasse più attendibile, avevano dedotto che soltanto il padrone di casa poteva essere stato a macchiarsi di un delitto così orrendo, anche se si ignorava il movente preciso. Perciò, dichiarandolo in arresto, lo avevano condotto dal loro limiur. Allora il loro capo Nartos, visto che si trattava di un omicidio, del quale Matrus risultava gravemente indiziato, e considerati anche i precedenti dello zio adottivo, aveva invitato le stesse guardie che lo avevano arrestato a condurlo direttamente alla suska centrale, affinché venisse processato dalla competente commissione che giudicava i gravi reati. Inoltre, non si era astenuto dal consegnare alla guardia più anziana una pergamena, sulla quale era stato riportato che in passato, alla presenza dello stesso nipote sospetto di un raptus omicida, lo zio paterno aveva commesso un assassinio congenere.

Tale commissione, da parte sua, pur ritenendo probabile che in Matrus fosse congenita una natura che lo predisponeva a delitti così efferati, come appunto si era comportato anche lo zio paterno, non lo aveva ritenuto un assassino con formula piena, non essendoci elementi probanti a suo carico. Ma nonostante il vasaio avesse continuato a dichiararsi innocente, ugualmente lo aveva dichiarato come possibile assassino. Allora il posust, dopo avergli bollato a fuoco la fronte con il marchio dell’infamia, lo aveva condannato all’esilio perpetuo, che egli avrebbe dovuto scontare nella palude, la quale era situata a settentrione della suska nordica. Nel caso poi che il reo l’avesse abbandonata e fosse ritornato in una delle cinque suske, dopo averlo scoperto, il popolo avrebbe dovuto lapidarlo. Così la condanna di Matrus all’esilio aveva reso felice e soddisfatto il vasaio Popon. Essa, oltre ad aumentargli la clientela, aveva allontanato da sé ogni sospetto che avrebbe potuto condurre gl’inquirenti a farlo trovare sul banco degl’imputati. Oltre a ciò, gli aveva favorito il matrimonio con la sua bella amante nascosta, il cui nome era Stelia, con la quale aveva una relazione amorosa nascosta, che ormai durava da quasi un quinquennio.


Una volta che si era ritrovato tutto solo nella zona paludosa, Matrus, potendo disporre di arco e di frecce, da quel giorno si era dato a cacciare e a procurarsi il cibo necessario per sopravvivere. Inoltre, nel posto che aveva ritenuto più adatto, si era costruito un alloggio con materiali di fortuna, poiché esso avrebbe dovuto difenderlo dall’umidità della notte quando dormiva. Comunque, egli non si nutriva solo di cacciagione, ma si alimentava anche con funghi mangerecci e con prodotti vegetali eduli, per averli trovati graditi al palato. Così l’ex vasaio viveva nella palude da una decina di giorni, frequentando quei luoghi che gli rendevano l’esistenza più sopportabile. Un mattino, che era l’undicesimo da quando conduceva il nuovo tipo di vita, lontano da ogni consorzio umano, dopo essersi svegliato, Matrus aveva deciso di procurarsi la colazione con le tenere carni di un uccello acquatico. Perciò, dopo essersi munito di arco e di frecce, si era dato a cercarne qualcuno sulle verdastre acque stagnanti della palude. Nella sua ricerca mattutina, però, si era imbattuto in uno strano animale, la cui grandezza non superava quella di uno scoiattolo. Se ne differenziava, però, per il suo orrido aspetto, il quale lo faceva somigliare del tutto ad una piccola iguana.

L’uomo allora, visto che esso restava immobile davanti a lui e continuava a guardarlo fisso, invece di sfuggirgli, aveva pensato di colpirlo con una sua freccia. Invece, poco prima che prendesse la mira, la bestiolina gli era saltata addosso e gli si era attaccata al petto; ma non vi era rimasta a lungo. Infatti, dopo averlo morsicato nella parte del corpo indicata, se n’era staccata all’istante ed era scappata via, rifugiandosi tra la fitta vegetazione. Al morso dello strano animale, Matrus aveva provato un lancinante dolore nella parte del corpo addentata, dove gli erano apparsi anche tre piccoli fori. I quali, anziché emettere del sangue, facevano venir fuori del liquido bluastro. Ad ogni modo, la sua fuoruscita aveva avuto termine dopo una ventina di secondi, cioè quando in lui era cessata anche la sensazione dolorosa. Ma se il morso della bestiola aveva smesso di arrecargli l’iniziale sofferenza, ad un tratto lo sventurato si era sentito perdere le forze, intanto che gli si annebbiava la vista. La qual cosa lo aveva fatto precipitare verso la sua capanna, dove aveva avuto appena il tempo di distendersi sul suo giaciglio, allorché un sonno profondo si era impadronito di lui.

Il risveglio, comunque, non sarebbe risultato come quello delle altre mattine, quale appunto egli lo attendeva. Quando si era ridestato dalla sua dormita notturna, avvertiva che la sua mente era in preda ad una grande confusione, che non lo faceva più connettere. Al contrario, lo induceva più a sragionare che a darsi ad una pacata riflessione. Ma se a livello psichico quello era il suo atteggiamento nei confronti della realtà; nel suo fisico, si sentiva trascinare in una incomprensibile situazione. Essa gli andava infondendo infinite sensazioni, le quali non gli lasciavano comprendere da cosa venissero originate e verso cosa si protendessero. Perciò le viveva nella loro amara incomprensione e nel loro evolversi senza un futuro certo. A quel punto, da parte sua, era stato obbligatorio cercare di affidarsi ad una realtà che si mostrasse più comprensiva nei suoi confronti, senza emarginarlo in un qualcosa dagli obiettivi macabri e senza trattarlo con la massima indifferenza. Quanto a quest’ultima, essa avrebbe fatto penare maggiormente colui che già era stracolmo di sofferenza, per la qual cosa annegava in un’ambascia mortificante. Ma quale realtà del presente avrebbe potuto ricondurlo al suo essere precedente, cioè quello che gli avrebbe permesso di rivivere il suo normale stato neurovegetativo e lo avrebbe riportato così ad un’esistenza non più problematica? Per la verità, in quel momento per lui non poteva essercene nessuna. Infatti, l’unica novità era stata quella di vedersi, all’improvviso, cadere in deliquio.

Quando si era riavuto dal suo svenimento transitorio, Matrus aveva cominciato ad avvertire nel proprio corpo una strana sensazione, la quale, in un primo momento, gli era apparsa assurda ed inconcepibile. Volendo precisare meglio la situazione di quegli attimi incredibili, gli era parso che esso si fosse dato a gonfiarsi e a prendere più spazio, rispetto a quello che fino allora era stato concesso alla sua corporatura. Anzi, insieme con lo spazio che si andava espandendo, pareva che l’intera sua stazza gli si aggiustasse all’interno, crescendo parimenti alla sua espansione. La quale era in continua evoluzione fisica nella dimensione spaziale che lo circondava e gli garantiva la massima capienza possibile. Ma se per adesso la fisicità del suo essere si esprimeva in pure sensazioni espansive, senza accusare alcun disturbo nella sua sfera dolorifica, la psiche dell’esiliato Pices andava reagendo in maniera diversa. Egli avvertiva che dentro di sé si stava verificando la disfunzione totale della sua parte intellettiva, poiché nella sua mente iniziava a spegnersi ogni ricordo del passato. Inoltre, il fraintendimento di qualsiasi pensiero diveniva un fenomeno normale, in quanto parte integrante di un’esistenza che ormai andava alla deriva. Invece gli effetti patologici più vistosi, che azzannavano l’intera sua funzione psichica, si rivelavano ben altri. Egli vi avvertiva una specie di frattura multipla della personalità, che si dava ad insidiarla in tutte le sue componenti, fossero essere spaziali o temporali. Così le dissestava e vi provocava alcuni blocchi psicologici che ne peggioravano ancor più le condizioni. Soprattutto vi promuovevano ansiti esistenziali, simili a quelli del mare, nel momento stesso che si gonfia e diviene turbolento, pronto a sfidare ogni forza della natura.

Quando alla fine aveva avuto inizio la crescita esponenziale del suo corpo, come se una forza interiore si fosse messa a soffiare e ad enfiarlo a dismisura, per cui a breve lo avrebbe fatto scoppiare, però senza che mai lo scoppio si avesse nel suo corpo, allora in lui il dolore divenne immane ed indicibilmente insopportabile. Più le sue dimensioni aumentavano, maggiormente esso si acuiva e lo andava rendendo vittima di una sofferenza sempre più atroce. Per questo ogni suo organo, insieme con i suoi vasi e le sue fibre afferenti, non cessavano di manifestare algie di una certa rilevanza. Ma esse potevano soltanto arrecargli il massimo tormento, senza che lo sventurato, pur volendolo, vi potesse porre fine in qualche modo. Nel frattempo, la stazza di Matrus s’incrementava e le varie parti del suo corpo raggiungevano proporzioni sempre più spropositate. La sua massa corporea aumentava ad un ritmo abbastanza veloce, poiché al trascorrere di ogni ora si accresceva di una quantità uguale a quella di un gorilla di grosse dimensioni. La qual cosa gli permetteva anche di protendersi sempre più in alto, poiché, a suo confronto, erano diventate basse prima le pianticelle, poi le piante di media grandezza e infine gli alberi che vantavano la massima altezza nel regno vegetale. A ogni modo, tanto la sua crescita nel suo insieme, quanto ogni sensazione dolorosa ad essa connessa, erano cessate, solo quando la sua altezza da gigante insuperabile era divenuta doppia di quella dell’albero più alto esistente sul pianeta.

Venuto in possesso di una corporatura simile, l’ex vasaio adesso trovava difficoltà a prendere qualche decisione, come pure esitava a muovere i suoi primi passi. Infatti, non sapeva come districarsi nei nuovi movimenti e si sentiva impacciato nel dare ad essi l’avvio iniziale. Ma poi era stato un insaziabile appetito a smuoverlo da quel posto, poiché non vedeva l’ora di darsi a mangiare, nel suo caso a trangugiare, qualcosa che lo sfamasse. Perciò aveva deciso di superare la sua momentanea inazione e di darsi ad un’esistenza più risoluta ed energica. La quale avrebbe dovuto fargli compiere quegli sforzi atti a soddisfare i naturali bisogni che l’attuale vita esigeva, primo fra tutti quello di mettere a tacere i morsi della fame. In verità, nella palude tutti gli esseri animali, perlopiù acquatici, gli apparivano di una minutezza tale, che trovava difficoltà ad abbrancarli, al fine d’introdurseli nella bocca e divorarseli famelicamente. Dandogli però fastidio il mangiarseli vivi, prima d’ingollarli, Matrus aveva cominciato ad ucciderli, schiacciandoli nel proprio pugno. I suoi mammiferi preferiti erano le volpi, le donnole e i toporagni; in riferimento ai rettili, invece, si dava alla ricerca di bisce, di biacchi e di luscengole. Quanto agli anfibi, la sua preferenza era soltanto per le raganelle. Egli andava ghiotto anche per i pesci, poiché la fauna paludicola comprendeva anguille, carpe, spigole, gambusie, noni, muggini dorati e pesci aghi; mentre evitava di divorare gli uccelli, a causa del loro piumaggio che maltollerava nell’ingurgitarlo.

Una volta conosciuta in parte la sua attuale esistenza, la quale per forza di cose si svolgeva in base a criteri di comportamento del tutto differenti, giustamente ci si poneva qualche domanda. Il nuovo essere, che era diventato l’ex vasaio, ragionava come un uomo, per non aver perduto l’intera sua essenza umana e la fitta rete dei ricordi del suo tempo trascorso? Oppure, avendo acquisito un’indole prettamente di natura bestiale, viveva adesso soltanto in base ad essa e privo totalmente di una memoria radicata nel passato? Stando dietro a certi particolari del suo comportamento, di cui siamo venuti a conoscenza, si era propensi a credere che l’umanità in lui fosse rimasta. Altrimenti il mangiare le sue prede vive non avrebbe generato in lui alcun disgusto, come avveniva. La qual cosa portava anche a pensare che pure la sua memoria fosse rimasta intatta, per cui essa fosse in grado di rammentargli la ruggine che aveva con la sua gente e d’invogliarlo perfino a vendicarsi di quanti lo avevano punito ingiustamente. Attenendoci ad un fatto del genere, allora bisognava attendersi da lui propositi di vendetta, facendo magari delle incursioni punitive contro la sua gente. Perciò ci si doveva aspettare il peggio da lui, a tale proposito.

Nel frattempo che trascorrevano le sue giornate non più traumatiche, siccome la crescita corporea si era stabilizzata nella grandezza appresa, la sua vita era continuata a svolgersi come le varie esigenze gl’imponevano, ossia dandosi a procurarsi il pasto notturno e a riposarsi con un bel sonno, il quale durava l’intera giornata. Infatti, dopo la sua metamorfosi, Matrus si era ritrovato ad essere affetto da una rara forma di albinismo, che gl’indeboliva la vista di giorno e gliela rafforzava di notte. Ecco perché lo si vedeva in azione nelle ore notturne; mentre in quelle diurne si dava a dormire dall’alba all’imbrunire. Ad ogni modo, andava puntualizzato che Matrus, anche dopo avere assunto le sembianze di un gigantesco uomo, non aveva smarrito la memoria. Perciò le infondate accuse intentate contro di lui si erano date a frullargli per il capo; come pure i propositi di vendetta si erano ravvivati nella sua mente, fino a cominciare a diventare concreti ed improcrastinabili.