428°-MENTRE LERINDA È PRIGIONIERA, SPEON SPOSA FISIA

In un passato non molto remoto della nostra storia, abbiamo già sentito parlare del territorio chiamato Durkoia. Si trattava della terra di Liasen, la fanciulla che Francide, mentre rientrava al campo, aveva salvata dai suoi persecutori Katuros, che la inseguivano. In seguito, Iveonte e i suoi amici avevano deciso di aiutare anche il popolo della ragazza contro i feroci invasori, liberando così i Durkoiesi dalla loro trentennale schiavitù. Ebbene, la temuta Selva Perversa si trovava nella parte settentrionale della Durkoia. Per cui essa risultava ancora più a nord, se si prendeva Dorinda come punto di riferimento. Per l'esattezza, occorreva andare oltre, percorrendo altre cento miglia attraverso terre inospitali. Era stata l’inclemenza del luogo ad invogliare le divinità protettrici degli Umanuk ad edificarvi il tetro castello Pervust. Esso si presentava ai visitatori come una massiccia fortezza, dal profilo tremendamente diabolico. La selva, infatti, non si sa se per un incantesimo da loro operato oppure per qualcos’altro d’ignota natura, non dava alcun affidamento a coloro che si trovavano a transitare per quel luogo per puro caso, se non proprio per malasorte.

Ritornando al conturbante castello, che faceva da dimora agli otto Umanuk, il suo aspetto non era per niente rassicurante. Perciò nessuno avrebbe mai detto bene di esso, né osservandolo dall’esterno né visitandolo nell'interno. Le quali considerazioni vengono espresse, per le ragioni che stiamo per apprendere qui appresso. In riferimento alla sua parte esterna, la sua unica cinta muraria aveva un’altezza di dieci metri, senza tener conto della merlatura, ed era priva del cammino di ronda. I merli erano alti novanta centimetri e formavano un’alternanza di elementi architettonici disuguali: gli uni riproducevano dei teschi umani e gli altri avevano la foggia di gigantesche punte di lance. Anche i baluardi della fortezza avevano qualcosa di orripilante, poiché su ciascuno di loro poggiava un mostro alato di pietra, che mostrava una testa camusa, dallo sguardo arcigno e truce. La cinta era di forma pentagonale e presentava cinque mura di uguale lunghezza; mentre i baluardi risultavano posti lì dove si sarebbero dovuti congiungere i blocchi murali presi a coppie. Lungo le mura perimetrali mancavano feritoie e carditoie, per il semplice fatto che gli Umanuk sarebbero ricorsi ad altri espedienti difensivi, nel caso ci fosse stato un attacco da parte di esseri umani, condotto in grande stile contro il loro mastodontico castello. La cui cupezza veniva messa maggiormente in risalto dallo spadroneggiante suo colore grigio affumicato. Dando invece un’occhiata al castello vero e proprio nel suo ciclopico insieme, esso non faceva scorgere né torrioni né torrette né vedette; invece si poteva osservare un unico maschio centrale rotondeggiante, la cui altezza era il doppio di quella delle mura di cinta. Sull’intera facciata esteriore, ad ogni modo, non erano assenti i diversi elementi decorativi, i quali riproducevano figure mostruose che apparivano grintose e feroci nel loro terribile aspetto. Difatti sembrava che le medesime fossero pronte a scagliarsi contro chiunque tentasse di visitare l'enorme castello.

In riferimento alla parte interna di Pervust, essa si presentava come un ginepraio di bui corridoi, lungo i quali non mancavano trabocchetti ed alcune postierle; però aveva un numero limitato di stanze. Per la precisione, se ne contavano nove e si trovavano tutte al piano superiore. Otto erano quelle personali, siccome ogni Umanuk aveva la propria. La nona si presentava come una grande sala ovale e costituiva il luogo di ritrovo per tutti loro, poiché essi vi si davano a conversare oppure a discutere su argomenti importanti. Comunque, quando gli Umanuk vi s'incontravano per consultarsi su qualche decisione da prendere, era il mago Ghirdo a presiedere la loro riunione. Infatti, così era stato stabilito dai loro divini protettori, fin dall’inizio della sua costituzione. In verità, era stato il dio Sartipan a pilotare la loro accettazione in tal senso e ci era riuscito senza difficoltà, essendo egli la divinità più di spicco.

Probabilmente, il solito lettore curioso si starà chiedendo perché mai i protettori degli Umanuk, per la costruzione di Pervust, avevano scelto un luogo così fuori mano per i loro protetti. Secondo lui, invece essi avrebbero potuto costruirselo in un posto centrale dell’Edelcadia, facilitando a questi ultimi il compito di raggiungerlo in breve tempo. Ebbene, in ordine a tale sua domanda, ci sono da dargli due risposte differenti a suffragio della scelta del luogo operata dalle divinità negative interessate. La prima riguardava il posto dov'era stato costruito il castello, che esse non erano riuscite a trovare sul territorio edelcadico con i seguenti tre parametri: la sua lontananza da un centro abitato, l’impervietà e l'inaccessibilità del luogo dove poterlo costruire e l’adattamento del sentiero per raggiungerlo ai loro interventi disturbatori.

In merito alla seconda risposta, va chiarito che gli Umanuk non si spostavano da un luogo all’altro, come facevano gli altri esseri umani, ossia a piedi oppure ricorrendo a celeri cavalli. Ciò, anche quando tali luoghi erano situati ad una considerevole distanza. Tra le altre prerogative, infatti, essi avevano la facoltà di volare, ma non come gli uccelli. A loro veniva consentito di spostarsi nello spazio ad una velocità, la quale non poteva essere percepita dall’occhio umano, perfino da quello avente la vista più acuta. Per tale motivo, pur trovandosi nel punto più estremo della regione edelcadica, un Umanuk era in grado di raggiungere Pervust nel giro di un'ora, senza avvertire minimamente la stanchezza della trasvolata, sebbene essa fosse di migliaia di chilometri. Ad ogni modo, agli Umanuk non era consentito d’individuare la posizione di una determinata persona in un qualunque posto, a meno che essi non fossero in possesso di un capello di sua appartenenza. In ultimo, c’era da chiedersi come avrebbero fatto essi a cambiare di posto un ostaggio, se avessero avuto bisogno di trasferirlo in un luogo differente, pur essendo esso situato a grande distanza. Ma avere una risposta simile è un po’ complicato; però ugualmente cercheremo di entrare nel meccanismo di trasporto, di cui si serviva un Umanuk nel volo. Ebbene, egli ricorreva alla smaterializzazione della cosa o dell’essere vivente che doveva trasportare attraverso lo spazio. Effettuata così una simile operazione, egli riusciva senza difficoltà a farla volare insieme con lui. Nel caso di una persona, prima di smaterializzarla, il diabolico essere l’addormentava tramite la deconcentrazione e l’ipnosi.

Portati alla luce tali particolari importanti che concernevano gli Umanuk, è nostro dovere rimetterci in cammino e ridarci a percorrere gli interminabili sentieri della nostra storia, inoltrandoci innanzitutto in quello che ci condurrà nel luogo dove adesso si trovava la principessa Lerinda. La quale starà senz’altro penando nel nuovo ambiente, dov'era stata trasferita in modo frettoloso. A proposito di lei, possiamo sapere che fine ella aveva fatto, dopo che Ghirdo l’aveva prelevata dal carcere? Qualcosa già lo abbiamo appreso in merito, ossia che ella era stata portata dal mago nel castello di Pervust. Ma ignoriamo ciò che le stava succedendo adesso, dopo che il protetto del dio Sartipan le aveva assegnato la nuova destinazione. Ciò, allo scopo di evitare la sua liberazione da parte di coloro che erano legati a lei per vincolo di parentela, di amicizia oppure di altro tipo.

Ebbene, quel giorno non molto remoto, subito dopo aver ricevuto la visita del mago, la principessa era stata colta da un sonno profondo. Quando poi si era risvegliata, riaprendo gli occhi, ella aveva preso coscienza che non si trovava più nelle carceri di Dorinda. Per cui la sua nuova prigione aveva smesso di essere una cella; ma era costituita da uno stanzone semibuio. Esso, oltre ad avere un ampio lucernaio, che lo illuminava scarsamente, lasciava intravedere un’unica porta d’uscita, la quale, ad un suo istintivo tentativo di aprirla, era risultata ermeticamente chiusa. In verità, non si poteva affermare che il nuovo ambiente era accogliente; però, rispetto alla cella semibuia ed ammuffita di prima, poteva considerarsi più accettabile. Inoltre, anche se l’arredamento lasciava a desiderare, la principessa poteva usufruire di un comodo letto, di un tavolo e di una sedia. Ma ciò che è stato appena detto non deve portarci a credere che Lerinda accettasse volentieri la prigionia, solo perché la sua esistenza, dal punto di vista ambientale, in un certo qual modo era in parte migliorata. Al contrario, spiritualmente e psichicamente, la sua situazione seguitava a restare aggravata, anche dopo che il mago l’aveva fatta ritrovare nel nuovo luogo di reclusione, il quale era da considerarsi meno avvilente. Esso, però, non avrebbe più consentito a Gerud di scarcerarla, dopo che Lucebio gli avesse chiesto di liberarla.


Alla ripresa della nostra storia, quando era trascorso poco più di un mese dal suo cambio di prigione, la ragazza, dal punto di vista psicologico, era costretta a soffrire come non mai, per cui trascorreva le sue intere giornate ad attendere che il suo amato Iveonte la raggiungesse e la portasse via al più presto da quel posto. Ella nutriva tale speranza, poiché aveva appreso dal mago Ghirdo che il suo eroe era sulla via del ritorno, avendo portato a termine la sua missione con successo. Ciò era avvenuto, il giorno dopo che egli l'aveva rinchiusa nel proprio reparto personale, quando era andato a trovarla. Una volta che vi era entrato, senza nasconderle le sue reali fattezze, egli aveva cominciato a dirle:

«Buongiorno, principessa! Sono venuto a controllare come te la passi in questo luogo, poiché non vorrei che ti ci trovassi a disagio. Ma sono qui anche per presentarmi, poiché non ho ancora avuto il tempo di farlo. Ebbene, io sono il mago Ghirdo, l'immortale protetto del dio Sartipan. Lo sono stato sempre, da oltre un migliaio di anni. Invece ora, quando mi trovo a Dorinda, vivo nelle vesti di tuo fratello Cotuldo. Egli è stato da me ucciso sia per assumerne le caratteristiche fisiche sia per sostituirlo nell’abusivo governo della città. In essa, perciò, tutti scorgono in me il tuo germano e mi credono il loro vero sovrano. Ti starai chiedendo perché mai ho preso una simile iniziativa, dal momento che non vantavo alcun diritto sul trono dell’Invitta Città. Il quale, come tutti sanno, spetta di diritto al solo re Cloronte e a lui soltanto!»

«Non ti sbagli, mago; ma voglio palesarti un particolare, che forse non ti saresti mai aspettato. Della morte di mio fratello Cotuldo non m’interessa un bel niente. Essa giungerà di molto sollievo al mio fidanzato Iveonte, il quale non dovrà più sporcarsi le mani con il sangue di suo cognato, quando ci sarà la resa dei conti. Adesso dovrà eliminare te al posto suo, per avermi rapita. Invece mi sarebbe dispiaciuto un sacco, se tu avessi ucciso mio fratello Raco, al quale tengo moltissimo. Lo sai perché? Egli è una persona buona, giusta, onesta, caritatevole ed assai affettuosa nei miei confronti!»

«Chi ti dà per certo, principessa, che non ci sarà anche la morte dell’attuale viceré di Casunna, ossia del fratello che ti è davvero caro? Io non ci conterei, siccome pure la sua morte è stata decretata. Presto il mio collega, che è l’Umanuk di Casunna, lo ammazzerà, assumerà le sue sembianze e regnerà sulla tua città natale al posto di tuo fratello. Riguardo al tuo fidanzato, anche se è vero che è stato in grado di sconfiggere il potentissimo Mago dei maghi, per cui adesso sta raggiungendo l’Edelcadia, con me e i miei colleghi egli di certo non la spunterà ed avrà la punizione che si merita. Contro di lui e contro le divinità positive che lo proteggono, l’Imperatore delle Tenebre sta preparando qualcosa di terribilmente pernicioso. Perciò tutti loro faranno una fine miserabile. Nel frattempo che egli non si rifarà vivo nella regione edelcadica, noi Umanuk delle otto città, ubbidienti agli ordini che egli medesimo ci ha dati, a capo dei nostri eserciti, dobbiamo muoverci contro la Città Santa. Così la espugneremo, la distruggeremo e la faremo sparire per sempre dalla faccia di questo mondo.»

«Al contrario di te, mago, sono convinta che non riuscirete ad averla vinta contro il mio Iveonte e contro le divinità che lo proteggono. Il primogenito del re Cloronte, aiutato da loro, sarà in grado di battervi e di punirvi come vi meritate. Così egli, dopo avervi ammazzati come cani rognosi, alla fine vi priverà della vostra immortalità e porrà termine agli orrendi delitti, che andate commettendo nella nostra Edelcadia!»

«Datti pure coraggio, principessa, pensandola in questo modo! Ma ciò non ti servirà a niente, come pure sarà vano ogni provvedimento del re Francide a rendere imprendibile la sua Actina. Noi l’assalteremo e la prenderemo senza difficoltà, facendo del suo popolo un immane massacro, quale non si è mai registrato nella storia dell’umanità. Te lo garantisco! Quanto al tuo cicisbeo, se per due volte è riuscito a non farsi uccidere da me, ciò non si ripeterà più. Quando saremo ancora l’uno contro l’altro, egli non avrà alcuna possibilità di sfuggirmi e di uscire indenne dal nostro nuovo epico confronto!»

«Non capisco, mago, il fatto che tu avresti incontrato già altre due volte il mio Iveonte sulla tua strada. Mi riferisci quando ciò si sarebbe verificato e per quale ragione?»

«La prima volta, principessa, fu quando egli aveva appena sette anni ed io cercai di travisare il sogno fatto dal genitore. Allora indicai lui, anziché il terzogenito del re Cloronte, come il responsabile di una futura guerra, la quale avrebbe mandato in rovina la città di Dorinda e il suo popolo. Così obbligai il sovrano a mandarlo a morte. Ma Lucebio, al quale fu affidato l'incarico di ammazzarlo nel bosco, disubbidendo all’ordine del suo re, in tale luogo preferì abbandonarlo al suo destino. Invece la seconda volta fu quando cercai di rapirti nel bosco, dopo essermi trasformato nel mostro invulnerabile che conosci. Allora Iveonte corse in tuo aiuto e mi mise in fuga con la sua invincibile scherma e con l'aiuto della sua divinità protettrice.»

«Questi tuoi due primi tentativi di eliminare il mio valoroso Iveonte, mago, non ti dicono niente? Non hai ancora compreso che egli è invincibile e mai nessun essere, sia esso umano o divino, potrà prevalere su di lui? Perciò rinuncia al tuo irrealizzabile sogno, poiché la tua insistenza nel perseguire questa utopia finirà per privarti anche dell’immortalità, della quale godi da tempo immemorabile. Convinciti, una buona volta per sempre, che al mondo non esiste una forza che abbia il potere di sconfiggerlo e di sopprimerlo, considerato che ciò è stato decretato dalle somme divinità dell’universo!»

«Invece le cose stanno per cambiare, principessa. Il dio Buziur, il quale è l’Imperatore delle Tenebre ed è già una divinità di tutto rispetto, è andato a trasformarsi in un qualcosa che risulterà superiore anche alle più potenti divinità di Luxan, che è la dimora delle divinità positive. Così egli, dopo aver neutralizzato o scacciato da esso tutte le divinità benefiche, lo dominerà con la sua legge del male! Per questo, potrà mai il tuo Iveonte, che è un misero mortale, competere con una divinità dai poteri insuperabili ed illimitati? Certamente, no! Quindi, comincia a piangerti la sua morte, che non tarderà ad esserci sulla scena dell’universo. Semmai per ipotesi egli dovesse ancora uscirne illeso, non credi che, con te nelle mie mani, potrò fare di lui quello che vorrò? Io ci credo!»

«Staremo a vedere, mago! Invece io ho un’immensa fiducia nel destino del mio amato Iveonte. Da più parti, esso è stato sempre vaticinato splendido e glorioso, essendo egli il più grande di tutti gli eroi. Quindi, non sarà questo dio Buziur, chiunque egli sia, a cambiarglielo!»

«Al contrario, principessa, l’imperatore di tutte le divinità malefiche darà un nuovo corso al destino del tuo fidanzato. E non solo al suo! Egli lo darà pure a quello di tantissime divinità benefiche che risiedono in Kosmos, il quale è lo spazio dove puoi scorgere le stelle e la luna. Anche la nostra Terra vi è sospesa, sulla cui superficie viviamo, senza poterla vedere dallo spazio cosmico. Il nostro potentissimo dio ce lo ha promesso ed io non dubito che egli manterrà la parola a noi data con la massima certezza!»

Dopo le ultime parole del mago Ghirdo, la principessa Lerinda aveva smesso di controbattere il suo malvagio interlocutore, anche perché aveva sentito abbattersi su di sé una cupa malinconia, che le rendeva l’animo depresso. Perciò il suo carceriere, essendosi accorto del suo evidente cambiamento d’umore in senso negativo, aveva continuato a parlarle, cercando di apparirle meno duro di prima.

«A quanto pare, le mie parole ti sono andate di traverso, principessa! Ma ti consiglio di non prendertela come stai facendo. Indipendentemente dalle nostre disgrazie e dalle nostre fortune, la vita va sempre affrontata con filosofia. Al posto tuo, mi atterrei a questo saggio pensiero, il quale forse è stato espresso da un filosofo, che aveva la testa sulle spalle. Inoltre, non ti deve impensierire il fatto che in questo locale non puoi soddisfare i tuoi bisogni fisiologici, poiché, finché starai qui dentro, non avvertirai né fame né sete. Per tale motivo, non ti verrà concesso di nutrirti e di bere; ma nel tuo corpo sarà come se il sostentamento e il dissetarti avvengano realmente. Dunque, non dovrai temere di dimagrire o essere nelle condizioni disagevoli in cui potrebbe farti trovare un pranzo reale, a causa della sua assimilazione e della sua evacuazione.»

Quando aveva finito di parlare alla principessa Lerinda, il mago Ghirdo, non ricevendone più alcuna risposta, si era reso conto che ella aveva troncato definitivamente il suo discorso con lui. Allora aveva deciso di lasciarla e di allontanarsi dallo stanzone, dove ella era stata relegata. Dal canto suo, la ragazza si era data a soffrire tantissimo, avendo creduto in parte a ciò che il mago le aveva rivelato sull’Imperatore delle Tenebre. In pari tempo, aveva sperato che Iveonte andasse a liberarla al più presto, portandola via con sé, dopo aver ucciso il perverso mago.

Facendo ora ritorno al presente della sua esistenza, quando erano trascorsi trentatré giorni della sua prigionia, la principessa Lerinda stava vivendo delle ore tremende, anche perché continuava a riflettere su quanto il mago le aveva detto sul fratello Raco. Secondo ciò che aveva udito, molto presto anch’egli avrebbe subito la stessa sorte toccata al fratello maggiore Cotuldo. Se la morte di quest’ultimo l’aveva fatta penare quasi niente; all'inverso, quella del suo germano prediletto l’avrebbe fatta sprofondare nell’abisso della disperazione. Perciò, soprattutto per questa ragione, ella si augurava che il suo caro Iveonte arrivasse a Dorinda, prima che l’Umanuk di Casunna portasse a termine l’assassinio che gli era stato ordinato, a spese del caro Raco. Così egli non avrebbe permesso che si uccidesse il cognato, facendo ancora trionfare la giustizia nell’Edelcadia. Ma le cose sarebbero andate poi nel modo che ella si auspicava? Naturalmente, il lettore conosce già la risposta, avendo appreso che per il fratello buono della principessa Lerinda esse erano risultate per fortuna secondo i desideri della sorella.


Nel frattempo che la sua ragazza viveva in quella situazione terribile, dove si trovava il nostro eroe, del tutto ignaro di ciò che stava succedendo a Dorinda, specialmente a discapito della sua amata Lerinda? Per apprenderlo, dobbiamo fare un bel salto spaziale, conducendoci a due migliaia di chilometri dal castello di Pervust, dove la germana del viceré Raco era tenuta prigioniera. Era proprio a quella distanza incredibile che si trovava l’esercito beriesko, quello che il nonno Nurdok aveva messo a disposizione dei suoi due nipoti Iveonte e Leruob. Ma aveva nominato suo comandante supremo il primo figlio della sua ultimogenita Elinnia, che era andata in sposa al re Cloronte. L’esercito in questione sarebbe dovuto servire ai due assi della scherma e delle arti marziali per sconfiggere e per punire i sette sovrani edelcadici traditori. I quali in passato avevano assalito proditoriamente il genero, detronizzandolo e rinchiudendolo insieme con la consorte in una cella del carcere di Dorinda.

Al momento del nostro trasferimento in quella remota regione, però, troviamo il nostro eroe assente dall’accampamento. Egli, durante la sua assenza, vi aveva lasciato il cugino materno a fare le proprie veci. Inoltre, durante l’avanzata del suo esercito verso l’Edelcadia già aveva invitato i Lutros a raggiungere il loro villaggio per riunirsi alle loro famiglie, che non vedevano da molto tempo. Ora, invece, stava accompagnando Speon al villaggio di Polsceto. Con lui era andato anche Tionteo, poiché il figlio di Vusto li aveva invitati ad assistere al suo matrimonio con la figlia di Cufione, che era Fisia, avendo deciso di sposarla e di adottare anche il suo bambino. In verità, l’allontanamento dei tre giovani dall’accampamento c’era stato da poco, per cui il loro arrivo a Polsceto non era ancora avvenuto. Comunque, esso ci sarebbe stato soltanto dopo altri due giorni di rapide galoppate, essendo abbastanza lontano il villaggio in questione.

Quando infine i tre giovani vi fecero ingresso, essi si diressero immediatamente a casa dell’amico del defunto padre di Speon. Da parte loro, Cufione e i suoi familiari erano stati molto lieti di ricevere la loro visita, poiché, dall’ultima volta che li avevano visti, erano trascorsi circa una dozzina di mesi. Infatti, la loro precedente visita c’era stata, quando Iveonte, Astoride e Speon avevano riaccompagnato a casa la rapita Fisia insieme con il suo bel bambino. Subito dopo, però, essi erano ripartiti alla volta dell’Isola della Morte, essendo quella la meta del viaggio da loro intrapreso. Adesso, perciò, vedendoseli apparire all’improvviso tutti e tre sull’uscio di casa, il maturo Cufione si diede ad esclamare:

«La vostra presenza presso la mia abitazione, giovanotti, mi risulta una splendida sorpresa. Comunque, lo sarà anche per i miei familiari! Per favore mi dite cosa vi ha spinto a riporre piede in Polsceto? Spero per portarci esclusivamente ottime notizie!»

«Un motivo c'è, eccome, Cufione!» gli rispose Iveonte «Ma sarà il nostro amico Speon a spiegarti ogni cosa, poiché è lui che ci ha invitati qui per una ragione molto seria.»

Allora, rivòltosi al figlio dell’amico estinto, il Polscetano gli domandò:

«Mi dici, Speon, quale sarebbe tale ragione? Dal momento che non so cosa stai facendo bollire in pentola a nostra insaputa, vuoi essere così gentile da informare anche me e gli altri membri della famiglia di ciò che ti sei proposto di condurre a termine nella mia casa, proprio come già hai chiarito ai tuoi amici in separata sede? Ti prego di farlo subito, figlio del mio amico Vusto!»

«Ebbene, Cufione,» gli rispose il giovane «ho deciso di chiedere la mano di tua figlia, avendo un grande desiderio di sposarla e di farla diventare mia moglie. Tu e i tuoi siete d'accordo con questa mia decisione, che ho preso con tutta la forza del mio cuore?»

«Come potremmo non esserlo, Speon, figlio mio! Questa notizia ci riempie di gioia e di orgoglio! Anche gli altri miei familiari, in special modo Fisia, apprenderanno con somma felicità questa tua meravigliosa intenzione. Te lo assicuro!»

Subito dopo invitò gli altri congiunti ad uscire di casa, gridandogli:

«Ehi, moglie e figli miei, venite subito tutti fuori, dove vi attendono una graditissima sorpresa ed una bellissima notizia! Allora vi sbrigate, per favore, a fare quanto vi ho detto?»

Una volta che gli altri quattro membri della famiglia furono apparsi sulla soglia di casa, riconoscendo i loro visitatori, si entusiasmarono e vollero abbracciarseli con immenso affetto. Ma quando furono terminati i loro profusi abbracci, Edania, la padrona di casa, tenendosi abbracciata alla figlia, si diede a dire al caro consorte:

«Avevi proprio ragione, Cufione, ad annunciarci che avremmo gradito moltissimo la sorpresa, siccome i nostri ospiti rappresentano persone di tutto rispetto! Ma ci riferisci anche qual è la notizia molto bella, che dobbiamo aspettarci da loro tre?»

«Invece, Edania,» volle precisarle Speon «tocca a me parteciparvela e non al tuo coniuge, poiché essa proviene direttamente dal mio cuore. Si tratta di una decisione che ho ponderata a lungo, prima di prenderla e di rendervela palese. Adesso mi trovo qui, appunto per comunicarvela e per conoscere in pari tempo il vostro parere in merito. In poche parole, vorrei sposare la mia amica d’infanzia e considerare mio il suo bambino. Spero che pure la mia dolce Fisia sia d’accordo, adesso che sono venuto a chiedere la sua mano! Se accetterà, ella farà realizzare il mio sogno di una vita intera!»

Dopo che Speon si fu espresso in quella maniera, manifestando il suo nobile proposito a tutti i presenti, i quali lo ritennero un generoso gesto, commossa, Edania gli esclamò:

«Aveva ragione mio marito, Speon! Una notizia più stupenda non avremmo potuto averla dalla sorte! La nostra Fisia accetterà di buon grado la tua proposta di matrimonio e convolerà felicemente con te a liete nozze. Te lo posso garantire!»

La donna non aveva ancora terminato di finire la sua frase, allorché si vide la ragazza lanciarsi tra le braccia del giovane, dandosi a baciarlo e ad accarezzarlo. Per questo non poteva esserci un modo migliore per dimostrargli il proprio amore e per manifestare il proprio consenso al suo desiderio di sposarla. Quando poi tutti furono entrati nella casa del possidente Polscetano, essi s’intrattennero in una breve discussione. Dopo la quale, essendo già l’ora di pranzo, giustamente si decise di mettere a tacere i brontolii dei loro stomachi vuoti. Perciò si sedettero a tavola e si diedero a mangiare con appetito. Durante la consumazione del pasto di mezzogiorno, Iveonte dovette contentare Cufione e gli altri membri del nucleo familiare, i quali gli fecero varie domande sulla restante parte del suo viaggio che c’era stato per raggiungere l’isola di Tasmina e sull’esito finale di esso, il quale gli aveva fatto conoscere i suoi genitori. Alla fine, dopo essere stati soddisfatti dal racconto dell’eroico giovane, Speon e Cufione, poiché Iveonte e Tionteo avevano premura di ritornare al loro accampamento, stabilirono che il matrimonio dei due nubendi ci sarebbe stato il giorno dopo. E poiché il tempo stringeva, essendo molto limitato, dovettero affrettarsi in modo pazzesco, perché i preparativi della cerimonia si approntassero per il giorno stabilito. Così, nel tardo pomeriggio della giornata successiva, dopo che Speon e Fisia si giurarono eterno amore, si diede inizio al grande banchetto nuziale. Ad esso fu invitato un gran numero di persone, tutti appartenenti alla loro cerchia di parenti e di amici. Fra questi ultimi, non poterono non esserci anche l’oste Ekso e i suoi familiari.

Il giorno seguente, quando l’alba era appena spuntata, Iveonte e Tionteo, salutati gli sposi e i vari componenti della famiglia di Cufione, lasciarono Polsceto e si rimisero in viaggio per raggiungere l’esercito beriesko. Quest’ultimo, dato che si trovava accampato ad un centinaio di miglia dal villaggio polscetano, fu raggiunto da loro dopo tre giornate di sostenuta galoppata. Una volta nell’accampamento, Leruob si mostrò abbastanza felice di vedere ritornare il cugino insieme con l'amico Tionteo. Allora gli andò rapidamente incontro e lo abbracciò con caloroso affetto. Di lì a poco, però, egli si preoccupò di ordinare agli alti ufficiali dell’esercito di apprestare i preparativi per la partenza, poiché essa ci sarebbe stata molto presto. Essi non disattesero le aspettative del loro vicecomandante, essendosi dati da fare, perché le legioni fossero pronte a muoversi nel più breve tempo possibile. Della loro celerità, si mostrò soddisfatto anche Iveonte, il quale ammirò la sollecitudine con cui le diverse schiere d’armati si erano ricomposte ed allineate, allo scopo di rimettersi in cammino. Quando poi il giovane eroe rientrò da solo nella sua tenda per un breve momento, all’improvviso gli riapparve la graziosa figlia del divino Kron. Allora egli si affrettò a domandarle:

«Kronel, come mai mi sei apparsa così all'improvviso, quando meno me lo aspettavo? C’è forse qualcosa che devo sapere? Se è così, sono tutto orecchi ad ascoltarti!»

«Non ti sbagli, Iveonte. Ci attende un nuovo viaggio. Ma questa volta saremo diretti al castello di Pervust, situato nella Selva Perversa, dove la tua Lerinda è tenuta prigioniera. È stato il mago Ghirdo a condurcela circa un mese fa. Non ho potuto avvisarti prima, per il fatto che sono andata a trovare il mio caro fratellastro Luciel.»

«Chi sarebbe questo Ghirdo, Kronel? Se non mi sbaglio, ho già sentito fare il suo nome dal mago Zurlof. Anzi, egli aggiunse pure che avrei dovuto guardarmi le spalle da lui.»

«Adesso non c’è il tempo, Iveonte, di spiegarti ogni cosa. Ti parlerò di lui durante il nostro viaggio. Perciò vai prima a mettere al corrente tuo cugino e Tionteo della tua nuova partenza dall’accampamento e poi insieme voleremo immediatamente per Pervust!»

Il giovane, non appena la figura della diva si fu dissolta, si precipitò da Leruob e lo mise al corrente della sua nuova assenza dal campo, garantendogli che se la sarebbe sbrigata in poco tempo. Ma quando il cugino materno cercò di farsi dire qualcosa sul suo improvviso viaggio e le ragioni che l’obbligavano ad intraprenderlo, Iveonte gli rispose soltanto che esso era da farsi per motivi urgenti ed improcrastinabili. I quali, per il momento, dovevano essere noti soltanto a lui. A quella sua risposta, Leruob non insistette, avendo compreso che c’era di mezzo la sua diva protettrice, non essendo più un mistero il rapporto che esisteva da tempo tra il cugino e la divinità, che lo proteggeva. Naturalmente, a causa della nuova mancanza del comandante supremo dall’accampamento, fu necessario rimandare anche la partenza dell’esercito. Il quale si stava già mobilitando per riprendere la marcia verso l’Edelcadia, la cui distanza da esso, come si poteva essere certi, si era accorciata di molto, con la felicità di tutti coloro che facevano parte dell'esercito.