442-SOLCIO, ZIPRO, POLEN E LICIUT TRA GLI ACTINESI DELLA TENDOPOLI

Quando i quattro giovani dorindani lasciarono a notte fonda le mura della città che si trovavano sul lato orientale per raggiungere gli accampamenti degli eserciti alleati, ci ricolleghiamo al presente della nostra storia. Per questo ci diamo a seguirli direttamente, ossia nel momento stesso che essi erano intenti a venire a capo della loro delicata missione. Anche nel nuovo incarico, non appena raggiunsero il primo accampamento, il quale risultò essere quello bisnese, essi prima si impadronirono degli elmi di quattro soldati che dormivano e subito dopo si allontanarono da loro alla svelta. Infatti, avevano premura di superare il cordone di armati che bivaccavano all'addiaccio. Mentre lo attraversavano, a causa del loro esiguo numero, probabilmente dovettero essere scambiati per una pattuglia in perlustrazione, la quale faceva servizio all'interno dell'accampamento. Superata la fascia degli armigeri bisnesi, sotto il chiarore di una luna crescente che era al suo primo quarto, i quattro giovani amici gettarono via i loro elmi presi a prestito in precedenza da coloro che neppure sapevano che glieli stavano prestando. Dopo, favoriti dallo scarso chiarore lunare, si diedero alla fuga attraverso l'aperta semibuia campagna, stando in groppa a dei cavalli, che avevano sottratto ai loro proprietari che erano dediti al sonno. A un certo punto, però, essi decisero di fermarsi in un luogo appartato per una sosta, dove avrebbero approfittato per fare almeno un paio di ore di piacevole dormita.

La sopraggiunta alba li trovò che se la dormivano ancora; allora furono i garruli uccelli a risvegliarli dal loro sonno profondo, rammentando ad ognuno di loro la missione che, di propria iniziativa, avevano deciso di condurre a termine. La quale andava compiuta, prima che i soldati nemici giungessero per caso alla tendopoli actinese. Infatti, proprio quella mattina si stavano muovendo dai rispettivi accampamenti i carri, i quali avrebbero dovuto procacciare una quantità di vettovaglie in grado di sfamare l'ingente moltitudine dei loro commilitoni. Essi erano formati da millequattrocento carri, poiché ciascuno esercito ne aveva messi a disposizione duecento. Li scortavano ventimila cavalieri, i quali avrebbero dovuto distoglierle dai loro propositi, nel caso che ci fossero state bande di grassatori con intenzioni di arraffare ciò che di commestibile sarebbero riusciti a trovare sui carri in transito. Ognuno dei quali era trainato da una pariglia di cavalli e guidato da una coppia di conducenti.

Con la ripresa della loro galoppata, i giovani dorindani intendevano giungere quanto prima al campo dei poveretti Actinesi. I quali assai presto si sarebbero ritrovati ad essere in balia di gente spregiudicata, che era pronta ad asservirla ai loro abusi e ad ogni loro nefandezza. Ammesso che essa non fosse stata dell'idea di massacrarla e di farne una grande strage. Comunque, tra galoppate e soste per riposare e rifocillarsi, c'erano voluti quattro giorni di cammino per raggiungere la zona dove era stanziata la tendopoli di coloro, ai quali avevano stabilito di essere di appoggio e di recare il loro aiuto concreto. Ma anche dopo che vi furono pervenuti, ci volle ancora mezza giornata per individuare la sua posizione esatta e per farvi il loro ingresso. Il quale avvenne tra sospetti e diffidenza, da parte di coloro che ci vivevano.

Al loro arrivo alla tendopoli, innanzitutto essi chiesero ai primi Actinesi che incontrarono dove si trovava Anocer. Costui era l'uomo, che il re Francide aveva posto a capo di quanti vi soggiornavano e vi sarebbero restati, finché fosse durato l'assedio alla loro città. Allora il più anziano del capannello, dopo averli squadrati per bene, si prestò ad accompagnarli alla tenda della persona da loro richiesta con l'intento di conferire con essa. Quando infine i quattro Dorindani furono in presenza di colui che nella tendopoli rappresentava la massima autorità, per esserci stati accompagnati dal loro accompagnatore, egli gli domandò:

«Mi dite chi siete, giovanotti, e quali sono le ragioni che vi hanno condotti nel nostro campo? Volendo esservi franco, io non vi conosco e non mi è mai capitato di incontrarvi nella mia città, che è Actina.»

«Invece, Anocer,» Solcio si diede a rispondergli «noi sappiamo che in questa tendopoli sei il personaggio più di spicco. Siamo stati informati direttamente dal re Francide della tua importante mansione fra i numerosi Actinesi, i quali si ritrovano a vivere in questo campo per i motivi che tu e noi conosciamo benissimo. Ma prima di andare avanti, sarà meglio presentarci. Io mi chiamo Solcio, mentre i nomi dei miei amici sono Zipro, Polen e Liciut. Inoltre, ti faccio presente che noi siamo amici del tuo sovrano e, fino a quest'oggi, abbiamo collaborato con lui nella difesa della Città Santa. Ad ogni modo, essendo degli ottimi combattenti, è stata una nostra libera iniziativa, se adesso ci troviamo presso di voi, con il solo scopo di soccorrervi e di aiutarvi a fare quelle scelte giuste rivolte alla vostra sopravvivenza. Mi sono spiegato abbastanza, ad evitare che in seguito ci siano equivoci e fraintesi fra di noi?»

«Insomma, giovanotto, da quanto mi hai lasciato arguire, io e la mia gente dovremmo metterci ai vostri ordini. Inoltre, da oggi in avanti, dovremmo farci guidare da voi ad occhi chiusi, senza darci modo di soppesare ciò che intendete proporci od imporci, a seconda di come si vuole considerare la cosa. Ma prima che io vada avanti nel discorso, vi faccio presente che, durante il regno del re Nortano, il defunto nonno del nostro attuale sovrano, le mie funzioni erano quelle di comandante della Guardia Reale. Perciò, se fossi costretto a prendere una decisione per toglierli da qualche avversità improvvisa, nonostante la mia età di settantacinque anni, lo stesso riuscirei a discernere meglio di voi ciò che giova ai miei concittadini qui relegati e ciò che gli risulterebbe nocivo. Dopo avervi messo davanti a tale evidenza, desidero che mi spieghiate perché vi siete defilati all'assedio nemico e, agendo da vigliacchi, siete venuti qui per darvi a quella che avete creduto una vita libertina e senza pericoli. Possibile che il re Francide ve lo abbia consentito?»

«In primo luogo, illustre Anocer, sappi che noi siamo Dorindani, come lo è la tua regina Rindella. Per questo, se ci siamo votati alla vostra causa, lo abbiamo fatto di nostra spontanea volontà. Lo sai perché? Conoscevamo il re Francide, già prima che diventasse tuo sovrano. Un tempo egli e il suo amico fraterno Iveonte sono stati rispettivamente maestri d'armi del mio compagno Zipro e mio, per cui abbiamo ritenuto doveroso dare una mano al vostro popolo, come riconoscenza di quanto i due invincibili campioni hanno fatto per noi. Comunque, non siamo qui per prendere il comando ed impartirvi dei nostri ordini; ma vi siamo venuti solo per farvi conoscere alcune cose, che dovete sapere.»

«Allora, Solcio, non indugiare a riferirmele, se esse sono davvero importanti per la gente che il sovrano mi ha affidata! Così dopo vedremo se, alla luce delle vostre notizie, potremo prendere dei provvedimenti che la sottrarrebbero a dei probabili rischi.»

«La prima notizia, illustre Anocer, che in un certo senso possiamo reputare buona, è la temporanea sospensione del loro assedio alla tua città, da parte degli eserciti alleati. La quale, però, non ha tranquillizzato il re Francide, essendo egli convinto che essa c'è stata, solo perché è sopravvenuta fra i vostri nemici una penuria di generi alimentari.»

«In verità, Solcio, non comprendo perché la sospensione dell'assedio avrebbe preoccupato il mio sovrano, quando invece egli ne dovrebbe essere contento! Tu sapresti giustificarmene il motivo?»

«La cosa che lo giustifica, Anocer, ci porta a considerare la seconda notizia, che passo a trasmetterti. Il re Francide teme che la scarsità di vettovaglie fra i vostri nemici possa indurli a cercare altrove il cibo che gli abbisogna per sostentarsi. E siccome essi quasi di sicuro si spingeranno fino a queste parti per procacciarsene, facilmente finirebbero per scoprirvi ed ammazzarvi tutti, senza che neppure un soldato actinese possa venire in vostro aiuto. Perciò noi, pur di tranquillizzarlo alla meglio, ci siamo proposti quali suoi messaggeri della nuova situazione presso la vostra tendopoli. Così, incuranti del pericolo di morte che correvamo nell'attraversare le linee degli assedianti, eccoci qua a notiziarvi dei nuovi fatti, che dovevate conoscere.»

«Quindi, Solcio, per come stanno le cose, vi devo ringraziare per il vostro bel gesto, da stimarsi davvero eroico; inoltre, mi tocca anche chiedervi scusa, per le mie ingiuste parole offensive a voi rivolte!»

«Invece, autorevole Anocer, non ce n'è bisogno, siccome hai fatto solo il tuo dovere nell'assumere l'atteggiamento che sai nei nostri confronti, essendo stato esso un atto dovuto, da parte tua. Non si possono accogliere degli sconosciuti con la massima fiducia dove donne, vecchi e bambini corrono di continuo il pericolo di venire trucidati da persone privi di scrupoli. Perciò, ti sei comportato da persona del tuo rango. Adesso, però, cerchiamo di pensare a ciò che possiamo fare, al fine di evitare che tante persone poste sotto la tua guida vengano scoperte dai convogli degli eserciti alleati e ne restino uccise.»

«Secondo me, Solcio, un problema di questo tipo non è facilmente risolvibile. Sai almeno in quanti siamo in questa tendopoli? Se il sovrano non ve lo ha detto, adesso ve lo dico io. Qui raggiungiamo la bellezza di trentamila persone, per cui non è semplice riuscire a far cambiare posto ad una massa così ingente di Actinesi non idonei alla guerra! Come pure non è agevole gestirla: te lo posso assicurare! Ma visto che ci siamo, mi fate il favore di mettermi al corrente dei vostri propositi riguardanti una loro diversa gestibilità?»

«In verità, Anocer, il mio amico Zipro, il quale mi affianca sulla destra, prima di trasferirci qui, aveva proposto di condurre altrove tutte le persone che soggiornano in questa tendopoli, magari invitandole a spostarsi in luoghi più lontani, capaci di nascondere la loro presenza. Ma dal momento che il loro numero è più numeroso di quello che immaginavamo, anche a nostro giudizio il loro trasferimento altrove diventa una cosa impossibile. Così pure il nostro esiguo numero, nel caso che il vostro campo venisse scoperto ed aggredito, non sarebbe in grado di difendervi! Perciò il re Francide ci ha suggerito che, se avessimo trovato una situazione del genere da queste parti, noi non avremmo dovuto immolarci invano. Al contrario, avremmo dovuto tagliare la corda e ritornarcene ad Actina, poiché sulle sue mura saremmo stati utili alla città.»

«Da quanto ho potuto capire, Solcio, considerato che la vostra iniziativa risulta impraticabile e che non potreste fare niente per noi, se un domani venissimo assaliti dai nostri nemici in arrivo, ci lasciate adesso stesso per un rapido ritorno nella nostra città. Vero?»

«Ti avevo detto, Anocer, che si era trattato solo di un suggerimento che ci era stato avanzato dal tuo sovrano, non potendo essere un ordine. Invece non ce la sentiamo di dargli retta. Per questo, se anche i miei amici sono d'accordo a restare qui con voi, non vi lasceremo abbandonati al vostro tragico destino. Anzi, vi rimarremo e cercheremo di creare qualche valida difesa, nella eventualità di un attacco da parte dei cavalieri che viaggiano di scorta ai carri nemici.»

«Il vostro è un nobile gesto, Solcio, e sono orgoglioso di stringere la mano a tutti e quattro voi. Ma mi dite cosa intendete proporre alla mia gente, al fine di attutire in parte i duri contraccolpi, i quali ci deriveranno dall'assalto che, secondo voi, subiremo tra non molto?»

«Per prima cosa, Anocer, i miei amici ed io vi suggeriamo di fare innalzare tutt'intorno alla vostra tendopoli una barricata alta almeno un metro e mezzo, utilizzando rami, arbusti e roba varia di natura vegetale. Non è ipotizzabile renderli abili nel tirare di scherma, poiché si perderebbe soltanto tempo, non potendo le donne, i vecchi e i bambini reggere al confronto con i nemici. Allora sarà utile, da parte nostra, rinforzare la loro dimestichezza con l'arco, visto che una gran parte di loro è obbligata ad usarlo per procurarsi la cacciagione con cui nutrirsi. Infatti, la loro difesa si impernierà esclusivamente sull'uso di tale arma da getto, difendendosi prima da dietro le barricate e poi, se costretti ad abbandonare tale posizione, stando lontani da esse a distanze che gli permettano di colpirli con facilità.»

«La vostra idea mi piace, giovanotti, per cui mi affretterò a dare dei miei ordini in tal senso, affinché tutti vi si impegnino con il massimo delle loro forze e della loro tenacia.»

«A tuo parere, Solcio, quanti saranno in totale i soldati che costituiranno i convogli degli eserciti alleati, i quali sarebbero in cammino verso questi territori per vettovagliarsi?»

«Non è facile prevedere un loro numero approssimativo, Anocer; ma sarei propenso a credere che essi non saranno meno di cinquemila unità. Quanto alla cifra esatta, la si può solo ipotizzare. Comunque, un migliaio in più o in meno per noi non fa la differenza!»

«Chiariti questi particolari, nobili giovani, vado a dare disposizioni a chi ha tale compito perché vi assegni un alloggio. Così vi potrete soggiornare per l'intero tempo che starete con noi, senza che vi manchi nulla su quanto riguarda il mangiare, il bere e il dormire.»

Nel pomeriggio di quello stesso giorno, tutte le persone adulte aventi una età non superiore ai settant'anni e i ragazzi con una età non inferiore ai dieci anni, a pranzo effettuato, si munirono di accette, di scuri, di asce, di roncole e di falci. Dopo dilagarono nella boscaglia vicina e vi cominciarono a fare strage di piante di media grandezza, di sterpi e di cespugli, che poi andavano ad ammucchiare intorno al loro accampamento per ricavarne una lunga barricata alta più o meno come suggerita da Solcio. Soltanto pochi di loro rimasero al centro della tendopoli per erigervi una costruzione di legno avente un'altezza di quindici metri. Essa doveva servire per fare avvistare i soldati nemici in avvicinamento da colui che sarebbe stato in vedetta sulla sua sommità. Gli sbarramenti lignei furono ultimati nel giro di tre giorni. Dopo essi apparvero autentiche siepi formate con materiale composito, i cui elementi, comunque, appartenevano tutti al regno vegetale.

Ultimati quei lavori difensivi, mentre gli Actinesi della tendopoli trascorrevano il loro tempo a fabbricare frecce, che avrebbero dovuto usare con i loro archi contro il nemico in arrivo, Solcio, Zipro, Polen e Liciut preferivano andare in avanscoperta, spesso portandosi a grande distanza. Con le loro ricognizioni, essi cercavano di avvistare in tempo il lungo convoglio dei nemici, per avvisarne così la gente della tendopoli actinese e metterla sul chi va là. Ma il suo avvistamento avvenne nel secondo giorno in cui essi si diedero a perlustrare le remote zone che si estendevano fino ad Actina, convinti che solo in tali posti potevano fare la loro apparizione i carri che ne facevano parte. Ma li avvilì il fatto che i carri e i cavalieri che li scortavano risultarono quadruplicati, rispetto a quelli che avevano ipotizzato. Perciò fecero rientro al campo con un animo angustiato. Scorgendoli mentre gli si presentavano, l'ex comandante della Guardia Reale di Actina si avvide all'istante che essi mostravano un animo molto abbacchiato. Perciò gli parlò così:

«Ehi, voi, poiché avete da darmi delle pessime notizie, fatelo subito e non ci pensiamo più! Quindi, riferitemi ciò che vi è andato storto nell'odierna perlustrazione dei luoghi circostanti.»

«I nostri nemici stanno per giungere, Anocer;» gli fece presente il nipote di Sosimo «però in quantità quattro volte maggiore di quella da noi preventivata. Perciò possiamo solo disperare della salvezza di tanti Actinesi inermi e nostra. A meno che non sarà un miracolo a salvarci tutti quanti, noi compresi, avendo deciso di immolarci insieme con voi!»

«Invece voi, giovani impavidi, che non siete neppure Actinesi, dovete seguire il consiglio che vi ha dato il re Francide. Egli sa quello che dice. Anziché farvi ammazzare insieme con noi, con una morte che non vi darebbe modo di affrontarla con la prospettiva di un successo, anch'io vi esorto a lasciare la nostra tendopoli e a ritornare sulle mura di Actina, dove vi sarà concesso di battervi con onore e con spirito eroico. Quanto a noi, a disprezzo della morte, ci daremo da fare per arrecare al nemico quei danni, che risulteranno utili ai nostri compatrioti che combattono sulle mura della loro città.»

«Oramai non serve più, Anocer, invitarci a fare ciò che giammai faremmo, nemmeno se ci offrissero tutto l'oro del mondo. Ci andrebbe di mezzo la nostra dignità di uomini e di guerrieri, qualora cercassimo di abbandonarvi, proprio mentre per voi si avvicinano tempi di burrasca. La quale probabilmente a nessuno di voi darà l'opportunità di salvarsi.»

«Se questa è la vostra decisione definitiva, Solcio, per cui non posso invitarvi a ripensarci, permettetemi di stringevi la mano, perché sono sicuro che essa non è da meno di quella dei magnanimi eroi. Ve lo posso garantire io, che so riconoscere nelle persone il loro valore!»

Così seguì la stretta di mano dell'anziano Anocer con Solcio, Zipro, Polen e Liciut, la quale intese anche esprimere la massima stima dell'ex alto ufficiale actinese nei loro confronti. Essa venne suggellata da due calde lacrime di sentita commozione, che gli scendevano sulle gote. Le quali fecero perfino emozionare i quattro giovani Dorindani, che se lo vollero anche abbracciare, mentre si tenevano stretta la sua mano.


Nel frattempo, gli emissari dei nemici, che erano stati mandati avanti per squadrare la situazione, fra le altre cose, avevano scoperto l'esistenza della tendopoli actinese. Allora, senza remora, erano corsi a farlo presente a Dobur. Costui deteneva il comando del convoglio inviato in quelle zone remote dai comandanti in capo degli eserciti alleati, allo scopo di procacciarsi ogni tipo di alimenti che risultassero in grado di sfamare i loro soldati impegnati nell'assedio alla Città Santa. Anzi, essi avevano cominciato a dare segni di insofferenza, dopo che era stato adottato un drastico razionamento di cibo, il quale li aveva colpiti nel loro complesso. A quella notizia, l'ufficiale aveva gioito e, prima di impiegare i suoi uomini nella ricerca dei viveri, aveva pensato di impegnarli a massacrare quella massa di persone inermi, la cui presenza in quel luogo era stata voluta per allungare i tempi di capitolazione della loro città. Perciò aveva dato ordine alla sua cavalleria di accerchiarle e di prepararsi al loro massacro, non appena fosse giunto da lui un simile ordine.

Al momento attuale, i cavalieri nemici si davano all'accerchiamento, cercando di far notare il meno possibile la loro avanzata; ma i loro movimenti furono intercettati dalla sentinella, che si trovava nella garitta della costruzione di legno, che era stata eretta al centro della tendopoli. Essa, infatti, essendo addetta ad avvistare persone non gradite in avvicinamento al loro campo, all'istante diede l'allarme. Allora Solcio invitò la vedetta ad abbandonare la sua postazione, essendo intenzionato a prendere il suo posto per rendersi conto personalmente della situazione. Così, una volta lassù, egli iniziò la sua perlustrazione del territorio circostante, affinché nulla gli sfuggisse di quanto vi stava accadendo. Mentre vi operava una rigorosa ispezione, tenendo sotto controllo l'intera estensione perimetrale, non si asteneva dal trasmettere ai suoi compagni, i quali lo ascoltavano disotto, tutto quanto gli capitava di scorgere in lontananza. Per questo si diede a gridare a loro tre:

«Amici, davvero la cavalleria nemica si sta ammassando intorno a questa tendopoli, con la chiara intenzione di accerchiarla, prima di darsi ad una incursione travolgente, con la quale cercheranno di sovrastarci e di trucidarci tutti, dal primo all'ultimo.»

A quel suo primo messaggio, che demoralizzò anche gli Actinesi presenti che lo avevano udito, Zipro non si astenne dal domandargli:

«Ci dici, Solcio, a che distanza si trovano adesso i cavalieri nemici e se hanno ancora raggiunto la nostra barricata vegetale? Comunque, in quel posto già si sono appostati i nostri arcieri, per aver già ricevuto il segnale dal suono del corno fatto loro pervenire.»

«Secondo me, Zipro, adesso essi si trovano a mezzo miglio dal nostro cordone di vegetazione innalzato a difesa del campo; però ben presto lo raggiungeranno per dare il loro assalto incontrastato e brutale. A quel punto, la resistenza dei nostri, che li stanno aspettando con archi e frecce, varrà ben poco, anche se li costringeranno a subire lievi perdite!»

«Allora, Solcio, sarà meglio che tu scenda da lassù e ci incamminiamo insieme verso le barricate, dove avremo modo di vendere cara la nostra pelle. Cerca di sbrigarti a venir giù, perché ti stiamo aspettando, siccome già ci prudono le mani. Esse sono desiderose di fare una strage di coloro che si affrettano a ridurre questo campo in un luogo di morte!»

«Solo un istante, amici, e sarò giù da voi. Anzi, attendete un attimo, per favore! In lontananza sto avvistando qualcosa che non mi convince. Ma sarà poi vero ciò che mi appare alle spalle dei nostri nemici?»

«Vuoi farci sapere, Solcio, a cosa ti riferisci, che ti risulterebbe da lassù molto strano? Oltre ai cavalieri alleati, i quali forse hanno già raggiunto la barricata che ci circonda, non è possibile che possa apparirti qualcos'altro di una certa importanza!»

«Invece, Zipro, qualcosa, che non ci saremmo mai aspettato, sta succedendo davanti ai miei occhi, precisamente al di là degli assalitori, forse ad un miglio da loro!»

«Vuoi chiarirci, Solcio, cosa ti viene permesso di avvistare nel punto che ci hai fatto presente? Anzi, non ci hai detto neppure se si tratta di cose, di animali oppure di altro genere!»

«Scorgo in lontananza nuove truppe, Zipro, le quali sono in apparenza il doppio dei nostri attuali nemici. Per esattezza, esse si stanno posizionando tutt'intorno alle loro spalle e si mostrano pronte ad assalirli. Non ci è dato però di sapere se le medesime in seguito attaccheranno pure noi, siccome, alla mia prima impressione, non appartengono all'Edelcadia; ma provengono da terre remote.»

«Un fatto del genere non ci predispone l'animo a stare tranquilli, Solcio. Ci troviamo di fronte ad un popolo allogeno, le cui intenzioni possono essere soltanto di conquista. Per cui, dopo aver sconfitto i nostri nemici, esso vorrà fare anche di noi piazza pulita, per proseguire dopo alla volta delle città edelcadiche, al fine di assoggettarle.»

«Puoi anche aver ragione tu, Zipro; ma per adesso cerchiamo di accertarci di quanto accadrà fra gli uni e gli altri, dopo che si saranno scontrati, considerato che il loro scontro ci sarà a momenti! Comunque, ve ne farò un rapporto dettagliato, dopo che esso ci sarà stato.»

Siccome le cose stavano come le aveva riferite Solcio agli amici, ci conviene trasferirci all'esterno della tendopoli actinese e constatare con i nostri occhi i fatti che nel frattempo vi stavano accadendo.

Ebbene, Dobur non aveva preso parte all'accerchiamento degli Actinesi inidonei alla guerra, da parte della sua cavalleria; ma con un esiguo numero di graduati suoi subalterni, aveva preso posizione sopra un poggio, dal quale stava osservando i suoi uomini che lo effettuavano. Anzi, era in attesa che esso fosse terminato, per impartirgli anche l'ordine di attaccare i nemici e compierne una immane carneficina. Quando infine la sua cavalleria ebbe accerchiato l'intera tendopoli, egli era sul punto di ordinare al cornista di dar fiato al suo strumento, il cui suono rappresentava il segnale convenuto dell'inizio dell'assalto. Invece esso fu preceduto dai suoni emessi da un gran numero di corni, i quali lo confusero, poiché non gli facevano capire perché essi si facessero sentire. Alla fine comprese che tali sordi suoni provenienti dai noti strumenti cornei accompagnavano la carica di un'altra cavalleria, la quale era il doppio di quella sua. In quel momento, muovendosi anch'essa in formazione circolare, si affrettava a prendere alle spalle i suoi cavalieri, i quali adesso sostavano davanti all'arborea barricata posta lì per impedirgli il passo.

A quella nuova circostanza, che si era creata all'improvviso alle loro spalle, fu giocoforza, da parte di tali cavalieri avversi agli Actinesi, mutare posizione e mettersi su una linea di difesa. Perciò, da attaccanti che stavano per diventare, essi si trasformarono in difensori di sé stessi. Ma contro quelli che li stavano caricando, i cavalieri di Dobur ebbero pochi spazi e poco tempo per difendersi nel modo migliore. Inoltre, si convinsero che i loro aggressori, non solo erano più numerosi, ma si mostravano anche più agguerriti ed intrepidi nel combattere. Le quali cose potevano solo giocare a favore dei loro avversari.

La battaglia, che ne seguì in breve tempo e si rivelò tremenda specialmente da parte degli assalitori, non si sapeva come descriverla, essendo risultato il suo scoppio fulmineo, terrificante e provocatore di un gran numero di morti. Inoltre, in mezzo ai soldati intervenuti a prendersela con i nemici degli Actinesi, ce ne stava uno che si dimostrava terribilmente azzannante contro i suoi avversari. Anzi, appariva come una falce giustiziera, la quale si dava a troncare vite umane con furia inesorabile ed impietosa, senza che esse potessero sfuggire ai suoi tagli tremendamente devastanti. Avvenuta poi la distruzione della sua intera cavalleria, il volto di Dobur divenne terreo; ma il suo aspetto presto sarebbe diventato cianotico, poiché la morte si sarebbe impadronita anche di lui, del suo staff e dei conducenti dei copiosi carri. Infatti, dopo aver reso cadaveri tutti i cavalieri da loro assaliti, con minime perdite nel loro strategico schieramento, i nuovi guerrieri apparsi dal nulla si diressero anche contro il loro comandante e quelli che conducevano i carri. Raggiuntili, non ne risparmiarono neppure uno, non ritenendoli degni della loro commiserazione e della loro pietà. Una volta che ebbero consumato la loro spaventosa ecatombe, tra lo stupore di Solcio, il quale aveva assistito ad ogni loro azione bellica dalla garitta della torre di legno, essi abbandonarono quelle terre, che prima si erano dati a disseminare di salme appartenenti ai nemici degli Actinesi e a lordarle del loro sangue. Il quale adesso si presentava rugginoso, per essersi mischiato con il bruno terreno. Quell'esercito di straordinari combattenti era sparito da quelle terre pianeggianti, allo stesso modo che vi era pervenuto, senza darsi il minimo pensiero di rendersi conto della gente che occupava la tendopoli actinese che stava per essere assaltata.

Quando Solcio scese dall'alto della torre e raggiunse i suoi amici, anche perché essi lo desideravano moltissimo, si diede a raccontare a loro tre tutto quanto a cui aveva assistito. Allora Zipro, Polen e Liciut, intanto che ascoltavano, se ne stupivano a non finire. Ma siccome era presente anche Anocer, costui si comportava alla loro stessa maniera, gioendo soprattutto per la sua gente. La quale aveva evitato la triste sorte a cui sarebbe andata incontro, se in suo soccorso non fossero intervenuti dal nulla dei loro protettori. I quali in seguito non gli avevano dato il tempo di ringraziarli per l'opportuno e prezioso soccorso ad essa elargito.

A quel punto, però, si dovette far fronte al problema dei cadaveri, i quali erano sparsi a centinaia intorno alla tendopoli, storpiati e maciullati in vari modi. Esso all'inizio non si presentò di facile soluzione per le persone che soggiornavano nel campo. Dopo, invece, dietro suggerimento dei giovani dorindani, si pensò di bruciarli su grosse pire, fino alla loro totale cremazione. Per questo gli Actinesi badarono ad apprestare centinaia di roghi, adoperando lo stesso materiale ligneo che era servito a formare la barricata intorno al loro accampamento. Una volta che li ebbero allestiti, vi bruciarono sopra le migliaia di salme dei soldati uccisi nella dura battaglia, che si era combattuta da poco sui territori circostanti. Essendo stato così risolto anche tale problema dalla gente actinese, Solcio, Zipro, Polen e Liciut non ritennero più indispensabile la loro presenza nella tendopoli. Perciò, dopo essersi salutati ed abbracciati con Anocer, essi lasciarono il campo e partirono alla volta di Actina, che avrebbero raggiunta nella serata del quarto giorno di viaggio.

Prima di darci a seguire la quaterna dei nostri simpatici giovani fino alla Città Santa, è nostro dovere accontentare il solito lettore precisino. Infatti, egli non smette di chiedersi da dove era sbucato fuori l'esercito fantasma. Esso, dopo essere apparso dal nulla, aveva fatto fuori l'intero convoglio inviato dai comandanti in capo degli eserciti alleati agli estremi confini orientali actinesi. La cui missione sarebbe dovuta essere quella di procacciarsi i viveri che dovevano sfamare i soldati impegnati ad assediare Actina. Ebbene, adesso appaghiamo subito pure la sua curiosità.


Nell'accampamento dei Berieski, dove era assente Iveonte dal giorno precedente per i motivi che apprenderemo successivamente, Leruob, il quale adesso faceva le sue veci, si era appena coricato, quando una luce intensa e soffusa aveva illuminato la sua tenda. A quel bagliore improvviso, egli aprì subito gli occhi che aveva appena chiusi, volendo rendersi conto di ciò che stava succedendo. Quando poi li aveva riaperti, la visione di una bella fanciulla dall'aspetto evanescente lo aveva fatto trasalire. Ma prima che il giovane si fosse dato a domandarle chi fosse e perché si trovasse nella sua tenda, quella che per lui non poteva essere che un fantasma, si era affrettata a parlargli in questo modo:

«Leruob, stai tranquillo, poiché non sono uno spettro; sono invece una dea. Per la precisione sono il nume tutelare di tuo cugino Iveonte, il quale, come sai, è impegnato in una missione, dal cui esito dipenderanno i destini dell'intero universo. Anzi, esso potrebbe essere destinato a sparire, insieme con la totalità delle stelle, dei mondi e degli esseri umani ed animali, se il tuo eroico consanguineo dovesse fallire nel suo alto compito. Ma le più potenti divinità, avendo una immensa fiducia in lui, non hanno esitato a sceglierlo come l'essere umano più idoneo a compiere una simile delicata missione.»

«Mi fa piacere, dolce dea, apprendere che il mio stretto parente goda presso tali divinità la massima stima, fino ad incaricarlo addirittura di una impresa così prestigiosa, dalla quale dipenderà la salvezza di tutto quanto è esistente. Ma ora mi dici perché mi hai degnato di una tua visita, visto che ci sarà senz'altro una ragione, se ti trovi qui da me?»

«Leruob, sono qui per una questione di umanità. Mi sarei rivolto al mio Iveonte, se egli fosse stato presente nel vostro accampamento. Perciò adesso dovrai essere tu a darmi ascolto e a fare ciò che non possiamo trascurare, se vogliamo essere paghi di noi stessi.»

«Allora affréttati a riferirmi quanto pretendi che io faccia, amabile dea, perché sono convinto che si tratta di qualcosa che è nelle mie possibilità condurre a termine, se sei venuta a chiedermelo. Non è forse come ho pensato, dolce dea?»

«Certo che hai ragionato bene, Leruob, con le tue congetture! Perciò adesso passo a spiegarti cosa dovrai fare, ad evitare che migliaia di innocenti, i quali sono tutti vecchi, donne e bambini, vengano trucidati da persone senza scrupoli, indegne di essere soldati.»

«Dove si troverebbero tante persone sfortunate, che dovrei proteggere da guerrieri, i quali starebbero sul punto di farne un vero massacro? Come ti avvedi, soave dea, già fremo di impazienza e avverto l'ardore di combattere a loro difesa. Perciò anelo ad avere tali notizie per correre immediatamente in loro aiuto. Ma mi dici il numero degli sventurati che dovrò difendere e quello di coloro che hanno stabilito di ammazzarli?»

«Il primo, Leruob, dovrebbe aggirarsi sulle trentamila persone; mentre il secondo conta circa ventitremila soldati. Questi sono i numeri, dei quali hai chiesto di essere messo a conoscenza. Quanto alla località in cui sono stanziate le persone che hanno bisogno dell'aiuto dei tuoi soldati, essa si trova ad un giorno di marcia dal vostro accampamento, ad alcune miglia prima del confine actinese. Invece i soldati, che si stanno avvicinando alla loro tendopoli, sono pure ad un giorno di marcia ed ignorano la loro esistenza. Ma una volta che l'avranno scoperta, vorranno senz'altro massacrare quanti vi soggiornano.»

«Ma posso sapere, graziosa dea, come mai gli uni si trovano stanziati in quella zona e gli altri stanno per sopraggiungervi? Questi ultimi sono forse alla loro ricerca per punirli?»

«Invece le cose non stanno, come hai pensato tu, Leruob. La vicenda è tutta differente. Actina, soprannominata anche Città Santa, viene posta sotto assedio dagli eserciti di sette città alleate, anch'esse edelcadiche, delle quali però non fa parte Dorinda. Prima che esso avesse inizio, il re Francide, allo scopo di far durare più a lungo la difesa della propria città, scaltramente l'aveva fatta evacuare di tutte le persone non abili alla guerra, invitandole a rifugiarsi oltre i confini orientali actinesi, perché provvedessero da sole al loro sostentamento. Ma ora gli assedianti stanno avendo seri problemi, a causa della penuria di vettovaglie, per cui i loro comandanti in capo hanno inviato nel medesimo luogo il loro convoglio per approvvigionarsi delle derrate alimentari che stanno per esaurirsi presso i rispettivi eserciti. Ecco: ora sei al corrente della presenza in quel luogo degli uni e degli altri! Ad ogni modo, in merito al tuo intervento nella vicenda degli Actinesi fatti evacuare dalla loro città, dopo che li avrai salvati, ti invito a non presentarti a loro. Invece te ne ritornerai al tuo accampamento con i tuoi soldati, dove vi metterete subito in cammino per affrettarvi a raggiungere Actina e a liberarla dall'assedio che sta subendo da vari giorni.»

Così l'indomani, al comando della sua legione d'avanguardia, che era composta da sessantamila cavalieri, Leruob era corso a togliere dai guai gli Actinesi della tendopoli, dando battaglia a coloro che li avevano accerchiati, dei cui risultati siamo venuti già a conoscenza.