421°-LA SCOMPARSA DELLE DIVINITÀ MATARUM E MAINANUN

Oramai era trascorso un intero trimestre, dal giorno in cui la comitiva dorindana era ripartita alla volta di Dorinda, tutti desiderosi di raggiungere al più presto la loro città. I sei Dorindani, che all'inizio avevano deciso di protrarre più a lungo la loro permanenza in Actina, all'ultimo momento ci avevano ripensato, poiché avevano ritenuto più conveniente per loro unirsi al viceré Raco, a sua sorella e alla loro scorta. Essi, però, sarebbero stati loro compagni di viaggio soltanto fino a Casunna, dove si sarebbero anche riposati un giorno intero, prima di riprendere il loro cammino per la loro città nativa. Va fatto anche presente che la principessa Lerinda aveva deciso che non avrebbe approfittato dell'occasione per unirsi dopo al gruppo dorindano per fare ritorno alla reggia del fratello Cotuldo, essendo contraria. Ella era ancora adirata con l'illustre congiunto, a causa dell'atteggiamento da lui assunto a corte sei mesi prima nei confronti del re Francide. Nella quale circostanza, il germano si era pure reso responsabile di una spaventosa carneficina, quella che avrebbe potuto benissimo evitare, se avesse avuto soltanto un pizzico di buonsenso.

Nel frattempo che gli otto invitati alle nozze affrontavano il lungo viaggio, accompagnati dai venti soldati casunnani che erano di scorta al viceré Raco e alla principessa Lerinda, senza andare incontro a nessun tipo d'incidente, nella reggia di Actina le cose erano procedute ogni giorno alla stessa maniera. Il re Francide, oltre che tenersi impegnato nel governo della città e nell'amministrazione della giustizia, si era dedicato alla sua amata Rindella, la quale da poco era diventata la sua amata sposa e la sua degna regina. Com’era da aspettarselo, la regale consorte, ogni volta che il marito aveva avuto il tempo d'intrattenersi insieme con lei, si era adoperata al meglio delle sue possibilità per rendergli la vita dolce e beata. Si era prodigata per lui come non aveva mai potuto fare nel passato. Quanto ad Astoride, egli aveva continuato a svolgere le sue mansioni di comandante della Guardia Reale. Comunque, tutte le volte che gli era stato possibile, il giovane si era fatto addolcire alcune ore della giornata dalla sua cara Godesia. La quale era solita farlo con immenso amore e con la massima dedizione.

Ritornando al presente della nostra storia, diciamo subito che da poco si era cominciato a parlare del matrimonio del Terdibano con la principessa Godesia. Era stata perfino stabilita la data della celebrazione delle loro nozze, le quali ci sarebbero state alla fine dell'anno in corso. Ma siccome si era a primese, il quale corrispondeva al nostro gennaio, poteva ben dirsi che era ancora presto perché l'anno terminasse. Se poi qualche lettore volesse conoscere i nomi dei dodici mesi in uso presso le città dell'Edelcadia, per accrescere la propria cultura attinente agli Edelcadi, ebbene, essi erano: primese (gennaio), secondese (febbraio), terzese (marzo), quartese (aprile), quintese (maggio), sestese (giugno), settimese (luglio), ottavese (agosto), nonese (settembre), decimese (ottobre), undecimese (novembre), duodecimese (dicembre).

Per la cronaca, l'importante evento non era il solo a rendere euforici gli animi della totalità dei cortigiani e a metterli in grande agitazione. Difatti ce n'era anche un altro a tenere occupate le menti di quanti vivevano a corte oppure la frequentavano. Anzi, esso era considerato da tutti più significativo e coinvolgente del primo. L’evento, a cui ci stiamo riferendo, riguardava la novella regina della Città Santa, la quale era incinta di tre mesi. La nascita del futuro rampollo reale, pur non conoscendosi il sesso del nascituro, suscitava in ognuno di loro tantissima gioia ed una trepida attesa. Da parte dei futuri genitori, ci si augurava che il loro primo figlio nascesse maschio. Era previsto che egli sarebbe nato sei mesi dopo, divenendo così il principe ereditario di Actina, al quale già era stato assegnato il nome, ossia quello del nonno Godian.

Nel momento in cui ci siamo ricondotti nella reggia di Actina, allo scopo di aggiornarci sui diversi fatti che vi si stavano svolgendo, la regina Rindella, la nobildonna Talinda e la sacerdotessa Retinia si trovavano a conversare insieme nel patio reale. In quel luogo, dopo una buona mezzora che si erano date a discutere del più e del meno, la giovane sovrana, senza tanti preamboli, si rivolse alla religiosa, dicendole:

«Retinia, la mia amabile suocera ieri l'altro mi ha riferito il modo in cui riuscisti a metterla al corrente dell'esistenza del mio amato Francide. Precisamente, facendoti ispirare dal divino Matarum, ti mettesti sulle sue tracce e lo seguisti dalla sua nascita fino al suo arrivo nella Città Santa. Ma davvero sei capace di ottenere tanto, grazie all'ispirazione della somma divinità dell'Edelcadia? Se la tua risposta dovesse risultare affermativa, vorrei che tu me lo confermassi personalmente, considerato che essa m'interessa molto.»

«Certo che quanto ti ha riferito la mia nobile amica Talinda, mia graziosa sovrana, corrisponde a verità! Ma mi dici perché tale mia prerogativa sta suscitando adesso il tuo interesse?»

«La risposta te la do immediatamente, sacerdotessa Retinia. Vorrei che tu rifacessi la stessa cosa, però questa volta dovresti scavare nella vita di mio fratello Iveonte. Mi riferisco a quella parte del suo tempo, che egli sta trascorrendo oggigiorno lontano da noi.»

«Sei forse in pensiero per lui, mia giovane regina? Già, si vede che lo sei! Invece tu non dovresti affatto esserlo, poiché egli è protetto dalle più potenti divinità dell’universo, come ci ha già dimostrato in passato. Perciò sarebbe un controsenso preoccuparci per tuo fratello e volere apprendere il suo attuale stato di salute!»

«Non hai tutti i torti, degna sacerdotessa del divino Matarum; ma lo stesso desidero sapere se egli ha già superato la difficile prova nell'isola di Tasmina. In caso affermativo, egli starebbe per tornare. Inoltre, verrei anche a conoscenza della data approssimativa del suo ritorno nell'Edelcadia e mi renderei conto del tempo che dovrei ancora attendere, prima di poterlo abbracciare. Non ti pare forse legittimo tale mio desiderio, siccome è quello di una sorella in cerca del fratello, che non ha mai conosciuto, pur avendolo avuto spesso accanto nel recente passato? Io voglio rifarmi del suo affetto, che mi è mancato tantissimo negli anni trascorsi; ma intendo anche concedergli nello stesso tempo il mio affetto, senza risparmiarmi per niente. Adesso comprendi il mio scopo?»

«La mia regale nuora, cara Retinia, ha perfettamente ragione!» approvò la nobildonna Talinda, prima che la sacerdotessa si esprimesse sulle considerazioni fatte dalla dolce consorte del figlio «Perciò datti ad appagare il suo desiderio, facendoti ispirare dall'eccelsa divinità dell'Edelcadia. Sappi che anche a mio figlio Francide e ad Astoride farebbe piacere venire a conoscenza di come se la sta cavando il loro lontano amico. Le notizie sul conto del principe Iveonte riempirebbero di gioia anche i suoi genitori. Essi, da oltre tre mesi, sono ospiti preziosi alla corte di mio figlio e ci stanno facendo la loro gradita compagnia!»

«Io non mi sarei mai permessa di rifiutarmi di accontentare la regina, mia amata Talinda. Per cui non sarà per il tuo intervento a suo favore, se tra poco accoglierò la sua richiesta. Invece sarà la sua regalità a spronarmi a mettermi a sua disposizione. Tra poco, dunque, mi farò ispirare dal dio Matarum ed apprenderò da lui ciò che in tanti nella reggia di Actina sono impazienti di conoscere sul conto dell'insuperabile eroe. Il quale è pure l'eletto delle più potenti divinità benefiche, come ci ha più volte dimostrato!»

Dopo aver fatto tale precisazione alla madre del sovrano, la profetessa si diede ad assumere l'atteggiamento, con il quale era solita mettersi in diretto contatto con la divinità sua ispiratrice. Difatti ella prima protese le braccia in avanti, consentendo ad entrambe la massima ampiezza, e dopo rivolse il capo verso l'alto. Stando in quella posizione, Retinia si diede a supplicare il potente dio con vivo fervore: "Divino Matarum, che ti compiaci d'illuminarmi il sentiero diretto alla verità, svelandomi i suoi reconditi misteri; che hai sempre esaudito ogni preghiera della tua umile serva, deh, manifestami ciò che il principe Iveonte è intento a portare a termine in questo momento che t'imploro. Così mi aiuterai ad intravederlo nel reale presente e mi renderai consapevole dei compiti che continuano a trattenerlo lontano dall'Edelcadia. Dopo ne metterò al corrente tutti coloro che sono interessati a conoscerli, ad iniziare dai suoi parenti più stretti, che sono i genitori e la sorella."

Invitato il dio ad ispirarla, la sacerdotessa prima divenne pallida in volto; dopo iniziò a storcere le labbra, facendo quasi paura alle donne che erano presenti. Infine il suo corpo, contorcendosi, prese a dimenarsi in preda al delirio, intanto che la chioma le si scarmigliava in modo orrifico. Dopo aver terminato la sua trasformazione abituale, non ci fu la fase di rasserenamento che era seguita le altre volte, alla quale seguiva poi l'ispirazione divina. Invece, lasciandosi prendere dalla disperazione, la poveretta si diede a gridare:

«Il dio Matarum non è più tra noi esseri mortali! Si direbbe che egli ci abbia abbandonati, se qualche divinità malefica più potente di lui non lo ha costretto a lasciarci contro la sua volontà! Adesso come faranno i popoli edelcadici a vivere senza più la sua salutare protezione? Poveri noi tutti, che non possiamo più fruire dei suoi numerosi benefici!»

«Ma che dici mai, Retinia?» intervenne a riprenderla la nobildonna Talinda «Possibile che la nostra eccelsa divinità non abbia più dimora nella nostra Actina? Secondo me, ti stai sbagliando di grosso, nell’affermare un paradosso del genere! Fattelo dire, amica mia: sei una sciocca a dire cose simili, riferendoti al divino Matarum! Perciò t'invito a calmarti un poco e ad essere più ragionevole, se non vuoi sparare cose assurde riguardanti il nostro diletto dio, senza che ci siano delle prove certe!»

«Eppure, mia cara amica, quanto ho dichiarato in vostra presenza corrisponde al vero e nessuno mai potrà convincermi del contrario! Se non riesco ad avvertirne la presenza in questa circostanza, è perché egli ha cessato di esistere sia nella nostra città che in tutta l'Edelcadia. Nobildonna Talinda, sappi che, se non mi è dato di conoscere le cause della sua sparizione, sono sicura che essa è dovuta a qualcosa superiore a lui, che lo tiene così in scacco. Addirittura, non gli dà nemmeno modo di esistere e di agire nella nostra regione, come faceva prima. Perciò è mio dovere metterne subito a conoscenza gli altri miei confratelli.»

Una volta che si fu espressa in quel modo alla consorte e alla madre del sovrano di Actina, la sacerdotessa Retinia si congedò da loro in gran fretta ed abbandonò la reggia. Dopo, in groppa al suo cavallo, volò di corsa al tempio, dove si presentò all'amico Dumio, il quale, come si sa, era diventato da poco il Sommo dei Sacerdoti. A lui, intanto che gli si rivolgeva con modi concitati, gli si esprimeva con tali parole:

«Amico mio, ti comunico che una immane calamità sta per abbattersi su noi Edelcadi. Per il momento, non riesco ad individuarne la natura; ma sono convinta che essa può essere soltanto assai terribile!»

«Mi dici che ti ha preso, Retinia? Forse stanotte non sei riuscita a dormire ed hai trascorso la notte in bianco? Oppure hai battuto la testa, per cui adesso ti ritrovi ad affermare cose che non hanno alcun senso?»

«Siamo stati privati della nostra prestigiosa divinità, Dumio! Il divino Matarum non è più tra noi e ciò non è avvenuto per sua libera scelta! Un dio malefico più potente di lui, dopo averlo ridotto all'impotenza, lo tiene in sua balia e non gli permette più di vigilare sul nostro popolo e su quelli delle altre città edelcadiche! Ecco quanto sono venuta a farti conoscere, perché tu ne metta al corrente tutti gli altri nostri confratelli. T'invito a farlo all'istante, amico mio, perché anch’essi lo sappiano!»

«Allora davvero sei fuori di te, Retinia, se vieni a riferirmi corbellerie simili! Anzi, trovo strano il fatto che l'eccelso Matarum non ti abbia ancora fulminata, per le cose che vai asserendo sul suo conto, visto che le trovo irriguardose ed offensive verso di lui! Né può essere altrimenti!»

«Invece, Dumio, trattandosi della pura verità, sono in grado di provarti ogni cosa che ti ho riferita sulla nostra massima divinità. Così dopo smetterai di prendermi per una persona che farnetica!»

«Sul serio, Retinia, potresti dimostrarmi quanto hai affermato sulla nostra eccelsa divinità? Sono proprio curioso di apprendere da te in che modo riuscirai a farlo, convincendomi così anche di ciò che per il momento considero paradossale. Attendo, quindi, la tua dimostrazione!»

«Invece, amico mio, te la darò immediatamente, ricorrendo ad un esperimento, che considero di una semplicità incredibile. Per la precisione, transiterò attraverso l'intero Arco della Sacralità, quello che non ha mai permesso a nessun essere umano di attraversarlo indenne, a parte all'eroico principe Iveonte, l'amico fraterno del nostro sovrano. Questa volta, non essendoci la potenza del divino Matarum a renderlo letale, esso mi permetterà di percorrerlo interamente, senza che io ne venga carbonizzata. Ti garantisco che non ne subirò alcun danno!»

«Sei forse impazzita, Retinia?! Non puoi fare una cosa del genere, poiché essa equivale ad un vero suicidio. Per questo mi opporrò con ogni mezzo a tale tua folle dimostrazione, la quale senz’altro ti costerebbe la vita, se tu forzassi la mano al dio! Sappi che non voglio perdere la mia grande amica, poiché la stimo più di qualsiasi altra persona al mondo!»

«Lo vedremo, Dumio, se sarai capace di fermarmi e di opporti al mio attraversamento dell'arco consacrato al nostro dio Matarum! Perciò adesso stesso vado ad attuare quanto mi sono proposta di fare, essendo certa che non me ne deriverà alcun male mortale!»

Parlato in quel modo, la sacerdotessa Retinia si lanciò all'esterno del tempio, attraverso la porta che conduceva nella sua parte retrostante, dov'era ubicato l'Arco della Sacralità. Comunque, il Sommo dei Sacerdoti non la lasciò andare da sola; ma cercò di correrle dietro con l'intento di arrestarla nella sua rapida corsa e di ostacolarle l'ingresso nel sacro cunicolo semicircolare. Il suo tentativo, però, fu frustrato dalla sua età avanzata, la quale non gli consentì di raggiungerla in tempo, al fine di fermare l'amica e di evitarle di commettere l'insano gesto. Quando l'illustre religioso fu nel patio del tempio, raggiungendo l'ingresso sinistro del sacro arco, la consorella Retinia vi si era già lanciata senza esitazione, scomparendo alla sua vista. Per la qual cosa, dopo averne preso atto, egli si lasciò prendere da un terrore pazzesco, essendo convinto che presto ella sarebbe stata espulsa all'esterno carbonizzata dall'energia bruciante del divino Matarum. Invece, contro ogni sua previsione, nei confronti della sua carissima amica le cose non andarono com'egli aveva temuto. Allora l'evento, almeno inizialmente, lo fece rallegrare in modo tale, da non farlo stare più nei propri panni.

In effetti, cos'era successo in quel luogo? All'improvviso, il Sommo dei Sacerdoti aveva scorto Retinia sbucare dall'ingresso destro dell'Arco della Sacralità. Nel percorrerlo dall'inizio alla fine, ella non aveva riportato neppure la più piccola bruciacchiatura su nessuna parte del corpo. Dopo, una volta venuta fuori dall'arco, ella incominciò a fargli presente:

«Dumio, hai visto che avevo ragione io? Una divinità malefica, con poteri maggiori dei suoi, ci ha privati della nostra somma divinità, la quale non potrà più proteggerci come faceva prima!»

«Incomincio a credere, mia cara consorella, che tu non ti sbagli. Ma se questa è la verità sul nostro dio Matarum, sai dirmi cosa ne sarà di tutti noi, oggi e in avvenire? Ne sono molto accorato, se lo vuoi sapere!»

«Per il momento, amico mio, non so a cosa pensare! Ti suggerisco solamente di radunare gli altri sacerdoti e di metterli al corrente di ciò che ci è capitato. Invece io mi precipiterò a corte ed informerò il nostro sovrano del terribile avvenimento calamitoso in atto.»

Qualche ora più tardi, mentre il Sommo dei Sacerdoti badò a riunire il concistoro dei sacerdoti per metterli a conoscenza dell'inconcepibile disgrazia piovuta sull'Edelcadia, la sacerdotessa Retinia si trovava già a corte in compagnia del re Francide, di sua madre e della regina Rindella. Anzi, aveva già recato a tali persone la cattiva notizia, la quale era stata suffragata dal suo attraversamento dell'Arco della Sacralità senza subirne alcun danno. Per cui il giovane sovrano di Actina, che non appariva preoccupato a causa dell’evento, essendo desideroso di approfondirlo, le stava chiedendo:

«Dal momento che i tuoi sospetti sono risultati fondati, reverenda sacerdotessa, adesso vuoi pure farci presente cosa dobbiamo attenderci di brutto da un fatto del genere? Io non riesco a farmene alcuna idea; né so formulare qualche pronostico in merito! Ma poi sei sicura che dobbiamo preoccuparcene sul serio, come affermi? Io non sono per niente convinto che nel futuro ci capiteranno le disgrazie da te paventate!»

«A mio avviso, nobile sovrano, all’opposto di ciò che hai affermato, ci attendono tempi difficili, poiché alcune potenti divinità malefiche s'impadroniranno della nostra regione edelcadica e si adopereranno, affinché quelli che l'abitano vadano incontro a sventure a non finire. Esse c'invieranno quelle più terribili, con il solo sadico gusto di divertirsi a nostre spese, siccome ci ritengono esseri inferiori, senza che da parte nostra possiamo opporci e ribellarci ai loro perversi divertimenti! Re Francide, non avresti qualche idea circa le potenti divinità malefiche che, dopo avere avuto la meglio sul nostro divino Matarum, presto pretenderanno da noi le cose più assurde ed ignobili?»

«Come potrei averne qualcuna, amica fedele di mia madre? Probabilmente mio cognato Iveonte avrebbe saputo risponderti a tale riguardo, grazie ai suoi rapporti con una dea, la quale è figlia e nipote delle due divinità più potenti dell'universo. Ma egli, essendo lontano da noi un'infinità di miglia, non può aiutarci in merito. Magari sarà in grado di farlo, quando ritornerà dal suo viaggio. Il quale, secondo i mieri calcoli approssimativi, dovrebbe essere quasi al termine.»

Alla risposta del suo sovrano, che non l'aveva soddisfatta neppure un poco, Retinia prese congedo dalle tre illustri persone, avendo deciso di raggiungere l'amico Dumio. Da lui voleva apprendere qual era stata la reazione degli altri confratelli del tempio, dopo averli ragguagliati sulle inverosimili circostanze che concernevano la loro eccelsa divinità.


Avvenuta la scoperta della sacerdotessa di Matarum, la quale si era accorta che il suo dio ispiratore era stato fatto sparire dalla circolazione da qualche divinità malefica più potente di lui, ci viene spontaneo accertarci se l'uguale trattamento era stato destinato anche all'altra divinità benefica maggiore da noi conosciuta, che era il dio Mainanun. Il quale era adorato dal popolo dei Berieski con la medesima intensità di fede, che gli Edelcadi riservavano al loro dio Matarum. Così, una volta che ci saremo sincerati di un fatto del genere, potremo comprendere meglio quanto stava accadendo simultaneamente nell'Edelcadia e nella Berieskania, in relazione alle due divinità adorate dai rispettivi popoli.

Per l'esattezza, apprenderemo se, da parte delle divine entità negative, si stava portando avanti un vero complotto segreto contro le divinità benefiche residenti tanto nelle due regioni suindicate quanto in altre parti situate in un'area geografica più vasta, le quali erano ancora da individuarsi. Prima, però, occorre venire a conoscenza del luogo, che i Berieski avevano consacrato alla loro somma divinità, nel quale essa rivelava la sua presenza con qualche segno tangibile. Per cui il medesimo risultava anche il loro santuario di culto e di preghiere, oltre che meta di pellegrinaggio, da parte delle quattro tribù appartenenti alla Berieskania. In verità, siamo obbligati a farlo, anche perché in passato non abbiamo avuto modo di approfondire tale aspetto relativo al popolo beriesko, benché la cosa possa apparirci davvero incomprensibile.

Il luogo di venerazione dedicato al dio Mainanun si trovava nella regione della Sandar, esattamente ad una decina di miglia da Geput, il quale era il borgo di residenza del superum della Berieskania. Esso era costituito da un antro molto ampio e profondo. Nel suo interno, una ventina di fiaccole, sporgendo dalle scarne pareti in posizioni ben studiate, lo tenevano totalmente illuminato giorno e notte. Nella sua parte centrale, era situato l'altare, sopra il quale, alla fine di ogni decade del mese, i Berieski sacrificavano alla loro divinità un agnello ed una giovenca. Con tale sacrificio, essi intendevano propiziarsela e riceverne sia la protezione sia alcuni benefici concreti proporzionati alla loro fede. Nella parte retrostante all'ara, posto centralmente e ad un metro di distanza da essa, si levava da terra per circa due metri un cippo roccioso, il cui diametro non superava i cinquanta centimetri. Il tronco di roccia sosteneva un recipiente emisferico di terracotta, il cui raggio era di un metro e mezzo. In esso fiammeggiava e si agitava in continuazione una gigantesca lingua di fuoco. La quale, secondo i Berieski, manifestava i diversi stati d'animo del loro dio Mainanun. Si era convinti, infatti, che la rossastra fiamma veniva nutrita direttamente dalla divinità. Per cui si era portati a credere che essa si presentasse flessuosa, quando voleva evidenziare la serenità e la soddisfazione del loro dio. Al contrario, la medesima appariva convulsa e frammista a strie azzurrognole, quando egli intendeva trasmettere la sua ira al popolo da lui protetto, per esserne stato offeso in qualche maniera.

Dal momento che ci pensava direttamente il divino Mainanun ad alimentare la fiamma nella propria dimora, undici sacerdotesse si prendevano invece cura delle altre cose, tra le quali la sostituzione delle fiaccole consunte. Le religiose erano chiamate mainanunesse, la più anziana delle quali aveva il ruolo di Somma Sacerdotessa. A lei spettava officiare i vari riti e sacrifici, che venivano celebrati nell'antro. Comunque, ella era coadiuvata dalle altre consorelle, le quali indossavano pepli celesti ed ondeggianti. Costoro, cinque per parte, si disponevano ai due lati dell'altare. Stando in quel posto, in onore del divino Mainanun, esse si davano con grazia a dei volteggi stupendi, come se volessero imitare i continui movimenti vorticosi ai quali si dava la divina fiamma.

Dopo aver chiarito questi particolari, i quali hanno riguardato la somma divinità del popolo dei Berieski, adesso possiamo condurci nella Berieskania ed eseguirvi il controllo che ci siamo proposti di effettuare. Così ci accerteremo se anche all'eccelsa divinità della regione era toccato il destino, a cui era andato incontro il dio dei popoli edelcadici.

Ebbene, un mese prima, quando l'alba aveva iniziato a spuntare, la Somma Sacerdotessa Elsena si era svegliata e, com'era solita fare, si era condotta alla dimora del divino Mainanun. Ma una volta entrata nell'antro del dio, ella era rimasta tremendamente sorpresa nel constatare che non vi era più accesa la sua gagliarda fiamma. Essa, fino al giorno prima, mostrandosi a volte flessuosa ed altre volte convulsa, vi stava a significare la presenza della divinità da loro adorata. Allora, senza perdere tempo, ella ne era uscita sconvolta e terrorizzata. Poco dopo, montata a cavallo, la religiosa si era diretta verso il borgo di Geput, essendo sua intenzione mettere al corrente del terribile evento l'illustre Nurdok, che era il superum della Berieskania. Giunta in presenza dell'autorevole cugino, la poveretta, nel frattempo che si dava ad urla strazianti, non smetteva di asserirgli:

«O nostro eroico capo supremo, questo è un giorno d'inconsolabile dolore per il popolo beriesko! Il divino Mainanun ci ha abbandonati e il suo abbandono sta a significare per tutti noi che ci attendono le più disastrose calamità. Da parte mia, non so additare la via che possa permetterci d'ingraziarci il nostro dio, facendolo tornare sui propri passi. La qual cosa deve farci temere che siamo in un vero mare di guai!»

«La smetti, Elsena, di mostrarti con un animo così esagitato? Mi chiarisci anche come fai ad affermare che il nostro dio ci ha lasciati? Per favore, cerca di calmarti un poco e di spiegarti meglio!»

«Stamattina, glorioso Nurdok, quando mi sono condotta nella dimora del divino Mainanun, ho constatato che il suo sacro fuoco risultava spento. Per cui non c'era più ad agitarsi in essa neppure la fiamma del suo spirito, quella che per noi ha rappresentato da sempre l'espressione della sua volontà, oltre che la nostra guida sicura! Adesso riesci finalmente a comprendere la mia disperazione e la mia preoccupazione, le quali sono entrambe grandissime ed impotenti a venir meno?»

«Chi ti garantisce, devota e ligia sacerdotessa, che la sparizione della fiamma è dovuta al fatto che il nostro dio ci ha abbandonati? Sei certa di non sbagliarti? A mio avviso, la fiamma è venuta meno perché il fuoco si è spento lì dove doveva bruciare. Dunque, ti dico che è errato credere che un fatto del genere sia la conseguenza diretta dell'allontanamento del dio Mainanun dalla sua dimora, per aver deciso di lasciarci in balìa di noi stessi! Per cui non hai motivo di allarmarti, come adesso stai facendo da persona delirante, senza avere la certezza assoluta di quanto asserisci in preda al tuo esagerato nervosismo.»

«Al contrario, saggio Nurdok, sono convinta di stare nel giusto. La qual cosa mi spinge anche a pensare che per il nostro popolo si avvicinino tempi assai duri e travagliati. Per cui essi difficilmente ci faranno ancora assaporare la serenità attuale, come lo è stato fino ad oggi!»

«Io non la penso come te, mia parente Elsena, per cui continuo a ritenere che la nostra divinità non ci abbia abbandonati per nulla. Ad ogni modo, se ciò davvero fosse avvenuto, non mi preoccuperei più di tanto. A tale riguardo, ho le mie buone ragioni a pensarla in questo modo. Se ci tieni a saperlo, io le considero piuttosto valide!»

«Dal momento che non riesco ad immaginarle in nessuna maniera, mio superum, mi dici quali sarebbero queste tue giustificate ragioni, le quali non ti farebbero preoccupare neppure un poco, nel caso che il nostro divino Mainanun ci avesse abbandonati?»

«Al posto dello scomparso nostro dio, Somma Sacerdotessa, ci penserebbe mio nipote Iveonte, il figlio della mia ultimogenita Elinnia, a difenderci. Egli ci toglierebbe dai guai, nel caso che ce ne provenissero da qualche divinità malefica. Adesso comprendi da dove deriva il mio totale disinteresse verso un probabile abbandono del nostro popolo dal suo dio? Oppure metti in dubbio il fatto che il mio eccezionale nipote potrebbe fare più della nostra divinità, qualora qualche dio negativo osasse prenderci di mira per portare a termine i suoi iniqui disegni?»

«Mica sono così folle, da credere a quanto mi stai affermando, stimatissimo Nurdok! Come puoi paragonare un essere umano, qual è tuo nipote Iveonte, al nostro potente dio Mainanun, giungendo perfino a stimarlo superiore a lui? La tua asserzione, la quale si mostra irrispettosa verso il nostro dio, mi spinge a considerarti un vero sacrilego!»

«Invece, devotissima Elsena, non sto affatto mancando di rispetto alla nostra divinità nell'esprimermi nel modo che sai, poiché la stima dimostrata verso mio nipote non deve condurti ad una conclusione di questo tipo. La quale è quanto mai errata, se lo vuoi sapere! Mainanun, come per tutti i Berieski, rappresenta per me il dio degno della massima considerazione; ma ultimamente sono venuto a sapere da mio nipote che nel mondo esistono divinità sia benefiche che malefiche molto superiori a lui. Per fortuna il primogenito di mia figlia è protetto da due divinità positive, le quali possono considerarsi le più potenti esistenti nell'universo. Grazie alla loro protezione, egli è in grado di affrontare e sconfiggere le massime divinità malefiche. Ciò ti deve far intendere e giustificare il linguaggio da me adoperato un attimo fa, quando mi sono riferito al nostro dio Mainanun e a mio nipote Iveonte. Allora, cugina mia cara, ora riesci a comprendermi?»

«Se devo esserti sincera, suprema autorità dei Berieski, non sono riuscita a capire un bel niente di quanto hai voluto espormi poco fa con l'intento di farmi entrare nella testa delle cose, che mi sono risultate assurde ed incredibili. Anzi, ho soltanto riscontrato che le nostre tesi sono abbastanza divergenti; perciò non mi resta che prendere congedo da te e ritornarmene alla ex dimora del divino Mainanun. Ti annuncio che in quel luogo intendo risolvere la questione a modo mio, pur d'invogliare il nostro dio protettore a ripensarci e a far ritorno presso il suo popolo prediletto, che lo adora. Vedrai che ci riuscirò!»

Dopo quelle parole della religiosa, Nurdok non aveva osato più replicare alla sua controparte; ma l'aveva lasciata andare senza approfondire le ultime parole da lei pronunciate con un fare poco eloquente. Anzi, dopo che ella si era congedata, egli aveva ritenuto che non valesse la pena soffermarsi sulla notizia che gli aveva recata la cugina Elsena ed impensierirsene, per i seguenti motivi: 1) essa era priva di fondamento; 2) nel caso contrario, lo stesso non bisognava prendersela, fidando nelle eccezionali prerogative del nipote, le quali risultavano un dono delle potenti divinità sue protettrici.

Quando la Somma Sacerdotessa era ritornata con grande premura al sacro antro, vi aveva trovato le dieci sacerdotesse sue subalterne, le quali non smettevano di disperarsi e di piangere. Esse avevano cominciato a farlo, dopo che anche loro si erano accorte dello spegnimento avvenuto in quel luogo della divina fiamma. Ma non appena erano state raggiunte dalla loro eminente superiora, si erano radunate intorno a lei, chiedendole con insistenza quale fosse stato il motivo che aveva spinto la loro divinità ad abbandonare i Berieski. Allora l'autorevole religiosa si era espressa alle altre sue consorelle in questa maniera:

«Ignoro le ragioni che hanno indotto il divino Mainanun a lasciare la sua dimora. Comunque, se lo avesse fatto a causa di qualche nostra prevaricazione, vi garantisco che lo convincerò a ripensarci. In questo modo, porrò rimedio alla disgrazia che ci ha voluti colpire all’improvviso. Tra poco ve lo dimostrerò, mie amabili consorelle!»

«Vuoi dirci, nostra superiora,» una delle sacerdotesse le aveva domandato alquanto incredula «con quale sortilegio riuscirai a fare riaccendere in quest’antro la divina fiamma, la cui presenza ci confermerà che il dio Mainanun è ritornato a vigilare su di noi? Saremmo liete di apprenderlo in anticipo, se a te non dispiacesse!»

«Invece non ve lo dico, mie carissime consorelle; però ve lo dimostrerò, dopo che avrete approntato una grande pira alta tre metri ed avrete dato fuoco alla catasta di legno. Perciò mettetevi subito all'opera, se volete assistere alla mia dimostrazione!»

Una volta che il rogo aveva preso a bruciare da tutti i lati, Elsena aveva invitato le sue subalterne a volgere le spalle ad esso per tre minuti e pregare il dio. Intanto che le sacerdotesse facevano quanto da lei suggerito, ella aveva scalato l'accatastata legna bruciante. Standovi poi sopra, aveva iniziato a gridare alle poverette inorridite:

«Ecco, mie devote consorelle, come intendo indurre il nostro divino Mainanun a rifarsi vivo tra di noi. Dopo il mio sacrificio, egli non potrà rifiutarsi di accettare la mia vita in cambio di un suo ripensamento, se avesse deciso di abbandonarci, per essere stato da noi offeso, senza che ce ne fossimo accorti. Così assisterete all'accensione nella sua dimora della sacra fiamma, come segno tangibile del suo ritorno fra di noi!»

A quel punto, le lingue di fuoco avevano avvolto completamente l'insigne religiosa, disfacendo e consumando il suo corpo, nonché privandolo dell'essenza vitale e della parola. Allora le terrorizzate sacerdotesse ne avevano pianto la morte, tra il dolore e la disperazione. Infine, quando anche l'ultima favilla del rogo si era spenta, esse erano rientrate nella dimora del divino Mainanun, ansiose di vedervi ritornare la sua sacra fiamma. Quel miracolo, però, non era stato visto compiersi nell'antro; né si era ancora avverato, ad un mese esatto di distanza dall'immolazione della loro superiora.