455-ARKUST CONTRO LA CITTÀ DI MIDOSIA E CONTRO IL MOSTRO TUSPUZ

Raggiunta la propria città, Arkust era stato accolto come un eroico trionfatore dall'intera cittadinanza, dalla quale, intanto che lo applaudiva osannante, si levava una ovazione unanime. Anche il re Tolep, quando lo aveva ricevuto a corte, abbracciandoselo, aveva voluto esprimergli la massima stima. Perciò, mostrandosi sommamente appagato della sua magnifica impresa, gli si era espresso con queste parole:

«Grazie, Arkust, per il miracolo da te operato a vantaggio della nostra città e del nostro popolo! Da oggi in avanti, sei considerato da me la persona più in gamba fra tutti i Feciani, compreso me. Perciò ti prometto che non oserò mai contraddirti in ogni cosa che deciderai di fare. Anzi, qualsiasi iniziativa vorrai prendere, essa avrà sempre il mio consenso. Ti ammiro, anche per il fatto che hai permesso ai Midosiani di tributare ai loro caduti in guerra delle devote onoranze funebri. Ti ringrazio per tutto ciò, mio eroico condottiero!»

«Invece, mio sovrano, non merito gli elogi e gli onori che generosamente mi si dedicano da parte di tutti, visto che sono stati i nostri cavalieri a mietere un così gran numero di morti fra le file dei nostri nemici. I quali sono stati ridotti ad un quarto del loro effettivo.»

«Ma sei stato tu, Arkust, anche se ignoro con quale diavoleria, a far trovare allo sbando l'esercito nemico, permettendo così alla nostra cavalleria di sbaragliarlo e di decimarlo. Adesso vuoi dirmi quando hai intenzione di porre sotto assedio e di espugnare la città di Midosia? Non vedo l'ora di dare la meritata punizione a quello smidollato del re Sourg.»

«Re Tolep, facciamo prima passare almeno un mese, in modo che i Midosiani smettano di occuparsi delle onoranze funebri e liberino il loro territorio dalle salme dei loro caduti in guerra. Dopo ne potremo riparlare con più calma, progettando un piano nei minimi particolari. Alla fine delle varie operazioni belliche, vedrai che riusciremo ad ottenere quanto ci saremo proposti, ossia la ricucitura dello strappo voluto a suo tempo dal monarca di Midosia tra il suo e il nostro popolo. Anche se il prezzo dell'intera nostra operazione non potrà che essere la sua eliminazione fisica, non prospettandosi per noi altra soluzione per evitarla!»

Una volta che i tempi erano maturati e il loro piano era stato determinato, predisponendo i modi della sua esecuzione, il re Tolep ed Arkust avevano deciso di mettere in stato d'assedio Midosia. Per ovvie ragioni, esso sarebbe avvenuto sotto la direzione dell'inossidabile giovane percus. Così egli si era affrettato a condurre l'esercito feciano sotto le mura della città, che per il momento risultava ancora nemica del suo popolo. Quando poi aveva dato ordine di assediarla, le migliaia di fanti, come aveva comandato il loro capo supremo, con scale e funi arpionate, immediatamente avevano iniziato ad ammassarsi ad essa sul solo lato settentrionale, evitando di assalirla lungo l'intera sua cerchia. Arkust, infatti, intendeva attuare lo stesso fenomeno di cui si era servito nella precedente battaglia campale. Ci si riferisce a quando aveva neutralizzato le schiere nemiche, facendole sopraffare e sterminare dalla cavalleria.

In quell'assedio, era stato lui stesso ad appoggiare alle mura la prima scala e a salirvi sopra per raggiungerne la sommità. Ma prima che gli assediati reagissero con i vari mezzi a loro disposizione per respingere gli assedianti, egli gli era apparso sotto le spoglie di un nuovo mostro dalle sembianze spaventevoli ed avente un'altezza che era doppia di quella delle mura. Alla sua apparizione, coloro che difendevano la città sul lato nord e si davano da fare sul cammino di ronda, erano scappati ed avevano lasciato le mura sguarnite e indifese. A quel punto, Arkust, dopo averle scavalcate senza difficoltà, era andato ad aprire le porte di Midosia, spalancandole ai suoi soldati, i quali ne avevano approfittato per riversarsi in essa trionfanti. Costoro, in verità, avevano evitato di depredare e di saccheggiare la città, essendo stati quelli gli ordini ricevuti dal loro comandante in capo. Comunque, si erano limitati a tenere sotto controllo i suoi abitanti, affinché essi non si dessero ad ingiustificate reazioni, che avrebbero potuto dare origine ad un bagno di sangue.

Avvenuta l'occupazione di Midosia, Arkust, con tutto il suo stato maggiore, si era condotto alla reggia per incontrarsi con il re Sourg e fargli presenti le condizioni che gli imponeva il re Tolep. La cui accettazione gli avrebbe reso salva la vita ed avrebbe fatto risparmiare il sacco alla sua città. Ma gli autorevoli Feciani lo avevano trovato all'esterno della reggia spalleggiato da un centinaio dei suoi soldati. I quali si erano dichiarati disposti ad immolarsi per lui, se fosse stato necessario. Allora il percus gli aveva parlato così:

«Sovrano di Midosia, la tua città oramai è in mano dei soldati feciani. Si attende la tua resa, per ufficializzare la sua espugnazione da parte del mio esercito. Comunque, il mio re, volendo mostrarsi generoso con te, ti dà la possibilità di avere salva la vita in questa circostanza, la quale è nettamente sfavorevole ai Midosiani. Perciò dovresti essergli riconoscente per la sua generosità, accettando le condizioni che egli viene ad importi tramite la mia persona.»

«Posso sapere, diabolico Arkust, esse quali sono, prima di dare il mio assenso o dissenso a quanto il re Tolep viene ad esigere da me? Si tratta di un mio diritto apprenderle!»

«Per la verità, sovrano di Midosia, tu non hai più alcun diritto, dopo che sei stato la causa di tante migliaia di morti, che ci hai fatto mietere fra i tuoi sudditi. Ad ogni modo, siccome le vuoi conoscere, sono quattro le cose che il mio sovrano pretende da te. Esse sono le seguenti: 1) la tua resa incondizionata al suo esercito, il quale di fatto ha già la tua città in pugno; 2) la tua abdicazione a favore del tuo unigenito Efur, che scorgo al tuo fianco; 3) la tua promessa di convincere tuo figlio a riallacciare con i Feciani i vecchi rapporti di amicizia, che esistevano al tempo di tuo padre Morben e di suo padre Fugen; 4) gli devi garantire che tuo figlio, una volta salito al trono, sposerà sua figlia, la principessa Ures.»

«Se queste sono le condizioni, che il tuo re intende dettarmi, Arkust, la mia risposta ti viene presto data. Sappi che oppongo un reciso diniego a tutte e quattro. Nello stesso tempo, ti metto al corrente che non temo le sue minacce. Perciò puoi andare a dirglielo!»

«Se la metti in questi termini, re Sourg, non esiste alcuna risposta da portare al mio re. Il suo ordine categorico è stato il seguente: "Al ritorno da Midosia, o verrai a dirmi che egli ha accettato tutte le mie condizioni oppure mi farai dono della sua testa!" Perciò, essendo stata negativa la tua risposta, dovrò procedere per la seconda opzione del mio sovrano. Ma prima che io passi a decapitarti, sarà una mia freccia ad arrecarti la morte.»

Pronunciate tali parole, Arkust non aveva perso tempo ad armarsi del suo arco e ad estrarre un dardo dal suo turcasso, mostrandosi pronto a far partire il colpo. Ma intanto che egli compiva quelle sue azioni, i soldati che componevano la scorta del loro sovrano non se ne erano restati a guardare. Superando il proprio re e il principe suo figlio, si erano affrettati a formare con i loro scudi una barriera impenetrabile, cercando così di essere di protezione ad entrambi. Ma la saetta del percus, una volta lanciata da lui, anziché proseguire in linea retta, aveva scavalcato l'ostacolo e superato perfino il sovrano di Midosia di tre metri circa. Dopo era ritornata indietro ed era andata a conficcarsi nella nuca della persona presa a bersaglio dall'arciere, fulminandola all'istante. Insomma, essa aveva seguito il percorso che Arkust aveva voluto che facesse, rallentandone la corsa e guidandola lungo la sua traiettoria con il pensiero.

Dopo esserci stata l'incredibile uccisione del sovrano midosiano, il capo supremo dell'esercito feciano si era rivolto al tremante figlio di lui e si era messo a parlargli in questa maniera:

«Dal momento che tuo padre è morto, principe Efur, sei diventato tu il sovrano di Midosia. Perciò dovrò chiedere a te se intendi ripristinare nella tua città l'antica amicizia esistente fra il tuo popolo e quello dei Feciani. Inoltre, dovrai riferirmi se sei disposto a sposare la figlia del re Tolep, garantendo così gli antichi rapporti amichevoli.»

«A differenza di mio padre, Arkust, sono propenso ad accettare le condizioni che mi vengono imposte dal re di Fecian, almeno quelle che mi competono. Perciò per me vanno bene la mia resa incondizionata al tuo esercito, già vincitore di fatto, il ripristino dell'amicizia fra i nostri popoli e il mio matrimonio con la principessa Ures. A patto che nella nostra città e sui nostri territori non ci sarà alcuna espoliazione, da parte dell'esercito feciano!»

«Di questo non ti dovrai preoccupare, principe Efur ed imminente re di Midosia. Ti do la mia parola d'onore che essa non avverrà né nella tua città né sui tuoi territori. Ti faccio anche presente che sarai incoronato re il giorno stesso che sposerai la principessa Ures. Inoltre, t metto a conoscenza che il mio sovrano presenzierà sia la tua incoronazione che le vostre solenni nozze.»

Il giorno dopo, Arkust aveva deciso di riportare il proprio esercito a Fecian, dove avrebbe informato il suo re di quanto aveva ottenuto in Midosia. Ma aveva lasciato di stanza in città un contingente di truppe, le quali non superavano il migliaio di soldati. Comunque, non aveva dimenticato di portare al suo sovrano il capo mozzo del re Sourg, che era stato da lui giustiziato. Nel suo incontro con il re Tolep, lo aveva messo al corrente di quanto doveva sapere; però dopo insieme avevano stabilito che le due cerimonie si sarebbero svolte a Midosia il mese successivo. Per questo ci si era preparati perché tutto fosse pronto entro la data stabilita. Così, già il mattino del quindicesimo giorno, il sovrano di Fecian, la nubenda figlia e i dignitari di corte invitati si erano messi in viaggio per Midosia, dove erano attesi per la celebrazione dei due grandi eventi. Durante la cerimonia delle nozze, il re Tolep ci aveva tenuto che i Midosiani apprendessero che esse erano state volute da lui per ripristinare i vincoli di amicizia che esistevano un tempo fra i loro due popoli. Quando poi i festeggiamenti erano terminati, era voluto ritornare alla sua città. Prima di partire, aveva ritirato da Midosia il presidio militare che Arkust vi aveva lasciato dopo l'assedio.

Erano trascorsi otto mesi, quando il sovrano di Fecian aveva inviato a Midosia tre messaggeri con l'incarico di incontrarsi con i suoi regnanti, siccome desiderava conoscere da loro la data presumibile della nascita di suo nipote. Ma in quel luogo essi si erano trovati di fronte ad una realtà che non si aspettavano, dovuta al fatto che il principe Efur, divenuto poi re, non era stato leale con Arkust e gli aveva mentito in tutto. Per questo, dopo le nozze e dopo che ogni presenza feciana era venuta meno nella sua città, in preda alla sua brama di vendetta, aveva iniziato a prendersela con la sua fresca sposa. Pur essendo contrario il capo dell'esercito Klaup, il quale era anche il suo consigliere militare, per prima cosa egli non aveva concesso la sua prima notte a colei che era appena diventata la propria consorte. Anzi, l'aveva consegnata ad una decina dei suoi soldati, affinché la deflorassero e la stuprassero in ogni modo possibile; dopo, però, avrebbero dovuto chiuderla in una cella buia e metterla a pane e acqua fino alla fine dei suoi giorni. Invece la sventurata regina Ures, pur essendo andata incontro ad otto mesi di stenti e di tribolazioni, era ugualmente sopravvissuta. Inoltre, per essere rimasta incinta durante la violenza carnale dei suoi stupratori che c'era stata nella prima notte di matrimonio, adesso si ritrovava con una gravidanza avanzata, la quale faceva prevedere un parto plurigemellare.

Quando i messaggeri feciani si erano fatti ricevere dal sovrano di Midosia e gli avevano riferito quanto il loro sovrano voleva sapere, egli, con spudoratezza, aveva risposto loro:

«Tra poco ve lo farò dire dalla stessa mia consorte a che punto è la sua gestazione. Perciò adesso mando a chiamarla. Così potrete chiedere direttamente a lei quando il nascituro verrà alla luce.»

Subito dopo, con un cenno della mano, aveva ordinato a due guardie di andare a prelevarla dalla sua cella e di condurla in loro presenza. Quando ciò era accaduto, ci si era trovati davanti ad una donna ridotta quasi pelle e ossa, con un addome ingrossato e quasi deformato, del tutto scarmigliata e disadorna, con due occhi scavati, i quali parevano scomparire all'interno delle ossute orbite. Inoltre, il suo portamento si presentava malfermo e traballante. Alla sua apparizione, il più autorevole dei messaggeri si era affrettato a domandare al sovrano midosiano, il quale non sembrava affatto né meravigliarsene né curarsene:

«Possiamo sapere, re Efur, chi è costei? E perché mai è ridotta in tale stato defedato, che non la fa neppure riconoscere?»

«È la figlia del tuo presuntuoso re, messaggero feciano. Chiedile quando partorirà i bastardi suoi figli, i quali dovrebbero essere più di uno, forse tre. Ma sono certo che essi non verranno mai alla luce, siccome nel giorno di domani la madre cesserà di vivere.»

«Re Efur, noi non comprendiamo quanto stiamo vedendo ed ascoltando. Come mai la tua regina si trova nella situazione in cui ci appare? Ma perché definisci bastardi quelli che dovrebbero essere i tuoi figli legittimi? Vuoi spiegarci ogni cosa su questa strana vicenda?»

«Dovete sapere, messaggeri feciani, che non ho mai né tollerato né dimenticato la fine che il vostro sovrano ha fatto fare a mio padre. Per cui ho deciso di vendicarmi contro sua figlia Ures. La notte delle nozze non sono stato io a sverginarla, poiché non ho voluto neppure sfiorarla con un dito. Infatti, l'ho consegnata a dieci miei soldati, perché la possedessero per l'intera nottata. Trascorsa la quale, ella è stata rinchiusa in una buia cella, dove è rimasta fino a quest'oggi e dove è stata mantenuta in vita con solo pane ed acqua. Nonostante ciò, alcuni mesi dopo è risultata gravida. Come vi rendete conto, i bastardi gemelli che porta nel suo grembo, i quali non verranno mai partoriti dalla loro madre, non sono miei; ma essi sono da considerarsi figli di padri ignoti, che non conosceranno mai la luce.»

«Re Efur, qual è il significato delle tue parole, quando dici che ai feti non verrà data la possibilità di diventare bambini e di nascere? Di grazia, vorremmo che tu ce lo spiegassi.»

«La spiegazione è molto semplice, messaggeri. La donna, che un giorno mi fu imposta come moglie con la forza, domani verrà esposta al pubblico ludibrio e sarà sottoposta alla pena capitale nella piazza principale di Midosia. Con lei periranno anche i suoi nascituri. Così dopo voi andrete a riferire al suo genitore che la mia vendetta, come è stata covata in me fin dall'inizio, domani sarà completata. Essa coinvolgerà anche tutti i miei sudditi.»

Il giorno dopo, la regina Ures era stata condotta a piedi al patibolo e giustiziata mediante impiccagione. Ma prima di giungervi, una folla imbestialita l'aveva spintonata, le aveva sputato addosso e le aveva vomitato contro gli insulti più volgari. Infine, dopo che la poveretta aveva esalato l'ultimo respiro, la sua salma era stata liberata dal capestro e tirata giù per essere decapitata, privata degli arti e data in pasto ad una muta di cani inferociti. Allora, dopo avere assistito a tanto incredibile scempio, i tre messaggeri feciani erano ritornati inorriditi nella loro città. In quel luogo si erano presentati al loro sovrano e gli avevano fatto una narrazione circostanziata di ogni atto perpetrato ai danni della figlia dal suo sposo e dal popolo midosiano, essendone stati i testimoni oculari. Al loro racconto era presente anche Arkust. Egli si era indignato più del padre della vittima, per non aver previsto quanto lo schizofrenico principe Efur si era tenuto nascosto dentro, facendolo in seguito esplodere con la massima ferocia contro una giovane che non aveva alcuna colpa. Perciò, non appena il suo sovrano aveva congedato i tre messaggeri, egli, con la rabbia negli occhi, si era dato a lamentarsi con lui e ad imprecare contro tutti i Midosiani, gridando forte:

«Che siano tutti stramaledetti gli abitanti di Midosia, a cominciare dal loro viscido sovrano! Re Tolep, fino a quando l'offesa da te subita e l'ingiusta punizione ricevuta da tua figlia non saranno lavate col sangue, non riuscirò più a trovare pace nel mio animo! Quindi, segua la nostra vendetta alle scelleratezze del tuo indegno genero, la quale dovrà accanirsi anche contro la sua città e punire l'intera popolazione midosiana!»

«La tua collera e ogni tua minaccia sono anche mie, Arkust, per avere i Midosiani umiliata e punita in maniera barbara la povera mia figliola. Per questo do a te mandato perché, nel giro di trenta giorni, Midosia venga espugnata e rasa al suolo, dopo che anche l'ultimo dei suoi abitanti sarà stato massacrato dal nostro esercito. Che si compiano, dunque, la nostra ritorsione e la nostra azione vendicativa contro quanti si sono macchiati di un delitto così atroce ai danni di mia figlia Ures, morta, in un certo senso, anche per colpa mia!»

Così, in capo ad un mese, Arkust era riuscito a ricostituire la precedente armata e a condurla di nuovo sotto le mura di Midosia, cingendola d'assedio. Ma egli, servendosi dello stesso espediente della volta scorsa, l'aveva fatta espugnare dai suoi soldati senza colpo ferire. Ad espugnazione avvenuta, con un manipolo dei suoi uomini aveva raggiunto la reggia, dove aveva fatto una grande strage delle guardie reali, le quali avevano cercato di sbarrargli il passo e di non farli avvicinare al loro sovrano. Quando poi aveva acciuffato il re Efur, Arkust prima lo aveva strozzato con le proprie mani, poi lo aveva decapitato e infine gli aveva troncato i quattro arti. Ossia, aveva operato sul suo corpo lo stesso scempio a cui lo scellerato monarca aveva voluto che sottoponessero la salma della moglie, dopo averla fatta impiccare. Soltanto dopo essersi vendicato di lui, egli aveva dato ordine ai suoi soldati di annientare l'intera popolazione di Midosia e di mettere a ferro e fuoco la loro città. Ma era convinto che il fuoco e il tempo avrebbero fatto il resto: il primo avrebbe raso al suolo ogni suo edificio, mentre il secondo l'avrebbe cancellata dalla memoria di ogni essere dotato di intelligenza.

Il ritorno di Arkust a Fecian era stato salutato dall'intera popolazione con somma gioia; anzi, essa lo aveva accolto come un vero trionfatore e gli aveva tributato elogi, lodi ed onori. Non erano mancati quelli che lo avevano considerato un grande eroe, degno della massima apoteosi ed avevano affermato che la sua memoria doveva restare per secoli indelebile nella coscienza del popolo feciano. Né il sovrano la pensava in modo diverso. Perciò, quando a corte se l'era visto davanti, gli era andato incontro e lo aveva abbracciato, dandosi a parlargli in questo modo:

«Grazie, Arkust, per aver vendicato mia figlia Ures, come noi due avevamo concordato! Da oggi ella potrà trascorrere in pace il suo tempo nel regno dei morti, poiché la sua morte orridamente bistrattata è stata vendicata con la massima durezza. Ciò, dopo che il nostro esercito ha trucidato l'intero popolo midosiano, il quale le aveva fatto patire tanti vili oltraggi, prima di sottoporla al capestro e di straziare il suo corpo nella maniera più barbara possibile.»

«Ho fatto quanto era giusto fare, mio sovrano. Non potevamo permettere al re Efur e al suo popolo di passarla liscia, dopo essersi resi colpevoli di un delitto così nefando nei confronti di tua figlia. Adesso soltanto possiamo ritenerci soddisfatti, per averle reso giustizia! I ruderi della loro città e i loro scheletri spolpati, che resteranno disseminati in ogni sua via, testimonieranno per sempre la loro malvagità e le atrocità inflitte alla tua nobile figlia.»

«Ben detto, Arkust! Adesso, però, i Feciani hanno bisogno ancora di te, dopo che hai sterminato i loro nemici. I quali avevano rifiutato di ridiventare loro amici, come lo erano stati un tempo, quando si godevano l'amicizia nella serenità e nella gioia più assolute.»

«Mi dici, mio sovrano, di cos'altro necessitano i miei concittadini? C'è forse ancora qualcosa che si oppone alla loro felicità e li fa vivere nella trepidazione? Voglio saperlo.»

«Certo che c'è, Arkust! Ma tu non puoi saperlo perché non sei vissuto in Fecian dalla nascita; anzi, non è trascorso neppure un anno da quando ci vivi. Occupato come sei stato a seguire la vicenda dei Midosiani, facendola smettere di essere un nostro problema, non c'è stato il tempo di informarti della nuova complessa questione, la quale attanaglia il nostro popolo. Sono certo che tu potresti risolvercela, se te ne incaricassi.»

«Allora, mio re, cosa aspetti a parlarmene, visto che già non vedo l'ora di privare il mio popolo di quanto da tempo continua a rendergli l'esistenza fitta di terribili pensieri?»

«Ebbene, Arkust, adesso ti metto al corrente della nuova amara realtà, la quale tiene imbrigliato il nostro popolo, che è impotente ad opporsi ad essa, non avendo i mezzi per farlo. Ma adesso, smettendo di divagare oltre, vengo subito al nocciolo della questione, che riguarda il mostro Tuspuz. Questo essere mostruoso, anche se la sua complessione potrebbe somigliare molto a quella di un drago, se ne differenzia invece per le seguenti caratteristiche: corporatura quadrupla, se paragonata a quella di tale animale; assenza di ali, per cui non vola; è tricefalo, avendo tre teste, che non emettono fuoco dalle fauci; il suo alito è pestifero, oltre che venefico, siccome riesce a soffocare e a tramortire qualunque persona od animale che gli si trova distante entro i dieci metri. Per questo lo si può uccidere, unicamente standogli oltre tale distanza.»

«Posso sapere, re Tolep, dove si trova questo mostro dal corpo spropositato e in che modo esso si dà a fare strage dei nostri concittadini? Inoltre, voglio che mi si faccia apprendere ogni quanto tempo avvengono le sue cruente scorrerie, cioè se sono giornaliere, settimanali o mensili, ammesso che le sue apparizioni non siano acicliche. Mi sarebbe anche utile conoscere se le medesime infuriano di giorno oppure di notte.»

«Arkust, da una infinità di tempo, tra i Feciani si è sempre saputo che Tuspuz trascorre i suoi giorni e le sue notti nel bosco che si trova a nord, a dieci miglia dalla nostra città. La sua dimora è costituita da una immensa spelonca, forse profonda più di trenta metri, la quale si addentra nel fianco dell'unica collina esistente in quel luogo. Quando decide di sfamarsi, la qual cosa avviene sempre nelle ore diurne, un mese dopo che c'è stata la precedente irruzione, esso esce dalla sua buia cavità e si dirige verso la nostra città. Una volta che l'ha raggiunta, abbatte un pezzo delle mura con i suoi arti anteriori, tirandolo giù dalle fondamenta e vi penetra con furia assassina. Allora ogni Feciano si mette a scappare per non trovarsi a quella distanza dal mostro che lo immobilizzerebbe, pur senza venirne preso. Comunque, quando gli capita, il mostruoso bestione abbranca tre nostri concittadini alla volta, poiché ogni sua testa deve averne uno nella propria bocca, li azzanna e li divora.»

«Se le cose stanno come mi hai raccontato, mio sovrano, domani stesso andrò a caccia del mostruoso assassino dei Feciani. Una volta che lo avrò scovato, non gli permetterò più di fare strage di loro. Ti prometto che presto avrai le sue tre teste, siccome gliele amputerò l'una dopo l'altra, dopo che avrò finito di privarlo dell'esistenza.»


L'indomani, come promesso al proprio re, Arkust, montato in groppa al suo cavallo, si era dato a cavalcare alla volta del bosco, dove, secondo quanto gli era stato assicurato, avrebbe avuto modo di imbattersi nell'enorme e temibile creatura mostruosa. Così vi era arrivato, dopo una celere corsa, la quale era durata un quarto d'ora. Giunto nella zona boschiva, egli si era messo alla ricerca del modesto rilievo, poiché la caverna di Tuspuz, il divoratore di uomini, si trovava alla sua base, precisamente sul suo fianco che era esposto a mezzogiorno. Pervenuto davanti al suo ingresso, Arkust innanzitutto aveva cercato di concertare un programma d'azione, il quale avrebbe dovuto fargli affrontare il mostro all'aperto, prevedendo che nel buio della sua spelonca per lui sarebbe stato molto duro impegnarsi con esso in un'ardua lotta. Al suo interno, infatti, non avrebbe potuto difendersi neppure dalle sue insidie esiziali. Allora aveva stabilito di farlo uscire allo scoperto, prima di ingaggiare l'aspro combattimento contro il suo avversario. Ma era stato il suo odore graveolente e nauseabondo a fargli rilevare la sua presenza all'interno di essa, visto che ne veniva fuori e si espandeva in ogni direzione.

Poco dopo Arkust si andava chiedendo quale marchingegno escogitare per costringerlo ad uscire dal suo covo e per affrontarlo alla luce del sole. Allora aveva pensato che sarebbe bastato del fumo al suo interno per allarmare chi vi stava trascorrendo le sue ore di riposo. Difatti non aveva avuto torto a ragionare in quel modo. Dopo avere acceso del fuoco all'imbocco dell'ampia caverna, servendosi di legna secca, dopo vi aveva gettato sopra dei rami verdi per produrre abbondante fumo. Così una parte di esso era penetrata pure dentro la profonda cavità. Per cui il suo abitatore, non appena ne aveva avvertito l'odore, immediatamente si era risolto ad abbandonare la sua dimora ed aveva iniziato a rinculare per uscirne. La sua gigantesca mole, infatti, non poteva permettergli di rigirarsi dentro la caverna per uscirne con le tre teste in avanti.

Il suo rinculo era durato all'incirca due minuti, ossia finché il suo corpo non si era ritrovato ad essere per intero all'esterno dell'antro, dove il mostro si era fatto conoscere con le sue reali caratteristiche. Oltre a quelle già apprese dal re Tolep, Arkust aveva potuto constatare che altre, da considerarsi pure significative, adesso potevano essere visionate da lui di persona. Perciò aveva appurato che i colli delle sue teste erano massicci e potenti, ma non molto lunghi; mentre la sua lunghezza poteva aggirarsi intorno ai trenta metri, compresi i cinque metri di coda. Dei quattro arti, di cui il mostro era fornito, quelli posteriori gli servivano per appoggiarsi sopra, quando assumeva la posizione eretta. Invece usava quelli anteriori, poco più piccoli, per abbrancare le sue prede o per agire su cose, quando si prefiggeva di rovinarle e di abbatterle. In quel caso, prima le tirava verso di sé e poi le scagliava assai lontano. Nella posizione indicata, essi venivano a trovarsi a venti metri di altezza.

Il confronto fra Arkust e Tuspuz era cominciato, subito dopo che il mostro aveva scorto sul suo cavallo colui che considerava un intruso, per aver egli violato il suo territorio. Alla vista del quadrupede equino e del cavaliere che lo montava, il mostro aveva assunto la posizione eretta. Dopo, intanto che gli arti superiori si agitavano frenetici, le sue teste avevano iniziato ad emettere dalle loro fauci il loro fiato tossico. Il quale aveva la funzione di far perdere i sensi agli esseri animali e alle persone che si trovavano nel suo raggio d'azione, per poi passare a divorarseli. Invece Arkust stava molto attento perché non vi capitasse, volendo evitare di fare da suo pasto prelibato. Ma oltre a non distrarsi, il percus si era armato del suo arco e con esso si diede a lanciare sei saette. Allora esse, l'una dopo l'altra, penetrate nelle cavità orbitarie, erano andate a colpire le tre coppie di pupille. Egli era riuscito a centrare i bersagli, nonostante l'agitato movimento delle teste, perché aveva potuto dirigerle con la mente e farle arrivare a destinazione senza alcun problema.

Essendo rimasto cieco, il mostruoso Tuspuz, a causa del suo grave stato fisico che gli evitava di concentrarsi, aveva fatto cessare l'uscita dalle sue fauci il tossico che privava della coscienza gli altri esseri animali. Oramai la cecità rendeva il mostro sprovvisto di un'azione capace di offendere e di difendersi. Da parte sua, Arkust ne aveva approfittato per infilzarlo più volte con la sua spada ed ucciderlo, troncandogli infine le tre teste dal busto. Al termine di tale triplice decapitazione, servendosi di tre ceste legate al basto di un mulo, egli le aveva portate in città e le aveva consegnate al suo sovrano. Prima di raggiungerlo, molti suoi concittadini le avevano scorte e se ne erano spaventati. In pari tempo, avevano gioito dell'uccisione del mostro Tuspuz ed avevano inneggiato al loro eroico campione suo uccisore, fino a quando egli non era pervenuto alla reggia. Ma a corte, il re Tolep non aveva voluto essere da meno dei suoi sudditi nel ringraziare e nell'elogiare colui che oramai era diventato l'eroe decantato di Fecian. Non appena se lo era trovato davanti, gli occhi gli si erano riempiti di sommo giubilo. Un istante dopo, si era dato ad abbracciarselo fraternamente e ad esprimerglisi con queste parole:

«Sbagliai ogni cosa, Arkust, quando decisi di far sposare mia figlia Ures con il perfido re Efur. Invece avrei dovuto darla in moglie a te, che la meritavi più di ogni altro mio suddito. Nessuno più di te l'avrebbe resa molto felice. Inoltre, non avendo io un erede maschio, mi saresti succeduto sul trono di Fecian, la qual cosa avrebbe allietato l'intero popolo feciano. Tra poco darò ordine al tesoriere di corte di mettere a tua disposizione tutte le monete d'oro che vorrai.»

Arkust, oltre a commuoversi alle parole del suo sovrano, anziché rispondergli in qualche modo, aveva preferito non pronunciare alcuna parola, per cui si era congedato da lui nel più pieno silenzio. In seguito, venuto in possesso delle monete d'oro, che il re Tolep gli aveva messo a disposizione in gran quantità, egli generosamente aveva voluto distribuirle alle famiglie feciane che risultavano in quel momento le più indigenti della sua città. Ma il destino aveva evitato di essergli grato, come egli lo era stato con i suoi concittadini. Durante un temporale, mentre si riparava dalla pioggia sotto un albero, essendo stato raggiunto da una folgore, ne era rimasto fulminato. Allora tutti quanti i Feciani avevano pianto la sua morte e ne avevano onorato la salma con un solenne rito funebre. Infine avevano preso la decisione di erigergli un grandioso monumento commemorativo nella piazza principale, affinché la sua memoria giammai tramontasse nella loro città e nelle loro menti.