420-FRANCIDE E RINDELLA CONVOLANO A GIUSTE NOZZE
Oramai l'esigua comitiva proveniente da Dorinda era in procinto di raggiungere le porte di Casunna, senza avere incontrato lungo il loro faticoso cammino né ostacoli né pericoli di sorta, i quali avrebbero potuto rallentarlo ulteriormente. Perciò esso, fino a quel momento, si era svolto all'insegna della stanchezza, che si era fatta sentire in particolar modo da Madissa e da Lucebio, essendo entrambi le sole persone anziane del gruppo. Inoltre, dal luogo in cui essi si trovavano, mancava ancora una giornata di viaggio per raggiungere la città governata dal viceré Raco, il fratello buono della principessa Lerinda. Per questo ciascuno di loro bramava di raggiungerla al più presto possibile, per trovarvi un po' di riposo e per distrarsi in essa almeno per un giorno intero. In quel modo tutti i viaggiatori si sarebbero rifatti della loro lunga fatica e dell'insopportabile noia, patite entrambe nei giorni trascorsi.
Avvenuto il loro ingresso in Casunna, Lucebio non aveva visto l'ora di presentarsi alla corte del viceré Raco, soprattutto per fare riposare la sua stanca donna. Egli era a conoscenza che in quei giorni vi si trovava pure la principessa Lerinda, per averlo appreso a Dorinda da Croscione. Costui lo aveva pure informato che la ragazza di Iveonte e il suo germano casunnano prima si erano indignati e poi avevano lasciato la reggia, dopo che il loro fratello re aveva assunto un comportamento disonorevole nei confronti del re Francide. In verità, anche Madissa stava bramando il suo incontro con la principessa Lerinda, avendo avuto già altre occasioni di conversare con lei, trovandola molto gentile ed affabile. Ma in seguito il suo uomo aveva mostrato qualche riserva, circa la loro decisione di presentarsi alla reggia di Casunna, non essendo ancora sicuro della reazione che ci sarebbe stata da parte dell'illustre suo fratello. A suo parere, se da una parte potevano esserci dei vantaggi nel presentarsi ai due illustri germani; dall'altra, invece, non era facile convincersi al cento per cento che tutto sarebbe andato liscio. Egli, non avendo mai conosciuto personalmente il viceré Raco, si mostrava alieno dal fidarsi di lui, dopo la carneficina operata dal re Francide presso la corte del re Cotuldo, con l'intento di liberare la sua Rindella.
Lucebio aveva già stabilito di non presentarsi a corte, evitando di farsi ospitare dal viceré della città; ma poi Urimmo, essendosi rammentato dell'intera ambasciata del suo sovrano, gli aveva chiarito:
«Illustre Lucebio, secondo il volere del re Francide, siamo obbligati a fare visita al viceré Raco e a sua sorella, la principessa Lerinda, poiché dobbiamo invitarli alle loro nozze. Perciò, non avendolo fatto prima, noi abbiamo l'obbligo di incontrarli e di recapitargli le partecipazioni di nozze da parte del mio nobile sovrano e della principessa Rindella.»
Allora la notizia del gendarme actinese aveva convinto Lucebio che la visita andava fatta obbligatoriamente e non si poteva evitarla.
Nella tarda mattinata del nuovo giorno, il quale si presentava anch'esso molto sereno, i Dorindani e gli Actinesi percorrevano le varie vie di Casunna per raggiungere la reggia. Strada facendo, essi erano pervenuti in uno spiazzo, nel quale tre loschi individui erano dediti a malmenare senza alcuna pietà un povero vecchio, assestandogli botte da orbi. Il poveretto, non essendo in grado di reagire alla loro brutale prepotenza, non smetteva di darsi al suo pianto lamentoso. Con esso, invano egli cercava di commuovere quanti si trovavano a passare da quelle parti, allo scopo di farsi aiutare da loro. Così, essendosi trovati ad assistere a quello spettacolo da voltastomaco, Zipro e Polen si erano sentiti in dovere di farlo cessare, costringendo i tre balordi malfattori a smetterla nell'inveire in quel modo feroce contro il misero vecchio. Perciò, scesi da cavallo, si erano avvicinati ai tre picchiatori del malcapitato e li avevano invitati a lasciare in pace la loro vittima. Essi, di contro, avevano risposto picche; anzi, dopo aver sguainato loro le spade, si erano mostrati pronti a punire con severità i loro disturbatori. I due giovani Dorindani, però, non li avevano lasciati fare. Reagendo tempestivamente, li avevano infilzati senza pietà, lasciandoli così morti stecchiti sul selciato. Da parte sua, lo sventurato uomo, dopo essere stato liberato dai suoi tre torturatori, i quali soltanto da morti avevano smesso di percuoterlo con pugni, si era dato a ringraziare i due giovani che lo avevano soccorso.
Alcuni attimi dopo, però, mentre Zipro e Polen stavano salendo sulla groppa dei loro cavalli, era sopraggiunto in quel luogo un plotone di soldati a cavallo. I quali non avevano perduto tempo a circondare la piccola comitiva dorindana, avendo scorto per terra i cadaveri dei tre giovani uccisi dai due amici per una giusta causa. Allora chi li comandava aveva preteso dai presenti di dimostrare la loro estraneità ai tre assassini ancora caldi, essendo stati commessi da poco. A quella loro richiesta, era intervenuto Lucebio a spiegargli come si erano svolti i fatti. Ma Bullen, che era il comandante dei gendarmi, avendo appreso che essi non erano residenti di Casunna, si era rifiutato di credere ad ogni parola del suo interlocutore, per cui li aveva fatti arrestare e tradurli nelle carceri. In verità, a quell'ordine scellerato del graduato di Casunna, Solcio, Zipro, Polen e Liciut avrebbero voluto reagire; ma Lucebio gli aveva consigliato di evitare di rendere le cose ancora più complicate, in quanto essi avrebbero potuto contare sulla principessa Lerinda. Ella, secondo il saggio uomo, intervenendo a loro difesa, avrebbe spinto il fratello viceré a giudicarli imparzialmente e a rendere loro giustizia.
Tradotti all'interno del reparto carcerario, Lucebio, prima che Bullen lasciasse quel luogo, gli aveva chiesto di essere ascoltato, poiché aveva da fargli delle importanti comunicazioni. Poi, una volta a quattr'occhi con lui, gli aveva fatto presente:
«Comandante, qui si sta commettendo un grosso errore nei nostri confronti. Lo sai perché? Il viceré Raco è un nostro amico; anzi, stavamo proprio andando a fargli visita. Inoltre, dopo dovremo dirigerci ad Actina, essendo stati invitati al suo matrimonio dal re di quella città. Sei libero di non crederci; ma non ti costa niente accertarti se dico la verità oppure no. Pensa un poco come reagirebbe il viceré, se venisse a sapere che tu non hai voluto darmi retta ed hai trattenuto in prigione alcuni suoi amici, senza aver dato loro ascolto! Quindi, ti prego di darmi retta anche per il tuo bene poiché faresti l'unica cosa giusta da farsi!»
«Ebbene, voglio credere a quanto stai dicendo, Dorindano,» Bullen gli aveva risposto «dal momento che mi appari una persona molto degna di rispetto, sia dal tuo contegno che da come riesci ad esprimerti. Ma quando gli parlerò di te e degli altri della tua comitiva, quale nome dovrò riferire al mio superiore Merion, il quale, essendo suo consigliere militare, è a diretto contatto con il viceré Raco? Sto aspettando, signore!»
«Bullen, il mio nome è Lucebio. Preferirei però che esso venisse fatto alla principessa Lerinda, la quale è giunta da poco da Dorinda e si trova adesso ospite presso l'eccellentissimo suo germano. Ella di sicuro mi conosce, nel caso dovessi risultare un autentico sconosciuto al tuo superiore! Fagli pure il nome della mia Madissa, che conosce benissimo la principessa Lerinda! Adesso ti pregherei di affrettarti in tale compito.»
«Terrò in mente pure questo, Lucebio: stai tranquillo! Adesso corro subito ad informare Merion di voi, affinché egli vada a riferirlo al viceré Raco e alla principessa sua sorella.»
Più tardi, nel frattempo che gli ostaggi dorindani trascorrevano il loro tempo nelle carceri, Bullen, insieme con i suoi uomini, aveva raggiunto la reggia, dove per caso aveva incontrato Merion, il consigliere militare del viceré. Allora, dopo averlo avvicinato, gli aveva raccontato ciò che gli era capitato in città qualche ora prima. Inoltre, lo aveva messo a conoscenza di quanto gli aveva dichiarato Lucebio presso il reparto carcerario, descrivendo il suo interlocutore dorindano come una persona acculturata di indubbia saggezza. Da parte sua, l'alto ufficiale, il quale in quell'istante si stava conducendo proprio dal viceré Raco, aveva promesso al suo subalterno che se ne sarebbe occupato volentieri. Così avrebbe fatto luce su quello che appariva uno spiacevole caso a danno dei Dorindani e degli Actinesi. Qualora poi fosse stata appurata la veridicità delle parole dell'anziano Dorindano, avrebbe subito fatto ordinare la loro immediata scarcerazione.
Poco dopo, Merion si era presentato al suo viceré. Egli in quel momento si intratteneva con la sorella Lerinda nel patio della reggia. Il nobile Raco lo stava aspettando per conoscere l'esito dell'incarico che gli aveva affidato in mattinata. Ma dopo averglielo trasmesso in modo così circostanziato da meritarsi il suo elogio, il consigliere, cambiando discorso, aveva voluto anche fargli presente:
«Mio illustre viceré, mentre venivo da te, il comandante Bullen mi ha messo al corrente di alcuni fatti. Essi, in un certo senso, hanno teso a coinvolgere, oltre che la tua persona, in modo particolare la principessa tua sorella, la quale è qui presente. Per questo, da parte vostra, sarebbe necessario venirne a conoscenza e giudicarli nella maniera giusta. Così mi si permetterà di agire di conseguenza verso coloro che si sono dichiarati vostri amici e che si trovano incarcerati senza alcuna colpa.»
«Allora, Merion, sbrìgati a riferirci su tali fatti, i quali, da quanto abbiamo appena udito, riguardano in prima persona noi due. Solamente dopo io e mia sorella Lerinda sapremo come valutarli e darti la nostra risposta in merito, perché tu possa prendere nei loro confronti il provvedimento che riterremo più equo per loro.»
«In mattinata, eccellentissimo Raco, è giunto nella nostra città un gruppo di persone provenienti da Dorinda. Esso risulta composto da una coppia di anziani, che potrebbero essere marito e moglie, e da sette loro accompagnatori, dei quali quattro giovani dorindani e tre soldati actinesi. Stando alla loro versione dei fatti, essi, mentre si conducevano alla reggia per venire a farvi visita, si sono imbattuti in tre ribaldi nostri concittadini, i quali stavano usando violenza ad un povero vecchio, anch'egli cittadino casunnano. Allora due dei giovani dorindani sono scesi da cavallo ed hanno invitato i molestatori del vecchio a non continuare nella loro azione ignobile. Invece essi, per tutta risposta, hanno messo mano alle spade per farli pentire della loro intromissione non gradita, costringendo i due Dorindani a fare lo stesso. Alla fine, in seguito al combattimento che c'è stato, i tre Casunnani sono rimasti uccisi. Perciò la loro sarebbe chiaramente legittima difesa!»
«Se i fatti sono andati come me li hai descritti, Merion, mi dici con quale accusa i nove forestieri sono stati prima arrestati dai miei soldati e poi tradotti nelle carceri? Vorrei proprio saperlo! Anzi, essi dovevano essere premiati per il loro nobile gesto a favore del vecchio!»
«In verità, illustre Raco, l'ordine è partito dal mio subalterno Bullen. Il quale, dopo essersi trovato sul posto giusto in quel momento, non ha voluto credere neppure ad una parola a quando l'anziano della comitiva gli aveva riportato sull'accaduto. A suo parere, saresti stato poi tu a giudicarli secondo giustizia, visto che questa è la prassi. Anche secondo il mio giudizio, egli ha agito, rispettando la legge alla lettera.»
«Certo che è come tu dici, Merion! Ma non mi sono ancora reso conto perché ne sono stato informato anzitempo, senza attendere la data del processo. Non ti sembra che in questo caso si è seguito un procedimento per niente ortodosso? C'è forse dell'altro che dovrei ancora sapere in merito a quanto è successo? Se sì, sbrìgati a farmelo presente!»
«Ovviamente, nobile viceré! È stato lo stesso Bullen a darmi la notizia, invitandomi a trasmetterla a te e alla tua nobile sorella, la principessa Lerinda, appunto come l'anziano Dorindano lo ha pregato di fare nel reparto carcerario. Adesso comprendi perché ne sei stato informato, prima che tu li giudicassi con un formale processo? E poi non ti avevo già detto che i Dorindani hanno dichiarato di essere vostri amici?»
«Sì, questo è vero, Merion. Allora ne varrà la pena apprendere il contenuto della notizia di Bullen, visto che non si tratterà di qualcosa campato in aria! Perciò mettici subito al corrente di ogni cosa, siccome comincio a credere che esso ci interesserà senz'altro.»
«A suo avviso, illustre viceré, prima che egli lasciasse le carceri, l'anziano uomo gli ha riferito che essi sono vostri amici e che la loro meta finale è Actina, essendo stati invitati dal sovrano di quella città al suo matrimonio. Infatti, i tre soldati actinesi sono messaggeri del re Francide, il quale ha voluto che lui e la sua donna fossero presenti alla cerimonia nuziale. Per cui adesso sia il sovrano sia la sua futura regina li stanno aspettando per dare inizio allo sposalizio e ai solenni festeggiamenti. Inoltre, essi sono diretti alla reggia per farti visita e per recapitare anche a te e a tua sorella il medesimo invito.»
«Merion, l'uomo ha riferito il suo nome al tuo subalterno Bullen?»
«Certo che lo ha fatto, illustre Raco! Ma esso, secondo lo stesso Dorindano, può risultare noto solo alla principessa Lerinda, considerato che non ha mai avuto a che fare con te.»
«Hai sentito, Lerinda? Allora ti sei già fatta una idea di questo Dorindano che dovresti conoscere bene più di me. Sentiamo cos'hai da dirmi in merito a lui, sorella!»
«Come potrei non avermela fatta, fratello! Se sono stati invitati dal sovrano di Actina al suo matrimonio, le due persone anziane di Dorinda possono essere unicamente Lucebio e la sua donna Madissa, la quale è stata la tutrice della principessa Rindella, avendola allevata da piccola. Quanto all'uomo, che è un pozzo di scienza, egli è da considerarsi il padre spirituale sia del mio Iveonte che del re Francide. Quindi, Raco, subito devi fare scarcerare tutti i componenti la comitiva dorindana ed ospitarli nella tua reggia. Inoltre, come hai sentito, essi ci recano anche l'invito degli sposi di Actina al loro matrimonio!»
Alla richiesta della sorella, il viceré Raco, annuendo alle sue parole e compiacendosene, si era rivolto al suo consigliere, chiedendogli:
«Allora, Merion, puoi confermarmi che il nome dell'uomo Dorindano e quello della sua donna sono quelli che sono usciti dalla bocca di mia sorella? Da parte mia, ne sono sicuro!»
«Infatti, mio nobile viceré! Essi sono Lucebio e Madissa!»
«Se è così, Merion, non perdere più altro tempo e corri subito a fare scarcerare il gruppo dei Dorindani, compresi i tre Actinesi, e conducimeli qui a corte. È mia intenzione riceverli come miei ospiti graditi, essendo il volere di mia sorella! Mi hai sentito?»
Era stato così che la comitiva dorindana era stata prima fatta uscire di prigione e poi condotta nella reggia, dove era stata ricevuta con tutti i riguardi. Ma era stato permesso solo a Lucebio e a Madissa di incontrarsi con il viceré Raco e con la sorella Lerinda, che ne erano stati felicissimi. Così, dopo essersi ritrovati tutti nell'incantevole patio della reggia casunnana ed avere assolto i vari convenevoli di presentazione, la principessa Lerinda si era data a fare varie domande ai due ospiti amici.
«Per favore, mi mettete al corrente di ogni cosa, che concerne il matrimonio del re Francide e della principessa Rindella? Non sapete quanto vi invidio! Vorrei essere presente anch'io alla cerimonia nuziale, la quale vede come sposi la mia amica Rindella e l'amico fraterno del mio Iveonte! Essi formano davvero una bellissima coppia!»
Quando infine la principessa Lerinda aveva appreso tutto di tutto sul loro matrimonio, parte da Lucebio e parte da Madissa, non aveva potuto fare a meno di commuoversi. Mostrando poi degli occhi lucidi per l'emozione, si era data ad esclamare:
«Magari potessi unirmi al vostro gruppo, Lucebio e Madissa, e raggiungere Actina insieme con voi! In tal modo, potrei presenziare il matrimonio dei miei due amici nel tempio del dio Matarum! Che gioia immensa sarebbe per me essere presente lì! Anche perché il re Francide e la principessa Rindella, tramite il loro ufficiale Urimmo, gentilmente hanno invitato anche me e mio fratello alle loro nozze. Se noi due accettassimo, li faremmo immensamente contenti. Inoltre, io sono la cognata della mia amica Rindella, dopo che è stato assicurato a Francide che l'amico Iveonte è suo fratello!»
Nel sentire la sorella esprimersi con un tono quasi lamentevole, palesando in pari tempo il vagheggiamento di un sogno che avrebbe voluto realizzare da tempo, il fratello Raco, pur di non vederla triste, era intervenuto a parlarle in questo modo:
«Mi chiarisci, Lerinda, cos'è che te lo vieta? Se proprio ci tieni a seguire da vicino le nozze del re Francide e della principessa Rindella, ebbene, sarai accontentata! Anzi, ci andremo insieme nella Città Santa e porteremo agli sposi un regalo degno di loro. A condizione, però, che dopo non verrà a saperlo nostro fratello Cotuldo! Puoi immaginare anche tu cosa succederebbe, se egli ne venisse a conoscenza da qualcuno!»
La principessa Lerinda era stata lietissima della decisione presa dal germano e lo aveva ringraziato con un caldo abbraccio e con un bacio sulla guancia. A quella stupefacente notizia, il suo stato emotivo si era presentato colmo di giubilo, commuovendo perfino Lucebio e Madissa. Entrambi, a causa del generoso gesto del fratello, si erano rallegrati per lei in modo indicibile.
Così il giorno dopo la comitiva dorindana, preceduta dalla principessa Lerinda e dal viceré Raco, il quale era scortato da venti suoi soldati, si era messa in cammino in direzione della Città Santa. Questa volta essi erano equipaggiati di tutto quanto era loro necessario, per cui il viaggio non aveva sofferto, di tanto in tanto, di qualche stento, come era avvenuto lungo il precedente percorso che da Dorinda li aveva condotti nella città di Casunna. Comunque, prima di giungere ad Actina, i nostri viaggiatori, per volere del viceré Raco, si era effettuata un'altra sosta a Cirza, dove erano stati ospitati dal sovrano di quella città. Egli conosceva bene il fratello della principessa Lerinda, essendogli stato presentato anni addietro dal re Cotuldo. Ma dopo la permanenza di un giorno avvenuta anche nella città del re Luvius, si era ripartiti alla volta di Actina, riforniti di tutte le vettovaglie che sarebbero servite durante il viaggio.
A proposito della visita fatta dal fratello di Lerinda al sovrano di Cirza, c'era stato pure un colloquio tra le due vecchie conoscenze. Il quale, per forza di cose, ad un certo momento, aveva riguardato il re Francide. Precisamente, si era parlato di lui, in merito al suo matrimonio e al suo attraversamento del territorio cirzese. Ma cerchiamo di seguire il loro discorso a due dall'inizio, ossia da quando esso c'era stato nella reggia di Cirza tra le due insigni autorità. Il re Luvius, aprendolo, aveva chiesto al suo ospite:
«Mi dici, Raco, quale buon vento ti ha portato nella mia città e in mia presenza?»
«In verità, Luvius, siamo solo di passaggio nella tua città, poiché siamo diretti ad Actina per presenziare le nozze del re Francide. Se vuoi essere così gentile, ci ospiterai tutti fino a domani mattina, quando ci metteremo di nuovo in cammino per giungere in tempo alla fastosa cerimonia nuziale del sovrano di quella bella città.»
«Stai dicendo sul serio, Raco? Ma non sai che tuo fratello Cotuldo, tramite i suoi piccioni viaggiatori, ha invitato i re suoi alleati ad intercettare il re Francide e la sua scorta, ad arrestare tutti e a consegnarglieli? Oppure tu non ne sei al corrente?»
«Invece lo so, Luvius; però non sono stato affatto d'accordo con lui, quando si è messo ingiustamente contro il re Francide! Ecco perché ora mi sto conducendo anche alle sue nozze con un regalo per gli sposi. Spero che tu non abbia fatto la sciocchezza di aver dato retta a mio fratello, mettendoti alla sua ricerca! Ma se ti trovo tutto intero, vuol dire che te ne sarai senz'altro dispensato. Se invece tu lo avessi assecondato, di certo te ne saresti senz'altro pentito! Te lo posso assicurare!»
«Contrariamente a quanto hai supposto, Raco, mi sono messo alla sua ricerca con un contingente di armati, composto da millecinquecento soldati. Ma come mi hai già fatto presente un momento fa, dopo mi sono davvero pentito di averlo fatto, a causa delle tragiche conseguenze che ne sono derivate ai miei uomini. Devi sapere che in quella circostanza ho perso perfino l'intero mio stato maggiore, oltre a tutti i soldati!»
Invitato poi dal viceré Raco a raccontargli i vari particolari dello scontro che c'era stato fra tutti i suoi soldati e il solo sovrano della Città Santa, il re Luvius era stato molto circostanziato nel riferirglieli. Dopo aver terminato la narrazione di quanto era avvenuto quel giorno funesto per i suoi uomini, egli si era sfogato con tali parole:
«Non avrei mai immaginato che un solo guerriero potesse affrontare duecento dei miei soldati e farli fuori tutti, come se questi fossero delle spighe di grano e lui la falce! Non parliamo poi del nugolo di frecce che, dopo essere state lanciate contro la sua comitiva, anziché colpire i suoi componenti, esse sono ritornate indietro ed hanno trafitto i loro arcieri! Neppure il più potente dei maghi sarebbe riuscito a compiere un prodigio del genere! Raco, mi sai dire che tipo di uomo è questo re di Actina, per compiere simili atti prodigiosi? Perciò quel brutto mattino mandai al diavolo tuo fratello, per avermi spinto a mettermi contro di lui!»
«Il re Francide, Luvius, può essere ritenuto un'autentica macchina da guerra, per cui egli, con la sua imbattibilità, è in grado di sterminare centinaia e centinaia di nemici. Anche a Dorinda, nella reggia di mio fratello, egli ha seminato cadaveri a non finire, pur di liberare la sua donna dalle grinfie di Cotuldo. Ero anch'io presente e non gli ho dato torto, poiché mio fratello aveva il dovere di scarcerare la principessa Rindella, che il re Francide aveva scelto quale sua futura regina. Anche perché il sovrano di Actina è amico fraterno di nostro cognato Iveonte, il fidanzato di Lerinda. Il quale, oltre ad essere imbattibile nelle armi, è in possesso anche di straordinari poteri, che alcune divinità mettono a sua disposizione. A tale riguardo, devo farti presente che il re Francide ti mentì sulla liberazione della sua Rindella, poiché la ragazza doveva diventare la sua regina e non la sacerdotessa del dio Matarum. Ma con la sua menzogna, egli intendeva soltanto evitare la carneficina, a cui ugualmente lo obbligasti, venendo meno alla parola che gli avevi data. Invece avresti dovuto assecondarlo!»
«Quindi, Raco, non ci fu alcun intervento da parte della nostra massima divinità, come egli mi lasciò intendere. Fu la sua solida preparazione nelle armi a fargli aver ragione dei miei soldati. Non mi spiego, però, il fenomeno delle frecce, le quali si comportarono, come se avessero ricevuto un ordine da qualche essere soprannaturale. Se il nostro eccelso Matarum non ci entrò per niente in quel prodigio, mi spieghi quale altro dio poteva operarlo per favorire il sovrano da lui protetto? Vorrei capacitarmene e smettere di pensarci!»
«Probabilmente, ci fu lo zampino di qualcuna delle divinità che proteggono mio cognato. Essendo egli il suo amico fraterno, essa si sentì in obbligo di soccorrerlo nella maniera che tu conosci. Perciò non stupirti dell'avvenuto portento di allora!»
«Adesso si spiegano molte cose, Raco! Ti do la mia parola che mai più alzerò un dito contro il re Francide! Se tuo fratello Cotuldo dovesse invitarmi ancora a mettermi contro di lui, stanne certo che non lo asseconderei più. Anzi, gli risponderei che se la vedesse lui personalmente con chi gode del favore e della protezione di alcune potenti divinità, senza mettermi più nei guai, come è già accaduto la volta scorsa. Non dimenticherò mai più in tutta la mia vita il danno subito quel giorno, poiché continuo a sognarmelo anche di notte!»
«Te lo consiglio anch'io, Luvius, se non vorrai pentirtene di nuovo. Forse un'altra volta potresti anche rimetterci le penne! Adesso mia sorella ed io vorremmo lavarci e riposare, dopo il lungo viaggio che abbiamo affrontato. Comunque, ti avverto che ripartiremo nella mattinata di domani, subito dopo la prima colazione. Come hai appreso da me, la nostra meta è la bellissima Actina.»
Era stato questo il colloquio che c'era stato tra il re Luvius e il viceré Raco, prima che ci fosse la breve permanenza della comitiva dei Dorindani e dei Casunnani presso la reggia cirzese. Nella quale essa aveva fatto sosta per riposarsi e per vettovagliarsi, ad evitare che durante il viaggio venissero a scarseggiare di cibo e di acqua.
L'arrivo nella Città Santa degli invitati alle nozze reali, i quali ci risultano noti, era avvenuto dieci giorni dopo che avevano lasciato la città di Cirza. Lungo il tragitto, essi non erano andati incontro a problemi di qualche genere. Se il loro ingresso in città c'era stato nel primo pomeriggio, la loro presenza nella reggia si era avuta due ore dopo, avendoceli condotti Astoride in persona. Costui, infatti, mentre si dirigeva fuori città insieme con la sua Godesia, per caso si era imbattuto per strada nel loro convoglio ed aveva riconosciuto alcuni dei suoi componenti.
Le apparizioni di Lucebio e di Madissa a corte avevano reso immensamente felici il re Francide e la principessa Rindella, i quali se li erano abbracciati con grande calore. La loro presenza nella reggia actinese aveva fatto mettere in moto la macchina dei preparativi delle loro nozze, siccome si stava aspettando l'arrivo dell'uno e dell'altra, perché esse venissero celebrate. Comunque, anche la presenza a corte della principessa Lerinda e del fratello Raco, il viceré di Casunna, era stata accolta da entrambi con sommo piacere, mostrandosi nei loro confronti di una disponibilità unica. In verità, era stata la loro amica Lerinda la persona che ad ambedue aveva fatto maggiore piacere rivedere ed avere presente al loro matrimonio. Mentre per il re Francide ella era la futura moglie dell'amico fraterno; per Rindella rappresentava la futura cognata, avendo incominciato a considerare Iveonte il suo unico fratello rimasto in vita.
Tre giorni dopo, in occasione degli sponsali, era stato imbandito nella reggia un sontuoso banchetto prenuziale. Durante il quale, nel cerimoniale di corte, oltre alla promessa di matrimonio da parte dei futuri sposi, era prevista la consegna dei regali. I quali venivano offerti alla coppia di nubendi dagli altri sovrani, dai parenti, dagli amici e dai conoscenti a qualsiasi titolo. Naturalmente, a tale cerimonia non era prevista la presenza di nessun re invitato, ma soltanto i dignitari di corte che lo facevano a loro nome, in attesa della loro futura partecipazione alle nozze. Ma non essendo stato invitato neppure un sovrano dell'Edelcadia all'importante avvenimento, di conseguenza erano assenti anche le persone da loro incaricate, le quali avrebbero dovuto recare i doni e rappresentarli. Gli unici doni, quindi, erano stati quelli offerti da Talinda, la ex regina di Actina, e dalle seguenti coppie: Lucebio e Madissa, Astoride e Godesia, la sacerdotessa Retinia e Dumio, il Sommo dei Sacerdoti. Si attendevano anche qualche presente da parte della principessa Lerinda e di suo fratello Raco; ma esso non aveva fatto la sua apparizione. Al suo posto, invece, c'era stato l'intervento del viceré di Casunna, il quale, con un'aria pienamente soddisfatta, aveva annunciato:
«Mia sorella Lerinda ed io abbiamo deciso di fare agli sposi quei doni che potessero risultare a loro due i più desiderati, senza nulla togliere a quelli degli altri che sono qui. Non si tratta di semplici oggetti di varia natura e di diversa fattura, bensì di autentiche persone! Siamo certi che pure Lucebio e Madissa la penseranno allo stesso modo nostro, dopo che essi se li ritroveranno davanti, non potendo essere altrimenti!»
Di lì a poco, mentre tutti attendevano curiose coloro a cui il viceré Raco si era riferito, senza però farne i nomi, costui aveva fatto un cenno ad Urimmo. Con esso, lo aveva invitato a fare entrare nella sala della cerimonia le persone che egli già sapeva, essendosi messi d'accordo prima. A quel punto, c'era stato l'ingresso nella sala del trono di due coniugi anziani, le cui condizioni fisiche lasciavano molto a desiderare. Come si poteva constatare, entrambi si mostravano con un viso emaciato, con due occhi affossati, con delle mani assai scarne e con un corpo molto esile e debolissimo. Dopo che il gendarme actinese li aveva condotti presso il viceré di Casunna, tra lo stupore di tutti e il trasalimento di Lucebio e di Madissa, non volendo questi ultimi credere ai loro occhi, egli, mostrandosi piuttosto orgoglioso, si era dato ad esprimersi così:
«Questi due illustri personaggi sono i nostri doni per voi, amabili promessi sposi! Per quelli che non ne hanno ancora preso coscienza, si tratta dell'ex coppia reale di Dorinda, ossia il re Cloronte e la sua consorte, la regina Elinnia. Mio fratello re Cotuldo me li aveva affidati per tenerli reclusi nelle carceri di Casunna. Invece, come mi è stato richiesto da mia sorella Lerinda, in questa occasione, incurante di ciò che egli potrà pensare di me, li ho rimessi in libertà. Così entrambi avranno modo di essere presenti al matrimonio della loro ultimogenita, la principessa Rindella, in attesa di presenziare anche quello tra il loro primogenito e la mia simpatica sorella Lerinda, siccome esso ci sarà al ritorno di Iveonte dall'isola di Tasmina.»
A quell'annuncio del viceré Raco, il quale aveva stupefatto ed elettrizzato tutti gli astanti, la principessa Rindella era stata la prima a lanciarsi verso le due regali persone anziane, le quali erano state presentate come i suoi genitori. Dopo averli raggiunti, ella li aveva abbracciati e baciati con amore filiale. Nel fare ciò, gli aveva detto:
«Siete proprio voi i miei genitori?! Questo è un vero miracolo, padre mio e madre mia! Aveva ragione il fratello della mia amica Lerinda ad affermare che, per il nostro matrimonio, voi sareste stati i doni più belli che avremmo ricevuto io e il mio futuro sposo, il re di Actina. Io sono Rindella, la vostra figlia quartogenita che affidaste a Madissa, la quale riuscì a condurmi in salvo e mi ha allevato in tutti questi anni, facendomi crescere sana e forte. In questa bellissima occasione, pure la ex madamigella d'onore di mia madre è qui presente con il suo amato Lucebio. Anch'essi, come sto facendo io, vogliono esprimervi la loro felicità e rallegrarsi con voi, poiché finalmente siete ritornati a vivere come persone libere in mezzo a noi!»
All'inizio i due spodestati regnanti di Dorinda erano rimasti assai confusi, per cui non sapevano come affrontare e gestire quella situazione, la quale per loro risultava una vera favola; anzi, davvero credevano di stare a vivere un sogno. In seguito, a mano a mano, si erano andati acclimatando alla nuova realtà del presente, essendo divenuti coscienti di quanto si stava avverando intono a loro. Quando infine si erano resi conto di ciò che li circondava, essi avevano incominciato a comportarsi come persone normali, accettando le altrui felicitazioni e ringraziando in pari tempo coloro che gliele esprimevano. Inoltre, nell'uno e nell'altra aveva preso posto la letizia, che l'incredibile circostanza si era data a procurare a loro due, cercando di godersela per intero. Ma una volta che si erano esaurite le presentazioni e le varie espressioni di gioia che gli erano provenute dalle persone presenti, il re Cloronte e la regina Elinnia avevano voluto intrattenersi a lungo rispettivamente l'uno con Lucebio e l'altra con Madissa, avendo tutte e quattro molte cose da raccontarsi.
La loro conversazione aveva avuto come argomento principale il loro primogenito Iveonte, per cui i due ex regnanti di Dorinda avevano preteso che Lucebio gli raccontasse tutto ciò che lo riguardava, senza tralasciare neppure il particolare più insignificante. Allora egli non si era opposto alla loro richiesta. Anzi, era stato felice di metterli al corrente di ogni cosa che gli era pertinente, parlando ad entrambi dell'arduo viaggio da lui intrapreso per conoscere le sue origini, quelle che non ricordava più a causa della sua amnesia.
Ora ci interessa apprendere come mai, da parte dei due illustri germani di Casunna, si era addivenuto a tale decisione, pur prevedendo che, dopo averla presa, si sarebbero messi apertamente in conflitto con il fratello re Cotuldo. Quando e a che proposito essi lo avevano stabilito, mostrandosi noncuranti della dura reazione che si sarebbe avuta da parte del consanguineo sovrano, lo sapremo tra breve. Comunque, per dare le giuste risposte a tali domande, bisogna riportarci a Casunna ed assistere al colloquio che si era tenuto fra loro due, dopo aver stabilito di unirsi a Lucebio e a Madissa nel loro viaggio. Il quale li avrebbe condotti al matrimonio del re Francide con la principessa Rindella.
In precedenza, alla presenza del saggio Dorindano e della sua donna, c'era stato nella principessa Lerinda l'esplicitazione della propria intenzione di presenziare al matrimonio dei regnanti di Actina, la quale era stata subito accolta con favore dal fratello viceré. In un secondo momento, invece, essi si erano nuovamente incontrati per discutere sul regalo da portare agli sposi, il quale sarebbe dovuto essere di inestimabile valore. Così, nel successivo incontro che si era avuto fra di loro in separata sede, era stato il viceré di Casunna a parlare per primo, dandosi a dire alla sorella:
«Mi manifesti, Lerinda, che tipo di regalo vuoi che facciamo ai tuoi amici, i quali sono il re Francide e la principessa Rindella? Secondo me, come donna, tu sei più indicata per questo tipo di cose. Non ho forse ragione oppure la pensi diversamente?»
«Invece sei nel giusto, Raco. Non hai affatto torto, a ragionare in questo modo! Ma se proprio ci tieni che sia io a scegliere il dono più confacente agli sposi actinesi, ho bisogno di avere carta bianca da te. Inoltre, devi giurarmi che accetterai la mia scelta, qualunque essa sarà. Allora sei d'accordo a fare come adesso ti ho dichiarato?»
«Ti do la mia parola, sorella, che non mi opporrò a qualunque decisione vorrai prendere nella scelta in questione. Ovviamente, a patto che essa non esorbiti dalle mie possibilità, non essendo in grado di operare miracoli, la qual cosa è possibile soltanto al tuo caro Iveonte! Perciò pronùnciati sul tipo di regalo, poiché subito acconsentirò ad esso!»
«Allora, fratello, prepàrati ad apprendere quale dono ho stabilito di fare ai miei due amici. Sono sicura che esso verrà da loro sommamente gradito. Anzi, tale regalo, se lo vuoi sapere, riuscirà una piacevolissima sorpresa anche per Lucebio e per Madissa. In verità, non immagineresti mai ciò che ho pensato di donare agli sposi! Comunque, ormai non potrai più rifiutarti di assecondarmi, avendomi data la tua parola!»
«Certo che farò anche mia, Lerinda, l'idea che già ti sei fatta circa il dono da portare ai regnanti di Actina. Ogni promessa è debito! Allora vuoi deciderti a manifestarmi questa tua benedetta idea, che non vedo l'ora di conoscere e di fare pure mia, senza rincrescimento?»
«Se non sbaglio, Raco, tempo addietro nostro fratello Cotuldo ti consegnò gli ex regnanti di Dorinda, ritenendoli più al sicuro nelle carceri di Casunna. Ebbene, in occasione del loro matrimonio, desidero regalare proprio loro due al re Francide e alla principessa Rindella, la quale è la loro figlia. Non ti sembra una bella trovata la mia? Se essa ti apparirà uno scherzo di pessimo gusto da parte mia, per me non lo è affatto! Perciò esigo da te il mantenimento della promessa che mi hai fatta, se vuoi che io continui a considerarti mio vero fratello! Non dimenticare che essi sono pure i genitori del mio Iveonte, il cui primo pensiero, quando ritornerà dal suo viaggio, sarà quello di liberare suo padre e sua madre. Mi dici in quel caso come ti comporterai? Mica oserai opporti a lui, solo per farti bello agli occhi di Cotuldo! Anzi, ti ingrazieresti solo la morte! Stando così le cose, ti conviene farglieli trovare già liberi, scarcerandoli e facendoli essere presenti al matrimonio della loro ultimogenita Rindella. Sono sicuro che egli te ne sarà immensamente grato!»
Lerinda, presentando la questione a suo fratello sotto quell'aspetto, lo aveva convinto senza troppa fatica ad assecondare la sua proposta. Per cui dopo si era anche proceduto, da parte loro, a fare in modo che essi non giungessero ad Actina insieme con la comitiva Dorindana. I cui componenti, secondo il loro piano, dovevano restare all'oscuro della sorpresa che stavano preparando ai futuri sposi, oltre che a Lucebio e a Madissa. Come abbiamo visto prima, alla fine i due germani casunnani erano riusciti nel loro intento senza problemi di nessun tipo, facendosi apprezzare da quanti erano presenti alla cerimonia prenuziale.
La solenne cerimonia delle nozze si era avuta una settimana dopo l'arrivo dei Dorindani e dei Casunnani nella Città Santa. Le nozze erano state celebrate nel tempio del dio Matarum in pompa magna ed erano state officiate da Dumio, il Sommo dei Sacerdoti. In quella occasione eccezionale, i sacerdoti avevano indossato dei paramenti assai fastosi, i quali avevano reso la funzione religiosa di una spettacolarità unica. La magica solennità della circostanza, perciò, aveva fortemente emozionato quelli che si trovavano presenti ed assistevano alla funzione religiosa. Essa aveva fatto lacrimare gli occhi alla maggior parte di loro, a causa della gioia che ciascuno aveva fatto registrare nel proprio animo immensa ed incontenibile. Durante la celebrazione del matrimonio, l'accesso al tempio era stato consentito alle sole persone, che avevano esibito ai gendarmi che piantonavano l'ingresso del tempio una pergamena, sulla quale era stato stilato l'invito personale dal cerimoniere di corte. Costui, a sua volta, aveva ricevuto i nominativi degli invitati alle nozze reali direttamente dal re Francide e dalla nobildonna Talinda sua madre, tra i quali c'erano anche il medico Ipione e le sue figlie. A tale riguardo, va chiarito che nel tempio non era stato ammesso la presenza del popolo solo per una questione di ordine pubblico e non per privilegiare la classe dei nobili della città.
Tutto il popolo actinese era stato invitato al matrimonio del loro re e della loro regina. Perciò, per tutto il tempo che si era tenuta la cerimonia nuziale nel sacro edificio, una moltitudine enorme di Actinesi aveva sostato sul suo sagrato e nelle zone viciniori. Infatti, ciascun cittadino era impaziente di assistere all'uscita della coppia reale dal tempio per inneggiare agli sposi e per augurare ad entrambi lunga vita e tanta felicità. La qual cosa era avvenuta puntualmente, al termine della sua estenuante attesa, che era durata oltre due ore! Dopo la funzione religiosa, che aveva costituito la parte sacra delle nozze, e dopo il giro degli sposi per le vie della città, era seguito il momento profano della cerimonia. Allora era stato dato inizio ai solenni festeggiamenti già allestiti, i quali erano stati testati alcuni giorni prima, per una loro corretta riuscita. Essi avevano riguardato specialmente i luculliani banchetti da tenersi nella reggia e fuori di essa. In merito alle zone esterne, erano state scelte quelle che più di altre avrebbero permesso un loro beato svolgimento.
Al mattino del quarto giorno, però, in Actina era venuta meno ogni traccia dei festeggiamenti, per cui la vita aveva ripreso il suo ritmo di sempre, anche se la città si ritrovava ad avere la sua nuova regina. Allora, mentre Lucebio e Madissa, con i loro quattro giovani accompagnatori, avevano deciso di restare ancora una decina di giorni nella Città Santa, la principessa Lerinda e il viceré Raco avevano ritenuto opportuno intraprendere la via del ritorno alla loro Casunna. Ma essi prima avevano sentito il dovere di incontrarsi con i simpatici regnanti di Actina, al fine di congedarsi da loro, non senza esprimersi reciprocamente affetto ed amicizia. Quando l'uno e l'altra si erano presentati al re Francide e alla regina Rindella, costoro erano intenti a conversare nella sala del trono con la nobildonna Talinda e con la sacerdotessa Retinia. In quello stesso momento, invece, Lucebio e Madissa si intrattenevano nel patio della reggia con gli ex regnanti di Dorinda, con i quali essi avevano da dirsi un sacco di cose, essendo passati molti anni, da quando si erano visti l'ultima volta. Tale incontro, ad essere precisi, si era avuto fra di loro al tempo delle disgrazie di Dorinda, del suo re e del suo popolo.
Il congedo dei due nobili germani dai regnanti di Actina non era avvenuto in maniera veloce tra le sei persone interessate, poiché innanzitutto c'era stato uno scambio di vedute e di osservazioni. Allora non era mancato uno sfogo personale da parte della principessa Lerinda, mentre si rivolgeva a colei che era diventata la nuova regina di Actina. Dopo essersi congratulata vivamente con la futura cognata, aveva aggiunto:
«Mi fa piacere, mia cara Rindella, che il destino ti abbia premiata, facendoti diventare la regina della prestigiosa Città Santa. Se il tuo matrimonio con Francide c'è stato alla grande, ignoro se un giorno ci sarà anche il mio con tuo fratello Iveonte! Chi mai potrà assicurarmelo con certezza? Secondo me, per il momento nessuno!»
«Invece ti sbagli, principessa Lerinda, a pensarla così!» era intervenuta a contraddirla la madre del re Francide «Se lo vuoi sapere, c'è qualcuna che può dirti con sicurezza come evolverà il tuo futuro destino, svelandoti il suo arcano percorso. Ella è qui presente ed è la mia amica sacerdotessa Retinia. Nel caso che tu fossi d'accordo, la inviterò a mettersi subito a tua disposizione, facendole percorrere le trame della tua vita avvenire. Dallo studio delle quali, tra l'altro, risulterà pure se un giorno diventerai la regina di Dorinda, al fianco del tuo amato re Iveonte. Allora posso darle questo incarico, prima che tu parta dalla Città Santa insieme con tuo fratello viceré Raco?»
«Nobildonna Talinda, se mi garantisci che ne varrà la pena ricorrere a lei e permetterle di indagare sul mio ignoto futuro, facciamo pure questo tentativo! Così, se l'indagine dovesse risultare a me favorevole, almeno potrei crogiolarmi anch'io nel mio meraviglioso sogno senza mai stancarmi. Ciò, però, solamente dopo essere divenuta certa che esso si avvererà e mi renderà felice oltre ogni immaginazione!»
Dopo esserci stato il consenso della principessa Lerinda, affinché la sacerdotessa le si dedicasse, la ex regina di Actina si era rivolta all'amica prediletta, dicendole:
«Allora, mia cara Retinia, datti da fare e sintonìzzati con la somma divinità dell'Edelcadia, pregandola di ispirarti, come è solita fare, perché l'esistenza avvenire della principessa Lerinda ti sia manifesta nella sua interezza, senza esserci errore alcuno su di essa. Così ella potrà venirne a conoscenza e bearsene allo stesso tempo, qualora dovesse risultare che l'attendono molti giorni fortunati nel futuro!»
«Sono lieta di mettermi a disposizione della fidanzata del prodigioso amico fraterno del re Francide, cara Talinda. Perciò all'istante passo ad accontentarla. Nel farlo, mi auguro di trarre per lei dei fausti presagi dalla chiaroveggenza, la quale mi perverrà immancabile dal dio Matarum. Pochi attimi di pazienza e l'accontenterò!»
Data tale risposta alla madre del sovrano di Actina, la pitonessa aveva assunto la consueta posizione, che la metteva in diretto contatto con la divinità ispiratrice. Ossia aveva proteso le braccia in avanti, permettendo ad esse la massima ampiezza, ed aveva rivolto il capo verso l'alto. Stando poi nell'atteggiamento che è stato appena specificato, ella subito si era messa a supplicare il sommo dio con vivo fervore, dicendogli:
"Divino Matarum, tu, che mi illumini il sentiero che conduce alla verità, svelandomi i suoi misteri più reconditi; tu, che hai ogni volta esaudito le preghiere dell'umile tua serva, deh, fa' che oggi mi sia manifesto il futuro della principessa Lerinda. Consentimi di seguirlo come esso effettivamente si dipanerà nel tempo, di modo che io ne abbia una visione tersa e chiara. Così dopo potrò trasmetterlo alla diretta interessata in una versione limpida ed inequivocabile."
Poco più tardi, la brava profetessa era stata vista farsi pallida in volto, storcere le labbra in modo pauroso, scompigliarsi la chioma e contorcersi nel corpo, proprio come se stesse imitando un serpente. Successivamente, all'improvviso la si era vista tranquillizzarsi di nuovo, ridare alle sue vermiglie labbra la giustezza di prima, dandosi a fare proferire ad esse le seguenti parole:
"Principessa Lerinda, vedo davanti a te un destino glorioso, poiché un giorno non molto lontano sposerai il tuo amato Iveonte, in favore del quale il padre Cloronte riterrà giusto abdicare, facendolo diventare sovrano di Dorinda. Perciò alla fine tu sarai la degna sua regina. Ma prima che ciò avverrà, ci saranno nell'Edelcadia degli eventi disastrosi, i quali produrranno tra i suoi popoli vari fenomeni conturbanti, che li metteranno a dura prova, mediante guerre intestine di inaudita efferatezza e molto sanguinose. Esse, infatti, causeranno gigantesche mattanze tra le diverse popolazioni edelcadiche, le quali quanto prima si ritroveranno ad affrontare un conflitto di enormi proporzioni, il quale destabilizzerà l'intera nostra regione. Ad ogni modo, il calamitoso evento, che verrà ad originarsi sul suolo edelcadico indescrivibilmente terrificante e assai cruento, non sarà opera dei sovrani delle città edelcadiche, considerato che loro tutti saranno già morti, fatta eccezione del solo re Francide, quando esso si infiammerà ed esploderà nell'Edelcadia. Come pure ne sarà estraneo Iveonte, il quale, alla testa di uno sterminato esercito, farà ritorno poco dopo con l'intenzione di punire i re traditori che avevano tramato contro suo padre, detronizzandolo e rinchiudendolo in una cella insieme con la moglie.
Responsabili del conflitto, invece, saranno delle divinità malefiche molto potenti, le quali, nella nostra regione e nelle altre, mireranno a ridurre all'impotenza tutte le divinità benefiche che vi si trovano. Contestualmente, però, esse saranno desiderose di portare alla rovina i popoli edelcadici e gli altri che adorano quelle divinità che operano all'insegna del bene e della giustizia. Perciò esse, prima di dare inizio alla loro aspra lotta, faranno assassinare i sovrani delle sole città che un tempo avevano tramato contro la Città Invitta. Ci penseranno a metterli fuori gioco le sette persone più ignobili della terra, le quali sono loro devote ed operano ciecamente al loro servizio. Esse avranno anche il compito di sostituirli, dopo averne assunto le sembianze. Così sarà facile alle medesime prendere il comando dei rispettivi eserciti e muovere guerra ad Actina per distruggerla, essendo la città cara al dio Matarum.
Ma la nostra divinità eccelsa non si mostrerà in grado di muovere un dito in nostro aiuto, poiché essa stessa verrà a subire la prepotenza delle divinità malefiche, divenendo la loro speciale prigioniera. A questo punto, interverrà l'insuperabile Iveonte, il protetto delle potenti divinità benefiche, il quale sconfiggerà le divinità malefiche in una lotta senza quartiere, fino a riportare nella nostra regione edelcadica l'ordine e la giustizia. Così la sua opera non sarà più improntata a vendetta, dal momento che i colpevoli saranno già periti per mano delle divinità malefiche, le quali avranno un loro tornaconto nel portare a termine la loro eliminazione. Invece essa mirerà a ristabilire sul suolo edelcadico l'armonia e la concordia, le quali un tempo vi regnavano salde e sovrane."
Dopo che la sacerdotessa Retinia aveva terminato di farsi ispirare dal dio Matarum, se la principessa Lerinda era rimasta soddisfatta delle sue parole profetiche, non c'era stata la stessa reazione nelle altre persone presenti. Esse, anche se avevano gioito per il fatto che Iveonte alla fine avrebbe sistemato ogni cosa a beneficio di tutti i popoli edelcadici, in loro si era avuta anche una certa giustificata preoccupazione. La quale aveva cominciato a tenerle sulle spine, a causa dei terribili futuri eventi, i quali ci sarebbero stati nella regione edelcadica e in ogni altra parte in cui si adoravano le divinità benefiche. Essi, secondo la profezia della sacerdotessa Retinia, già si preparavano a sconvolgere terribilmente l'esistenza di ogni singolo individuo che si mostrava devoto tanto al dio Matarum quanto ad altre divinità benefiche. Stando così le cose, a buon diritto ci viene da chiederci cosa mai si stesse preparando a succedere nell'Edelcadia di così orribilmente disastroso, che vi avrebbe ingenerato la massima destabilizzazione in campo religioso e sociale. Ma ci sarà permesso di rendercene conto, solo andando avanti con la lettura che riguarderà l'ottavo volume della nostra storia. Il quale seguiterà a tenerci inchiodati ad essa con lo stesso interesse di sempre.
Nel frattempo, il viceré Raco e la principessa Lerinda, dopo essersi salutati con i regnanti di Actina, con la nobildonna Talinda e con la sua amica Retinia, si erano congedati da loro, mettendosi in viaggio con la loro scorta personale alla volta di Casunna. Prima di salutarsi e di congedarsi con le quattro persone summenzionate, i due fratelli avevano già fatto lo stesso con Lucebio e con Madissa. Essi li avevano incontrati, mentre si intrattenevano felicemente con i genitori di Iveonte, essendo dediti ad un piacevole colloquio con loro.
In tutto l'evolversi del matrimonio del re Francide e della principessa Rindella, un particolare aveva fatto meravigliare la nobildonna Talinda e il figlio sovrano. Come mai Edrio, il re di Stiaca, il quale era il padre dell'una e il nonno dell'altro, non si era presentato alla cerimonia nuziale del nipote? Eppure essi erano certi che la notizia, anche se non partita da loro personalmente, gli era giunta senz'altro. Secondo loro, anche se egli non era benvisto dal nipote, lo stesso avrebbe fatto di tutto per partecipare alle sue nozze. Ebbene, la risposta era stata data ai due familiari dall'arrivo ad Actina del fratello della ex regina actinese, il cui nome era Arper. Costui si era presentato alla reggia dieci giorni dopo che si erano svolti in città i festeggiamenti nuziali. Ricevuto dal nipote re Francide e dalla germana Talinda, che non vedeva da molti anni, egli innanzitutto si era presentato ai due parenti come il nuovo re di Stiaca, per essere succeduto al morto padre Edrio, in quanto primogenito della famiglia. In seguito, invece, dall'inizio alla fine, si era dato a narrare ogni cosa che aveva riguardato l'improvvisa morte del genitore, incominciando a dire:
«Scusami, nipote mio, che ora sei il re di Actina, per non essere arrivato in tempo per presenziare al tuo matrimonio e per recarti i doni che in realtà erano stati scelti da mio padre, il quale era anche tuo nonno. Se lo vuoi sapere, il poveretto si era già preparato per venire ad Actina, mostrandosi colmo di gioia. Invece, proprio nel giorno della sua partenza per la Città Santa, colpito da un improvviso malore, all'istante è caduto a terra ed è spirato. Allora, prima di essere incoronato re di Stiaca, mi sono dovuto interessare alle sue esequie. Una volta incoronato re della mia città, come mio primo dovere, ho avvertito il bisogno di venirti a trovare ad Actina e di felicitarmi con te e con la tua consorte per le vostre felici nozze. Ma soprattutto volevo portarvi gli splendidi doni che mio padre aveva preparato per voi sposi. Egli non vedeva l'ora di fare la conoscenza della nuova regina di Actina, essendo sicuro di trovarla molto bella.»
«Ti ringrazio, zio Arper, per il gentile pensiero avuto nei miei confronti; in pari tempo, devo farti le mie più sentite condoglianze per la dipartita del tuo genitore. Il quale, oltre ad essere anche il padre di mia madre, era pure mio nonno. Comunque, questa è la vita degli uomini e nessuno ha il privilegio di potersi sottrarre alla morte!»
Alla notizia del decesso del vecchio genitore, la reazione della nobildonna Talinda era stata invece molto differente da quella fredda del figlio. All'improvviso, ella era stata invasa da un'ambascia indefinibile, la quale le aveva anche cagionato alcune lacrime ed una pena diffusa nell'intero suo corpo. Ad essa si era unita una nota di mestizia, la quale, dopo essersi impadronita di lei, pareva non volere lasciarla più. Soltanto dopo che si era assoggettata a tali moti del cuore e dell'animo, la madre del sovrano di Actina si era lanciata al collo del fratello, dandosi ad un pianto dirotto e sfogandosi con lui, per la perdita del caro genitore. Tenendosi poi abbracciato a lui, gli diceva:
«Così, Arper, nostro padre ci ha lasciati per sempre. Eppure il suo stato di vedovanza durava da un ventennio. Mi dispiace soltanto che egli, prima di morire, non sia riuscito a rappacificarsi con mio figlio, come avrei fortemente voluto. Ma pazienza!»
«Anch'io ero a conoscenza della loro incomprensione, sorella. Ma se il mio parere a tale riguardo può risollevarti, Talinda, tuo figlio non aveva torto ad avercela con nostro padre, dopo che egli ed altri sei sovrani edelcadici si erano macchiati del proditorio assalto al giusto re Cloronte. Perciò sono stato sempre dalla sua parte.»
La visita del maturo re stiachese al nipote e alla sorella si era protratta per tre giorni, al termine dei quali egli si era congedato da loro ed aveva fatto ritorno a Stiaca.