431°-SOLCIO, ZIPRO, POLEN E LICIUT DECIDONO DI RESTARE AD ACTINA

Lucebio ricevette l’ex consigliere del defunto re Cotuldo, insieme con il comandante Morchio, dopo il suo ritorno dall'amico Sosimo. In quella circostanza, volle esserci presente anche Croscione, conoscendo bene entrambi i suoi due subalterni di un tempo. Dopo essersi messi a sedere al solito posto dove avvenivano le riunioni, Lucebio, prima di passare ad interrogare Gerud, si rivolse al suo ignoto accompagnatore, dicendogli:

«Non avendo mai avuto il piacere di conoscerti di persona, vuoi essere così gentile da presentarti? Comunque, ci terrei ad essere messo al corrente anche del motivo che ti ha spinto a venire sul nostro altopiano, abbandonando il tuo posto di lavoro. Allora mi rispondi?»

«Il mio nome è Morchio e, fino a poche ore fa, sono stato il comandante del corpo di guardia, che è situato presso la reggia di Dorinda. Mio diretto superiore in passato è stato l’eccellente Croscione; mentre adesso è l’illustre Gerud. Essi sono entrambi qui presenti. Riguardo alle ragioni che mi hanno indotto a rifugiarmi sopra questo altopiano con tutta la mia famiglia, dal momento che esse sono le medesime che hanno persuaso il mio attuale superiore a fare l'identica cosa, potrà essere lui stesso a riferirtele meglio di me.»

Ma prima che venisse chiamato in causa, il suo ex subalterno Croscione intervenne a parlare al comandante del corpo di guardia, al quale si espresse in questo modo:

«Mi ha fatto molto piacere, Morchio, l’avere riudito la tua voce! Devo ammettere che sei sempre stato un gendarme in gamba e ligio al tuo dovere. Essendo però anch’io all’oscuro del motivo che ti ha fatto rifugiare presso di noi, non vedo l’ora di conoscerlo! Anzi, dal momento che ci hai fatto presente che esso è uguale a quello del tuo superiore attuale, mi sento obbligato ad invitare lui a palesarcelo. Così Lucebio ed io sapremo perché voi due vi siete precipitati a venire nel nostro rifugio. Comunque, Lucebio ed io vorremmo dapare da Gerud perché ha interrotto ex abrupto la propria missione, facendo stupire l'ex capo dei ribelli.»

Un minuto dopo, rivolgendosi direttamente all’interessato, gli chiese:

«Allora, mio ex subalterno, vuoi motivarci quella che ci risulta una tua fuga, trascinandoti dietro anche Morchio e l'intera sua famiglia?»

All'invito di Croscione, colui che da poco aveva smesso di essere il comandante della Guardia Reale presso la reggia di Dorinda, apparendo spaventato, si diede a raccontare quanto era venuto a conoscere a corte, tramite il suo origliamento dal solito stanzino adiacente al salottino rosso. Terminata infine la propria esposizione dei fatti, cioè quelli che aveva appreso dal mago Ghirdo e dall’Umanuk di Casunna, aggiunse:

«A quel punto, amici miei, ho ritenuto opportuno defilarmi al più presto, non volendo fare la stessa fine del re Cotuldo. Essendo poi certo che al posto mio ci sarebbe andato di mezzo il comandante Morchio, ho creduto giusto metterlo al corrente di quanto stava succedendo a corte e del pericolo che di sicuro avrebbe corso lui al posto mio, se fosse rimasto nella reggia. Egli allora, fidandosi di me ciecamente, non ha esitato a seguirmi in questo luogo, con l'intero suo nucleo familiare.»

Dopo le preoccupanti dichiarazioni dell’ex alto ufficiale Gerud, Lucebio ritenne giustificato il comportamento da lui assunto. Ma poi, cercando di non perdersi d’animo di fronte a quegli eventi per niente confortevoli, si diede a parlare ai presenti in questa maniera:

«Come posso constatare, amici miei, la situazione tanto in Dorinda quanto nelle altre città edelcadiche comincia a farsi rovente ed irrespirabile, a causa dei terribili Umanuk che vi si sono insediati. I quali, purtroppo, possono trasformarsi in esseri mostruosi inattaccabili ed invincibili. Perciò, da parte nostra, è impossibile condurre una qualsiasi azione ostile contro di loro, senza rischiare la vita. Per quanto concerne noi e coloro che vivono su questo altopiano, speriamo soltanto che il mago Ghirdo non ci abbia presi di mira. Nel caso poi che egli decida di mettersi sulle nostre tracce per fini malvagi, auguriamoci che non raggiunga mai il suo scopo, poiché esso potrebbe risultarci fatale. Unicamente la presenza d'Iveonte nella nostra città potrebbe toglierci dai guai, essendo in lui il potere di neutralizzare il male che si annida nel mago e forse anche quello di annientarlo per sempre. Ma il nostro imbattibile eroe si trova ancora lontano e non si sa quando sarà di ritorno tra di noi per dar battaglia agli Umanuk ed eliminarli. Quando egli lo farà, consentirà ai popoli edelcadici di vivere in pace, nonché gli farà evitare la sanguinosa guerra alla quale essi stanno per essere costretti dai fautori del male.»

«Se le cose stanno come hai detto, Lucebio,» prese la parola anche Croscione «ci dici cosa dovremmo fare, intanto che Iveonte non ritorna a Dorinda a darci la sua provvidenziale mano?»

«Nient’altro che pazientare, Croscione! Quindi, ce ne staremo soltanto tranquilli ad attendere l’arrivo del nostro eroe. Se poi hai tu da suggerirmi qualcosa di meglio in merito, sei libero di esporcelo.»

«A dire il vero, amico mio Lucebio, non ho nulla da proporvi; però avrei un'altra domanda da farti. Sai dirmi almeno quando è previsto il ritorno a Dorinda dei nostri quattro arditi giovani, i quali furono inviati ad Actina per i motivi che conosciamo?»

«Se lo vuoi sapere, Croscione, quando essi partirono per la Città Santa, non concordai con loro alcuna data, circa il loro congedo dal re Francide. Anzi, se lo vuoi sapere, feci loro intendere che, se lo avessero ritenuto opportuno, avrebbero anche potuto stabilire di restarvi per tutto il tempo necessario. Così avrebbero dato una mano ai soldati actinesi nelle varie opere di fortificazione della loro città. Perciò non possiamo in alcun modo prevedere il ritorno al nostro campo dei nostri quattro validissimi giovani. Non ho afferrato però il motivo, per cui mi hai chiesto di loro, amico mio. Lo sai benissimo che essi non potrebbero esserci di alcuna utilità, anche se fossero presenti a Dorinda!»

«Invece, Lucebio, te lo avevo domandato esclusivamente per pura curiosità e non perché avevo pensato d’impiegarli in qualche missione di una certa rilevanza. Quindi, considera la mia domanda come non fatta, non avendo essa avuto un fine preciso. Piuttosto bisogna badare a dare una sistemazione nel nostro campo a Gerud, a Morchio e alla famiglia di quest’ultimo. Tu hai già deciso dove e in che modo sistemarli?»

«Naturalmente, sì, Croscione! I due graduati del defunto re Cotuldo, i quali formalmente possono considerarsi al servizio del re Raco, andranno ad occupare la tenda del loro attuale sovrano, essendo rimasta praticamente vuota, dopo il suo trasferimento nel palazzo del mio amico. Invece i familiari di Morchio si uniranno alle altre famiglie residenti sull’altopiano. Come ti rendi conto, amico mio, non ho potuto trovare una soluzione migliore, circa la loro sistemazione nel nostro campo!»

«Anche secondo me, Lucebio, non avresti potuto risolvere meglio di così il loro problema. Per cui sono d’accordo con te per come hai sistemato i miei concittadini in questo posto, non potendo fare altrimenti!»

L’incontro ebbe termine, dopo che Croscione si fu espresso favorevolmente su ciò che Lucebio aveva pensato, a proposito della sistemazione nel loro campo dei nuovi Casunnani, i quali si erano aggiunti ai soldati che costituivano la scorta del re Raco.

A questo punto, volendo ritornare agl’intrepidi giovani amici, a cui si era riferito Croscione poco fa, e conoscere in quale attività venivano impegnati in Actina nel presente della nostra storia, bisogna riandare ai fatti che avevano consentito a loro quattro di svolgerla. Come vedremo, da parte loro, vi stavano profondendo zelo ed animosità, siccome la stimavano indispensabile, mirando essa a difendere la Città Santa. In realtà, la loro opera in cosa consisteva? Per l’esattezza, essi stavano prendendo parte ai vari interventi atti a fortificare le mura di Actina, quelli che il re Francide aveva ordinato agli esperti in materia. La partecipazione ai medesimi da parte loro, però, era stata una loro iniziativa e non una richiesta rivolta loro dal sovrano. Ma apprenderemo i vari particolari della vicenda, dopo che ci saremo dati ad approfondirli dall’inizio e li avremo poi seguiti fino al loro chiarimento.


Erano già trascorsi tre giorni, da quando Solcio, Zipro, Polen e Liciut, per conto di Lucebio, avevano informato il re Francide degli avvenimenti accaduti a Dorinda. Anzi, si era all’inizio del quarto giorno della loro permanenza ad Actina, per cui si preparavano a fare ritorno alla loro città, quando Zipro aveva proposto a Solcio, a Polen e a Liciut:

«Amici, visto che nella nostra città è venuta meno ogni lotta sia contro il tiranno Cotuldo sia contro i Tricerchiati, e in considerazione anche delle disposizioni ricevute dal nostro saggio Lucebio, perché non restiamo in Actina a dare anche il nostro contributo alle opere di fortificazione delle mura, le quali al più presto avranno inizio in città?»

La proposta del figlio della defunta Feura era stata subito accolta con favore dai suoi amici. Anche perché tutti e quattro erano certi che la loro decisione sarebbe stata gradita da Lucebio, poiché di essa avrebbero fruito in qualche modo i regnanti di Dorinda e la loro figlia, che era divenuta regina di Actina. Ma era stato Solcio a rispondergli, dicendo:

«La tua è un’ottima idea, Zipro! Perciò oggi stesso ci presenteremo al re Francide e gli comunicheremo ciò che abbiamo stabilito di fare per la sua Città Santa! Vedrete che egli ne sarà molto felice e soddisfatto.»

Così nel pomeriggio i quattro giovani dorindani si erano presentati al sovrano di Actina. Il quale, nel riceverli cordialmente a corte, ignorando il loro proposito, gli si era espresso nel seguente modo:

«Come posso constatare, baldi giovani, vi siete già annoiati di restare nella città di Actina, la quale non è Dorinda, specialmente perché qui vi manca la presenza di quel saggio e stupendo uomo, che è il vostro Lucebio. Perciò adesso siete venuti a salutarmi e a congedarvi da me, avendo deciso di ripartire e ritornare alla vostra amata città. Allora approfitto per far pervenire al nostro amico Lucebio i saluti più caldi ed affettuosi sia miei che quelli di Astoride. Il quale, in questa circostanza di commiato, non è potuto essere presente, a causa di alcuni impegni improcrastinabili, che lo hanno trattenuto in altro luogo.»

«Invece, re Francide,» lo aveva contradetto Solcio «non è questo il motivo che ci ha spinti a chiederti udienza. Devi sapere che esso è ben diverso. Ma tra poco te lo renderemo noto.»

«Visto che mi sono sbagliato, Solcio, vi chiedo scusa. Ora, però, palesatemi il vero motivo che vi ha spinti a rivolgervi a me, siccome non vedo l'ora di conoscerlo!»

«Dopo aver ponderato bene la nostra situazione sotto vari punti di vista, nobile sovrano, ci siamo resi conto delle seguenti tre cose importanti. La prima ci ha fatto comprendere che la nostra presenza a Dorinda non è più indispensabile. Ciò, perché è venuta meno la nostra lotta come ribelli, dopo che il re Raco ha dichiarato che egli intende regnare soltanto sulla città di Casunna, lasciando il trono di Dorinda ai suoi legittimi regnanti. La seconda, invece, la quale riguarda la principessa Lerinda, la fidanzata del tuo amico fraterno, ci ha resi coscienti che ogni nostro sforzo sarebbe vano, se provassimo ad intervenire in suo soccorso. Neppure se fossi tu ad intraprendere la lotta contro gl'invulnerabili Umanuk, riusciresti ad averla vinta, essendo essi degli esseri invincibili!»

«Adesso, Solcio, vorrei apprendere da voi qual è la terza cosa importante, la quale vi obbliga a restare in Actina. Me la dite, per favore?»

«Nobile sovrano, ci siamo convinti che noi quattro saremo più utili nella tua città che a Dorinda. In Actina, come sappiamo, ben presto dovranno prendere avvio le numerose opere di fortificazione delle sue mura, dovendosi far fronte all’imminente attacco, che presto gli eserciti degli Umanuk sferreranno contro la tua città. Ebbene, in considerazione di ciò, abbiamo stabilito di rimanere nella Città Santa e di collaborare con coloro che si dedicheranno a tali opere. Inoltre, durante l’assedio, vogliamo essere tra i primi a combattere strenuamente contro gli assedianti, quando la lotta infurierà intorno alle mura actinesi. A questo punto, re Francide, conosci le ragioni che ci hanno condotti qui da te, sicuri che esse potranno soltanto giungerti benaccette. Attualmente saremmo tra gli addetti alle varie opere di difesa e in seguito, quando ci sarà l’assedio di Actina, saremmo tra i combattenti al tuo comando. Allora possiamo restare per dedicarci alle cose che ti abbiamo riferito?»

«Certo che potete fermarvi qui, generosi giovani, e vi ringrazio per quanto vi siete proposti di fare a vantaggio della mia città, sebbene per voi l’adoperarvi per essa non si presenti come un dovere. Per questo vi sono assai grato per la vostra iniziativa altruistica, che accolgo con sommo piacere e riconoscenza. Riguardo poi all’aiuto che avete manifestato di voler dare con impegno nell’esecuzione delle opere di una maggiore difesa di Actina, ad ognuno di voi affiderò l’incarico di sorvegliare una parte dei lavori, che tra poco inizieranno in Actina. Così farete in modo che essi proseguano spediti ed efficienti. Ossia dividerò le mura nei seguenti quattro settori: quello orientale, quello occidentale, quello meridionale e quello settentrionale. Solcio sorveglierà i lavori del settore situato a settentrione, Zipro quelli del settore situato a mezzogiorno, Polen quelli del settore di ponente e Liciut quelli del settore di levante. Sotto il comando di ciascuno di voi, metterò venti soldati, che dovranno coadiuvarvi nella vostra opera di sorveglianza per l’intera giornata.»

Era stato così che i quattro giovani avevano evitato di fare ritorno a Dorinda e di raggiungere il loro venerato Lucebio, dedicandosi con dedizione assoluta all’incarico che avevano ricevuto direttamente dal sovrano di Actina. Ad ogni modo, a soprintendere alle opere di fortificazione della città, c’erano una decina di tecnici provetti. Costoro, nel portarle avanti, tenevano conto delle tecniche di assedio che erano state raggiunte nella loro epoca. Essi miravano soprattutto a fare risultare le opere fortificatorie da loro dirette organiche nella concezione ed ingegnose negli apprestamenti difensivi, in modo da presentarsi imponenti e valide dal punto di vista dell’ingegneria militare. Inoltre, tra le varie opere, gli Actinesi si erano dati a scavare un fossato intorno alle mura, distante una decina di metri dalle medesime. Esso, una volta realizzato con una larghezza di cinque metri e una profondità di tre, non avrebbe dovuto consentire alle torri e alle altre macchine d'assedio nemiche di avanzare fin sotto le mura, ostacolando così la loro azione offensiva. Invece, in corrispondenza delle quattro porte d’ingresso della città, il fosso sarebbe stato superato da ponti levatoi lunghi circa sedici metri, i quali sarebbero stati sollevati da argani posti a coppie sulla parte sovrastante al portone. Infine, in certi punti che abbisognavano di una maggiore difesa, si era intenti ad ottenere una larghezza dei camminamenti delle mura che risultasse sufficiente per collocarvi alcune macchine belliche per il lancio di fuoco e di olio bollente. Nel stesso tempo, si cercava di renderli anche coperti per permettere alle truppe di percorrerli per l’intero perimetro murario con rapidità e con pochi rischi.

Al momento attuale, Solcio, Zipro, Polen e Liciut continuavano ad attivarsi nel medesimo lavoro di sorveglianti, il quale li teneva impegnati per l’intera giornata; ma non durante la pausa del pranzo, che si aveva a mezzogiorno. Essi, come da espresso volere del re Francide, andavano a pranzare nella reggia, dove potevano incontrarsi e scambiarsi qualche parola circa la loro mansione che svolgevano con interesse. Nelle ore serali, invece, allo scopo di rendere la loro vita meno noiosa, i quattro giovani si trasferivano nel patio. In quel posto, Solcio e Zipro, alternativamente, si davano a raccontare gli atti di valore e di eroismo compiuti dai due campioni dei ribelli, che erano stati Iveonte e il re Francide durante la loro permanenza a Dorinda. I quali atti, ma in modo particolare quelli dell'eroico Iveonte, non erano stati esigui e privi di straordinarie prodezze. Al contrario, essi avevano tenuto con il fiato sospeso sia Polen che Liciut, trovandoli entrambi sbalorditivi e mozzafiato, per cui ne venivano avvinti in maniera incredibile. Nell’apprenderli, i due giovani ascoltatori apparivano come due bambini, che venivano attratti da una fiaba avvincente narrata dalla loro bravissima nonna.

Per gli abitanti della Città Santa, la decena era il giorno dedicato al riposo e ricorreva dopo ogni nove giorni lavorativi. Quando essa giungeva, era assolutamente vietato lavorare, per cui bisognava dedicarla in parte al dio Matarum, rivolgendogli preghiere e facendogli visita nel tempio. Ovviamente, non tutti rispettavano un simile dovere verso la somma divinità di Actina. Il motivo? Il loro fervore religioso era differente in ciascuno di loro, il cui grado di fede riposto da ognuno nel proprio taumaturgico dio non risultava uguale. Ebbene, in tale giornata, anche i quattro amici dorindani non potevano agire in modo diverso. Così essi erano contenti di godersi il loro meritato riposo, andandosene a spasso per le belle strade di Actina.

Un giorno, il quale era quello corrispondente alla decena, essi lasciarono insieme la reggia e se ne andarono in giro per la città actinese. Dopo una breve tappa effettuata nel tempio consacrato al divino Matarum, i nostri quattro amici vollero riversarsi in una bettola incontrata sul loro percorso, avendo intenzione di tracannarsi una brocca di vino fresco, avendone avvertito la necessità. In quella circostanza, la trovarono piena zeppa di gendarmi, i quali li avevano preceduti nel medesimo intento. Per puro caso, in fondo al locale c’era un solo tavolo disponibile, dove però c’erano stati appoggiati dei cappelli da parte di alcuni militari.

Quando essi lo raggiunsero, Solcio, rivolgendosi alla trentina di soldati che bevevano e schiamazzavano, domandò a tutti loro:

«Possiamo sapere, egregi gendarmi, a chi appartengono i cappelli che occupano questo tavolo, sul quale l’oste dovrà servirci il vino che gli ordineremo tra poco? Ci fareste un grandissimo favore, se vi sbrigaste a portarli via per consentirci di accomodarci intorno ad esso e di ordinare il nostro buon vino! Allora possiamo contarci?»

Il gendarme più autorevole, mostrandosi piuttosto indispettito per le parole di Solcio, anche se esse non erano state affatto irrispettose, non perse tempo a rispondergli:

«Per vostra sfortuna, si dà il caso che tali indumenti appartengano ad alcuni miei soldati, giovanotto! E siccome essi non hanno alcuna intenzione di riprenderseli, consiglio a te e ai tuoi amici di andare a bere il vostro vino in un'altra bettola. Così non correrete il rischio di essere arrestati! Se poi doveste insistere nella vostra richiesta, darei ordine ai miei soldati di condurvi nelle carceri cittadine. Parola di Munkos!»

«Visto che questa è la risposta di coloro che dovrebbero essere i tutori di quella legge, che invece essi si danno a calpestare, ci costringete a trattare i vostri cappelli come cose adatte al volo, liberando il nostro tavolo dal loro ingombro. Perciò, amici, facciamogli vedere come volano i loro copricapi, dal momento che essi non ne vogliono sapere!»

All’invito di Solcio, Zipro, Polen e Liciut non persero tempo a mettere in pratica quanto suggerito dal loro amico. Per cui si erano visti volare ovunque i cappelli dei gendarmi ai quali essi appartenevano, siccome i loro proprietari si erano rifiutati di toglierli dal tavolo. A quello spettacolo, Munkos si diede a gridare a gran voce:

«Giovani scapestrati ed insolenti, quest’oggi avete commesso l’errore più grave della vostra vita. Per questo preparatevi a pagarne il fio! Sappiate che io non scherzo, quando prendo certe decisioni!»

Rivòltosi poi ai suoi uomini, già pronti a tenzonare, egli gli ordinò:

«Soldati, arrestateli tutti e quattro! Se poi essi dovessero opporvi resistenza, non esitate ad infilzarli come zucche! In questo modo, dopo mi divertirò anche a guardarli!»

Alle parole di Munkos, il quale minacciosamente ordinava ai suoi subalterni d’intervenire contro di loro, Solcio, ad evitare una zuffa, si diede subito ad ammonirli:

«Gendarmi, non date retta al vostro superiore, se non volete pentirvene! Noi siamo dei vostri e il sovrano, che è un nostro amico, ha messo a disposizione di ciascuno di noi venti soldati. Anch’essi adesso si stanno godendo il loro bel giorno di libertà.»

«Perché mai il re di Actina vi avrebbe favoriti come hai detto, sconosciuto, che non sei neppure un Actinese verace? Mi riveli qual è il vostro compito in città?»

«Io e i miei amici siamo preposti alla sorveglianza delle opere di fortificazione, le quali si stanno eseguendo intorno alle mura e sopra di esse, prevedendosi un imminente assedio. Ad ognuno di noi il sovrano actinese ha assegnato uno dei quattro settori.»

«Scommetto, forestieri, che voi quattro non potete dimostrare in alcun modo ciò che asserite, per cui mi mettete nella condizione di non credervi. Comunque, se mi dite i vostri nomi, manderò all'istante un mio uomo alla reggia per verificarlo!»

«Il mio nome è Solcio, mentre quelli dei miei amici sono Zipro, Polen e Liciut. Il soldato, che invierai alla reggia, potrà rivolgersi direttamente ad Astoride. Egli, oltre ad essere il comandante della Guardia Reale, è anche il cognato del vostro sovrano. Mi fa piacere che la questione venga risolta pacificamente, poiché così non siamo obbligati a fare una carneficina dei vostri corpi. Nel frattempo, consentiteci di bere!»

Dopo mezzora, il soldato, che era stato inviato alla reggia per avere la conferma di quanto dichiarato da Solcio, si ripresentò nella bettola ed attestò al suo superiore:

«Comandante Munkos, alla reggia ho avuto l’onore di parlare personalmente con l’illustrissimo Astoride e di chiedergli dei quattro giovani qui presenti. Ebbene, egli, non solo mi ha confermato ogni loro dichiarazione; ma pure mi manda a dirti che, se oserai ancora importunarli, ti destituirà dall’attuale tuo comando. Inoltre, ti ordina di chiedere loro scusa, per l’indegno tuo comportamento assunto nei loro confronti.»

Munkos non esitò ad ubbidire al comandante della Guardia Reale, che, dopo il sovrano, rappresentava la massima autorità. Allora i quattro giovani dorindani poterono bere il loro vino, senza la fastidiosa presenza dei soldati. Costoro, infatti, dopo avere ascoltato le parole del commilitone che era stato inviato alla reggia, subito avevano lasciato la bettola, mostrandosi assai riverenti nei loro confronti, mentre se ne uscivano.