441°-UNA GRANDE CONFUSIONE REGNA TRA GLI ESERCITI ALLEATI

In precedenza, quando la sospensione dell'assedio durava da vari giorni, il re Francide e l'amico Astoride avevano voluto incontrarsi con i quattro giovani Dorindani, avendo intenzione di discutere con loro circa le ragioni che avevano spinto gli eserciti alleati a sospendere l'assedio. Anche perché adesso i due illustri cognati erano convinti che essi erano rimasti privi dei loro rispettivi comandanti in capo, dopo che Iveonte li aveva uccisi tutti. Era stato il sovrano di Actina ad aprire il discorso per primo, mettendosi a dichiarare:

«Sono quasi otto giorni che i nostri nemici evitano di assediarci. Ovviamente, possiamo benissimo imputarne la causa al fatto che si ritrovano senza i loro sovrani a dirigerli. Quasi di sicuro i comandanti dei vari eserciti ignorano che essi sono morti, poiché erano all’oscuro che i mostri ammazzati dal nostro Iveonte erano i loro finti re e che quelli reali, a loro insaputa, erano stati uccisi e sostituiti dai diabolici Umanuk. Darei chissà che cosa, pur di venire a sapere quale piega stanno ora prendendo i vari avvenimenti nei sette accampamenti degli eserciti, che ci hanno cinto d'assedio e continuano a non darsi ad alcuna azione aggressiva!»

«Nella loro situazione, attualmente sono tanti i problemi che i nostri nemici si ritrovano a risolvere, magari andando anche incontro a grosse difficoltà.» Astoride gli aveva risposto per primo «Volendo individuarli, non facilmente possiamo farlo, non essendo noi sul posto a prenderne coscienza. Comunque, ricorrendo pure ad un minimo di logica, sarà possibile da parte nostra avere un'idea di alcuni di loro, senza essere costretti a grandi sforzi.»

«Precisamente, Astoride, a quali ti riferisci? Vorremmo conoscerli anche noi. Dopo che avrai avuto la compiacenza di citarceli, io e i quattro giovani qui presenti te ne saremo grati!»

«La penuria di alimenti, la quale si starà facendo sentire molto forte fra di loro, secondo me, è il primo dei problemi che i nostri nemici si ritrovano ad affrontare e che per loro è difficile risolvere. Per cui non sanno dove sbattere la testa per procurarseli, diversamente da noi che saggiamente li abbiamo accumulati a tempo debito nella nostra città. Francide, consideri forse questo problema di poca importanza? Puoi chiederlo direttamente a loro, i quali, a mio giudizio, stanno già cominciando a divorarsi gli uni gli altri!»

«Certo che no, cognato mio! Anzi, se lo vuoi sapere, questo problema comincia a preoccuparmi, come non avrei mai pensato, dopo che esso mi ha schiarito meglio le idee.»

«Davvero dici, Francide? Eppure ti ho citato la mancanza di cibo come un problema dei nostri nemici e non nostro! Quindi, da cosa ti deriva questa che mi appare una tua preoccupazione, che non comprendo? Forse temi che anche noi stiamo per difettare di viveri?»

«Invece, amico mio, niente di quanto ci occorre per sostentarci mi preoccupa. Difatti la mia attuale ansia è di tutt'altra natura, poiché non ha nulla a che vedere con la scarsità di cibarie che abbiano supposto esserci presso le soldatesche nemiche. Anche se poi da tale problema me ne è derivato un altro, il quale questa volta interessa noi Actinesi.»

«Allora, cognato mio, se vuoi che ti seguiamo nel tuo ragionamento, devi esprimerci chiaramente ciò che ti sta passando per la mente, affinché pure noi prendiamo atto del nuovo problema, quello che forse, a mio parere, potresti anche fare a meno di crearti!»

«Ebbene, Astoride, partendo dal fatto che gli eserciti alleati tra poco potrebbero venire a scarseggiare di vettovaglie, nell'eventualità che ciò accada, dopo essi di certo non se ne starebbero con le mani alla cintola, aspettando che il cibo finisse da solo nelle loro bocche. Al contrario, si darebbero da fare per riuscire a trovarlo altrove. Non lo credi?»

«Certo che avverrebbe quanto da te supposto, Francide, poiché sarebbe del tutto naturale tale loro iniziativa, potendo essi disporre delle nostre provviste soltanto dopo la nostra resa!»

«È quanto volevo farti presente, amico mio. Solo che intendevo spostare il nostro ragionamento altrove, dove si presenta più pressante il problema a cui mi riferivo. Esso, però, questa volta ci riguarda più direttamente. Ad ogni modo, adesso mi spiego meglio per farlo intendere anche a voi. Come anche tu sai, Astoride, prima che gli eserciti alleati ci cingessero d'assedio, Ludoz, il nostro addetto a fornire Actina di provviste alimentari, mi fece una sua intelligente proposta. In base alla quale, al fine di ritardare il più a lungo possibile la deficienza alimentare ed idrica tra le nostre truppe, avremmo dovuto fare evacuare la nostra città da tutti coloro che non potevano essere utili alla sua difesa. Così essi, durante l'assedio, non sarebbero pesati sul fabbisogno sia di acqua che di cibo. Egli propose anche di trasferirli agli estremi confini orientali dei nostri territori, poiché in quel luogo essi avrebbero trovato sostentamento con la caccia e con i vari erbaggi eduli esistenti nella zona. Inoltre, poiché giammai sarebbe venuta in mente ai soldati nemici una tale nostra iniziativa, essi li avrebbero lasciati in pace in quel remoto luogo. Io accettai la sua proposta, per cui i nostri concittadini inidonei alla guerra si trovano tuttora in tali territori, totalmente indifesi. Adesso ci tocca sperare che essi non vengano mai scoperti dai soldati alleati, i quali non esiterebbero a farne una grande strage.»

«Quindi, amico mio, il tuo timore ti deriva dal fatto che, se i nostri nemici venissero a scarseggiare di vettovaglie nei loro accampamenti, essi potrebbero darsi alla loro ricerca altrove, ossia oltre i nostri confini orientali, dove verrebbero, magari per puro caso, alla scoperta dei nostri concittadini non idonei alla guerra. In quel caso, possiamo prefigurarci cosa avverrebbe dei poveretti! Da parte mia, però, ti dico che per il momento non occorre fasciarci la testa, prima di rompercela, anche perché non abbiamo notizie certe circa la consistenza delle provviste alimentari presso i nostri nemici. Inoltre, non possiamo ipotizzare ciò che essi farebbero, se venissero a trovarsi in una carenza delle medesime.»

«Ma visto che quanto asserisci è reale, Astoride, non intendo stare in ansia per un simile problema! Ci dovrà pure essere un modo per renderci conto dell'aria che tira fra quelli che ci assediano, in merito ad una scarsità del loro vettovagliamento e alle azioni che intraprenderebbero, se essa venisse ad aggravarsi presso di loro.»

«Comunque, cognato mio, di ciò non potremo mai venire a conoscenza, fino a quando ce ne staremo nella nostra città a fare ipotesi su tali cose, senza stare a diretto contatto con esse, non potendo fare altrimenti. Convinciti che questa è la pura realtà dei fatti!»

«Invece le cose non stanno, come il nobile Astoride vuole farci credere.» Liciut era intervenuto ad esprimere la sua sull'argomento in corso «Si può benissimo soddisfare il desiderio dell'illustre sovrano di Actina, rendendolo consapevole dei fatti che stanno avvenendo negli accampamenti dove bivaccano i nemici degli Actinesi.»

«Davvero dici, Liciut?» il re Francide gli aveva domandato «Se sei sicuro di quanto hai appena affermato, cosa aspetti a rendercene partecipi? Su, parlacene, per favore!»

«Per avere le notizie che cerchi, illustre sovrano, basterà che io e i miei compagni andiamo a spiare direttamente la situazione in tali accampamenti. In quel luogo, frammischiandoci con i soldati casunnani, vi raccoglieremo quelle utili informazioni riguardanti i due problemi su cui stiamo discutendo, ossia la situazione del loro vettovagliamento e le loro intenzioni, qualora esso dovesse ridursi all'osso. Allora che te ne pare?»

«Questa tua proposta, Liciut, potrebbe anche andar bene, con molte probabilità. Ma tu e i tuoi amici sareste disposti ad infiltrarvi, in qualità di autentiche spie, tra le schiere nemiche, dove potreste anche essere scoperti e condannati alla pena capitale?»

«Personalmente, re della Città Santa, mi dichiaro disponibile a prendere parte a tale attività clandestina, pur di favorire sua Altezza Reale. Ma sono sicuro che anche i miei amici non si sottrarrebbero a tale compito rischioso, se venisse loro richiesto. Te lo potranno assicurare essi stessi, dopo che avrò smesso di parlare.»

«Infatti, re Francide,» Solcio aveva interloquito con il proposito di suffragare la dichiarazione di Liciut «Io, Zipro e Polen, la pensiamo come il nostro compagno. Perciò, se acconsentirai ad una nostra operazione del genere, siamo pronti a dar luogo ad essa, considerandola doverosa e giovevole all'intera cittadinanza actinese.»

«Anche la mia adesione a tale sortita con finalità spionistiche fra le schiere avversarie vi dovrà risultare come già avvenuta.» Zipro ci aveva tenuto a far presente ai suoi compagni e al sovrano actinese «Per la quale ragione, sono pronto ad affrontare insieme con voi, amici miei, l'alto rischio che ci comporterà una nostra infiltrazione dietro le linee nemiche. Anzi, vi propongo di attuarla già stanotte, dal momento che ci ritroveremo a raggiungerle in una notte illune, che risulterà totalmente favorevole ai nostri spostamenti.»

«Bene, baldi giovani,» aveva teso a concludere il sovrano actinese «se le cose stanno come me le avete esposte, allora avvenga questa notte stessa la vostra uscita dalla città per raggiungere e superare le linee nemiche. Così potrete darvi alla vostra attività spionistica e conseguire gli scopi che già sapete. Quanto ai dettagli, i quali dovranno permettervi di non avere difficoltà nell'ottenerli, ne parleremo stasera, prima di lasciare Actina.»

A sera tardi, dopo cena, essendosi messi d'accordo come arrivare all'accampamento casunnano e come muoversi, una volta che vi fossero pervenuti, Solcio, Zipro, Polen e Liciut non si erano allontanati dalla città attraverso una delle sue quattro porte. Invece avevano preferito calarsi dalle mura mediante una lunga corda, dopo aver legato un suo capo ad uno dei merli. Una volta giù, servendosi di un'asta, avevano eseguito un bel salto, il quale, come da loro previsto, gli aveva fatto superare facilmente l'ampiezza del fosso che circondava la città di Actina. In seguito, muovendosi in un buio tetro, essi si erano incamminati verso gli accampamenti degli eserciti alleati, facendosi guidare dai numerosi fuochi che vi risultavano accesi. Essi potevano essere avvistati ad un miglio di distanza. Quando erano riusciti a raggiungere le postazioni nemiche più avanzate, ovviamente andando incontro a qualche difficoltà, i quattro amici si erano ritrovati nell'accampamento cirzese. Allora si erano impadroniti degli elmi di quattro soldati che dormivano e li avevano indossati.

Dopo essersi impossessati di tali armature, avevano badato ad allontanarsi da quel posto il più speditamente possibile e si erano anche messi alla ricerca dell'accampamento casunnano, il quale, come avevano appreso, era confinante con quello cirzese. I quattro giovani, infatti, erano convinti che solo in quel posto avrebbero potuto attingere le notizie che gli interessavano, siccome vi era la tenda dell'ufficiale più alto in carica. Perciò essi si erano dati a cercarla. Quando erano poi riusciti a trovarla, i quattro giovani avevano badato a sistemarsi nei suoi paraggi, volendo controllarla da vicino. Inoltre, si erano ripromessi di spiare i movimenti dei suoi parigrado, nel caso che questi fossero stati invitati da quello di Casunna nella propria tenda. Essi sarebbero stati facilmente riconosciuti, grazie ai loro elmi aventi un cimiero di piume oppure di crini. Comunque, già nel pomeriggio di quello stesso giorno, avevano avuto la fortuna di avvedersi di un fatto del genere, poiché si erano visti giungere dagli altri accampamenti gli alti ufficiali, che essi stavano aspettando. I quali, l'uno dopo l'altro, si erano diretti tutti nella tenda del loro collega e vi erano entrati, come se vi fossero stati invitati. All'esterno di essa, però, erano rimasti a piantonarla i due soldati, che già prima svolgevano lo stesso compito. Essi, stando a guardia dell'ingresso, vi eseguivano una rigorosa sorveglianza perché nessuno estraneo vi potesse entrare. Solo quando anche il settimo degli ufficiali dello stato maggiore aveva raggiunto i suoi colleghi nella tenda dello stato maggiore, Zipro era andato ad appostarsi nella sua parte posteriore, facendo quasi rasentare uno dei suoi orecchi alla tela di canapa che la formava. Nel frattempo i suoi amici facevano di tutto per distrarre le due guardie che facevano da sorveglianti davanti all'ingresso, dandosi magari ad una discussione alquanto vivace.

Ma perché fra gli alti ufficiali degli eserciti alleati si stava avendo quell'incontro, durante il quale probabilmente essi avrebbero discusso delle cose che interessavano ai quattro giovani dorindani? Per accertarci se ciò corrispondeva al vero, occorre venire a conoscenza della loro discussione, come appunto faremo, apprendendo ogni cosa di essa insieme con Zipro. Ebbene, alcuni giorni prima, dopo essere stati congedati dal mago Ghirdo, il quale in quel momento impersonava il re di Dorinda e di Casunna, gli alti ufficiali degli eserciti alleati se n'erano ritornati presso i loro soldati con un animo abbattuto. Essi non sapevano come spiegarsi la scomparsa dei loro sovrani, la quale era giunta inattesa e senza che ne venissero informati. In seguito, quando era venuta meno in mezzo a loro anche la presenza del sovrano dorindano, il quale, come gli altri, pure aveva cominciato a non dare più segni di vita, avevano deciso di riunirsi per conto loro, come stavano facendo appunto in quel pomeriggio. Adesso essi avevano intenzione di comprendersi qualcosa sulle sparizioni dei loro re e di stabilire quanto era da farsi, durante la loro prolungata assenza dai propri accampamenti.

In quella circostanza, il primo a parlare era stato Klus, che capitanava l'esercito casunnano ed era stato colui che aveva convocato di propria iniziativa i parigrado degli altri eserciti. Una volta che lo stato maggiore fu al completo nella sua tenda, egli si era dato a dire ai vari ufficiali:

«Miei autorevoli colleghi, com'era stata già manifestata anche da voi una simile esigenza nel recente passato, mi sono permesso di riunirvi presso la mia tenda per renderla reale. Ebbene, tutti noi abbiamo preso piena consapevolezza della sparizione dei nostri sovrani dai loro rispettivi accampamenti. L'ultimo a sottrarsi ai nostri occhi è stato Cotuldo, il re di Dorinda e di Casunna. Egli, prima di sparire allo stesso modo degli altri, ci aveva informati che gli altri suoi pari si erano dovuti assentare dai loro accampamenti per ragion di stato, incaricandolo di supplirli nelle varie operazioni belliche relative al nostro assedio. Ma ora che si è dileguato pure lui, ci ritroviamo ad essere senza i nostri comandanti supremi, dai quali potere apprendere ciò che è da farsi da parte nostra e ciò che ci viene vietato. Stando così le cose, è giocoforza che dobbiamo essere noi ad adottare i vari provvedimenti concernenti l'attuale assedio che, volenti o nolenti, bisogna gestire in qualche maniera.»

«Sono d'accordo anch'io con quanto hai detto, Klus.» aveva acconsentito Darov, l'ufficiale più alto in carica dell'esercito cirzese «Secondo me, però, la questione si presenta un po' complicata, anche perché la situazione si va deteriorando di giorno in giorno. Perciò, se non ci risolviamo alla svelta, si prospetta un ammutinamento generale da parte dei nostri sette eserciti, a causa della scarsità di viveri e di acqua, che continua ad aggravarsi ogni giorno che passa.»

«Comunque, non me la sento di prendere qualche decisione, senza che essa provenga dal mio sovrano.» aveva dissentito da loro due Foreb, il comandante in capo dell'esercito di Polca «Quindi, sono del parere che occorre attendere il ritorno dei nostri sovrani e ricevere da loro le opportune disposizioni che ci chiariscano quali azioni sono da prendersi.»

«Ma come puoi pensare che essi si faranno ancora vedere in mezzo a noi, Foreb?» lo aveva ripreso Klus «Anche se non ne conosco le ragioni, devi metterti in testa che tutti e sette oramai ci hanno lasciati in balìa di noi stessi, per cui non li rivedremo mai più in circolazione. Probabilmente, saranno stati eliminati dallo stesso dio Matarum, per essersi permessi di porre sotto assedio la sua città prediletta. Non hai visto quale fine ha fatto fare ai mostri che avevano stabilito di darci una mano nell'espugnazione di Actina? È stato qualcosa di veramente impressionante!»

«È vero: forse non hai tutti i torti a pensarla così, Klus. Allora ci conviene trovare al più presto una soluzione al nostro problema. A tale riguardo, chiedo se qualcuno di voi è in grado di suggerirci il modo di affrontare l'ingarbugliata matassa, che che ci ritroviamo tra le mani al momento attuale e che ci si mostra difficile da sbrogliare.»

«A mio avviso,» era intervenuto a fare la sua proposta Espur, il comandante in capo dell'esercito di Statta «per prima cosa, bisognerà porre mente a come vettovagliare le nostre truppe, dal momento che abbiamo iniziato a razionare i pasti dei singoli soldati, rendendoli ogni giorno meno sostanziosi. In merito a tale problema, proporrei, oltre che rimandare ulteriormente la sospensione delle ostilità, inviare nelle zone circostanti un consistente numero delle nostre soldatesche alla ricerca di derrate alimentari capaci di far fronte all'attuale penuria. In verità, oggi come oggi, considero del tutto aleatoria l'impresa del vettovagliamento, siccome gli Actinesi avranno fatto piazza pulita dei vari prodotti cerealicoli coltivati nei campi. Comunque, lo stesso vale la pena andare alla loro ricerca nelle tante fattorie!»

«Per come la penso io, cari colleghi,» c'era stato anche l'intervento di Surkut, il quale era preposto al comando supremo dell'esercito terdibano «potremo provvederci di vettovaglie, solo se riusciamo ad espugnare la Città Santa, dove ne troveremo in grande abbondanza. Perciò propongo di riprendere subito l'assedio alla città e condurlo avanti, fino a quando essa non cadrà sotto i colpi tremendi del nostro assalto.»

«Sono del medesimo parere di Surkut.» aveva approvato Norbut, che era alla guida dell'esercito bisnese «Per questo dobbiamo ridarci al più presto ad assediare Actina e a farla capitolare, poiché la sua capitolazione ci permetterà anche d'impossessarci dei viveri alimentari stipati nei loro sili. Essi serviranno soprattutto a sfamare i nostri soldati.»

«Anch'io mi associo a Surkut e a Norbut.» aveva fatto sentire la sua voce pure Perab, che comandava l'esercito stiachese «Essi hanno previsto meglio di noi la reale situazione del momento. Quindi, invito i restanti colleghi ad allinearsi all'opinione predominante.»

Così l'intervento del comandante stiachese aveva messo tutti d'accordo a riprendere l'assedio. Esso risultava sospeso da dieci giorni, la cui ripresa era stata stabilita per il giorno successivo al loro incontro.

Una volta avuta conoscenza di quelle notizie, Zipro aveva invitato i suoi amici a fare subito rientro in Actina per mettere al corrente il re Francide di quanto appreso dalla discussione che c'era stata tra i comandanti in capo degli eserciti alleati e tranquillizzarlo, almeno per quanto riguardava gli Actinesi inviati agli estremi confini orientali della loro regione, perché non costituissero per gli assediati dei seri problemi di sopravvivenza. Invece, essendoci stata la decisione di riprendere l'assedio da parte dei capi supremi dei sette eserciti, sotto la guida degli ufficiali, in ognuno dei accampamenti nemici erano iniziate ad aversi le varie operazioni, che predisponevano all'imminente assalto alla Città Santa, poiché esso ci sarebbe stato l'indomani. Nello stesso tempo, si erano preparati gli animi dei soldati ad accettarlo senza mostrarsi molto avversi, se non proprio con rassegnazione.


Il giorno seguente, alle prime luci dell'alba, le truppe alleate si erano così date di nuovo ad assediare la città di Actina con una massa ingente di mezzi e di odiosa minaccia, cingendola da ogni parte in una morsa di spietata bellicosità. Questa volta, però, erano venute meno le scalate, siccome gli assedianti ne erano rimasti quasi sprovvisti, dopo che gli Actinesi durante le precedenti nottate erano riusciti a fare sparire la maggior parte delle scale. Infatti, mediante uscite notturne, essi le avevano prelevate da dove si trovavano alla rinfusa e miste ai cadaveri, portandosele dentro la città. Per cui avevano costretto i loro nemici assedianti a servirsi dei soli arpioni per scalare le mura, siccome non avevano voluto adoperare quelle poche scale che erano servite a fargli superare il varco scavato tutt'intorno ad Actina. Ad ogni modo, già alle loro prime azioni strategiche, le quali avvenivano al chiarore di una languida luce che le faceva appena scorgere, sulle mura coloro che erano di scolta all’istante ne avevano preso consapevolezza. Per cui si erano date ad allertare i loro commilitoni, perché si destassero e si preparassero a sostenere il nuovo assedio, che era in procinto di divampare.

A quel punto, senza altro indugio si era messa in moto la macchina delle varie operazioni di difesa lungo l'intero cammino di ronda, su cui aveva iniziato ad esserci un movimento sempre più fitto di armati, fino a provocarvi una specie di congestione. Essi badavano a porre riparo lì dove la difesa si dimostrava più deficitaria. Il loro febbrile darsi da fare era dovuto al fatto che gli assediati non intendevano essere presi alla sprovvista dai loro ingenti nemici. Perciò adesso andavano cercando quei posti dove la loro presenza sarebbe risultata più efficace che altrove durante l'imminente assedio. Inoltre, si mostravano smaniosi di rintuzzare il protervo assalto nemico con una reazione efficiente e assai valida.

Anche a corte era giunta voce della brutta notizia, che annunciava quanto stava accadendo negli accampamenti avversari. Essa, anche se era attesa per quel giorno, lo stesso vi aveva arrecato sconvolgimento e preoccupazione specialmente nelle donne. Allora, a tale evento non gradito, il re Francide e il marito della sorella Godesia, che era Astoride, dopo essersi vestiti alla meglio ed aver tranquillizzato le loro mogli e le loro parenti, erano volati sulle mura cittadine, affinché anche il loro apporto risultasse prezioso nella difesa di Actina, infondendo coraggio in quanti già armeggiavano a tale scopo. Com'era da aspettarselo, l'improvvisa presenza del sovrano in mezzo ai tanti difensori, ne aveva reso l'affaccendarsi più alacre ed improntato ad atti di eroismo, di cui promettevano di rendersi autori durante l'incombente assedio della loro città. Comunque, poco dopo si erano uniti alle due autorevoli persone anche i quattro ardimentosi giovani Dorindani. Essi, alle prime avvisaglie dell'imminente assedio, si erano svegliati e si erano fatti trovare pronti sulle alte mura della città. Di loro quattro, però, era stato il solo Zipro a rivolgersi al sovrano actinese, dandosi a parlargli nel modo seguente:

«Sire, eccoci qua al tuo fianco, pronti a batterci per la difesa della Città Santa. Se la necessità dovesse richiedercelo, non esiteremmo ad affrontare il supremo sacrificio!»

«Grazie, mio ex allievo, per quanto vi proponete di fare tu e i tuoi amici a beneficio della mia città! Ve ne sono immensamente riconoscente. Ma dal momento che qui tra poco si scatenerà l'inferno, sarà nostro dovere dimostrarci all'altezza della situazione, dandoci a massacrare a più non posso gli assedianti in arrivo e facendoli pentire delle loro truci intenzioni. Sappiate che ho fiducia in voi, poiché credo nel vostro intrepido valore, avendolo voi già dimostrato in altre occasioni!»

«Certo che i miei compagni ed io ci comporteremo come da te fatto presente, re Francide, mettendo in pratica il meglio della preparazione d'armi e di arti marziali ricevuta da te e dal tuo amico fraterno Iveonte. Essa ci permetterà di compiere un grande massacro di coloro che hanno deciso di assediare Actina, senza che ci fossero delle giuste ragioni.»

Dopo il nuovo intervento del figlio della defunta fioraia Feura, l'aurora aveva iniziato a far propagare la sua rosea luce negli alti strati del cielo, cominciando a rendere più nitida ogni cosa sottostante. In pari tempo, le soldatesche nemiche si erano date ad accalcarsi intorno alle mura actinesi, intenzionate a riprendere l'assedio con un vigore maggiore. Allora il sovrano di Actina, il cognato Astoride e i quattro giovani dorindani, posto termine alla loro breve conversazione, si erano dedicati a quelle attività più pertinenti alla difesa della città. Perciò, manifestando animosità e gagliardia, li si erano visti dediti a difendere le mura da coloro che avevano ripreso ad assediarle, essendo desiderosi di espugnarle al più presto. Gli assedianti erano convinti che la capitolazione della Città Santa avrebbe significato per loro anche la possibilità di disporre dopo di grosse quantità di scorte alimentari, siccome esse vi erano state accumulate in gran quantità durante il periodo prebellico.

In quella mattinata, quindi, si era assistito di nuovo ad uno scontro furioso tra coloro che tentavano di condursi fino ai merli tramite le loro corde arpionate e quelli che cercavano di respingerli con vari mezzi strategici, quali si rivelavano l'acqua bollente, il catrame portato ad alta temperatura e vario materiale di consistenza dura, fosse esso di pietra o di legno. Spesso erano le loro armi taglienti a combattere quanti provavano ad arrampicarsi lungo la superficie delle mura, con l'obiettivo di raggiungere le feritoie per accedere poi ai cammini di ronda e darsi a battagliare con i difensori della città. Infatti, dopo averne reciso le corde all'altezza dell'arpione, facevano precipitare giù quanti vi erano arrampicati. Anche le quattro porte venivano saldamente protette dai soldati che erano stati distaccati presso di loro con il compito di difenderle ad ogni costo, ricorrendo alle più disparate strategie, pur di non vederle cedere ai diversi espedienti a cui erano soliti ricorrere gli assedianti. Infatti, costoro miravano ad abbatterle con arieti oppure a distruggerle con materiale infiammabile, appiccando il fuoco ad esse senza profitto.

Nel frattempo, tra i difensori della città e gli assedianti che riuscivano a scalare la parte merlata delle mura, la mischia infuriava tremenda e cruenta senza sosta, mostrandosi a volte di una tempestosità inaudita. Se i secondi apparivano dei lupi famelici nel darsi a battagliare, pur di avere il sopravvento sui loro nemici; i primi non erano da meno, poiché si davano ad accoglierli con l'intera rabbia che si ritrovavano nell'animo, facendo di tutto per farla sbollire su quanti aspiravano al saccheggio della loro città. Per cui la tenzone seguitava ad esserci con il massimo furore e con orrende stragi. Queste potevano solo suscitare orrore, a causa della soppressione di tante vite umane che si vedevano troncate con furia, lordando di sangue rutilante quegli spazi nei quali i massacri venivano compiuti. In prima fila, continuavano a dimostrarsi gli agguerriti leoni dello scontro il re Francide, Astoride e i quattro giovani Dorindani, i quali andavano seminando la morte fra coloro che adesso in grandi stuoli riuscivano a superare la merlatura con intenzioni sitibonde di sangue e di sterminio. Il sovrano di Actina e suo cognato, da una parte; Solcio, Zipro, Polen e Liciut, dall'altra, seguitavano a compiere atti d'indubbio coraggio e di rifulgente eroismo, mentre si scatenavano contro i loro nemici e ne facevano una immane ecatombe. Allora erano gli altri commilitoni a sgomberare il cammino di ronda delle loro salme, scaraventandole giù dalle mura con giubilante godimento. Invece i numerosi sagittari erano intenti a colpire con le loro frecce quasi sempre mortali gli assedianti che, brulicanti come formiche sotto le mura, si davano da fare perché pervenissero al più presto nell'interno della Città Santa. Se erano pochi quelli intenti ad abbattere le quattro porte cittadine; invece risultavano vere fiumane coloro che non smettevano di lanciare i loro arpioni contro la parte alta delle mura, volendo vederli impigliarsi in qualche merlo e darsi così alla loro ardua e temeraria arrampicata.

Il sanguinoso assedio durava da cinque giorni e le cose non erano affatto cambiate tra gli assedianti e gli assediati, intanto che il conflitto faceva registrare numerosissimi morti, la maggior parte dei quali si riscontrava nella componente assediante. La qual cosa faceva raccapricciare per il ribrezzo che esso suscitava, specialmente quando ci si soffermava sul fatto che quella maledetta guerra stava avvenendo tra otto popoli edelcadici fratelli, senza che ci fosse stata una ragione a giustificarla. Quando poi il sole si era affacciato al nuovo giorno, il quale era il sesto dalla ripresa dell'assedio, aveva riservato agli Actinesi la bella sorpresa di un'altra sospensione del conflitto, siccome gli eserciti alleati non si erano presentati sotto le mura della loro città per ridarsi ad assediarla, come avevano fatto nei cinque mattini precedenti. Ma se quasi tutti i soldati assediati ne erano stati contenti ed avevano giubilato per tale evento, la reazione nel re Francide era stata ben diversa. In un certo senso, egli, ipotizzandone i motivi, se n'era preoccupato non poco. Perciò aveva voluto discutere con l'amico Astoride e con i quattro giovani dorindani del perché i comandanti in capo degli eserciti alleati avevano preso una tale decisione. Quando essi si erano ritrovati nella sala del trono, il sovrano si era dato a parlare a tutti loro con queste parole:

«Cari amici, se da una parte la nuova interruzione delle ostilità da parte dei nostri nemici ci spinge a gioirne, come appunto stanno facendo tutti i nostri soldati; dall'altra, invece, dovrebbe preoccuparci per i motivi che già conoscete, per averveli già esposti nel nostro precedente incontro. Perciò sapete che la mia preoccupazione dipende da ciò che ha costretto i nostri nemici a sospendere il loro assedio. Se malauguratamente i loro comandanti fossero stati costretti all’odierna sospensione dalla penuria di beni di prima necessità, potremmo attenderci da loro l'invio di un nutrito numero di soldati nelle zone circostanti per cercarvi quanti più viveri possibili, sufficienti a sfamare i loro eserciti. A tale riguardo, sono convinto che essi scarterebbero le terre già da loro percorse e razziate nel condursi sotto le nostre mura. Al contrario, sarebbero di loro preferenza i territori che si trovano ad oriente della nostra città, considerandole più rigogliose e più idonee a permettergli un ottimo vettovagliamento. Allora molto sicuramente, i loro soldati perverrebbero anche ai luoghi dove abbiamo invitato a trasferirsi tutte le persone che non erano abili a combattere. Per questo sono in pensiero che ciò potrebbe verificarsi, con danni inimmaginabili per tutti loro.»

«Pur ipotizzando che un fatto simile in seguito potrebbe diventare reale, cognato mio,» Astoride era intervenuto a fargli presente «mi dici in che modo potremmo evitarlo oppure essere di aiuto ad una così gran massa di persone indifese? Secondo me, ammesso il caso che un domani ciò diventasse un fatto concreto, in merito potremmo unicamente piangerci la loro tragica sventura, senza neppure rimpiangere la nostra passata iniziativa. Infatti, ci siamo stati obbligati a prenderla per un fine umanitario senz'altro superiore. Quest'ultimo avrebbe dovuto differire a tempo indeterminato la caduta della nostra città.»

«Non hai tutti i torti, Astoride, a parlare così. Allora possiamo soltanto scongiurare la nostra somma divinità, il quale è il dio Matarum, di tenere tali nostri concittadini lontani dal pericolo da noi paventato. Cosa che senza meno faremo, allo scopo di tranquillizzarci.»

A quel punto, Solcio era intervenuto nella discussione, suggerendo:

«Se io e i miei compagni, re Francide, pervenissimo in un accampamento dei nostri nemici, com'è avvenuto l'altra notte, e ci mescolassimo così tra loro, dopo potremmo allontanarcene e raggiungere la tendopoli dei nostri concittadini. Così cercheremmo di condurli in un posto più lontano e sicuro. Nel caso poi che non riuscissimo a sottrarli in tempo alle grinfie dei nostri nemici, almeno ci adopereremmo per difenderli da loro nella migliore maniera possibile. Sono certo che anche i miei amici sono d'accordo. Allora, sire, ci autorizzi ad agire come ho detto, considerato che l'assedio è stato sospeso fino a data da destinarsi?»

«Per prima cosa, Solcio, tengo a farti presente che voi quattro non siete miei sudditi, per cui, qualunque cosa decidiate di fare, non avete bisogno della mia autorizzazione. Chiarito questo particolare, vi sconsiglio dal cimentarvi in una impresa del genere, siccome la ritengo molto rischiosa per voi. Quando ci sarà tale provvedimento da parte dei condottieri degli eserciti nemici, il convoglio che essi invieranno per il procacciamento dei viveri per lo meno comprenderà dai tremila ai cinquemila soldati, fra conducenti di carri e cavalieri di scorta. Per questo voi soli non potreste fare niente contro di loro; anzi, vi fareste soltanto ammazzare inutilmente. Né io voglio vedervi sciupare la vostra vita senza ottenere alcun successo. Invece ve lo permetterò, se mi promettete che, qualora la situazione risultasse quella da noi prevista, voi non vi lancerete a salvare gl'inermi Actinesi, ma vi limiterete a stare alla larga dai nostri nemici. Anche se vi costerebbe molto assumere un atteggiamento di questo tipo, conoscendovi per quel che siete e per quel che valete!»

«Vorrà dire, re Francide, che ci atterremo al tuo suggerimento, visto che esso per noi non potrà essere un ordine.» anche Zipro era intervenuto a dire la sua «Dunque, i miei amici ed io possiamo già cominciare a preparaci, siccome questa notte ci attende una nostra nuova andata dietro le linee nemiche, da dove partiremo per la nostra missione.»

«Certo che potete farlo, Zipro, se avete voluto assumervi un compito dall'esito aleatorio, che potrebbe non risultavi esente da rischi.»

La risposta del sovrano di Actina al suo ex allievo aveva segnato anche la fine del loro incontro a sei, poiché aveva visto i quattro giovani separarsi dal re Francide e dal suo cognato Astoride. Dopo essi avevano lasciato prima la sala del trono e poi la reggia, dovendo portare a termine le poche cose spicciole che dovevano agevolare la loro partenza notturna. Comunque, il sovrano e il suo amico non avevano lasciato quel luogo, ma vi si erano trattenuti ancora una mezzoretta, poiché intendevano scambiarsi alcune impressioni sul loro lontano amico comune. In merito a lui, era stato il re Francide ad esprimersi per primo, dicendo:

«Chissà a che punto si trova il mio amico fraterno, per quanto concerne il suo viaggio! Qui ci vorrebbe proprio la sua presenza per risolvere la nostra scabrosa situazione. Secondo quanto ci ha riferito giorni fa la sua diva protettrice, con la sua apparizione improvvisa, egli è già sulla via del ritorno. Perciò quanto prima ce lo ritroveremo ad Actina, in mezzo a noi, per riabbracciare prima i suoi genitori e sua sorella Rindella e poi i suoi amici migliori, i quali siamo io e te.»

«Sarà proprio così, Francide! Anch'io sono convinto che Iveonte è ormai prossimo a farsi vivo nella nostra città. Purtroppo per lui, non ci saranno a corte la sua Lerinda e il saggio Lucebio! Se ci fossero stati anche loro, nel ritrovarsi accanto tutte le persone a lui più care, la sua felicità sarebbe incommensurabile. Anzi, si sentirebbe perfino il cuore scoppiare sotto il petto, per la gioia immensa!»

«Hai dimenticato, Astoride, ciò che ci ha riferito il suo ex allievo Solcio, appena arrivato da Dorinda insieme con gli amici? Secondo lui, Iveonte, quando ha salvato la sua ragazza dal mago Ghirdo, il quale la teneva segregata nel castello Pervust, che è situato nella Selva Perversa ed era di proprietà degli Umanuk, le ha fatto compiere un viaggio aereo incredibile, superando in poco tempo una distanza enorme. Per questo chi può asserirci che egli non farebbe la stessa cosa, prima d'incontrarsi qui ad Actina con le persone a lui più care, facendola trovare a corte insieme con tutti noi? Se poi le cose sono destinate a non essere più come lo sono adesso, vorrà dire che ci toccherà aver pazienza, per esserci stato negato di vederlo giungere per primi dal suo lungo viaggio.»

«Non ho compreso ciò a cui ti sei voluto riferire, amico mio. Saresti così gentile da chiarirmi il tuo pensiero, che ho inteso confusamente, perché io non ne resti all'oscuro?»

«Ho voluto soltanto avanzarti una mia ipotesi, Astoride, secondo la quale, all'arrivo del mio amico fraterno, i suoi genitori potrebbero trovarsi già a Dorinda e non più ad Actina. Per cui non ci sarebbe più la necessità che Iveonte portasse qui a corte la sua Lerinda.»

«Chi dovrebbe portarceli nella loro Città Invitta, cognato mio, durante l'assenza del loro figlio Iveonte? Quanto hai ipotizzato mi appare davvero assurdo! Dovresti convincertene pure tu!»

«Forse hai ragione, Astoride, anche se niente può essere dato per scontato. Nel senso che la realtà può avere varie sfaccettature, a ciascuna delle quali non possiamo assegnare un valore assoluto ed indiscutibile, potendo esso essere sfatato da qualche eccezione futura. Alla quale prima non si era pensato neppure lontanamente. Comunque, adesso conviene avviarci alla nostra sala da pranzo, poiché è quasi ora di sederci a tavola. Così non faremo aspettare le nostre donne e i nostri preziosi ospiti, che sono i miei suoceri, mentre sono in attesa che venga loro servito il pasto di mezzogiorno.»

«Allora andiamo pure, Francide, perché in questo momento sto avvertendo anch’io un languorino allo stomaco, il quale m'invita a fare il pieno di cibo, se non voglio svenire per fame!»