435°-GLI UMANUK SI TRASFORMANO IN MOSTRI PER PRENDERE ACTINA

Sulla volta celeste erano appena spuntati i primi albori, filtrando attraverso la cupezza della morente notte, allorquando il suono cavernoso di un migliaio di corni si ridiede a dilagare per tutte le zone che circondavano la Città Santa. Parve quasi che esso volesse esprimersi con toni feroci e raccapriccianti, soprattutto con l'intento di provocare negli assediati Actinesi il terrore più folle e di abbatterli psicologicamente, fino ad indurli alla resa senza colpo ferire. A quel sordo suono seguì poi l'urlo pazzesco di una miriade di voci emesse all'unisono dai soldati degli eserciti alleati. Anch'esso prima si levò minaccioso dai loro accampamenti e poi raggiunse le mura di Actina, come se intendesse intimidire coloro che si preparavano a difenderle con ardimento e tenacia. Infine si assistette all'avanzamento compatto delle schiere nemiche, le quali, dopo avere serrato i ranghi, in numerose e lunghe file si muovevano verso il fossato, scavato tutt’intorno ad Actina. Adesso i soldati procedevano a coppie. L'uno reggeva un grosso scudo, il quale li nascondeva entrambi alla vista dei nemici, per cui esso non li faceva colpire dalle loro saette e dai loro giavellotti; l'altro era armato di arco, che aveva già una freccia incoccata. Ma tutti e due erano muniti anche di una spada, che per il momento portavano ringuainata. Essi si tenevano pronti ad usarla con efficacia all'occorrenza, se fossero riusciti a superare la merlatura.

L'imponente dispiegamento di forze posto in essere dagli Umanuk fece apparire la piana come un incommensurabile formicaio di milizie in fermento, che avanzavano verso le mura cittadine. In un certo senso, il loro avanzamento austero produsse parecchio sgomento nei soldati actinesi, i quali vi si trovavano sopra e si mostravano pronti a difenderle. Nello stesso tempo, essi non poterono fare a meno di cercare d'ipotizzarne il numero, sebbene già fossero a conoscenza che esso si aggirava intorno alle quattrocentomila unità. Ma pur essendo apparsi all'inizio in preda ad un'angoscia pressante, coloro che stavano per subire il nuovo assedio, questa volta da parte di un nemico soverchiante, fecero presto a liberarsene, ricaricandosi di un coraggio fuori del comune e dandosi a dimostrazioni d'impavida animosità. Inoltre, rianimandosi, confidavano nelle proprie forze ed energie, fino a considerarle adamantine, inarrendevoli, inesauribili ed invincibili. Per cui si convincevano che esse giammai sarebbero state rinunciatarie e cedevoli al nemico invasore. Il quale, per la seconda volta, stava per porre sotto assedio la loro città. Gli ufficiali, che li comandavano, non facevano mancare la loro presenza in mezzo ai soldati actinesi, con il compito preciso d'infondere in ciascuno di loro il sacro amor patrio e il dovere civico. Le quali virtù potevano unicamente spingerlo a decuplicare le proprie forze, pur di non lasciarsi travolgere e sconfiggere dai nemici assalitori. Esse avrebbero destato in lui quel fiero orgoglio, che avrebbe potuto solamente incitarlo ad un'accanita resistenza a oltranza.

Il dorato disco del sole era iniziato a levarsi superbamente all'orizzonte, quando il secondo assedio da parte dei sette eserciti alleati esplose con tutta la sua virulenza aggressiva e battagliera, cercando di stringere Actina in una morsa di spietati assalti, i quali, questa volta, non avrebbero dovuto conoscere soste. Così, poco dopo, gli assedianti già si davano ad infuriare nei pressi delle mura, quasi volessero farle sgretolare e crollare con le loro urla rabbiose. Invece, poste in mezzo agli stuoli di armati inferociti che si presentavano come masse ferventi di rancore, venivano avvistate diverse macchine da guerra. Esse si davano un gran da fare e reiteravano i loro lanci di enormi massi contro le mura, allo scopo di provocarne dei danni considerevoli. Ma i loro massicci getti di tale materiale contro la città non potevano causare il crollo né delle mura né delle torri. Essi si mostravano unicamente in grado di uccidere i difensori che si trovavano allo scoperto oppure quelli che se ne restavano riparati dietro le solide merlature. In quel susseguirsi di azioni ostili messe in atto dagli assedianti, ciò che impressionava di più erano i densi nuvoli di saette, le quali si levavano da più parti tra le innumerevoli forze assedianti e si dirigevano rapidissime verso le mura. Esse, che quasi oscuravano il cielo mentre sfrecciavano nell'aria in numero esorbitante, cercavano di raggiungere con il loro scatto incontrollabile la sommità delle mura, i suoi cammini di ronda e gli altri angoli meno esposti.

L'assedio vero e proprio, però, ebbe inizio, quando i soldati alleati si diedero ad oltrepassare il lungo fossato, servendosi delle scale che vi erano state poste di traverso, parte delle quali venivano poi tolte di nuovo da esso, siccome esse erano da adoperarsi per scalare le mura e raggiungere i merli. Per ovvie ragioni, però, il suo superamento non si mostrò cosa facile da parte loro, considerato che proprio in quel breve tratto venne meno la copertura degli scudi. Allora si dovette andare incontro alle ininterrotte gragnole di frecce, che gli Actinesi facevano piovere sopra le loro teste, raggiungendo diverse parti del corpo. Esse risultavano micidiali ai nemici, quando non erano invalidanti. Perciò le morti fra i soldati alleati incominciarono ad esserci a migliaia, seminando d'infinite salme il fossato e parte del suolo che lo separava dalle mura.

Ovunque adesso i combattenti dediti all'assedio si scorgevano cadere a terra esanimi oppure urlanti per il dolore, facendo apparire sui loro corpi le sanguinose trafitture provocate dai dardi e dai giavellotti lanciati dai loro esperti nemici. Ma solo dopo che un consistente numero dei loro contingenti fu falcidiato da coloro che le difendevano animosamente, le soldatesche degli Umanuk finalmente si trovarono ad affrontare le difficili scalate alle solide mura actinesi. Esse adesso apparivano assidue e belluine, mentre avvenivano da parte di coloro che le tentavano con stizza. I quali, quasi fossero dei lupi affamati, assaltavano la parte merlata delle alte e spesse mura con l’intento di penetrare nella città e di farvi scorrerie. Ad ogni modo, essi andavano incontro ad un sacco di problemi, dovuti ai tantissimi infortuni, che spesso erano da considerarsi molto gravi. I quali erano provocati a tutti loro dai difensori della Città Santa, la cui resistenza si dimostrava salda, pervicace e travolgente.

Nel contempo la resistente difesa degli Actinesi seguitava a seminare vittime a non finire sia tra coloro che cercavano testardamente di arrampicarsi alle mura sia tra quelli che alla fine riuscivano a superarle e a farsi strada tra i suoi merli. Questi ultimi, dopo essere stati freddati con rapidi colpi di spada oppure trafitti in pieno petto dai giavellotti e dalle frecce, venivano poi scaraventati giù da esse, facendoli precipitare come se fossero macigni. Invece la maggior parte dei soldati degli eserciti alleati, ossia quelli che armeggiavano ai piedi delle ciclopiche mura, subivano una morte differente. Infatti, venivano investiti dall’acqua e dalla pece, le quali, essendo bollenti, risultavano spesso letali. Esse piombavano sulle loro teste oppure su altre parti del corpo, quando meno se l'aspettavano. Allora, prima di spegnersi per sempre, le persone che ne venivano investite si davano a numerose urla strazianti, le quali ne manifestavano l'atroce tormento.

Pur subendo ingenti perdite durante il loro secondo assedio ostinato, la marea degli assedianti, inferocita più che mai, si andò esprimendo con assalti spericolati e senza temere le reazioni degli avversari, il cui obiettivo era quello di respingerli e di decimarli in pari tempo. Ma essi erano desiderosi di espugnare Actina ad ogni costo, bramando di vederla ridotta in grossi cumuli di fumiganti macerie, essendo quella la ferma volontà dei loro posticci regnanti, che adesso erano impersonati dagli Umanuk. Anche se poi, riflettendoci bene, i singoli soldati erano partiti dalle loro città con l'obiettivo di difendere il tempio del divino Matarum dai miscredenti Actinesi. I quali, secondo loro, siccome intendevano calpestare la sacralità della somma divinità dell'Edelcadia, meritavano di essere puniti con molta severità. Ecco perché ora le nuove intenzioni delle copiose truppe assedianti le faceva uscire dai binari. Era un controsenso volere, da una parte, infliggere una punizione a coloro che avevano deciso di demolire il tempio del dio Matarum e, dall'altra, si accanivano a distruggere l'intera sua città prediletta. Comunque, l'aver cambiato idea all'ultimo momento per esse le cose non cambiavano granché. Infatti, sulla sommità delle mura gl'interventi degli assediati contro di loro restavano i medesimi, ossia costanti, indomabili e falcidianti, disseminando l'esteso cammino di ronda dei loro innumerevoli cadaveri, i quali venivano poi scaraventati giù dalle mura.

Com'era da aspettarselo, erano il re Francide, Astoride e i giovani dorindani a seminare, più di tutti e in modo impressionante, sia schianto che morte tra i soldati alleati. Solcio, Zipro, Polen e Liciut apparivano dei veri leoncelli, mentre si scagliavano contro quanti erano stati in grado di scavalcare le mura, con l'intenzione di devastare ogni cosa con le loro azioni distruttive e di recare la morte ai loro nemici. Così li azzannavano, li inchiodavano nella loro fierezza e decretavano la fine di ogni loro prodezza, orgogliosi di farne carne da macello e di spargere il loro sangue nei posti dove li sorprendevano ad aggirarsi con i loro propositi di fare del male. Astoride, invece, non era da meno; in verità, non poteva che superarli. Con la sua stazza erculea e travolgente, egli si dava a compiere stragi fra i suoi nemici, che avevano appena superato le mura e adesso si preparavano a fare gli spacconi della situazione.

In riferimento al re Francide, invece, come possiamo bene immaginarcelo, nei luoghi dove egli si trovava a difesa delle mura, la sua presenza fisica significava morte immediata per quegli assedianti più spericolati, che avevano avuto l'ardire e la fortuna di superarle. I suoi colpi giungevano ai nemici improvvisi, invisibili e mortali, come se ad inferirli contro di loro fossero delle divinità adirate. I suoi interventi davvero erano quelli di un fiero leone, il quale si dà a fare razzie in un ovile, dove le mansuete ed indifese pecore e capre nulla possono contro i suoi artigli perforanti e le sue zanne laceranti. C'erano poi taluni Actinesi che, oltre a scagliare saette e lance dabbasso, maneggiando lunghe forche, erano intenti ad agire contro le scale. A volte cercavano di allontanarle dalle mura, altre volte si davano a togliere ad esse ogni stabilità, allo scopo di farle precipitare con quelli che erano appesi ai loro pioli e tentavano l'ardua scalata. Ma non mancavano fra i difensori coloro, il cui compito era quello di recuperare le miriadi di frecce, che erano state lanciate dai nemici assedianti e non avevano raggiunto nessun bersaglio, allo scopo di farle riutilizzare dai loro compagni di lotta. Esse, secondo le previsioni, prima o poi sarebbero potute andare incontro a penuria.

La maggior parte dei combattenti actinesi badavano alla difesa piombante, siccome essi erano stati incaricati di far cadere sui nemici che si trovavano ai piedi delle mura sia liquidi infiammabili e bollenti sia materiali solidi di vario tipo e di vario peso. Questi ultimi, grazie alla scarpatura che formava la base delle mura, cadendo, rimbalzavano in avanti e finivano per colpire anche quei soldati nemici che distavano alcuni metri da esse. Infine una parte degli assediati si davano da fare a rispondere al lancio delle artiglierie avversarie con quello eseguito dalle proprie. Le quali erano costituite da grandi balestre che operavano sul cammino di ronda oppure da mangani montati sulla cima delle torri. Tali macchine non smettevano di lanciare contro i sette eserciti alleati proiettili di materiale diverso e di differente grandezza, unitamente a palle di fuoco e a lanci multipli di frecce e di giavellotti, che quasi sempre risultavano mortiferi.

L'assedio, in tale stato di stallo, andava avanti da una decina di giorni, ovviamente con le sole notti risparmiate da esso, allorché gli Umanuk decisero di riunirsi di nuovo per fare il punto della situazione. La riunione fu indetta ancora dal mago Ghirdo ed ebbe luogo presso la sua tenda nella notte che risultava la decima, da quando i sette eserciti alleati si erano dati ad assediare la Città Santa per volontà dei loro sedicenti sovrani, che ne erano a capo. Una volta presenti tutti gli Umanuk, Ghirdo gli fece il seguente discorso:

«Miei colleghi, come abbiamo potuto renderci conto nella decina di giorni di assedio da noi condotto con tutte le forze a nostra disposizione, le varie operazioni ostili che stiamo portando avanti contro Actina non procedono per niente, secondo i piani che avevamo elaborati per distruggere ed annientare la Città Santa. Al contrario, i suoi valorosi difensori stanno avendo la meglio sui nostri soldati, i quali già sono stati abbondantemente decimati dagli Actinesi con molta celerità. Quasi fossero delle foglie nel periodo di fine autunno, le loro esistenze sono state strappate ai loro corpi a migliaia, per cui essi giacciono al suolo senza vita e in piena putrescenza. Come anche voi sapete, del loro enorme eccidio non c'importa un fico secco e la loro totale carneficina non suscita in noi alcuno sgomento. Anche se volessimo tentare un assedio passivo, con l'obiettivo di costringere gli Actinesi ad arrendersi per fame e per sete, ignoriamo i risultati che otterremmo da tale nostra decisione. Gli assediati potrebbero anche resistere abbastanza a lungo e forse sarebbero prima i nostri eserciti a trovarsi nella condizione in cui vorremmo far trovare loro. In quel caso, assisteremmo ad una defezione massiccia da parte dei nostri soldati, intenzionati a cercarsi altrove il cibo per sfamarsi e l'acqua per dissetarsi. Per questo, nel nostro attuale frangente, ciò che deve farci preoccupare di più è l'eventualità che l'Imperatore delle Tenebre possa ritornare dalla sua missione prima della caduta della Città Santa. La qual cosa non sarebbe quella che ci è stata raccomandata dai nostri divini protettori. Allora, visto che il tempo stringe, siamo costretti a ricorrere ad una nuova strategia, la quale ci faccia espugnare e ridurre in macerie la città di Actina assai speditamente.»

Quando ebbe terminato di parlare, l'Umanuk di Terdiba intervenne a fargli presente:

«Allora, Ghirdo, se vogliamo cavarcela senza porre tempo in mezzo, occorre seguire la strada che già ebbi modo di additarti all'inizio delle nostre operazioni belliche. Ossia, bisogna che noi ci trasformiamo nei mostri che abbiamo la facoltà di diventare, grazie alla generosa concessione delle nostre divinità protettrici. Così dopo ci daremo a demolire Actina con la massima distruzione possibile, dovendo essa risultare intensa, grave ed eccezionale, facendo in pari tempo un'ecatombe senza precedenti dei suoi atterriti abitanti!»

«Certo che faremo esattamente ciò, Izzon, non essendoci per noi, ora come ora, una diversa strada da percorrere! Infatti, vi ho riuniti appunto per farvi presente che siamo obbligati a ricorrere alla nostra trasformazione negl'invincibili mostri, che i nostri protettori ci permettono di diventare, ogni volta che lo desideriamo. Per questo domani mattina non ci sarà la ripresa dell'assedio da parte dei nostri eserciti; invece attenderemo mezzogiorno per dare il via al nostro intervento catastrofico contro la Città Santa. Ma prima daremo agli Actinesi l'illusione che si stia avendo negli assedianti qualche tentennamento nel loro nuovo assalto e poi li deluderemo con le nostre mostruose apparizioni. Le quali inizieranno a mettere a ferro e a fuoco la loro città, rovinando cose e massacrando persone.»

«Mi dici, Ghirdo, come dovrebbe avvenire il nostro intervento sulla Città Santa? Penso proprio con un piano preparato prima!»

«Non hai torto, Izzon. Ora vi spiego come dovremo intervenire su Actina. Nelle vesti di mostri, io e Kosep opereremo nel settore occidentale di Actina, Izzon e Lixez agiranno in quello orientale, Mastok e Neddov interverranno in quello meridionale, infine Otrun e Pazuol condurranno la loro azione distruttiva in quello settentrionale. Così, dopo aver fatto la nostra apparizione fra gli Actinesi che non guerreggiano, ci daremo alle più orribili devastazioni, senza pause e senza pietà. A questo punto, essendo stata chiarita ogni cosa tra di noi, possiamo ritornarcene presso i nostri eserciti ed aspettare il mezzodì di domani. Il quale dovrà rivelarsi agli abitanti di Actina una sorpresa di pessimo gusto.»


Dopo una notte trascorsa nella massima quiete, giunse un mattino diverso dai precedenti tanto per gli eserciti alleati quanto per i soldati Actinesi. Questi, dal canto loro, si fecero trovare sulle mura ben guarniti di armi di ogni sorta per resistere a quello che sarebbe stato l'ennesimo assalto dei loro nemici. I primi, avendo ricevuto dai propri ufficiali l'ordine di non attaccare la città di Actina, se ne meravigliarono a non dirsi; ma nel medesimo tempo se ne rallegrarono immensamente. I secondi, invece, non sapendo spiegarselo in qualche modo, per il momento si limitavano a stupirsene e ad attendere con circospezione gli sviluppi dell'attuale situazione. Comunque, evitavano d'illudersi che l'assedio fosse terminato per sempre in quel mattino radioso, anche se esso ispirava fiducia ed esaltazione, per come si mostravano le cose almeno all'apparenza. Erano tanti i discorsi che i difensori actinesi facevano tra di loro, pur di darsi una giustificazione al nuovo corso degli eventi. Esso, in quel mattino, per volere degli Umanuk, stava evolvendo nel modo che essi non si sarebbero mai aspettato; ma in senso negativo per loro.

Anche il re Francide, insieme con Astoride e i quattro giovani dorindani, essendosi stupefatti a causa del mancato assedio da parte dei nemici, si erano recati sopra le mura per rendersi conto di persona di quel fatto inspiegabile. Perciò adesso s'intrattenevano a discorrere su tale particolare inatteso. Il quale li faceva stare in ansia, per il semplice fatto che essi sospettavano qualcosa di più terribile da parte degli Umanuk, per cui se lo attendevano da un momento all'altro. Era stato il sovrano di Actina ad aprire il discorso sulla vicenda, dandosi a parlare agli altri, come appresso riportato:

«Non riesco a spiegarmi perché mai stamani gli eserciti alleati non hanno sferrato alla nostra città il solito attacco degli altri giorni. Non oso pensare che essi abbiano stabilito di rinunciare ad espugnarla, a causa di un loro ripensamento, oppure perché hanno trovato in noi dei veri ossi duri. C'è forse qualcuno tra di voi che abbia una propria idea in merito? In caso affermativo, egli si affretti a rendercela palese, affinché tutti gli altri possano prenderla nella dovuta considerazione ed attribuire ad essa pure il giusto merito!»

«Secondo me,» fu l'amico-cognato a rispondergli per primo «non è assolutamente facile farsi un'idea in quattro e quattr'otto di ciò che sta succedendo oggi tra i nostri nemici. Qualcosa a noi ignoto li ha anche indotti ad interrompere il loro assedio! Quindi, consiglierei di far passare un po' di tempo, prima di pronunciarci sull’evento.»

«Quanto affermi è inoppugnabile, Astoride; ma nessuno può vietarci di formulare la benché minima ipotesi sul nuovo comportamento degli assedianti. Per questo motivo invito di nuovo i presenti ad esprimersi sul sospeso assedio da parte degli eserciti alleati. Nel farlo, non tema egli che da parte degli altri gli provenga discredito oppure derisione, dopo avere espresso la propria idea, in relazione all'argomento di cui si sta discutendo in questo momento.»

Vedendo poi che nessun altro osava aprire bocca, dopo esserci stato l'intervento di Astoride, il re Francide si rivolse al suo ex allievo ed incominciò a dirgli:

«Neppure tu, perspicace Zipro, hai da commentare l’arcano evento, al quale stiamo assistendo? Eppure avrei scommesso che almeno tu avresti avuto la tua idea su quanto verte la nostra discussione! In precedenza sei stato il solo a centrare l'obiettivo, circa la nuova funzione che i nostri nemici si preparavano ad assegnare alle loro torri. Perciò, con un piccolo sforzo, potresti provare a fare qualche ipotesi sulla sospensione dell'assedio, da parte degli Umanuk! Chissà che essa non centri ancora una volta il problema!»

«Magari fosse così, re di Actina! Ma la volta precedente ci ho azzeccato per un caso fortuito e non ci scommetterei che la fortuna starebbe ancora dalla mia parte nell'esprimervi il mio concetto sull'odierno mancato assalto, da parte degli Umanuk!»

«Ammesso pure che tu abbia ragione, Zipro, ti costa forse qualcosa formulare una tua teoria sul nuovo atteggiamento assunto dai nostri nemici? Secondo me, non hai niente da perdere, se, avendola già nel tuo cervello, la fai conoscere anche a noi!»

«In verità, sire, io ce l'avrei una idea in merito; ma mi manca l'ardire di rendervela nota, potendo essa dimostrarsi stavolta assurda ed insensata, facendomi fare una figuraccia. Perciò, solo se tu e gli altri mi assicurate che dopo non la userete per dileggiarmi oppure per farvi di me una pessima opinione, sarò disposto a farvela conoscere, senza che ci sia da parte mia alcuna ritrosia ad accontentarvi. Allora mi promettete quanto vi ho chiesto, cioè che non mi deriderete?»

«Te lo promettiamo senza meno, Zipro! Inoltre, mi dici come hai potuto pensare che ci saremmo fatti scherno di essa, se avessimo considerato la tua idea inconsistente oppure assurda? Un fatto del genere non sarebbe mai avvenuto da parte nostra: sappilo! Per questo adesso comincia a rivelarci quanto hai pensato sull'interruzione dell'assedio, a cui questa mattina i nostri nemici hanno dato attuazione, all'improvviso e nel modo più strano.»

«Secondo me, re Francide, gli Umanuk avranno progettato qualcos'altro contro la tua città, avendo preso coscienza che la presa di Actina sarebbe avvenuta in un tempo molto più lungo di quello da loro preventivato. Anche se non se ne conosce il motivo, vi assicuro che essi hanno una gran fretta di espugnarla, come se la loro fosse una corsa contro il tempo. Per tale ragione, non potendolo fare con gli eserciti a loro disposizione, hanno deciso di rinunciare al normale assedio mediante soldati e macchine da guerra. Invece adesso essi sono intenzionati ad intraprendere le strategie che glielo permetteranno in modo più sbrigativo. Ma non possiamo ipotizzare quali alla fine esse risulteranno, allo scopo di conseguire con efficacia e alla svelta il loro obiettivo. Vedrete che avverrà, proprio come ho immaginato!»

«Ammesso che la tua tesi sia quella giusta, Zipro, secondo te, mi dici anche perché mai gli Umanuk non si sono già risolti prima ad agire contro la Città Santa nella maniera in cui adesso essi si preparerebbero ad intervenire contro di noi? Sapresti anche dirmi qualcosa, a tale riguardo? Mi farebbe piacere che ti esprimessi pure in questo senso, mio ottimo allievo, essendo interessato a quanto è venuto fuori dalla tua mente!»

«Il motivo non può essere conosciuto facilmente, sovrano di Actina; però di sicuro gli sarà stato vietato da qualcuno, il quale potrà essere soltanto una divinità, forse la stessa che li protegge. Riguardo poi al loro coinvolgimento diretto avverso agli Actinesi, che si appresterebbero a mettere in atto, sarei propenso a credere che molto presto ce li vedremo tutti addosso, dopo essersi trasformati in mostruose creature del male. Non siamo forse a conoscenza che essi hanno la facoltà di trasformarsi in mostri invulnerabili, che hanno a disposizione potenti armi nocive?»

«Addirittura, Zipro, secondo quanto asserisci, dobbiamo attenderci a momenti l'arrivo nella nostra città di mostri, i quali si daranno a distruggerla e a fare strage dei suoi abitanti! Almeno a questo particolare, come tu ce lo hai presentato, rinuncio a credere, se vuoi saperlo! Anche se, per tutto il resto, potrei anche essere d'accordo con te.»

Dopo il suo ultimo intervento, il re Francide volle porre fine alla conversazione del momento, la quale si stava avendo sul cammino di ronda delle mura. Così, mentre i quattro giovani rimasero ancora in quel luogo, perché vigilassero che nessun fatto strano si verificasse all'improvviso tra gli assediati, egli ed Astoride rientrarono a corte, dove avevano da sbrigare alcune faccende burocratiche. Essi vi andavano soprattutto per tranquillizzare le loro donne e i regnanti di Dorinda, rassicurandoli che, per come stavano procedendo le cose, non si prevedeva nulla di grave che potesse impensierirli.

All'ora di pranzo, però, si erano appena seduti tutti a tavola per consumare il pasto, allorquando Solcio, Zipro, Polen e Liciut si presentarono a corte di corsa, chiedendo con urgenza udienza al re Francide. Essi avevano da trasmettergli ciò che di brutto stava succedendo in città. Infatti, si erano precipitati da lui per riferirgli che a mezzogiorno in punto otto terribili mostri, dopo aver fatto la loro repentina comparsa in più parti della città, servendosi delle loro diaboliche armi offensive, non avevano perso tempo a mettersi a provocare lo sfacelo tra le abitazioni e lo sterminio tra la popolazione. Inoltre, mentre agivano in quel modo, la loro invulnerabilità li rendeva inattaccabili ed invincibili. Non occorre aggiungere che essi adesso continuavano a farlo anche nel momento stesso che i quattro giovani lo riferivano direttamente al loro sovrano.

Naturalmente il lettore, nell'apprendere tali fatti, non viene preso alla sprovvista, poiché egli era già al corrente di ciò che sarebbe potuto succedere in Actina quanto prima, avendolo sentito dichiarare da Ghirdo agli altri Umanuk. Anzi, egli aveva anche appreso dallo stesso mago in quali settori della citta essi sarebbero andati a seminare rovine e morti, come stavano appunto facendo nel reale presente. Perciò ci conviene approfondire nel migliore dei modi la loro opera di terribile devastazione e di eccidio efferato, benché non ci faccia per niente piacere vederla svolgersi con gli attributi più inumani e vomitevoli.

Ebbene, nel settore occidentale di Actina, gli Umanuk Ghirdo e Kosep, avvalendosi delle loro mostruose mutazioni genetiche, stavano sferrando il loro attacco turbolento e rovinoso. Il primo si era trasformato nel mostro Talpok; invece il secondo era diventato il mostro Sauduz. Oltre ad avere entrambi il corpo refrattario ai colpi delle frecce, delle spade e dei giavellotti, essi possedevano armi adatte all'offesa molto differenti. Una delle due caratteristiche principali del Talpok era la capacità di sotterrarsi e di riemergere dal terreno con estrema facilità e in un tempo brevissimo. Spesso la sua riemersione avveniva sotto una casa, abbattendola dalle fondamenta. L'altra era il niveo fumo che gli fuoriusciva dalle fauci, il quale, quando i suoi occhi diventavano di colore vermiglio, era in grado di disintegrare qualsiasi cosa. Per cui tutti gli esseri viventi e non viventi, quando venivano raggiunti da esso, sparivano nel nulla. Anche il mostro Sauduz, tra le sue peculiarità, ne aveva due di un certo rilievo: l'attitudine al volo e la capacità di sputare fuoco dalle fauci. Esso, essendo idoneo a volare, spesso, dopo avere adunghiato con i suoi potenti artigli dei grossi macigni, li sollevava fino ad una certa altezza, da dove li faceva poi precipitare sopra edifici e persone. Allora, se i primi ne venivano schiacciati, i secondi ne subivano lo spiaccicamento al suolo. Ma anche le grosse fiammate, che gli uscivano dalla profonda gola, provocavano danni ingenti negli sventurati che venivano raggiunti ed avvolti da esse. Difatti li si vedevano ridotti come cinghiali arrostiti vivi allo spiedo.

Nel settore orientale, invece, gli Umanuk Izzon e Lixez si trovavano a seminare sfacelo e tante uccisioni. Il primo agiva sotto le spoglie del mostro Kerrup; mentre le sembianze del secondo, intanto che si dava alle sue raffiche, erano quelle del mostro Buriul. Il mostruoso essere, che rappresentava il protetto del dio negativo Sivus, era dotato di raggi ultrapotenti, i quali gli fuoriuscivano dagli occhi ed erano capaci di sfondare qualsiasi cosa, fossero esse anche le solide mura di una città! A maggior ragione, ogni abitazione ne restava stritolata senza difficoltà, quando non ne veniva polverizzata. Quanto a Buriul, il suo incredibile soffio ciclonico, che rappresentava la sua principale caratteristica, era in grado di dimostrarsi più potente e più nocivo del maggiore dei cicloni. Per questo la sua furia, quando si scatenava in concreto tanto sulle cose quanto sugli esseri animali, finiva ogni volta per originare sulle une e sugli altri lo scombussolamento più disastroso e letale.

Nel settore meridionale, come siamo già al corrente, il mago Ghirdo aveva designato gli Umanuk Mastok e Neddov ad esprimersi in esso con il massimo nocumento contro gli Actinesi: l'uno, dopo essersi tramutato nel mostro Varfut; l'altro, invece, dopo avere assunto le sembianze del mostro Fureot. La prerogativa principale del primo era quella che gli faceva rendere cieca ogni persona, che si dava a fissarlo per un tempo superiore ai cinque secondi; invece quella dell'altro era il vapore niveo, che gli usciva dalle fauci. Esso, quando sfiorava un essere animale, lo pietrificava all'istante; mentre lasciava inalterata la struttura dei vegetali. Quindi, possiamo immaginarci a cosa andavano incontro gli Actinesi, quando malauguratamente s'imbattevano in loro e ne venivano accecati oppure pietrificati.

Nel quarto settore, il quale era quello settentrionale, come da incarico ricevuto dal protetto del dio Sartipan, gli Umanuk Otrun e Pazuol si davano un gran daffare a rendere loro misere vittime quei cittadini di Actina, che sventuratamente capitavano nelle loro grinfie. Il primo di loro era diventato geneticamente il mostro Pelusom, mentre il secondo era rappresentato dal mostro Tuselon. Entrambi i mostri, per sfortuna dei loro perseguitati, risultavano forniti di prerogative atte a presentarli abbastanza perniciosi. Il primo non smetteva di eiettare schegge cornee dal proprio corpo, le quali andavano a trafiggere le persone che si trovavano non oltre i venti metri di distanza, ammazzandole sul colpo. Il secondo, faceva mostra di un risucchio poderoso, il quale, senza alcuna fatica, riusciva ad attrarre nelle proprie fauci quanti si trovassero ad una distanza non superiore ai trenta metri. Una volta finiti nella sua bocca, il mostro li triturava con le sue possenti zanne e poi li sputava fuori, facendoli ritrovare maciullati sul selciato stradale.

Gli otto mostri, continuando a far da padroni in Actina, commettendo stragi di persone ed arrecando danni irreparabili alle abitazioni, senza che nessuno potesse arrestarli nella loro abominevole opera, il re Francide non sapeva come tenere sotto controllo il grave stato di cose, il quale era venuto a crearsi nella propria città. Ne stava ora parlando nella reggia con Astoride e con le donne di rango reale presenti a tavola, le quali erano sua moglie, sua madre sua suocera e sua sorella. Queste ultime quattro, spaventandosene, continuavano a lamentarsi e a tremarne, nonostante il loro comune parente cercasse d'incoraggiarle.

Ad un certo punto, il Terdibano si diede a parlare a tutte loro così:

«Nella nostra gravissima situazione, qui ci sarebbe voluto Iveonte a gestirla positivamente! A lui, in qualità di protetto delle più potenti divinità benefiche, non sarebbe stato difficile liberarci dagli otto pestiferi mostri. Essi stanno arrecando alla Città Santa enormi devastazioni, le quali diventano causa anche di ecatombi spaventose di Actinesi!»

Astoride aveva appena terminato di esprimersi in quel modo, allorché provenne dalle vie attigue un generale brusio, come se la gente stesse assistendo ad un vero prodigio. Allora le cinque persone in grado di farlo si trasferirono sul belvedere della reggia per rendersi conto di cosa stava succedendo in città, visto che il popolo ne veniva strabiliato. Una volta sopra quel luogo elevato, essi si resero conto che nelle vicine vie gli Actinesi gioivano, siccome nel cielo un essere umano si dava a varie acrobazie di volo, pur essendo privo di ali. Nello stesso tempo, egli dava la caccia ai mostri loro torturatori, scovandoli dall'alto in varie zone della città e disintegrandoli così con i suoi potenti raggi sterminatori. Quando infine ebbe terminato di regolare i conti con le mostruose creature, l'uomo volatile, avendo lasciato la città, scomparve in un attimo. Ma se il popolo actinese, osannandolo e benedicendolo, lo considerò un'autentica divinità; diversamente la pensarono le cinque persone che occupavano il belvedere reale. In precedenza, in uno degli avvicinamenti al suolo del volatore, attraverso i suoi tratti somatici, esse non avevano avuto difficoltà a riconoscere Iveonte. Perciò si erano date pure a chiamarlo per nome ad alta voce, cercando di farsi udire e di farsi raggiungere da lui. Le loro grida, però, rimasero inascoltate, poiché il loro amico e parente si era poi allontanato senza dare retta ai loro richiami.

Il comportamento assunto dal suo amico fraterno non fu gradito dal re Francide, anche se ci rimasero male pure sua madre, Astoride e la regina Rindella. Quest'ultima, rappresentando per lui la sorella minore, sebbene ella fosse consapevole che il fratello non poteva affatto saperlo, avrebbe voluto abbracciarselo e metterlo a conoscenza che i loro genitori erano vivi e si trovavano ospiti nella reggia dell'amico fraterno. Ma poi Astoride, con l'intento di giustificare lo strano atteggiamento del loro amico comune, disse al cognato:

«Secondo me, Francide, se Iveonte ha agito nel modo che sappiamo, vuol dire che egli non ha potuto fare altrimenti. Per questo sorvoliamo su tale episodio e gioiamo invece, al pensiero che egli ci ha liberati dagli otto invincibili mostri. A mio avviso, essi ci erano stati inviati dagli Umanuk, al fine di far distruggere da loro la nostra città e di farvi morire le persone che l'abitavano. Inoltre, sono convinto che Iveonte sarà fra di noi molto presto ed allora ci motiverà il comportamento da lui assunto.»

Ovviamente, Astoride era all'oscuro (né egli poteva saperlo) del fatto che i mostri uccisi dal suo amico erano gli stessi Umanuk, i quali perciò avevano cessato di esistere per sempre insieme con le loro manifestazioni mostruose. Va fatto presente a tale riguardo che non tutti gli otto perversi personaggi erano morti, poiché uno di loro era riuscito a defilarsi in tempo. Ma poteva trattarsi solo di Ghirdo, il quale, non appena aveva scorto Iveonte darsi alle sue volate punitive, si era affrettato a dileguarsi sottoterra, essendo consapevole che con lui nessuno degli Umanuk poteva competere e gli stessi loro protettori non sarebbero stati capaci di fermarlo e di evitargli di distruggere i loro protetti.

Il Terdibano ebbe appena terminato di parlare al cognato re, allorché fece la sua comparsa sul belvedere una figura trasparente, la quale riproduceva l'immagine di una bella fanciulla. Ella, apparendo all'improvviso, si diede a parlare ai presenti in questa maniera:

"Vi prego di scusare il vostro Iveonte, il quale ha dovuto comportarsi con voi, come sapete. Ma vi assicuro che quanto prima egli vi raggiungerà ed allora potrete godervelo tutto il tempo che vorrete. Inoltre, egli adesso conosce chi sono i suoi genitori, avendo portato avanti e concluso la sua missione brillantemente nell’isola di Tasmina."

Pronunciate quelle poche frasi, la figura dell'evanescente intrusa, dopo essere diventata del tutto sfocata, sparì alla loro vista, lasciando stupefatti, oltre che dediti alla gioia, le persone che avevano assistito al dolce fenomeno visivo. Allora, con uno sforzo di memoria, il re Francide rammentò che quel volto non gli era sconosciuto. In passato, esso gli era apparso per annunciargli il pericolo che stava correndo sua madre. Perciò ne dedusse che ella poteva soltanto essere la diva protettrice del suo amico fraterno. La quale molto sicuramente lo aveva anche avvisato della pessima situazione in cui versavano la Città Santa e i suoi atterriti abitanti, facendolo così correre in soccorso dell'una e degli altri.

Rientrati nei loro appartamenti regali, il re Francide e la regina Rindella corsero subito a mettere al corrente i due ex regnanti di Dorinda, che sedevano ancora a tavola, dell'evento al quale avevano assistito dal belvedere della reggia. Anche perché esso era stato opera del loro Iveonte, mettendoli anche a conoscenza che egli presto sarebbe ritornato dalla sua missione. Essi allora ne furono oltremodo felici e, da quel momento, incominciarono ad attendere con ansia il ritorno del loro primogenito, il quale era l'erede al trono ancora per poco, poiché molto presto sarebbe stato lui il nuovo re di Dorinda.

Al loro genero, però, poco dopo toccò dedicarsi alle vicende di Actina, specialmente perché i mostri avevano ridotto alcuni suoi settori piuttosto male, che adesso andavano anche sgombrati da un migliaio di cadaveri, i quali erano delle persone uccise dai mostri. Il re Francide, infatti, dopo aver lasciato i suoi suoceri, convocò con urgenza a corte le persone competenti ad eseguire i due tipi di lavori. Così agli uni ordinò di provvedere al più presto alla ricostruzione degli edifici e delle strade, che avevano subito i maggiori danni. Agli altri, invece, diede l'incarico di trasportare le salme al cimitero e, contestualmente, di badare ad una loro degna sepoltura. Per fortuna gli Umanuk, sotto le spoglie di mostruose creature, avevano fatto la loro comparsa direttamente in città, per cui non avevano danneggiato le mura, le quali perciò restavano ancora indenni ed idonee a sostenere anche gli assalti più duri. Ma gli eserciti alleati avrebbero ripreso il loro assedio, anche dopo l'uccisione dei mostri da parte d'Iveonte? Era quanto si chiedeva il sovrano della Città Santa. Se vogliamo conoscerne la risposta, però, dobbiamo trasferirci nei loro accampamenti ed appurare il tipo di aria che vi si respirava, potendo essa rivelarci la verità su ciò che abbiamo bisogno di conoscere, prima di proseguire nella nostra avvincente storia.

L'annuncio, secondo il quale quel mattino l'assedio non sarebbe stato ripreso, era giunto ai soldati degli eserciti alleati abbastanza gradito. Comunque, non riuscivano a spiegarsi la decisione presa dai loro sovrani, la quale era servita ad infondere in loro unicamente del buonumore. Per l'intera mattinata, perciò, avevano cercato di godersela come meglio potevano. In seguito, con l'arrivo di mezzogiorno, avevano appreso che otto mostri erano apparsi in Actina per venire in loro soccorso. Difatti essi si erano assunti il compito d'indurre la città ad arrendersi, ricorrendo a sconvolgenti demolizioni e ad orrende carneficine. Senza dubbio i mostruosi esseri avrebbero conseguito con successo il loro intento, se non fosse giunto Iveonte a vanificarlo con i raggi disintegratori del suo anello, i quali, l'uno dopo l'altro, li aveva fatti fuori, tra la felicità degli Actinesi. Naturalmente l'arrivo dell'uomo volante era dispiaciuto ai soldati alleati, siccome egli, con l'uccisione dei mostri, avrebbe spinto i loro sovrani a riprendere il cruento assedio. Invece, dopo la partenza dell'essere umano dalle prodigiose peculiarità, fatta eccezione del posticcio re Cotuldo, nessun altro monarca si era presentato ai propri sudditi. Perciò i sette eserciti rimasti senza i loro sovrani a comandarli si ritrovavano a gestire una situazione molto difficile, a cominciare dai loro alti ufficiali, i quali apparivano in preda al disorientamento totale.

Allora, dato il quadro null'affatto roseo della situazione, da parte del mago Ghirdo, fu giocoforza intervenire presso gli smarriti e sconcertati ufficiali degli altri sei eserciti. Egli doveva trovare una soluzione al grave problema, che era venuto ad ingenerarsi a discapito delle forze assedianti. Così, dopo averli riuniti nella sua tenda, gli parlò in questo modo:

"Egregi ufficiali, vi comunico che i vostri sovrani sono dovuti partire per le rispettive città, dove alcuni gravi problemi li hanno richiamati con la massima premura. Ma essi, prima della loro partenza, mi hanno affidato il comando anche dei loro eserciti, affinché i nostri progetti bellici non venissero disattesi. Ad ogni modo, considerata la confusa situazione odierna, ho stabilito che per il momento gli assalti alla Città Santa dovranno essere sospesi, fino a data da destinarsi. Per cui potete impegnare i vostri soldati nella ricerca di cibo e di acqua nelle zone viciniori, dovendo l'uno e l'altra permettergli di sostentarsi e di sopravvivere. Con questo annuncio, avrei finito con voi, per cui potete congedarvi."

Dopo che il mago Ghirdo si fu espresso ai convenuti in quella maniera stringata, non essendoci stato tra di loro nessuno disposto a rivolgergli qualche domanda, la riunione ebbe termine seduta stante. Per cui gli alti ufficiali se ne ritornarono poco convinti ai rispettivi accampamenti; ma senza avere alcuna intenzione di approfondire la sparizione dei loro sovrani, sebbene gli apparisse assai strana!