427°-GERUD SCOPRE L’ESISTENZA DEGLI UMANUK E I LORO INTENTI

Gerud ritornò a Dorinda durante le prime ore postprandiali. Ma prima di pervenire alla reggia, si condusse alle carceri e fece visita alla principessa Lerinda per metterla al corrente della conversazione avuta con Croscione e con Lucebio. Così le comunicò quanto il carismatico capo dei ribelli aveva stabilito circa la sua scarcerazione, adducendole le ragioni che lo avevano indotto a prendere una simile decisione. Perciò la pregava di pazientare ancora per un numero imprecisato di giorni. Allora, pur con rincrescimento, come il saggio uomo le mandava a dire, la principessa comprese che la sua reclusione risultava per ora inevitabile, per il buon esito della missione di cui era stato incaricato l’alto ufficiale.

Gerud rientrò a corte nel tardo pomeriggio. Ma la sua prima preoccupazione fu quella di accertarsi presso il comandante Morchio se aveva visto aggirarsi per i paraggi il re Cotuldo oppure se costui aveva chiesto di lui, intanto che era stato assente. Essendo poi risultate negative entrambe le risposte del subalterno alle sue due domande, egli ne provò un certo sollievo, specialmente per la seconda di esse. In sèguito, volendo appurare dove il sovrano questa volta si era cacciato, si diede a ricercarlo in ogni angolo della reggia, ivi compreso il famoso salottino rosso. Le sue ricerche, comunque, risultarono infruttuose, poiché il mago Ghirdo non si fece rintracciare in nessuna parte di essa. La qual cosa lo impensierì parecchio, per il fatto che il finto sovrano di Dorinda, oltre ad allontanarsi dalla reggia senza scorta, riusciva a non farsi vedere dai gendarmi di guardia, mentre ne usciva oppure vi entrava.

Si poteva sapere in che modo a corte egli si eclissava, senza la minima difficoltà? Non risultandogli però cosa semplice darsi una risposta di quel tipo, per quella volta Gerud stabilì di soprassedere. Ma si propose che avrebbe continuato a sorvegliare ogni sua mossa, quando faceva notare la propria presenza nell’ambito della reggia, appunto per prenderlo in flagrante al momento della sua sparizione. Inoltre, egli non avrebbe fatto a meno di porre la massima attenzione sulle persone che sarebbero venute a fargli visita a corte. Anzi, al fine di conoscere il contenuto di quanto il sovrano e il suo ospite si sarebbero poi detto nel salottino rosso, il comandante delle guardie reali decise di ricorrere ad un espediente, il quale senza meno gli avrebbe facilitato il compito. Riguardo all’ambiente, al quale ci si è riferiti diverse volte, ossia il salottino rosso, si trattava di uno stanzino privato, dove lo scomparso re Cotuldo soleva trascorrere parte della giornata per rilassarsi, dopo avere avuto a corte alcune ore piuttosto stressanti. Tale luogo, che si presentava lussuosamente addobbato, era lungo sette metri e largo quattro. Quando vi si accedeva, un arazzo lungo tre metri e alto due era ben visibile sulla parete situata sul lato destro, rispetto all'ingresso. Essa lo separava da un ripostiglio, che fungeva da custodia degli attrezzi adoperati per la pulizia di corte. La quale veniva effettuata ogni dieci giorni dagl'inservienti che a corte avevano tale compito.

Ebbene, a tarda notte, quando secondo lui il mago doveva stare a godersi il suo bel sonno profondo, Gerud si recò nel locale adiacente al salottino e si diede a praticare sulla parete divisoria un foro avente un diametro di circa dieci centimetri. Egli smise di perforarla, solo quando raggiunse la tela dell’arazzo, il quale, siccome copriva il buco da lui praticato, lo nascondeva a quanti venissero a trovarsi nel locale in questione. Dopo non si astenne dal portar via sia il materiale di risulta, il quale si era accumulato nel ripostiglio, sia l’esiguo pietrisco caduto sul pavimento del lussuoso stanzino durante la perforazione murale. Quel foro, a suo parere, gli avrebbe permesso di origliare meglio dall’interno del ripostiglio, poiché gli avrebbe fatto ascoltare ogni parola pronunciata nel salottino dalle persone che vi fossero state intente a dialogare. Un fatto del genere si sarebbe avuto, sia nel caso che il tono di voce fosse stato moderato sia nel caso in cui esso fosse risultato sommesso.

Eseguito tale lavoro, Gerud attese che il suo accorgimento venisse premiato, consentendogli così di scoprire cose importanti sulla persona del mago e di chi lo frequentava. La sua attesa, comunque, durò appena cinque giorni, poiché nella mattinata del sesto giorno giunse per lui il momento fortunato, cioè quello che gli avrebbe rivelato delle notizie scottanti sugl'ignoti Umanuk. In tale giorno, infatti, egli vide arrivare nella reggia di Dorinda uno strano individuo. Costui, avendogli dichiarato che era atteso dal re Cotuldo, fu immediatamente accompagnato da lui in presenza del sovrano. Il quale lo accolse con particolare interesse e, in un certo senso, abbastanza compiaciuto. Ma dopo che ebbe abbracciato l’ospite, si rivolse al suo accompagnatore e gli si espresse con queste parole, che tesero a congedarlo:

«Adesso puoi andare, Gerud, siccome qui non ci occorri più. Ricòrdati, però, che non ci sono per nessuno, per cui dovrai evitare di condurmeli a corte! Mi sono spiegato?»

«Farò come mi hai suggerito, illustre sovrano. Così potrete parlare indisturbati!» lo tranquillizzò il suo consigliere, intanto che si dava a pensare a quanto intendeva attuare.

Difatti, pochi istanti dopo l'ex subalterno di Croscione corse a dedicarsi a tutt’altro, anziché ritornarsene al suo ufficio. Come possiamo immaginare, egli volò direttamente nel ripostiglio attiguo, dove restò zitto ed immobile come una mummia, stando attento a non produrre alcun rumore, ad eviatre di farsi scoprire. Restando poi in quel luogo, l'alto ufficiale intendeva apprendere tutto ciò che il mago e il suo gradito ospite si sarebbero detti durante la loro conversazione privata. Essa, a suo parere, di sicuro gli sarebbe risultata assai importante. Così, mentre Gerud era intento ad ascoltare, fu il mago ad aprire per primo il loro dialogo a due. Rivolgendosi al suo interlocutore, incominciò a dirgli:

«Bravo, Kosep, sei stato davvero tempestivo ad accogliere il mio invito! Lo sai perché ti ho voluto a Dorinda, presso di me? Te lo dico subito. Se in un primo momento si era deciso che tu solo, come Umanuk di Casunna, non avresti dovuto sopprimere e sostituire il viceré Raco nelle sue funzioni, invece adesso gli ordini sono cambiati, poiché essi prevedono anche la sua uccisione. Me li ha comunicati il mio divino protettore Sartipan, il quale, a sua volta, li ha ricevuti dal proprio genitore, che è il dio Strocton. Come mi hanno comunicato da poco, tali nuovi ordini vanno eseguiti nel più breve tempo possibile!»

«Allora potevo esserne informato, mentre ero a Casunna, caro Ghirdo. Così non mi sarei scomodato a venire qui da te e a rifare di nuovo il tragitto per raggiungere la mia città! Mi chiedo, inoltre, perché mai non lo abbia fatto il mio protettore, il quale è il dio Kurcan! Venendo a noi, vedo che a te, come Umanuk di Dorinda, le cose sono andate a gonfie vele, non avendo avuto difficoltà ad eliminare il re Cotuldo e a sostituirlo nel governo della sua città! Sono sicuro che anche gli Umanuk delle altre città edelcadiche, fatta eccezione di Actina che ne è priva, se la saranno cavata a buon mercato. Per cui in questo momento tutti loro si trovano a regnare su di esse, senza avere avuto problemi di sorta!»

«In riferimento alla soppressione del viceré Raco, Kosep, invece essa mi è stata comunicata all’ultimo momento, cioè quando probabilmente egli era già partito per raggiungermi a Dorinda, avendolo invitato qui da me, in qualità di sovrano di Dorinda e di Casunna. Comunque, ti sarà consentito di sopprimerlo nella mia reggia e di assumerne l’aspetto. Così dopo prenderai il suo posto, in qualità di viceré di Casunna, senza che la sua scorta personale se ne accorga per niente. Riguardo a me, hai ragione a dirmi che tutto è filato liscio come l’olio, soltanto perché ho trovato il consigliere del defunto Cotuldo un tipo addormentato, incapace di far paura pure ad una mosca. Anch’io sono del parere che gli altri Umanuk abbiano già portato a termine la loro missione; però attendo ancora la loro conferma, tramite i rispettivi piccioni viaggiatori.»

«Allora, Ghirdo, è imminente la nostra guerra contro la Città Santa, la quale è voluta dall’Imperatore delle Tenebre, il dio Buziur! Ma pur avendo a disposizione i nostri sette agguerriti eserciti, riusciremo ad espugnare e a radere al suolo Actina? Essa, come si è sempre vociferato nell'Edelcadia, ha delle mura inespugnabili!»

«Possibile che ne dubiti ancora, Kosep? Come potrà la città protetta dal dio Matarum, il quale è stato da poco messo fuori combattimento dal dio Strocton, resistere all’assedio dei nostri numerosi soldati, i quali raggiungeranno il ragguardevole numero di oltre trecentomila unità? Non dimenticare, inoltre, che a capo dei nostri eserciti ci saremo noi Umanuk, che possiamo trasformarci in mostri terribili ed abbiamo tante prerogative micidiali. Le quali, come sai, sono in grado di farci operare grandi prodigi, tutti capaci di terrorizzare ed annientare quegli esseri umani che dovessero opporsi a noi!»

«Anche questo è vero, Ghirdo. Oltre all’immortalità, noi abbiamo alcuni straordinari poteri, dei quali siamo stati dotati dalle nostre divinità protettrici. Ma siamo certi che, in tutta l’Edelcadia, nessun essere umano, anche se protetto in qualche modo da un dio benefico, potrà metterci il bastone tra le ruote? Secondo me, tutto potrebbe succedere!»

«Per il momento, Kosep, noi siamo in una vera botte di ferro, poiché colui che avrebbe potuto crearci dei seri problemi si trova molto lontano da qui, essendo intento a perseguire degli scopi personali!»

«Mi dici, Ghirdo, a chi ti sei riferito? Se lo vuoi sapere, stento a crederci che ci possa essere un uomo in grado di metterci in difficoltà! Non hai considerato il fatto che, in quel caso, ci sarebbero pure i nostri divini protettori a darci man forte per sconfiggerlo?»

«Kosep, credevi che mi fosse sfuggita una tale realtà a nostro favore? Invece non è stato così! Comunque, anche se l’ho tenuta in considerazione, ugualmente essa non mi tranquillizza abbastanza. Lo sai perché? Se, putacaso, l’eroico Iveonte si facesse vivo durante il nostro assedio alla Città Santa, contro la sua persona noi non potremmo fare niente. Non sarebbero in grado di sopprimerlo neppure le nostre divinità tutelari! Questo lo devi sapere.»

«Quindi, il suo nome è Iveonte, Ghirdo. Ne parli come se tu lo conoscessi da tempo e che in passato avessi già avuto a che fare con lui! Se sono in errore, correggimi!»

«Non ti sbagli, Kosep. Già da quando egli aveva sette anni, ho cercato di farlo eliminare; ma senza riuscirci, per colpa del consigliere di suo padre, un tale di nome Lucebio. Più di una ventina d’anni dopo, mi è capitato d’incontrarlo, durante la mia trasformazione nell’invulnerabile mostro Talpok. Ma anche allora egli è stato capace di tenermi testa, mettendomi in fuga. Ultimamente, istigato da me, è stato il mago Zurlof a tramare contro di lui, sulla sua Isola della Morte, dove il Mago dei maghi è più potente anche di una divinità, fosse essa negativa o positiva. Ebbene, anche in quest’ultima circostanza, Iveonte ne è uscito vincitore, obbligandolo a farsi aiutare nel recuperare la sua memoria perduta. Ora l’eroe dorindano si è rimesso in viaggio per raggiungere i suoi genitori e riabbracciarli. Essi sono il legittimo regnante di Dorinda, ossia il re Cloronte, e la sua consorte, che è la regina Elinnia. La sovrana, a sua volta, è l'ultimogenita del superum della Berieskania, che è Nurdok, il quale un tempo era da considerarsi il più grande condottiere di eserciti di ogni tempo. In verità, lo uguagliava il solo Kodrun, il primo sovrano di Dorinda. Egli, guarda caso, è l'altro nonno di Iveonte! Insomma, vedi di quali illustri nonni costui è discendente? È da non credersi!»

«Ghirdo, almeno sai dove si trovano i suoi genitori per tenerli come nostri ostaggi e farci scudo di loro, se in seguito il loro invincibile figlio vorrà minacciarci e metterci fuori gioco? Oppure lo ignori? Il tuo sguardo mi fa pensare che non sei al corrente di dove essi siano e che non possiamo usarli come arma di difesa contro di lui, nel caso che ne avessimo bisogno. Ma speriamo che ciò non accada, prima della presa di Actina!»

«Hai letto bene il mio pensiero, Kosep, poiché sono completamente all’oscuro di dove essi si trovino. Pensavo di trovarli ancora nelle carceri di Dorinda. Ma quando sono andato a cercarveli, non ve li ho trovati più, siccome il re Cotuldo li aveva già fatti portar via da quel luogo. Uno dei carcerieri mi ha fatto presente che era stato il consigliere Croscione a condurli via, però senza dire in quale altro luogo li avrebbe trasferiti. Nelle nostre mani, però, abbiamo la fidanzata di Iveonte, che è la principessa Lerinda, ossia la sorella del defunto re Cotuldo e del viceré Raco. Con lei in pugno, possiamo tenere in scacco il suo eroico fidanzato. Egli dovrà strisciare ai nostri piedi, se vorrà evitare che le accada qualcosa di male da parte nostra! Dunque, possiamo sentirci sereni, fino a quando avremo lei come nostra prigioniera!»

«Sono convinto, Ghirdo, che l’avrai fatta rinchiudere in una cella sicura, ad evitare di lasciartela sfuggire! Conoscendoti bene, di certo avrai preso ogni misura cautelativa per tenere avvinta a te la preziosa preda, che rappresenta il nostro asso nella manica. Dimmi che è così, amico mio, e che perciò possiamo dormire sonni tranquilli!»

«Non poteva essere altrimenti, Kosep. Ma il nostro ostaggio prezioso adesso non si trova più nelle carceri di Dorinda, dove l’avevo fatta rinchiudere dal mio consigliere, del quale avevo iniziato a non fidarmi nemmeno un poco. Prima del tuo arrivo, ho prelevato personalmente dal carcere la principessa e l’ho condotta via da quel luogo, trasferendola in un posto molto sicuro, di cui nessuno potrà mai venire a conoscenza.»

«Quale sarebbe questo posto da te considerato sicuro, Ghirdo? Non mi dire che hai condotto la sorella dell’estinto sovrano nel nostro castello di Pervust, che i nostri divini protettori hanno costruito a favore di noi Umanuk, che operiamo nell’Edelcadia!»

«Certo che l'ho trasferita nel nostro castello, Kosep! In quella fortezza nessun essere umano potrà mai andare a liberarla, essendo esso protetto tutt’intorno da infiniti trabocchetti, pronti a minare l’esistenza di coloro che tentassero di entrarvi. Anche il posto della sua ubicazione, situato al centro della Selva Perversa, è dei più terribili e maledetti, per cui la evita perfino ogni specie animale. Ora che lo sai, cosa ne pensi?»

«Allora davvero hai trovato una prigione formidabile per la principessa, la quale vi permarrà, fino a quando lo vorrai tu! Anzi, ella vi resterà per sempre. Non è forse vero, scaltro mago Ghirdo?»

«Probabilmente sarà così, Kosep. La verità ce la diranno gli eventi futuri. A questo punto, però, è tempo di porre fine al nostro colloquio e di uscire da questo salottino rosso, che inizia a risultarmi soffocante!»

Alcuni minuti dopo, ricorrendo alla massima prudenza, Gerud lasciò il ripostiglio. Esso, come sappiamo, gli era servito per origliare ed apprendere l’intera straordinaria conversazione, la quale c’era stata tra il mago e il suo ospite Kosep, senza farsi sfuggire una sola loro parola. Sebbene poi l’ora non fosse quella adatta, l’alto ufficiale si precipitò alle carceri per sincerarsi della sventura capitata alla principessa Lerinda ad opera del mago Ghirdo. Allora in quel luogo egli apprese che era conforme al vero ciò che aveva dichiarato colui che stava impersonando il suo sovrano. Infatti, l’unico secondino che c’era rimasto gli dichiarò che era stato lo stesso re Cotuldo a condurla via dalla sua cella. A tale informazione risultata certa, l'alto ufficiale stabilì che l’indomani, senza perdere un minuto di tempo, sarebbe corso al campo dei ribelli. In quel luogo, avrebbe messo al corrente il saggio Lucebio e il suo ex superiore di tutti i fatti di cui era venuto a conoscenza nella reggia. Egli li riteneva di capitale importanza per il loro contenuto incredibile e raccapricciante. Ma prima di lasciare il penitenziario, egli fece presente al secondino che lì dentro non serviva più la sua presenza, non essendoci più neppure un recluso come suo ospite.


Il giorno dopo, a metà mattinata, Gerud lasciò la reggia e si diresse al campo dei ribelli. Pervenuto allo stradone che conduceva sopra l’altopiano, gli fu permesso di percorrerlo e di giungere fino al pianoro da quelli che erano di guardia, come da ordini ricevuti dal loro capo. Dopo egli fu anche accompagnato da uno di loro fino alla dimora di Lucebio, il quale, in quell’istante, s’intratteneva con il cieco Croscione. Anzi, insieme, si stavano appunto domandando come mai il consigliere del re Cotuldo non aveva dato più notizie di sé. Vedendoselo poi davanti all’improvviso, Lucebio si affrettò ad esclamargli:

«Chi non muore, prima o poi, si rivede, come è capitato a te! Non è vero, Gerud, che eri ancora vivo? Certamente, mi dirai di sì!»

«Se questo è il detto popolare, Lucebio, non può non essere vero! Ma spero di trovare almeno voi in ottima salute, senza essere immersi in un mare di guai!»

«Perché dici così, Gerud? Qualcun altro forse, al contrario di noi due, se la passa male? Su, sbrìgati ad informarci di tale particolare, dicendoci subito chi non sta bene, al posto nostro!»

«Purtroppo, Lucebio, è la principessa Lerinda a trovarsi in una situazione molto difficile! In passato abbiamo sbagliato a lasciarla in prigione, quando eravamo ancora in tempo per condurla a casa del tuo amico. Adesso la sua liberazione è diventata un'impresa impossibile, a causa del luogo impenetrabile dove è tenuta prigioniera. In compenso, però, come rovescio della medaglia, ho da darvi anche una bella notizia!»

«La bella notizia, Gerud, non m’interessa un fico secco, se non possiamo far niente per liberare la sorella del tiranno, la quale è la ragazza del nostro Iveonte! Perciò mettici al corrente di cosa le è capitato e chi è stato a trasformarle la vita in senso negativo!»

«Ciò che non sai, Lucebio, è che le due notizie, cioè la brutta e la bella, sono collegate tra loro. Vorresti forse non venire a conoscenza che Iveonte, dopo aver costretto il mago Zurlof a farsi dire quanto voleva apprendere da lui, in questo momento sta ritornando a Dorinda? E non solo! Vorresti anche rinunciare a conoscere la verità sul più grande degli eroi, ossia che egli è il primogenito dei detronizzati regnanti di Dorinda? Sono certo che per niente al mondo vorresti evitare di saperlo! Perciò, se tu e Croscione intendete apprendere ogni cosa su di loro ed altri fatti incredibilmente agghiaccianti, dovete permettermi di narrarvi tutto dall’inizio alla fine. Ma durante il racconto non dovrete mai interrompermi!»

«Allora comincia pure a raccontare, Gerud, poiché io e Croscione ti ascolteremo con la massima attenzione possibile, affinché nulla ci possa sfuggire della tua interessante narrazione!»

Quando infine il racconto di Gerud ebbe termine, Lucebio, da una parte, si mortificò per la sorte toccata alla principessa Lerinda, recitando il mea culpa per il grande errore commesso; dall’altra, invece, si rincuorò per il fatto che Iveonte era sulla via del ritorno. Secondo il suo parere, soltanto lui, che era il più grande di tutti gli eroi, poteva competere con gli otto Umanuk edelcadici e con i loro divini protettori, salvando la sua ragazza e la città di Actina. Inoltre, volendo dimostrare in qualche maniera che il suo operato era almeno servito a qualcosa, egli era intervenuto a dire a propria giustificazione:

«Non possiamo negare che, se avessimo liberato la principessa Lerinda il giorno dopo la sua carcerazione, probabilmente il mago Ghirdo se la sarebbe presa con te, Gerud, ed avrebbe provveduto a farti sparire dalla circolazione. In quel caso, non saremmo neppure venuti a conoscenza di molti fatti di capitale importanza, sui quali ci hai relazionato. Alcuni di loro ci permetteranno perfino di salvare la vita al viceré Raco, il quale può considerarsi il nuovo sovrano di Casunna a tutti gli effetti, e di mettere il re Francide al corrente di quanto si sta macchinando contro Actina. Per questo diamoci da fare, affinché l’uno non vada incontro a morte certa e l’altro si prepari in tempo utile al duro assedio!»

A quel punto, interloquì anche Croscione, che fino a quel momento era rimasto solamente ad ascoltare il dialogo, che c'era stato fra gli altri due dialoganti. Così domandò all’amico:

«Mi dici, Lucebio, in che modo dovremmo darci da fare, per ottenere entrambe le cose? Vorrei che fossi tu a spiegarcelo, visto che, ad esserti sincero, non riesco ad arrivarci!»

«Nella maniera più semplice, Croscione. Se sappiamo che il principe Raco sta per giungere a Dorinda, dietro esplicito invito del falso fratello, il quale in questo caso è impersonato dal mago Ghirdo, noi non dobbiamo fare altro che mandargli incontro un nostro drappello, magari capeggiato da Gerud. Una volta che egli sarà stato intercettato con la sua scorta, bisognerà fargli cambiare la meta del suo viaggio. Ossia lo si farà venire qui sul nostro altopiano, anziché permettergli di condursi alla reggia, dove verrebbe ucciso e sostituito dall'Umanuk Kosep. Subito dopo, invieremo ad Actina i nostri quattro valorosi giovani, i quali sono Solcio, Zipro, Polen e Liciut. Essi raggiungeranno il re Francide e lo metteranno al corrente di quanto sta succedendo nell’Edelcadia, ad opera degli Umanuk e dei loro divini protettori. Così, una volta appresa ogni cosa, egli prenderà quei provvedimenti, che procureranno una valida difesa alla sua città, fortificandola ancor più che non lo è già. Inoltre, il giovane sovrano escogiterà quegli accorgimenti lesivi atti a far fronte al lungo assedio, il quale è previsto in grande stile.»

Croscione e Gerud furono d’accordo con quanto intendeva fare il saggio uomo. Per cui già l’indomani una pattuglia di ribelli si diede a perlustrare la strada, che di solito il viceré Raco percorreva per giungere a Dorinda e rifare il percorso inverso. Soltanto nella tarda mattinata del terzo giorno, il fratello della principessa Lerinda, quando era già a tre miglia dalla città, fu intercettato con la sua scorta, la quale era composta da una ventina di gendarmi. Allora i ribelli, che erano un centinaio ed erano capeggiati dall’ex consigliere del defunto re Cotuldo, raggiunsero i Casunnani e gli si piazzarono davanti, con l’intento di arrestare la loro avanzata. Lucebio aveva voluto che i suoi uomini comandati da Gerud fossero molto più numerosi dei soldati casunnani. In quel modo, si sarebbe potuto convincere il viceré ad accettare il loro invito con le buone o con le cattive. Difatti la salvezza del fratello di Lerinda stava proprio nella sua rinuncia a far visita a chi credeva fosse il fratello re Cotuldo.

Il principe Raco, nel vedersi sbarrare la strada verso Dorinda, in un primo momento si alterò; ma poi, avendo riconosciuto il braccio destro del fratello, si rasserenò un poco ed attese le sue spiegazioni in merito alla sua presenza in mezzo alla ciurma da lui capeggiata e allo sbarramento operato da parte di quelli che la componevano. Quando l’alto ufficiale gli fu a due passi, non indugiò a chiedergli:

«Mi spieghi, Gerud, cosa significa tutto questo? Hai forse dato le dimissioni dall’alto incarico ricevuto da mio fratello per metterti a capo di una banda di ribaldi? Adesso vorrei sapere quali intenzioni avete tu e gli uomini che ti accompagnano!»

«Invece, nobile Raco, le cose non stanno come ti possono apparire. Gli uomini, che sono con me, non sono né malfattori né altro di simile; ma sono i ribelli alle dipendenze di Lucebio. Se lo vuoi sapere, è il saggio uomo che mi ha inviato da te. Ho il compito di non farti raggiungere la reggia, poiché egli t’invita nel suo campo. Inoltre, ho l’obbligo di costringerti con la forza a seguirci, nel caso che tu ti opponga al suo invito. Non dimenticare, re Raco, che Lucebio è il padre spirituale d'Iveonte, per cui, quando decide qualcosa, lo fa sempre a fin di bene. Te lo posso garantire! Allora le mie parole sono riuscite a convincerti oppure hai ancora dei dubbi ed intendi opporti a noi?»

«Io ho una grande stima di Lucebio, Gerud. Ma posso sapere cosa sta succedendo a Dorinda? E perché poco fa mi hai attribuito il titolo regale, che non mi appartiene?»

«Ci sono molte cose che dovrai ancora conoscere, sovrano di Casunna, alcune belle e altre brutte. Ma sarà Lucebio in persona a ragguagliarti su ogni cosa, dopo che lo avremo raggiunto. Alla fine lo ringrazierai per quanto egli adesso sta facendo per te!»

Il fratello prediletto della principessa Lerinda, superati i pochi iniziali attimi di esitazione, si lasciò convincere dall'ex consigliere del fratello Cotuldo. Perciò, tutti insieme, si avviarono verso il campo dei ribelli. Una volta sull’altopiano, il viceré Raco fu accolto con molta cordialità da Lucebio e da Croscione. Ma poi loro tre e Gerud, dopo che si furono appartati nel solito luogo tranquillo, diedero inizio al loro colloquio. Naturalmente, il fratello di Lerinda prima fu messo al corrente dei fatti antecedenti, che si erano avuti presso la reggia di Dorinda. Durante i quali, si alternarono le voci di Lucebio e quelle di Gerud. Quando infine il loro intero racconto ebbe avuto termine, il principe Raco, preso da un’ansia terribile, domandò al saggio uomo:

«Adesso, Lucebio, cosa proponi di fare per liberare mia sorella Lerinda? Anzi, prima dovevo ringraziarti per avermi salvata la vita. Ti chiedo scusa, per non averlo fatto!»

«Sovrano di Casunna, innanzitutto ritengo il tuo atteggiamento giustificato, per cui le tue scuse risultano non dovute. Per quanto riguarda la liberazione della principessa, devo riconoscerlo, ma siamo impotenti a soccorrerla, per i motivi che dovresti immaginare. Quindi, bisognerà attendere il ritorno d'Iveonte, visto che solo lui può sconfiggere il mago Ghirdo e gli altri Umanuk dell’Edelcadia, liberando la sua fidanzata.»

Allora il nuovo sovrano di Casunna, dopo averci riflettuto abbastanza, dovette piegarsi alle inflessibili leggi del destino. Ad ogni modo, egli ci tenne a precisare:

«Beninteso, Lucebio, al ritorno di mio cognato Iveonte dal suo viaggio, che si preannuncia oramai imminente, io sarò il sovrano della sola Casunna; mentre sarà il consorte di mia sorella a governare sulla città di Dorinda, essendo egli il suo legittimo sovrano. Ciò, naturalmente, solo nel caso che il padre re Cloronte vorrà abdicare in suo favore, come penso che avverrà, a causa delle sue precarie condizioni di salute!»


Il giorno dopo, si assistette alla partenza di Solcio, di Zipro, di Polen e di Liciut, i quali si misero immediatamente in cammino. Essi erano diretti alla Città Santa con l’incarico di raggiungere il re Francide e di recargli le preoccupanti notizie ricevute da Lucebio. I quattro giovani, comunque, avendo fatto quel viaggio già due volte in occasione del matrimonio del re Francide e della principessa Rindella, il primo nell'andata e il secondo nel ritorno, trovarono familiari i vari luoghi che percorrevano. Ma evitarono di sostare nelle città che incontravano, preferendo riposare e consumare i loro pasti nelle zone boschive adiacenti alla strada maestra da loro percorsa. Così, dopo un mese di lunghe ed estenuanti galoppate, i quattro giovani finalmente giunsero nella Città Santa, dove cercarono di recarsi al più presto alla reggia. Ma essi sarebbero riusciti a giungere alla loro meta, senza che qualche incidente di percorso venisse a vietarglielo? Tra poco lo appureremo e ci renderemo conto se la sorte sarebbe stata oppure no dalla loro parte.

Mentre andavano al trotto per una via di Actina, la quale non si presentava particolarmente affollata, essi s’imbatterono in un drappello di otto soldati. Allora chi li guidava, essendosi insospettito della loro presenza, da lui ritenuta equivoca, decise di accertarsi che non si trattava di persone di malaffare. Perciò, dopo aver dato ordine ai suoi gendarmi di accerchiarli e di non farseli scappare, si fece avanti e cominciò ad esprimersi a tutti e quattro in questo modo:

«Se ci tenete a saperlo, giovanotti, i vostri volti non mi convincono, poiché hanno un certo che di sospetto. Parola di Ezzimo, il quale sa sempre quello che dice, grazie al suo fenomenale fiuto! Allora mi dite chi siete e da dove provenite, per favore?»

«Invece, Ezzimo,» intervenne e contraddirlo Solcio «questa volta ti sei sbagliato di grosso! Lo sai perché? Hai fermato coloro che stanno per condursi dal tuo sovrano, avendo essi interessanti comunicazioni per lui. Siamo perfino suoi amici!»

«Io non credo neppure ad una sola parola di quanto hai affermato, forestiero! Inoltre, non mi è stato dichiarato da voi neppure da quale città provenite. Allora me lo dite, prima che io perda la pazienza?»

«Ti accontentiamo subito, Ezzimo, se è ciò che ti preme sapere! La nostra provenienza è Dorinda e noi siamo dei suoi rispettabili cittadini. Adesso ti basta, per lasciarci liberi e permetterci di raggiungere il nostro amico re Francide? O, per deciderti a farlo, hai bisogno di sapere ancora altro da noi? Ma deciditi presto, se non vuoi farci perdere altro tempo!»

«Invece non intendo apprendere nient’altro da voi, siccome ho stabilito di arrestarvi e di tradurvi nelle carceri, non avendo mai incontrato in vita mia delle persone più bugiarde di voi quattro! Adesso sapete come la penso io nei vostri confronti!»

«Invece noi non ci lasceremo arrestare da voi, gendarme da strapazzo, considerato che non possiamo rimandare oltre il nostro incontro con il sovrano di Actina! Conosciamo bene i difetti della lungaggine burocratica, la quale non ci farebbe uscire dal carcere nemmeno tra un mese! Perciò, se volete evitare di farvi ammazzare inutilmente da noi, non ostacolate il nostro passaggio. Mi avete inteso nel modo giusto?»

Questa volta le parole di Solcio non furono seguite da quelle di Ezzimo. Costui, invece, preferì sguainare la sua spada, il quale gesto fu subito imitato anche dai suoi sette subalterni. Tale fatto fece prevedere che lo scontro sarebbe stato inevitabile ed imminente, per cui anche i quattro giovani amici non ebbero altra alternativa che quella di ricorrere alle armi. Lo scambio di colpi fra i combattenti, i quali si erano dati a tenzonare con grande furia, era iniziato ad esserci da pochi minuti, ma senza che ci fossero ancora delle vittime sull’acciottolato, allorché uno squadrone di cavalleria capitò nel medesimo luogo. Lo comandava l’ufficiale Urimmo, che ritornava da una perlustrazione eseguita fuori città.

Egli e i suoi cavalieri, che potevano essere un centinaio, erano stati richiamati dal martellio insistente degli energici colpi di spada. Allora, raggiunti coloro che combattevano con animosità, Urimmo prima invitò i suoi uomini ad accerchiarli e poi impartì ai soldati actinesi e agli altri il seguente ordine:

«Cessi all'istante il vostro conflitto armato, se non volete subirne le conseguenze! Dopo mi darete spiegazioni in merito, ma senza alterare i fatti a propria discolpa! Ci siamo intesi?»

Avvenuta la cessazione delle armi da parte dei combattenti, il gendarme Ezzimo, quasi risentito, cercò di farsi le sue ragioni. Perciò si rivolse all’ufficiale, mettendosi a criticarlo:

«Giammai mi sarei aspettato che un nostro superiore ci trattasse alla stessa stregua di quelli che potrebbero essere degli spietati assassini! Comunque, per accertare la loro identità, volevamo solo condurli nelle carceri, dove li avremmo interrogati con calma. Ma essi si sono rifiutati di seguirci e ci hanno obbligati a ricorrere alle armi. Lo sai, Urimmo, cosa si sono permessi di dichiararci questi quattro delinquenti? Te lo dico subito. Pur di sfuggire al nostro arresto, hanno affermato di essere amici del nostro sovrano e che avevano da comunicargli delle notizie urgenti. Secondo te, ciò potrebbe mai essere verosimile?»

«Ezzimo, non spettava a te credergli oppure no. Ma se ciò fosse vero, mi dici come te la caveresti con il tuo sovrano? In quel caso, se lo vuoi sapere,non vorrei stare nei tuoi panni!»

«Invece è la pura verità, Urimmo!» Zipro intervenne nella loro discussione «Dobbiamo assolutamente incontrare il re Francide, il mio ex maestro d’armi e di arti marziali, poiché abbiamo da comunicargli delle notizie d’importanza capitale da parte di Lucebio, che tu già hai conosciuto a corte. Ma dovresti conoscere pure noi, se hai buona memoria!»

«Adesso sì che ti riconosco, Zipro! Vedo che con te c’è anche Solcio, l’allievo dell’eroico Iveonte! Tra poco condurremo voi due e i vostri amici davanti al re Francide. Così gli riferirete ciò che di tanto importante il saggio Lucebio gli manda a dire. Ma prima lasciatemi dirgliene quattro al mio subalterno, per essersi rifiutato di credervi, mettendo a repentaglio la sua vita e quella dei sette soldati al suo comando. Inoltre, ha criticato pure me, per essere intervenuto a fermare il combattimento!»

Rivòltosi poi al gendarme in questione, che adesso appariva mogio, gli fece presente:

«Ringraziate il divino Matarum, per avermi fatto arrivare in tempo. Altrimenti avrei trovato in questo posto i vostri cadaveri! Come vedi, Ezzimo, i quattro giovani sono degli ottimi guerrieri dorindani e non dei temibili delinquenti, come da te sospettato. A causa del tuo grossolano errore, potrei anche proporre a chi di dovere di degradarti per inattitudine al comando! Comunque, non è detto che non lo farò, prima che passi la giornata di oggi!»

Alcuni istanti dopo, lo squadrone di cavalleria si diede a fare strada ai quattro giovani dorindani per accompagnarli celermente alla reggia. In quel luogo, poi, il loro comandante Urimmo li avrebbe condotti da Astoride, il quale, a sua volta, li avrebbe accompagnati dal re Francide. Il comandante delle guardie reali era divenuto da poco cognato del sovrano, per averne sposato la sorella Godesia. Quando infine i quattro giovani si trovarono davanti al re di Actina, che se ne stupì a non dirsi, Solcio si diede a riferirgli:

«Re Francide, siamo qui per volontà di Lucebio, per conto del quale siamo venuti a comunicarti parecchie cose. Perciò, dopo che ci saremo accomodati in un posto tranquillo, comincerò a rendertele note, proprio com’egli te le manda a dire.»

«Allora possiamo appartarci nel patio, Solcio, dove staremo soltanto noi sei. A proposito, dall’ultima volta che ci siamo visti, qui ad Actina ci sono state nuove nozze, ossia quelle tra mia sorella Godesia e il mio amico Astoride, il quale adesso è diventato effettivamente mio cognato. Inoltre, è nato anche il mio primogenito, al quale è stato dato il nome di Ivun. Dopo avervi messi al corrente di queste due belle novità, possiamo trasferirci nel luogo a cui ho accennato prima, dove mi darete le vostre importanti notizie, sperando che siano belle come quella che vi ho dato io adesso!»

Dopo esserci state le congratulazioni dei quattro giovani al re Francide e al fortunato Astoride, per i due gioiosi eventi, uscirono insieme dalla sala del trono e raggiunsero il patio, il quale era attiguo alla reggia. Pervenuti in esso, l’amico fraterno d'Iveonte, prendendo la parola per primo, sollecitò il nipote preferito del facoltoso Sosimo a riferirgli quanto Lucebio gli mandava a dire. Allora Solcio si affrettò a parlargli, riferendogli quanto segue:

«Re Francide, mi dispiace farti presente che le notizie che sto per comunicarti sono per la maggior parte cattive. Inizio a darti l’unica che ti risulterà gradita. Essa riguarda il tuo amico Iveonte. Egli, secondo fonti attendibili, è riuscito nella sua impresa condotta nell’isola di Tasmina, dopo aver costretto il mago Zurlof a farsi aiutare nella ricerca dei suoi genitori. Così ha appreso che essi sono gli ex regnanti di Dorinda, i quali adesso si ritrovano ad essere tuoi ospiti. Quindi, pure Iveonte è diventato tuo cognato, come il tuo amico Astoride. Con una notizia simile, potrai rendere sommamente felice loro due e la tua consorte, la regina Rindella. Adesso l’invincibile eroe sta tornando nell’Edelcadia, ma s’ignora quando sarà tra noi.»

«Questa sì che è una bellissima notizia, Solcio! All’istante andrei a darla ai miei suoceri e a mia moglie, se prima non mi premesse apprendere da te le altre che hai da darmi. Esse, se ho inteso bene, dovrebbero rattristarmi l’animo. Perciò adesso inizia a raccontarmi immediatamente ogni cosa, senza farmi attendere oltre!»

All’invito del sovrano di Actina, Solcio si diede a narrare i fatti orripilanti che Gerud aveva riferito a Lucebio e a Croscione. Quando poi ebbe terminato, egli aggiunse:

«Come puoi constatare, re Francide, nessuno di noi può ostacolare le vicende burrascose, le quali si stanno addensando sulla tua città e sull’intera Edelcadia. Non possiamo neppure togliere dai guai la principessa Lerinda, caduta nelle mani del mago Ghirdo. Secondo Lucebio, soltanto Iveonte potrà porre fine allo strapotere degli Umanuk e dei loro divini protettori. Per fortuna, egli è sulla via del ritorno e presto potrà liberare la sua fidanzata ed evitarci la catastrofe che intendono arrecarci alcune divinità malefiche attraverso i loro immortali protetti. Nel frattempo, l’ex capo dei ribelli t’invita a ricorrere a grandi approvvigionamenti in città di acqua e di prodotti alimentari, nonché a fortificare maggiormente le difese della tua città. Così essa resisterà il più a lungo possibile all’assedio dei loro eserciti, cioè fino all’arrivo del tuo invincibile cognato, il quale è il favorito delle divinità benigne. A questo punto, non ho altro da farti conoscere.»

«Se i fatti stanno come hai detto, Solcio, è mio dovere ascoltare i saggi consigli di Lucebio. Perciò, già da domani, incaricherò i vari esperti in opere difensive della nostra città di darsi da fare nello studiare le difese più appropriate per contrastare il futuro terribile assedio. Inoltre, farò iniziare la costruzione di sili capienti per immagazzinarvi grandi scorte alimentari ed idriche. Quanto a te e ai tuoi amici, sarete miei ospiti, fino a quando non riterrete opportuno che il vostro riposo sia stato sufficiente per farvi riprendere il viaggio che dovrà ricondurvi a Dorinda. Adesso io ed Astoride, poiché ci attende un gran da fare a corte, non possiamo più trattenerci con voi.»

Terminata la conversazione a sei, il re Francide e l’amico Astoride, divenuto da poco suo cognato, corsero a rendere partecipi delle notizie appena ricevute i legittimi regnanti di Dorinda, la regina Rindella, la principessa Godesia e la nobildonna Talinda, già ex regina di Actina. Costei, naturalmente, senza dubbio avrebbe appreso con sommo dispiacere la morte del caro fratello Arper, il giovane re di Stiaca. Il quale soltanto da un anno era succeduto sul trono della propria città al genitore, ossia il defunto re Edrio.