444-L'ESERCITO BERIESKO LIBERA ACTINA DALL'ASSEDIO DEGLI ALLEATI
Durante la prima sosta serale dell'esercito del quale erano alla testa, il re Francide e Leruob, insieme con Tionteo e i giovani dorindani, tennero un incontro, il cui scopo era quello di decidere come affrontare la reale situazione. La quale prevedeva il loro imminente scontro con l'esercito alleato, che restava accampato tutt'intorno alla città di Actina, tenendola nella morsa del suo assedio. Ma per il momento, esso continuava ad essere sospeso a tempo indeterminato, con la serenità dei difensori actinesi. Le sette persone appena menzionate questa volta vollero riunirsi nella tenda del sovrano della Città Santa, la quale era quella che avrebbe occupato Iveonte, se fosse stato presente nell'accampamento in cui egli svolgeva le funzioni di capo supremo. Comunque, il primo ad aprire la bocca fu Leruob, che cominciò ad esprimersi così:
«Se pure voi ve ne siete accorti, amici, il tempo stringe. Perciò, prima che ci troviamo in prossimità del cordone degli assedianti, occorre metterci a meditare ciò che dovrà essere fatto da parte nostra tra non molto, per provocarne lo smembramento e per avere su di esso una facile vittoria, senza che tra i miei connazionali ci sia un numero esagerato di vittime. Ora lascio la parola al re Francide, poiché sarà lui ad illustrarci le varie fasi del piano di guerra che vorrà adottare nell'imminente battaglia, quando saremo costretti ad ingaggiarla contro i nemici.»
«Anche se ho già un piano da attuare nel nostro futuro conflitto,» il sovrano actinese iniziò a dire «però non intendo parlarvene, se prima non vi avrò chiarito taluni particolari che lo riguardano, siccome li reputo di fondamentale importanza. Tra poco, lo comprenderete anche voi.»
«Se hanno una loro rilevanza, come affermi, re Francide, allora datti a farceli presenti, poiché noi li ascolteremo con la massima attenzione.» Leruob lo assecondò senza remora; ma anche tutti gli altri presenti furono dello stesso parere del Beriesko.
«Secondo me, prima di ogni cosa, bisogna incominciare a chiedersi chi ha voluto questa guerra contro Actina, pur essendo la città protetta dalla prodigiosa divinità di Matarum. Ebbene, come i quattro giovani dorindani già sanno, essa non è stata voluta dagli altri popoli edelcadici, quelli che adesso assediano la mia città. Né l'hanno voluta i loro sovrani, i quali, al momento del suo scoppio, avevano già smesso di trovarsi fra i viventi, per colpa degli Umanuk, che li avevano uccisi di nascosto.»
«Come sia possibile un fatto del genere, nobile sovrano?» Tionteo intervenne a fargli le sue domande «Allora chi avrebbe condotto sotto le mura della Città Santa i loro soldati, arruolati tra i propri sudditi? Inoltre, essi a chi avrebbero ubbidito, senza che l'ordine fosse provenuto direttamente dai rispettivi monarchi? Sono convinto che anche Leruob vorrebbe esserne messo al corrente, non essendo chiare talune cose.»
«Infatti, Tionteo, stavo anch'io per chiedere le medesime cose all'amico fraterno di mio cugino, quando il tuo intervento, precedendomi di un soffio, non mi ha permesso di fargliele.» Gli fece presente il cugino materno di Iveonte.
«Adesso, Leruob e Tionteo,» il re Francide riprese a parlare «vi riporto alcuni fatti che ignorate, visto che voi due eravate lontani dai luoghi in cui essi un tempo sono avvenuti. Ma l'ascoltarli, da parte vostra, vi richiederà un po' di pazienza. Del resto, almeno per alcuni di tali fatti, ero assente anch'io, mentre accadevano. Ne sono stato informato successivamente dai giovani, che avete conosciuti da poco e che ora si trovano in questa stessa tenda. Ve lo possono confermare loro stessi, poiché essi li hanno appresi dalla persona che ne è stata testimone.»
«Colui che li ebbe a dichiarare al nostro capo Lucebio, cari amici,» Solcio intervenne a precisare «era Gerud, il consigliere del re Cotuldo, il quale era riuscito a scoprire cose incredibili avvenute nella reggia di Dorinda. Comunque, adesso lascio il re Francide a riferirvi il resto, come è giusto che sia, pregandolo di scusarmi per questa mia intromissione nel suo racconto. Forse avrei fatto meglio a non interloquire, se non altro per educazione e per rispetto della persona da me interrotta.»
«Invece hai fatto bene, Solcio, ad accennare all'utile dettaglio che c'era stato a Dorinda, grazie al quale Leruob e Tionteo hanno appreso qualcosa di più, circa la morte dei sovrani delle varie città dell'Edelcadia, tra i quali non era compreso quello di Actina, che sarei io. Ma ora vado avanti con il rapporto che stavo facendo ai due precedenti destinatari. Ebbene, cugino della mia consorte, presso ogni città edelcadica, fatta eccezione della Città Santa, risiedeva un Umanuk, il quale, essendo il protetto di una propria divinità malefica, aveva ricevuto da essa il dono dell'immortalità, oltre a quello che gli consentiva di trasformarsi in un mostro dalle prerogative straordinarie, le quali lo rendevano inattaccabile da qualsiasi essere umano. Inoltre, ciascun Umanuk era in grado di assumere le sembianze di una persona, unitamente al registro e al timbro della sua voce, riproducendone anche l'inflessione ad essa relativa. Naturalmente, ricorreva a tale trasformazione, dopo averla uccisa con qualche espediente. Ad un certo punto, grazie a questa loro prerogativa, ogni Umanuk, forse perché gli era stato ordinato dal suo divino protettore, aveva chiesto una udienza riservata al re della propria città. Quando poi si era trovato faccia a faccia con lui, in un colloquio apparentemente confidenziale, lo aveva ammazzato, facendo assumere al morto il proprio volto e prendendo lui quello del sovrano ucciso.»
«Una volta assunte le sembianze dei sovrani, re Francide,» Tionteo gli chiese «dopo essi come avevano giustificato agli altri cortigiani l'ammazzamento di coloro che gli avevano chiesto udienza?»
«In un modo molto semplice, ex comandante della mia Guardia Reale. Dichiarava a tutti loro che la persona, la quale gli aveva chiesto un colloquio privato per comunicargli alcune cose della massima riservatezza, durante la privacy dell'abboccamento aveva tentato di ucciderlo. Perciò, prevenendolo, era stato costretto ad eliminarlo.»
Dopo aver dato la risposta al nuovo intervento di Tionteo, il re Francide si decise ad andare avanti, dicendo:
«Riprendendo il mio racconto, miei cari ascoltatori, vi faccio subito presente che, con la soppressione dei sette re edelcadici, essi intendevano perseguire un loro fine malvagio. Infatti, apparendo ai propri sudditi come i loro veri sovrani, non gli fu difficile ingannarli spudoratamente e governarli sotto mentite spoglie, fino a riferirgli di avere appreso che nella Città Santa gli Actinesi avevano distrutto il tempio dedicato al dio Matarum. Perciò bisognava punire quel loro atto blasfemo e dissacratorio, dichiarandogli guerra. A quella falsa notizia, i loro popoli non si opposero all'azione bellica, che essi avevano deciso di portare sui territori di Actina, ponendo quest'ultima sotto assedio. Anzi, considerandosi i difensori della loro somma divinità, l'accolsero come giusta ed inevitabile.»
«Dopo essere ricorsi a tale menzogna, re Francide,» Leruob intervenne a domandargli «alla fine gli Umanuk quanti uomini riuscirono a reclutare nelle città, dove governavano nelle vesti degli ex sovrani? Secondo me, un numero esorbitante, se non mi inganno!»
«Non ti sbagli, Leruob. Quando essi si presentarono sotto le mura della mia città, per lo meno i loro soldati dovevano raggiungere il numero di quattrocentoventimila unità. Ma oggi tale quantità si è alquanto ridimensionata, dopo che ci sono stati tanti tentativi di assedio, che noi siamo riusciti a respingere di continuo, mietendo nelle loro schiere assedianti migliaia e migliaia di vittime. Perciò attualmente, dopo le immani perdite subite, comprese quelle che gli sono state inferte di recente dalla tua legione d'avanguardia, senza escludere neppure che possano esserci state numerose defezioni tra le loro fila, sono portato a credere che il numero dei soldati nemici si sia ridotto a trecentomila unità. Inoltre, essi risulterebbero oltremodo stremati e provati dai segni di una modesta denutrizione, a causa della scarsità di cibo, la quale si è fatta avvertire nei loro accampamenti.»
«Allora, sovrano di Actina, se la situazione è davvero quella che mi hai descritta, non dovrebbero esserci difficoltà, da parte del nostro esercito di oltre trecentotrentamila soldati, ad avere ragione di loro. Anche perché i soldati berieski sono più combattivi e meglio organizzati in fatti di battaglie campali. Ma visto che ci sono, approfitto per farti la seguente domanda: Come mai, riferendoti agli Umanuk, hai sempre usato il verbo al passato, come se, ad un certo momento, fossero scomparsi dalla circolazione? Se non è stata una mia impressione, vuoi chiarirmene il motivo? Così dopo verrà a saperlo anche Tionteo, il nuovo amico di mio cugino Iveonte, considerato che anch'egli ne è ignaro quanto me.»
«Difatti non è stata una tua impressione, Leruob. I posticci sovrani delle sette città alleate non esistono più. Ma adesso vi racconto come, da poco tempo, è avvenuta la loro distruzione, ad opera del nostro Iveonte, il quale adesso ha anche la facoltà di volare. Sempre secondo la mia supposizione, per delle ragioni che non ci sono date di conoscere, agli Umanuk era stata proibito di attaccare la Città Santa sotto le loro spoglie mostruose. Invece essi, quando hanno visto che l'assedio non dava i risultati da loro auspicati, anzi si trovava ad un punto morto, hanno deciso di trasformarsi in mostri e di distruggere la nostra città. Così si erano già dati ad arrecare grossi danni a cose e a persone in Actina, quando nei nostri cieli è apparso Iveonte. Egli, colpendoli con il suo anello taumaturgico, li ha fatti prima ritrovare in una grande fiammata e poi li ha fatti sparire nel nulla, come se si fossero volatilizzati, sotto gli occhi degli stessi soldati nostri nemici.»
«Quindi, re Francide, gli eserciti alleati oggigiorno si ritrovano anche senza i loro condottieri, essendo stati eliminati dal nostro Iveonte. Per cui la loro situazione è divenuta ancora più disastrata ed incontrollabile, sebbene ci siano i loro disorientati ufficiali a tenerli a fatica sotto controllo. Ma non credo che ci riescano, tenuto anche conto della penuria di vettovaglie, la quale domina nei loro accampamenti. Ebbene, data la loro precaria situazione, se ho bene inteso, tu volevi darci degli orientamenti in riferimento ad essa, prima di metterci di fronte al tuo piano strategico, il quale dovrà condurci all'impatto con l'esercito nemico. Allora stiamo aspettando che tu ce li dia e li giustifichi allo stesso tempo.»
«Ora proprio a questo volevo arrivare, Leruob. Come possiamo renderci conto, i sette eserciti avversari, con i loro ufficiali e i loro soldati, non hanno alcuna colpa del loro assedio contro Actina, essendo stato voluto da coloro che essi credevano i loro sovrani. I quali glielo hanno anche presentato, adducendo pretesti ingannevoli, pur di farglielo accettare con una disposizione d'animo convinta ed animosa. Perciò, nel caso che ci venisse consentito, vorrei evitare un loro bagno di sangue, magari chiarendo agli attuali loro comandanti come sono andate fino adesso realmente le cose. Inoltre, li inviteremo a deporre le armi e a sciogliere i rispettivi eserciti, rimandando a casa i soldati che ne fanno parte. Ma a ciò si potrà arrivare, solo dopo che li avremo costretti a trovarsi in una posizione di svantaggio, che dovrà risultare la nostra forza di persuasione nelle trattative che avvieremo con loro. Per questo è d'obbligo avere un piano strategico che ci faciliti tale compito, se ci sarà anche da parte loro l'intenzione di negoziare e di portare a termine la negoziazione, senza che ci sia il confronto tra i nostri eserciti.»
«Se metti in questi termini la nostra futura questione bellica, sovrano di Actina, vuoi informarci con quale piano strategico dovremo presentarci all'appuntamento con i nostri nemici? Esso dovrà pure garantirci una sicura vittoria su di loro, nell'eventualità che questi non vorranno sentire ragione e si opporranno al nostro dialogo basato sulla pace.»
«Ebbene, Leruob, del piano, a cui hai fatto riferimento, adesso vi faccio subito una relazione, affinché ne veniate a conoscenza in ogni suo dettaglio. Per prima cosa, bisognerà fare in modo che il nostro esercito arrivi in prossimità di quello nemico, quando la notte si è già calata dappertutto ed ogni cosa viene nascosta dalle sue tenebre. Allora anche le nostre schiere riusciranno ad occultarsi facilmente agli eserciti nemici, pur sostando a qualche miglio di distanza da loro. A quel punto, tutti i nostri arcieri, che non saranno meno di ottantamila, con alle spalle i cavalieri di supporto, si daranno ad avanzare lungo l'intero cordone formato dai nemici, finché ciò gli sarà possibile senza che essi li scoprano. Si sa che si tratta di una fascia larga non più di un miglio, la quale circonda in toto l'intero perimetro delle mura di Actina e permette agli eserciti alleati di bivaccarvi. Raggiunto questo primo traguardo da parte dei nostri soldati, io, Tionteo e i quattro giovani dorindani qui presenti rientreremo in città, come siamo abituati a fare. Una volta al suo interno, daremo ordine agli addetti alle catapulte di prepararsi a lanciare palle di fuoco e proiettili di varia natura e di differente grandezza verso gli accampamenti nemici e di attendere il mio ordine per dare inizio ai loro lanci. Esso sarà dato da quattro frecce incendiare, una su ciascuna porta della città, alle quali verrà fatto solcare il buio cielo poco dopo la mezzanotte. Le quattro saette, ovviamente, saranno anche di segnale ai nostri arcieri di appiccare il fuoco ai loro dardi e di darsi a scagliarli in direzione degli accampamenti, dove i nostri nemici sono dediti al loro sonno profondo. Trascorso un quarto d'ora di esecuzione di tali lanci, i quali dovranno servire a dare alle fiamme quante più tende possibili, intanto che il silenzio regnerà sovrano nella notte, i nostri cornisti baderanno a rendere più livido e sinistro il cataclisma infernale, il quale si sarà già instaurato tra i nemici. Essi, dalle mura e dalle file del nostro esercito, si daranno a dare fiato ai loro strumenti senza cessazione, facendo lievitare il disorientamento e lo sgomento che, ad un certo momento, avranno iniziato ad impossessarsi dei soldati nemici. Comunque, dopo due ore di lanci, l'opera dei nostri arcieri e dei manovratori delle catapulte sistemate sulle mura dovrà avere termine. Da quell'istante, però, dovrà esserci la massima sorveglianza da parte dei nostri arcieri collocati in prima fila, affinché nessuno dei soldati nemici tenti la fuga dal proprio accampamento. Quelli che ci proveranno dovranno essere abbattuti. Non bastando ciò, faremo venire fuori dalla città anche l'esercito actinese, il quale si apposterà oltre il fossato e in prossimità delle truppe nemiche più avanzate, pronto ad intervenire in mattinata contro di loro, nel caso che la circostanza lo richiedesse. Così, nel frattempo, se non ci saranno contrattacchi da parte degli eserciti nemici, ma sono convinto che non ce ne saranno, si aspetterà l'arrivo dell'alba per avere sott'occhio il loro nuovo quadro della situazione. Ma potremo conoscere i futuri sviluppi del conflitto, che per il momento ci sarà stato solo unilateralmente, allo spuntare di tale parte del giorno, quando tutto ci sarà chiaro e conosceremo le intenzioni dei loro capi.»
«Per la precisione, re Francide, cosa avverrà alle prime luci del giorno negli accampamenti nemici e come faremo a contattare i loro comandanti supremi per invitarli ad una resa ragionevole, magari concedendo ai loro eserciti anche l'onore delle armi? Ovviamente, ciò dovrebbe avvenire, dopo essersi convinti di essere stati imbottigliati dall'esercito beriesko e da quello actinese, senza avere più alcuna possibilità di evitare un orribile massacro dei loro soldati da parte nostra.»
«Di questo particolare, Leruob, non avremo da preoccuparci, poiché ci serviremo dei nostri ambasciatori. Essi, oltre a fargli presente in che scenario apocalittico sono venuti a trovarsi i loro eserciti, li inviteranno a condursi in mia presenza per patteggiare i termini della loro resa con me, se non vogliono essere annientati. Il suo successo sarà reso noto sempre tramite il lancio di quattro frecce. Una striscia di tela bianca appesa alla loro cocca vorrà dire che la loro resa incondizionata è stata accettata; mentre, se la fascetta risulterà nera, ciò significherà che essa è stata respinta. In questo caso, i nostri due eserciti dovranno mettersi in stato di allerta e attendere i successivi ordini. Adesso che vi ho chiarito ogni cosa riguardante il mio piano e si è fatto abbastanza tardi, possiamo anche darci al nostro meritato riposo. Buonanotte a tutti!»
Nella tarda mattinata del terzo giorno di marcia, l'esercito beriesko si trovava già in prossimità di quello alleato, il quale era accampato su una fascia di terreno ampia un miglio e circondava interamente la città di Actina. Allora esso, volendo assumere la medesima disposizione dell'altro, si diede ad accerchiare a sua volta i nemici che avevano posto sotto assedio la Città Santa e non si decidevano ancora ad allentare la presa. L'accerchiamento fu ultimato intorno alla mezzanotte, per cui i sagittari si mobilitarono per assumere la loro posizione, come previsto dal piano strategico elaborato dal re Francide. Dopo la qual cosa, si attese che fosse visibile nel cielo il segnale convenuto. Quando infine si scorsero i quattro dardi di fuoco solcare il cielo, puntando verso l'alto, essi diedero di piglio ai loro archi e cominciarono a far pervenire negli accampamenti nemici piogge di frecce incendiarie, in concomitanza con i lanci di palle di fuoco e di proiettili fracassanti, che provenivano dai cammini di ronda della città, dove erano sistemati diversi tipi di catapulte atte a lanciarli.
A quel punto, i vari elementi eietti da tali armi da getto, specialmente perché esse trasportavano del fuoco, non ci misero molto a provocare una infinità di incendi negli accampamenti nemici. I quali, a cominciare dalle tende dei soldati, si diedero a bruciarvi ogni cosa, in particolare le masserizie e i depositi di foraggi. Quanto ai proiettili, essi andavano colpendo sia cose che persone, rendendo quei luoghi ancora più orrifici e colmi di lamenti. Invece i soldati, non sapendo come e contro chi reagire, cercavano soltanto di sfuggire tanto alle frecce quanto alle pietre di disuguale grossezza, le quali seguitavano a tempestarli dal cielo. In mezzo a tutto quello sfacelo di cose, che andavano prendendo fuoco con rapidità impressionante, non risultava facile da parte loro spegnerle e riportare il loro accampamento a qualcosa che riproducesse almeno parzialmente l'ordine di prima. Allora, rinunciandoci, cercavano un posto dove non potessero bruciarsi, ammesso che fosse stato possibile trovarlo.
Quando alla fine si notò che ovunque era cessata la pioggia di frecce, di palle di fuoco e di proiettili di diversa natura, la qual cosa li fece un po' respirare, ad un tratto, il sordo suono di una miriade di corni cominciò ad espandersi in ogni parte degli accampamenti nemici, i cui soldati già stavano vivendo momenti di penosa costrizione. Perciò esso accrebbe nei loro animi lo smarrimento e la desolazione, inducendoli a vivere l'uno e l'altra in un quadro catastrofico che li coinvolgeva, nel quale andavano a braccetto lo squallore e la degradazione più inaccettabili. Tale disastro psichico durò in tutti loro, finché il sole non ritornò a risplendere negli accampamenti, che oramai si presentavano disastrati e in rovina. Inoltre, adesso venivano privati dei conturbanti suoni dei corni, poiché essi avevano cessato di lacerare i loro timpani auricolari.
Quel mattino il disco dorato, anziché apparire sorridente come gli altri giorni, a tutti poteva unicamente farsi scorgere attraverso uno strato di costernante cupezza. A quello spettacolo impressionante, il quale si registrava in ogni angolo dei loro accampamenti, da parte dei sette comandanti in capo, fu giocoforza riunirsi e discutere di quel disastroso evento imprevisto. In verità, lo fecero anche perché si era presentata nell'accampamento casunnano una delegazione del sovrano della Città Santa, del quale essa aveva recato il messaggio che conosceremo tra breve, ossia durante la loro riunione. Essa, che per evidenti ragioni ci fu all'aperto, non essendoci rimasta una sola tenda integra oppure in piedi, vide il comandante casunnano Klus parlare per primo ed esprimersi agli altri in questo modo:
«Miei amareggiati colleghi, dire che la nostra situazione è disperata sarebbe come dichiarare la decima parte di quanto essa si presenta in questo mattino. Non ci saremmo mai aspettato che un altro esercito della grandezza di quello nostro ci attanagliasse tutt'intorno. Non bastando ciò, c'è anche quello actinese che ci attende al varco dalla parte interna, dopo che in nottata si è riversato completamente dalla sua città, senza che ce ne accorgessimo. Inoltre, i nostri soldati sono stati decimati durante le loro operazioni di stanotte, le quali hanno anche messo a soqquadro i nostri accampamenti, trasformandoli in una congerie di uomini e di cose, a dir poco scioccante. Perciò, a mio avviso, poiché non ci gioverebbe reagire ai nostri nemici, la quale reazione causerebbe tra i nostri soldati una strage senza precedenti, suggerisco di accettare quanto il re Francide è venuto a proporci tramite i suoi ambasciatori. Essi ci hanno anche descritto molto bene la nostra attuale precaria situazione. Se anche voi tutti siete favorevoli all'incontro con il sovrano actinese, la qual cosa ci toglierebbe dall'imbarazzo in cui ci troviamo adesso, non ci resta che condurci oggi stesso alla sua corte e trattare con lui l'onorevole pace, che è venuto a proporci.»
Non essendoci stato neppure uno di loro contrario a quanto Klus aveva proposto con il suo conciso discorso, nel pomeriggio i sette comandanti in capo si condussero a parlamentare con il re Francide. Costui, quando se li trovò tutti e sette davanti, iniziò a dirgli:
«Se avete accettato il mio invito, egregi comandanti, è perché in voi ha prevalso il senso di responsabilità. Per questo vi ringrazio di questa vostra saggia decisione. Vi garantisco che non vi pentirete di essere venuti da me per trattare i preliminari di pace, dopo che su questa insana guerra avrete appreso da me delle cose incredibili, quelle che ciascuno di voi giammai immaginerebbe. Adesso ve le faccio conoscere.»
Quando il sovrano della Città Santa ebbe terminato di raccontare ogni cosa sugli Umanuk, i quali ora risultavano tolti dalla circolazione, il comandante casunnano gli domandò:
«Alla luce dei fatti che ci sono stati nell'Edelcadia e non avendo più i nostri falsi sovrani a farci da guida, re Francide, cosa vorresti che facessimo, perché tra i nostri popoli e quelli di Actina e di Dorinda ritornino a regnare la pace e la concordia?»
«Pretendo da ciascuno di voi di sottostare alle mie seguenti quattro condizioni: 1) stando al suo comando, ciascuno di voi dovrà riportarsi il proprio esercito nella città, da cui è partito per venire ad assediare la Città Santa; 2) dopo averla raggiunta, egli dovrà scioglierlo ed invitare i soldati a rientrare nelle loro famiglie; 3) dovrà favorire il ripristino sul trono della propria città della vecchia dinastia, con l'incoronazione del legittimo erede del precedente sovrano; 4) dovrà invitare il suo nuovo sovrano a riallacciare i vecchi rapporti di amicizia con la città di Dorinda. Dopo lo metterà anche al corrente di quanto si è obbligato a rispettare ciò che tra poco sarà sancito formalmente tra di noi in questa odierna riunione. Chi avesse qualcosa in contrario può dirlo adesso.»
«Se queste sono le condizioni che ci imponi, sovrano di Actina, parlando anche a nome dei miei colleghi presenti, le accogliamo volentieri e ti giuriamo che esse non saranno disattese da nessuno di noi. Perciò domani stesso lasceremo i tuoi territori e ci metteremo in marcia per raggiungere le nostre città, suggellando questo importante accordo con una cordiale stretta di mano. Essa ci onorerà, per averla data ad un galantuomo di re, quale tu sei senza alcun dubbio!»
Dopo che gli ebbero stretto la mano, sentendosi onorati di farlo, gli ospiti del re Francide si accomiatarono da lui e se ne ritornarono presso i rispettivi eserciti. In quel luogo, essi si diedero ad allestire la partenza dei loro eserciti, che era prevista per il giorno successivo. Così l'indomani i sette eserciti poterono lasciare il loro disfatto accampamento, solo perché i loro comandanti in capo avevano accettato il giorno prima le quattro condizioni imposte loro dal sovrano actinese. Altrimenti essi sarebbero stati stretti nella morsa massacratrice dei Berieski e degli Actinesi, i quali invece li lasciarono partire, senza che ci fosse stato da parte loro un solo colpo contro quelli che ormai non consideravano più nemici.
Una volta che gli eserciti alleati furono andati via, ma non prima di aver ripulito le varie zone da loro occupate da tutte quelle cose malridotte che restavano dei loro accampamenti semidistrutti, l'esercito beriesko e quello actinese dovettero sobbarcarsi al lavoro di smaltimento dei numerosi cadaveri lasciati negli accampamenti e sotto le mura. Ad eliminare i primi ci pensarono i Berieski, i quali si preoccuparono di cremarli sopra delle grosse pire. Invece gli Actinesi badarono a rimuovere i secondi, buttandoli nel fossato che circondava la loro città e ricoprendoli con del terreno, rassodandolo fino a farlo pareggiare con la superficie che si estendeva su entrambi i suoi lati. Riguardo al materiale terroso impiegato a coprire le salme gettate dentro il fossato, va fatto presente che esso era quello che in passato era venuto fuori dal lavoro di scavo. Il quale era stato poi trasportato e collocato in un avvallamento, che era situato a due miglia da Actina. Alla fine di tali lavori, l'esercito actinese rientrò nella propria città, mentre quello beriesko pose il proprio accampamento sulla piana che si trovava ad est della Città Santa, in attesa che si prendessero per esso nuovi ordini da chi ne deteneva il comando.
Prima di darci a conoscere i fatti che erano seguiti dopo, conviene fare un passo indietro ed apprendere cosa era avvenuto, all'arrivo del re Francide, di Tionteo e dei quattro giovani dorindani nella reggia actinese. Ebbene, appena essi si erano presentati a corte, erano stati accolti con somma gioia da quanti stavano trepidando per loro, in modo particolare dalla regina Rindella e dalla nobildonna Talinda, rispettivamente moglie e madre del sovrano. Invece aveva commosso di più l'incontro che c'era stato tra i due amici di infanzia, che erano Astoride e Tionteo, il quale si era rivelato qualcosa di stupendo e di commovente. Alla corte di Actina, in passato essi, pur avendo avuto dei contatti, non avevano potuto esprimersi quel profondo affetto e quella sentita emozione, solo perché era mancato il tempo di riconoscersi come i vecchi amici della loro fanciullezza. Quando se ne erano resi conto, siccome Tionteo seguiva Iveonte nel suo interminabile viaggio, la lontananza non aveva permesso che ciò accadesse con tutta la loro prorompente carica gioiosa. Nel breve tempo che avevano avuto a disposizione per stare insieme, Tionteo aveva informato il proprio concittadino che nella Guardia Reale facevano servizio anche molti loro compatrioti, tra i quali anche alcuni parenti e conoscenti. Invece Astoride non poté fornirgli le notizie che riguardavano la madre Clidia e la sorella Dildia, come richiesto dall'amico. La ragazza interessava a Tionteo, poiché ella era stata la sua fiamma di un tempo; anzi, essa seguitava a restare ancora accesa nel proprio animo.
In merito poi alla sua riunione avuta con i comandanti in capo dei sette eserciti edelcadici nella sala del trono, il re Francide, al termine di essa, aveva voluto trattenervi il solo Surkut, il quale era il comandante dell'esercito terdibano. Così, non appena gli altri capi supremi avevano sgomberato la sala, egli si era dato a dirgli:
«Se hai la compiacenza di attendere, comandante, intendo presentarti due persone che stanno per giungere in questo luogo. Lo desidero non solo perché tu le conosca, ma anche per informarti di fatti importanti, la cui conoscenza da parte tua, oggi come oggi, potrà solo esserti utile. Essa ti porrà davanti un problema, che sei tenuto a risolvere.»
«Se è vero quanto affermi, re Francide, con piacere resto qui ad attenderle. Ma presuppongo che esse siano persone molto illustri, se ci tieni a presentarmele.»
«Questo tuo pensiero, Surkut, potrai esprimerlo dopo che ti sarai reso conto della reale situazione, che tra poco ti ritroverai a vivere con animo tiepido e meravigliato.»
Erano passati circa cinque minuti, allorché Astoride e Tionteo avevano fatto il loro ingresso in quel posto, consapevoli che la loro presenza vi era attesa. Quando poi entrambi si erano avvicinati al trono, il sovrano, rivolgendosi al comandante terdibano, gli aveva detto:
«Surkut, della coppia di giovani che ti sono davanti, quello a destra è Astoride, l'attuale comandante della mia Guardia Reale; invece quello a sinistra è Tionteo, il quale ebbe pure lui le medesime funzioni in questa reggia. Ma al di là della loro posizione e delle loro attribuzioni che hanno avuto o hanno tuttora nell'ordinamento gerarchico di Actina, la loro specificità in campo sociopolitico è ben altra, che adesso passo a rendertela meno confusa. Tionteo è di verace stirpe reale, essendo nipote del defunto Eleunto, il saggio re che un tempo ha governato sulla vostra Terdiba. Egli, dopo aver spodestato il figlio Gurtuda quale suo successore al trono ed aver preferito al suo posto Elezomene, il comandante del suo esercito, volle anche chiarire che, alla morte di costui, avrebbe dovuto succedergli il nipote Tionteo. Astoride, invece, è il figlio del defunto Elezomene, il quale rimase vittima di una congiura capeggiata dal fratello Romundo, che così gli usurpò anche il trono. Ora, siccome lo zio di Astoride è morto, essendo rimasto ucciso dall'Umanuk di Terdiba, si pone il seguente problema: A chi dei due giovani spetta succedergli sul trono?»
«Me lo sto chiedendo anch'io, re Francide, se lo vuoi sapere, poiché il caso mi si presenta una vera matassa ingarbugliata. Tu invece avresti già la soluzione in merito?»
«Certo che ce l'ho, comandante! Per un chiaro senso di giustizia, il trono di Terdiba tocca a Tionteo, considerato che da migliaia di anni i suoi progenitori hanno sempre regnato sulla loro città, fatta eccezione di quella breve parentesi voluta dal re Eleunto, per averne affidato lo scettro ad Elezomene, ritenendo il figlio Gurtuda un uomo di costumi licenziosi e dalla condotta depravata. Se lo vuoi sapere, Surkut, mio cognato Astoride è della stessa mia idea. Inoltre, è convinto che l'amico di infanzia Tionteo e la propria sorella Dildia, che egli è intenzionato a sposare, saranno degli ottimi regnanti per il popolo terdibano. Perciò tu adesso gli giurerai obbedienza ed annuncerai al tuo esercito che il vostro nuovo re Tionteo marcerà alla sua testa, intanto che ve ne ritornate alla vostra lontanissima città. A sua volta, egli ti riconfermerà la carica che attualmente ricopri, fino all'età che te lo consentirà.»
Da parte del comandante Surkut, non c'erano state obiezioni, per cui Tionteo, dopo aver salutato quanti a corte lo conoscevano, alla testa del suo esercito e nelle vesti di sovrano, si era avviato felice e soddisfatto verso la città natale, non vedendo l'ora di incontrare la sua Dildia. Anche perché ignorava come lei stava trascorrendo i suoi giorni, mentre egli stava per raggiungerla a Terdiba. Comunque, anche nelle sei restanti città ci fu in seguito l'incoronazione dei legittimi eredi, i quali risultarono: Raco, il fratello di Lerinda, nella città di Casunna; Axep, lo zio del re Francide, nella città di Stiaca; Burov, nella città di Statta; Dazun, nella città di Cirza; Egop, nella città di Polca; Kavuz, nella città di Bisna.