396-NON SI RIESCE AD IMPEDIRE L'IMMOLAZIONE DI ERUSIA

Già durante il crepuscolo, le ore si mostravano particolarmente inquiete; mentre nell'aria si notava qualcosa che cominciava a snodarsi al di fuori della ragionevolezza. Si trattava di una strana sensazione, la quale, con i suoi riflessi agghiaccianti, si andava insinuando in ciascun angolo della natura, senza risparmiare quegli esseri viventi, che erano forniti di ragione e vi conducevano la loro vita. In special modo in questi ultimi, essa, penetrandone l'intimo, vi faceva germinare e lievitare una sorta di pena, la quale finiva per fagocitare la serenità che prima vi dilagava copiosa. Ma era possibile conoscere la causa di quell'influsso vagante, che si dava ad avvelenare l'esistenza di ogni essere sensitivo? A dire la verità, pure le stelle ed ogni altro tipo di astro avvistabile a occhio nudo facevano avvertire la loro parossistica fibrillazione, poiché essa era imputabile alla loro indignazione. Naturalmente, il tutto poteva essere spiegato con il fatto che, a breve scadenza, si sarebbe consumato l'atto più spietato ed esecrabile esistente al mondo, a danno di una creatura che non aveva colpa alcuna. Perciò sembrava che tali astri volessero impedirlo con le totali loro forze; però, ahimè, erano costretti a piegarsi impotenti ai tirannici voleri del fato. Il quale adesso era rappresentato dalla perfida e crudele estrinsecazione della cattiveria umana.

Di certo il lettore avrà già compreso a quale persona innocente ci si sta riferendo, siccome conosce i vari fatti che da poco lo hanno interessato e calamitato in maniera preoccupante. Egli, come è possibile immaginare, li sta seguendo con molta apprensione e con la speranza che essi non prendano la temuta ed indesiderata piega, come si prospettava. Altrimenti essa avrebbe scaricato con inaudita ferocia una disgrazia di un'atrocità enorme su colei che non meritava di subirla. A quanto pareva, invece, nelle alte sfere dell'ineluttabile destino già si era voluto decretare in tal senso, arrecando l'irreparabile ad una famiglia già duramente segnata dalle ingiustizie del mondo. Allo stesso tempo, esso fingeva di essere all'oscuro che stava dando attuazione concreta al detto "Piove sul bagnato". Di guai, perciò, ne sarebbero piovuti copiosamente sopra dei poveretti, i quali già navigavano da diversi anni nel mare delle disgrazie, senza potersene dispensare in alcun modo!

Procedendo così le cose, non ci rimane che continuare a seguire la dolorosa vicenda della sventurata Erusia, la quale con molte probabilità giungerà presto alla sua tragica conclusione. In tal modo, lascerà nell'animo dei lettori un'ambascia così opprimente ed un'angoscia talmente profonda, da attanagliarli alla fine in una logorante disperazione mai conosciuta in precedenza da tutti loro. Ma non c'è dubbio che le loro coscienze reagiranno a tanta malvagità, che stava per essere perpetrata contro una giovane donna completamente priva di colpe, da parte di gente cattiva ed irragionevole. La quale si rivelerà priva di umanità e di giustizia, perseguendo scopi degni del carnefice più abietto. Per questo la loro reazione potrà soltanto relegarle in un'amarezza sfibrante che si dimostrerà tutt'altro che appagante, siccome le costringerà a meditare sulla loro impotenza e a rinunciare a qualunque senso di pietà. Inoltre, farà fermentare nelle medesime una cocente delusione, che sarà soltanto capace di trascinarle in un ambiente psichico instabile, atto solamente a coltivare le vicissitudini più truci ed assurde esistenti sulla terra.

Una volta premesse queste tristi considerazioni, possiamo andare avanti con la nostra storia relativa alla figlia del maniscalco per approfondirne la dolorosa vicenda, intrisa di tinte fosche e macabre.

Ebbene, ad un paio di ore dalla mezzanotte, i tre giovani ribelli legati da una grande amicizia, insieme con un centinaio dei loro uomini migliori, i quali erano preparati ad ogni evento, avevano abbandonato il loro campo. Ad un certo punto della loro galoppata, Solcio e il drappello degli armigeri accompagnatori si erano separati da Zipro e Polen, dovendo essi seguire tutt'altra direzione. Infatti, la loro meta non era la città, ma la gola situata nelle vicinanze del tempio dei Tricerchiati. Invece la coppia di amici aveva seguitato a puntare verso Dorinda, dove erano attesi da Gerud, il braccio destro del re Cotuldo. Nella mattinata, essi avevano fissato con lui un appuntamento per la tarda serata, improrogabilmente non oltre l'ora precedente la mezzanotte, per cui avevano voluto giungervi in tempo. Anzi, si erano presentati con mezzora di anticipo all'esimio ex subalterno di Croscione. Al loro arrivo, però, il gerarca Gerud era stato trovato impegnato ad impartire le ultime sue disposizioni al migliaio di soldati messi a sua disposizione dal proprio sovrano. Essi erano stati mobilitati per essere condotti ad assaltare quello che credevano il provvisorio luogo di ritrovo dei ribelli ed assestare un duro colpo alla masnada dei facinorosi fuorilegge. Così avrebbero reso un grande servigio al loro re Cotuldo, che da molto tempo non attendeva altro!

Appena si era accorto di loro, il consigliere militare del despota aveva lasciato i suoi soldati ed era andato incontro ai due giovani, che ormai considerava i figli di Croscione, e li aveva accolti con un volto raggiante di gioia. Dopo averli salutati con una vigorosa stretta di mano, mista a grande gratitudine, aveva esclamato ad entrambi:

«Voi sì che siete due persone, le quali sanno mantenere fede alle promesse e si preoccupano di essere puntuali agli appuntamenti presi! Del resto, come figli dell'egregio Croscione, non potevate comportarvi diversamente ed infangare il buon nome del vostro rispettabile genitore! Ve ne do atto, simpatici giovanotti, e ne sono lieto per vostro padre!»

«Non ti sbagli, Gerud!» Zipro gli aveva risposto «Non potevamo crescere, senza seguire le orme che nostro padre ha lasciato in questa reggia! Egli ci ha fatti venire su, forgiando il nostro carattere e il nostro stile di vita, conformemente a quelli che si erano cementati in lui. Per questo motivo, noi ne andiamo parecchio orgogliosi!»

«Bravo, Zipro! È così che parlano le persone in gamba come voi! Il mio amico Croscione ha fatto davvero un eccellente lavoro con i suoi due figli, che sareste voi, inculcando nel vostro animo quanto di meglio c'è stato sempre in lui. Mi riferisco anche all'adamantino e focoso temperamento, che lo contraddistingueva in ogni sua azione. Ma adesso consentitemi di lasciarvi per breve tempo e di dare le ultime preziose disposizioni ai miei ufficiali subalterni, i quali sono impazienti di riceverle, in vista dell'importante missione di stanotte!»

Quando finalmente si era sbrigato con i suoi graduati e ne era ritornato dopo alcuni minuti, l'alto ufficiale della milizia reale, senza nascondere per niente la sua strabocchevole soddisfazione, aveva seguitato ad esprimersi a coloro che considerava due bravissimi giovani:

«Adesso che la macchina bellica si presenta efficiente al massimo, essendo stati apportati gli ultimi ritocchi alle manovre di accerchiamento e di assalto, miei cari giovanotti, possiamo avviarci verso la nostra meta, quella che sarà il luogo di riunione dei ribelli. Voi galopperete ai miei due fianchi in posizione avanzata. Così Polen potrà indicarci la strada che dovrà essere da noi percorsa per raggiungerla intorno alla mezzanotte.»

Poco dopo, in fila per quattro e in pieno assetto di guerra, il migliaio di soldati, avanzando pettoruti ed alteri sui loro splendidi cavalli, già avevano abbandonato la reggia. Essi erano stati investiti di una missione estremamente rilevante dal loro re Cotuldo, il cui obiettivo era quello di sgominare, una volta per tutte, il folto gruppo dei ribelli e di decapitarlo, privandolo della sua figura più rappresentativa. La soppressione di Lucebio, secondo la sua convinzione, avrebbe significato la resa incondizionata anche delle ultime sacche di resistenza al proprio governo. Davanti a tutti i soldati, procedevano i due giovani amici e Gerud, il quale faceva seguire ai suoi uomini il percorso che gli veniva indicato da Polen. Essendo una notte di plenilunio, il loro tragitto avveniva attraverso campi rischiarati da una luna piena, la quale risultava una vera meraviglia solo a vedersi. Infatti, il suo alone si dava ad illuminare quasi a giorno ogni angolo sottostante ed ogni cosa che vi stava sistemata.

Nel frattempo, Solcio e i suoi cento ribelli da lui guidati già erano pervenuti alla gola, che doveva fare da loro rifugio. In quel luogo, però, il nipote di Sosimo, una volta collocati i suoi uomini nella maniera più opportuna, li aveva invitati ad una scrupolosa sorveglianza della zona limitrofa. Inoltre, essi avrebbero dovuto attendere che egli e i suoi due amici vi conducessero Erusia, dopo averla liberata dai fanatici settari. Poco dopo, come da accordi presi con Zipro e Polen, egli aveva lasciato quel posto ed era andato ad affiancarsi a loro due, dovendo irrompere insieme nel tempio, contestualmente all'assalto delle milizie regie all'edificio che, a quell'ora di notte, era stato trasformato in tempio.

Quando Solcio era giunto nelle sue prossimità, i soldati di Cotuldo stavano portando a termine le ultime operazioni di accerchiamento e di appostamento, essendo persuasi che oramai la totalità dei ribelli si trovava già all'interno del capannone. Allora egli, senza dare nell'occhio, aveva raggiunto ed affiancato i suoi amici nel posto convenuto. Esso si trovava all'esterno delle postazioni dei soldati. Dopo i tre giovani avevano atteso che costoro iniziassero il loro attacco furibondo contro i Tricerchiati, convinti di avere a che fare con gli uomini di Lucebio. Quando c'era stato il suo incontro con i due amici Zipro e Polen, il comandante Gerud non si trovava con loro. Ma sempre per il buon esito della delicata missione, egli era impegnato a dare le ultime direttive ai suoi dieci ufficiali subalterni, ognuno dei quali era al comando di una centuria. Per questo ogni centurione rispondeva personalmente della disciplina dei soldati che erano ai suoi ordini, oltre che del loro rendimento in termini di valore militare. Ma nel frattempo che non avveniva l'assalto, i minuti scorrevano lenti dopo la mezzanotte e il braccio destro di Cotuldo non si decideva ancora a muovere l'assalto al tempio. Egli voleva prendere tempo ed assicurarsi che i ribelli davvero fossero in loro balia e che i suoi uomini non corressero dei rischi nell'accendere il conflitto contro di loro. Anche perché, dall'interno della costruzione, non provenivano ancora dei segni di vita, come rumori o vocii degni di nota, ossia tali da far scatenare il loro travolgente intervento. A quell'atteggiamento temporeggiatore di Gerud, Solcio se ne era preoccupato molto. Allora aveva inviato Zipro, perché lo sollecitasse ad intervenire al più presto, prima che i ribelli avessero sentore della presenza dei soldati. Ma l'alto ufficiale, mostrandosi quasi un po' seccato, gli aveva risposto:

«Giovanotto, lasciami fare il mio mestiere, quello che un tempo il tuo genitore mi ha bene insegnato! Sappi che la ponderazione e la cautela devono essere alla base di ogni operazione bellica, se non si vuole andare incontro ad uno smacco inatteso! Stanne certo che tra breve qui scateneremo il finimondo contro i ribelli di Lucebio. Per favore, quindi, ritornatene da tuo fratello e restaci tranquillo ancora per poco tempo!»

I tre amici invece non potevano restarsene ad aspettare con animo tranquillo, temendo di continuo per l'incolumità fisica della figlia di Fusso. Polen, da parte sua, sapeva di che cosa erano capaci Olpun e la zia Stiriana contro le vittime che sacrificavano al dio Kursut! Secondo loro tre, più si perdeva tempo ad assalire il tempio, più si correva il rischio di non riuscire a controllare la situazione. Ma per come si erano messe le cose, essi non potevano muovere neppure un dito in aiuto della poveretta, visto che la circostanza non lo permetteva; anzi, gli si presentava terribilmente avversa. Secondo loro, se avessero scoperto le proprie carte con Gerud, di sicuro essi avrebbero mandato a monte il piano di Croscione, poiché il gerarca avrebbe sospeso all'istante la missione e non avrebbe più attaccato i Tricerchiati. Inoltre, avrebbe mutato il suo atteggiamento nei loro confronti e si sarebbe innescata in lui una nuova opinione dalle gravi conseguenze per loro. Essa forse non avrebbe più fatto avere nella debita considerazione il loro rapporto di parentela con il rispettato genitore. Per questo, essendo pericoloso cercare di forzare la mano al gerarca, erano costretti ad attendere con impazienza l'assalto dei soldati al capannone.

Nel frattempo la funzione religiosa, la quale aveva come scopo il sacrificio di Erusia, era già iniziata nel tempio. Perciò stava andando avanti normalmente, proprio come era capitato al defunto genitore di Polen di assistere ad essa disgustato fino alla nausea. Dopo l'orazione del Prediletto, i colpi di gong avevano cominciato a susseguirsi cadenzati ed unitamente alle grida dei fedeli, che vociavano a più non posso: "Possiedila e godi, dio Kursut! Il tuo godimento è anche nostro! Noi tutti ci sentiamo in te, mentre la deflori e ne fai l'oggetto del tuo sommo piacere!" Per fortuna, quelle parole non si erano fatte udire nitide dai soldati, per cui non avevano insospettito Gerud. Costui, invece, aveva pensato a tutt'altro; ossia si era convinto che i ribelli, con il loro vociare, applaudivano il loro esimio capo Lucebio. Ma poco più tardi, era seguito il momento peggiore per la sventurata Erusia ad opera di Olpun e di Stiriana. Non appena la donna aveva predisposto il sesso della ragazza per una penetrazione ottimale, l'uomo aveva estratto dalla brace il ferro arroventato e glielo aveva poi ficcato nel condotto vaginale. Così facendo, non aveva mostrato alcuna misericordia verso colei che lo riceveva con la massima sofferenza e con la morte quasi istantanea. Allora il suo grido di dolore, da lei emesso prima di spirare, era stato smisurato e lacerante; inoltre, aveva inteso esprimere la sua sofferenza più devastante. Nello stesso tempo, esso aveva voluto anche significare l'atrocità di un martirio, che andava oltre ogni umana concezione ragionevolmente intesa e ne aveva rivelato l'orrenda ed indiscussa pravità.

Era stato proprio quell'urlo a spingere Gerud ad ordinare ai suoi soldati l'assalto al capannone. L'autorevole uomo d'armi ne era rimasto così impressionato, da venirgli meno ogni intenzione di soppesare ancora i fatti e di agire con prudenza. Egli, dopo aver sentito quel grido di massima disperazione, aveva soltanto ravvisato la necessità che bisognava agire con urgenza e non aveva più badato a preoccuparsi di ciò che in realtà stesse accadendo in quel luogo. Gli era perfino sfuggita di mente la questione dei ribelli, essendo sopravvenuto in lui il solo pensiero di porre fine a qualcosa di orrido che stava accadendo nel capannone. Allora l'attacco al tempio, che per i soldati rappresentava il ritrovo degli indomiti ribelli, era avvenuto massiccio, tremendo e sconvolgente. Le truppe regie, dopo aver ricevuto l'ordine dai rispettivi ufficiali, erano sbucate da ogni parte e si erano lanciate all'assedio della sobria costruzione di forma rettangolare, essendo intenzionate a penetrarne la parte interna e a seminarvi cadaveri a non finire. Ma le agguerrite milizie, quando si trovavano ad appena una trentina di metri da essa, erano state avvistate dalla decina di Tricerchiati che vigilavano all'esterno del tempio. Al loro avvistamento, essi subito avevano dato l'allarme, richiamando all'esterno altri settari armati. Anzi, poco dopo erano cominciati ad uscirne altri ancora, quasi a fiumane, in un precipitarsi convulso e frenetico, allo scopo di arginare l'assalto dei boriosi soldati.


Non appena i Tricerchiati erano stati avvertiti dell'assedio in atto da parte dei militari del re Cotuldo, quando la cerimonia sacrificale si presentava oramai agli sgoccioli, nel tempio c'era stato un grande fermento, essendo venute ad aversi fra di loro parecchia agitazione e titubanza nel reagire. A tale esitazione dei suoi adepti, la quale palesava anche un certo sconcerto, il Prediletto si era affrettato ad uscire dalla brutta situazione, che adesso era soltanto di stallo. Perciò, senza perdere tempo, aveva gridato a quanti erano nel tempio: "Miei valorosi Tricerchiati, degli infedeli hanno deliberato di profanare impunemente il nostro sacro tempio; noi, però, non glielo permetteremo in alcun modo. Li faremo pentire della empietà del loro atteggiamento, considerato che questa è la volontà del nostro divino Kursut. Dunque, vi voglio subito in armi, dediti a difendere la dimora della vostra divinità e a punire con severità gli assalitori sacrileghi, che devono essere eliminati senza pietà!"

Il capo della setta, ossia Olpun, si era acquietato, solamente dopo avere avuto la certezza che la totalità dei suoi settari si sarebbero battuti contro i soldati con strenuo valore. Inoltre, essi non si sarebbero lasciati spaventare dalla morte neppure un poco, poiché già li scorgeva lanciarsi a valanga verso l'uscita con le armi in pugno. Dopo si era anche rivolto al capo dei Votati alla Morte e gli aveva ingiunto: "Anche tu, Ernos, con i tuoi guerrieri bene addestrati, sei esortato a dare manforte a quei nostri correligionari, i quali già si stanno impegnando con eroismo nella lotta contro i soldati del re Cotuldo. Perciò fatti valere per quello che sei, imbattibile campione delle armi e delle arti marziali! Sono convinto che il loro attacco è una manovra intelligente pilotata dai nostri nemici, cioè dai ribelli che operano per conto di Lucebio. Si vede che essi hanno voluto giocarci un loro tiro mancino; però essi non raccoglieranno il successo sperato, grazie al valore dei nostri intrepidi guerrieri!"

All'esortazione del Prediletto, che aveva avuto quasi il sapore di una intimazione, il maestro d'armi, seguito dai suoi Votati alla Morte, si era lanciato come un fulmine verso l'uscita del tempio, dove gli altri Tricerchiati stavano facendo ressa. Questi, da parte loro, pur mostrandosi assai bramosi di scontrarsi con i loro nemici blasfemi, non riuscivano a riversarsi in massa e con sollecitudine all'esterno del sacro edificio. Difatti assolutamente non lo permetteva lo stretto uscio del loro tempio, poiché esso risultava di piccole dimensioni. La qual cosa giovava ai soldati che approfittavano di quell'ottimo vantaggio per avere il sopravvento sui loro avversari, sempre convinti di avere a che fare con i pervicaci ribelli, ossia con coloro che avevano giurato odio eterno e profondo verso il loro sovrano. Perciò, in un certo senso, la milizia regia stava ottenendo degli ottimi risultati da quel fiero scontro, nonostante gli avversari combattessero con una enorme rabbia nell'animo e vi si impegnassero con immenso furore, come se stessero affrontando dei veri demoni da abbattere.

Dopo averli raggiunti in brevissimo tempo, Ernos aveva ordinato a tali Tricerchiati di fare spazio a sé e ai suoi addestrati guerrieri, poiché in tal modo si sarebbe accelerata anche la loro uscita. Secondo il suo parere, dopo che avessero preso di petto gli assedianti profanatori, egli e i suoi uomini avrebbero creato un varco capace di rendere più fluida l'affluenza all'esterno dei loro amici intrappolati. Allora quelli non avevano esitato ad ubbidirgli, per cui si erano affrettati a fare largo a coloro che senza meno avrebbero mantenuto la promessa, una volta che si fossero trovati all'esterno del tempio. Soltanto in quel modo, i Votati alla Morte e il loro capo avevano potuto riversarsi fuori con maggiore celerità, dove si erano dimostrati dei belligeranti così ardimentosi e pericolosi, da cominciare a costringere i soldati ad abbandonare le posizioni più avanzate. Nello stesso tempo, essi avevano dato più ampio respiro ai Tricerchiati, che in precedenza avevano trovato difficoltà a balzare fuori dall'edificio, poiché venivano abbattuti via via che ne uscivano.

Quando infine tutti i seguaci della setta erano riusciti a superare l'uscio ed avevano iniziato a scontrarsi con i militi, il combattimento tra coloro che vi prendevano parte, il quale era da considerarsi una vera battaglia, aveva assunto vaste proporzioni, diventando aspro e accanito in ogni suo settore. Perciò non c'era angolo in cui non si rivelasse teatro di una lotta accesa e assai cruenta, siccome non si contavano più i corpi che vi si scorgevano martoriati e tranciati, finendo nella polvere morti oppure gravemente feriti. Dopo essere divampata con crudeltà inaudita nella totale sua estensione, la lotta adesso si andava svolgendo con ritmo infernale, per cui dappertutto ci si dava a mietere vittime in gran quantità. Le quali, abbattendosi al suolo esanimi e lorde di sangue, apparivano come deboli pianticelle che soccombevano alle accanite sferzate della tempesta. Quelli che facevano la parte del leone in tale tremenda zuffa potevano essere solo i grintosi Votati alla Morte, con i quali combatteva in prima fila anche Liciut, l'amico di Polen.

In quella lotta senza quartiere, però, era il loro capo Ernos a far mostra di sé in maniera superba ed incontestabile, dal momento che era capace di creare varchi anche là dove maggiore era l'ammassamento di soldati. Nello stesso tempo, egli vi seminava strage e vi recava la morte in modo efferato ed impietoso, quasi fosse una famelica tigre che si dava ad operare in un ovile il suo eccidio sanguinoso. Adesso, con un atteggiamento protervo, l'esperto d'armi e di arti marziali infieriva contro i suoi nemici alla stessa stregua che la belva avrebbe consumato la sua mattanza contro gli inermi ovini. Non un soldato riusciva a tenergli testa, compresi quelli che avevano una veterana esperienza nel maneggio delle armi e nei certami. Mentre cercavano di affrontarlo con baldanza e determinazione, essi subivano un infilzamento imprevisto da parte della sua spada. La quale, con i suoi invisibili affondi, pareva compisse prodigi a distanza, intanto che li trafiggeva e li ammazzava come cani rognosi. Pareva proprio che si fosse originato un vortice ciclonico in mezzo a coloro che tentavano di arginarne l'irreparabile impeto e l'aspra violenza distruttrice. Come ci si poteva rendere conto, essi ne venivano invece travolti ed uccisi con una rapidità impressionante, ma soprattutto senza avere una qualche possibilità di scampo.

Procedendo le cose con quell'andamento tragico al chiarore lunare, i tre giovani amici prendevano atto della pericolosità di Ernos e di quale potenza militare egli venisse a rappresentare per i loro avversari. Per questo si convincevano che era meglio evitare di sfidare l'una e l'altra, se una circostanza molto seria non lo avesse richiesto tassativamente, obbligandoli a farlo per una questione d'onore. Così, dopo aver preso coscienza che era di vitale importanza per loro tre non dimenticarlo mai, per adesso essi avevano badato a trarre fuori dai guai la sventurata figlia del maniscalco. In verità, Polen nutriva dei forti dubbi di poterla ancora aiutare. Egli era al corrente che il grido da lei emesso era da ritenersi soltanto quello di morte, visto che esso non poteva essere giustificato altrimenti. Ma il giovane non aveva voluto farlo presente ai suoi due amici, siccome permaneva in lui qualche fievole speranza di trovare ancora in vita la ragazza, dopo averla raggiunta. Incamminandosi furtivamente verso l'ingresso del tempio ed aggirando le due avverse schiere che si fronteggiavano dal lato nord, Solcio, Zipro e Polen vi erano pervenuti, nel momento in cui uno sparuto gruppo di Votati alla Morte, al comando di Liciut, stava finendo un uguale numero di soldati assalitori. Ma i dieci guerrieri si erano appena liberati dei loro nemici, quando i tre giovani gli si erano presentati con intenzioni tutt'altro che pacifiche. La qual cosa aveva spinto i Tricerchiati, fatta eccezione di chi li capeggiava, ad accogliere i nuovi arrivati con altrettanta brama di strage. Questa volta, però, avendo trovato pane per i loro denti e venendo attaccati perfino da chi era alla loro guida, erano stati i Votati alla Morte ad essere travolti rovinosamente e messi fuori combattimento dai quattro validissimi avversari. Al termine della breve e furibonda scaramuccia, il Tricerchiato Liciut si era rivolto al suo carissimo amico con queste parole:

«Come vedo, caro Polen, ci si incontra ancora, anche se in un momento tutt'altro che tranquillo! Mi ha fatto piacere dare una mano a te e ai tuoi amici; ma mi dispiace che io non possa trattenermi un attimo di più con voi tre. Se non voglio destare sospetti in Ernos, devo raggiungerlo all'istante e mettermi a combattere al suo fianco. Siccome suppongo che siate qui per liberare Erusia, ammesso che possiate ancora fare qualcosa per lei, lo stesso vi consiglio di raggiungerla celermente nel tempio. Comunque, ciò che conta è che lì dovreste trovare anche tua zia Stiriana e il suo amante Olpun, non essendo ancora riusciti ad abbandonare la palestra. Vi esorto a fargliela pagare a caro prezzo a quei due abominevoli esseri, per l'oltraggio arrecato crudelmente alla povera vittima di questa notte, alla quale eravate molto affezionati!»

Dopo che Liciut li aveva lasciati con una vigorosa stretta di mano, i tre amici si erano precipitati nella costruzione adibita a tempio. Vi erano entrati senza intralci, siccome non avevano incontrato sul loro percorso altri Tricerchiati che potessero ostacolare la loro avanzata verso l'interno. Esso, in quel momento, si presentava del tutto vuoto, visto che non vi si scorgeva anima viva. Allora i tre giovani, poiché ne avevano avvistato il corpo dopo essere irrotti nella palestra, si erano affrettati a raggiungere la ragazza; ma ella, avvistata da lontano, già era sembrata di non dare alcun segno di vita. Infatti, una volta che l'avevano raggiunta, essi ne avevano constatato l'avvenuto decesso. Ma oltre a tale funesta constatazione, i tre allibiti compagni erano stati costretti a sorbirsi la vista di uno spettacolo orrendo perpetrato su di lei che non era affatto bello a vedersi, a causa della sua immane atrocità. Prendendone atto con disgusto ed indignazione, i poveretti, da una parte, si erano sentiti venir meno, non essendo mai capitato loro di trovarsi tanto vicini ad una efferatezza del genere; dall'altra, invece, si erano sentiti ribollire di rabbia e di sdegno, che avrebbero voluto far scatenare su Stiriana e sul suo amante Olpun.

Soffermandoci sulla martoriata Erusia, la poveretta era legata in posizione supina sopra un massiccio tronco di albero con due spezzoni di corda, i quali le tenevano annodati i polsi e le caviglie, costringendo tali sue parti anatomiche a cingere la ruvida corteccia del legnoso fusto. Con un siffatto legamento, gli arti inferiori della ragazza si presentavano divaricati al massimo e mostravano a cielo aperto la regione pubica. Dell'intero corpo, essa appariva l'unica parte danneggiata in modo irreversibilmente mortale. Perciò la morte non aveva potuto fare a meno di impadronirsi di lei, per essere stata la vittima di un trattamento così orrendo e perverso. Senza dubbio, esso era da considerarsi brutale oltre ogni umana immaginazione. La zona, nella quale era situato il sesso della giovane immolata, aveva perduto il normale aspetto anatomico di prima e si era trasformato in un ammasso di carne bruciacchiata e maleodorante. A tale vista, ogni persona avrebbe scommesso che neppure la lebbra, se ne fosse stata la causa, con le sue mutilanti lesioni cutanee, avrebbe potuto arrecarvi un danno fisico più lesivo e deturpante.

Comunque, anche gli occhi dell'estinta figlia di Fusso, rispetto alla parte anatomica già citata, non si mostravano da meno. Essi esprimevano la drammaticità di un atto talmente ignobile, da non poter pretendere una giustificazione e l'approvazione da parte di ogni essere facente parte del consorzio umano. Ciò, perché esso era stato compiuto da carnefici privi di scrupoli e con una spietatezza, che spadroneggiava nel loro animo pervertito. Approfondendo i suoi due globi oculari con la dovuta considerazione, si aveva l'impressione che dalle rispettive cavità orbitali venisse fuori l'intero martirio, che la ragazza aveva patito immane e istantaneo. Per cui essa adesso non voleva conoscere confini e tentava di espandersi tutt'intorno, restando nel suo funesto alone di inconcepibile crudeltà. Perciò chi ne veniva colpito poteva soltanto esserne impressionato nell'unica maniera possibile, cioè quella che lo indirizzava verso la pietà e lo stimolava a vendicare il torto inumano da lei crudelmente subito.

Trascorsi i pochi brevi momenti di blocco psicologico che li aveva investiti, inibendo in loro ogni iniziativa ad agire in un qualsiasi modo, i tre giovani amici erano stati di nuovo in grado di prendere le loro decisioni del momento. La prima delle quali era stata quella di scovare i due ribaldi che avevano brutalizzato così orrendamente l'innocente Erusia, essendo desiderosi di conciarli come si meritavano. Anzi, non vedevano l'ora di avere tra le mani i due colpevoli di quell'assurdo misfatto, avendo intenzione di fargliela pagare con la massima punizione. Ma davvero i due carnefici erano ancora lì dentro, come Liciut gli aveva assicurato, ed avrebbero consentito loro di vendicare la ragazza? Comunque, essi dovevano pure stare molto attenti a non lasciarsi sorprendere in quel luogo dal temibile Ernos. Egli, anche se con qualche difficoltà, avrebbe potuto trasformarlo nella loro tomba.

Quando poi i tre amici erano pervenuti nell'unico posto che poteva tenere nascosti Olpun e la sua compagna Stiriana, inspiegabilmente non ve li avevano trovati. Si trattava dello stanzino situato nella parte retrostante dell'altare, a cui si accedeva superando una stoffa bianca ricamata, la quale era posta a separare i due vani. In quel luogo, infatti, come potevano rendersi conto, non si scorgeva l'ombra di un essere umano. Allora la deludente scoperta ne aveva avvilito parecchio gli animi, non sapendo essi come spiegarsi l'improvvisa sparizione dei due autorevoli Tricerchiati. Eppure Liciut gli aveva garantito che né l'uno né l'altra avevano ancora varcato la soglia del tempio, allo scopo di sfuggire all'assedio dei soldati e di sottrarsi ai loro propositi di carneficina. Perciò come avevano fatto essi a volatilizzarsi nel tempio in così breve tempo, rendendosi ad un certo punto praticamente irreperibili?

Il primo ad esprimersi sulla misteriosa scomparsa di Stiriana e del suo amante pelato, mostrandosi nel contempo assai convinto di quanto stava affermando, era stato Zipro. Il giovane, dopo aver valutato attentamente la situazione presente, si era rivolto ai suoi due compagni e gli aveva parlato in questo modo:

«Mi riesce difficile, amici, credere che il capo della setta e la degna sua compagna siano spariti nel nulla oppure siano diventati invisibili, sottraendosi alla nostra vista! Dunque, sono portato a credere che, in qualche parte della palestra o qui dentro stesso, ci sia un passaggio segreto, il quale ha permesso ad entrambi di svignarsela tempestivamente. Non è possibile spiegare in altro modo la loro sparizione!»

«Anch'io sono propenso a pensarla come te, Zipro.» gli aveva dato ragione Solcio «Ma qui, a quanto pare, non esiste alcuna botola o postierla, che porti ad una uscita secondaria. Infatti, solo esse avrebbero potuto permettere all'uno e all'altra di lasciare questo posto furtivamente in caso di necessità! Non sembra anche a voi?»

«Quindi, amici,» aveva concluso Polen «possiamo soltanto ritenere che Liciut si sia proprio sbagliato, essendogli sfuggiti sia mia zia che Olpun, mentre prendevano il largo di soppiatto. Ma adesso abbiamo da risolvere due problemi, ossia come uscire dalla trappola in cui ci siamo messi e come portare ai suoi genitori la salma della sventurata Erusia. Voi avete qualcosa da proporre, a tale riguardo?»

«Sono due situazioni, Polen, non facilmente gestibili, se le cose non mutano qui dentro.» gli aveva risposto Zipro «Ebbene, esse possono cambiare per noi, soltanto se troviamo il passaggio segreto che ci farà ritrovare oltre la zona di combattimento ingaggiato dai soldati e dai Tricerchiati. Ho la ferma convinzione che esso esiste e che bisogna trovarlo! Come puoi immaginare che tua zia e il suo amante bigotto abbiano potuto sfidare i pericoli esterni, mettendo a repentaglio la propria vita, quando invece nel tempio avrebbero corso meno rischi?»

«Io credo a quello che vedo, Zipro. Se i due birbanti qui non ci sono e non riusciamo a scorgere alcuna uscita nascosta da qualche parte, vorrà dire che essi sono scappati attraverso l'unico uscio esistente del tempio. Qualora tu potessi dimostrarci il contrario, togliendoci dall'attuale imbarazzo, Solcio ed io saremmo lieti di darti ragione! Altrimenti devi arrenderti all'evidenza, l'unica a dimostrarsi reale in questo posto!»

«Sei stato chiarissimo, Polen! Ma non ti sembra che una uscita, se è visibile, non possa essere più segreta? Perciò occorre cercarne una che sfugge ai nostri occhi ed esiste esclusivamente per condurre ad un passaggio sotterraneo. Adesso, tu e Solcio, mi fate la cortesia di allontanarvi da quel tappeto che vi si stende sotto i piedi e lo liberate del vostro peso? Dopo vi saprò spiegare ogni cosa, amici miei!»

Infatti, la parte centrale del pavimento del piccolo ambiente era coperta da un ampio e pregiato tappeto rettangolare, le dimensioni del quale misuravano due e tre metri. Esso, facendo mostra di bellissimi disegni decorativi di stile floreale, in quel momento era occupato dai corpi di Polen e del nipote di Sosimo. I quali, di tanto in tanto, si davano a calpestarlo con i propri calzari.

All'invito del loro amico, i due giovani all'istante gli avevano ubbidito e, nello stesso tempo, avevano atteso da lui delle ottime ragioni che lo giustificassero senza lasciarli perplessi; ma esse non erano tardate a giungere dal compagno. Egli, mentre si accingeva ad avvolgere il tappeto su sé stesso, apparendo sicuro di ciò che diceva, aveva fatto presente agli amici:

«Scommetto che qui sotto c'è quello che cerchiamo! Ne sono sicuro!»

Il decorato manufatto, in tessuto di fibre naturali, mentre veniva arrotolato, ad un tratto aveva fatto comparire ai loro occhi l'inizio di una botola di forma quadrata. Essa risultava chiusa con una lastra di pietra, la cui misura non superava il metro quadrato. Dopo che essa era venuta alla luce interamente, Zipro aveva esclamato:

«Cosa vi dicevo, amici miei? La mia ipotesi, come potete rendervi conto, si è rivelata esatta! Adesso ci basta solo sollevare questo lastrone, se vogliamo trovarci davanti al passaggio segreto che ha permesso la fuga a quelli che sappiamo noi. Dunque, affrettiamoci a liberare la botola da esso e procuriamoci la via d'uscita che ci servirà anche per condurre via la salma della sventurata Erusia!»

Una volta staccata dal suo incastro di chiusura la pesante lastra che faceva da tombino, Solcio, Zipro e Polen si erano trovati di fronte ad un cunicolo sotterraneo. Esso prendeva l'avvio tre metri più in basso, rispetto alla superficie del pavimento; ma per raggiungerne la parte calpestabile, bisognava prima servirsi di una scaletta a pioli di legno. Questa era appoggiata ad una delle quattro pareti, che formavano la stretta cavità della botola. Allora i tre giovani, pur di evitare l'irreparabile, avevano dovuto risolversi molto alla svelta, nello stabilire quali iniziative prendere in quella difficile situazione, che si presentava di grave disagio, oltre che un vero frangente. Così, prima di ogni cosa, avevano slegato il corpo esanime di Erusia, liberandolo dal tronco a cui risultava avvinto e rivestendolo con i propri indumenti. Subito dopo si erano muniti di una fiaccola per illuminarsi il buio cunicolo che stavano per percorrere. Infine, trasportando a spalla il corpo estinto della ragazza, si erano incamminati per quel sentiero privo di luce, il cui sbocco non si sapeva né dove sarebbe avvenuto né dopo quanti metri sarebbe terminato. Comunque, ad essere obiettivi, era da reputarsi un gesto davvero nobile, da parte loro, l'essersi assunto il compito di riportare ai suoi disgraziati genitori almeno il corpo della martoriata fanciulla, rischiando in quel modo la pelle. Era loro intenzione, infatti, permettere ad entrambi di dare alla povera figlia l'estremo saluto, oltre che riservarle delle onoranze funebri degne di lei.

Nel loro avanzare attraverso il tetro cunicolo, Solcio, illuminando parte di esso con la fiaccola, precedeva i due compagni, i quali lo seguivano a brevissima distanza, sovraccaricati del peso della salma di Erusia. Sebbene l'angusta galleria sotterranea non permettesse un transito sufficientemente agevole, in particolar modo a coloro che avanzavano oberati del carico ferale, alla fine essa era stata superata senza alcuna sorta di problemi. L'intero percorso aveva richiesto il tempo di una mezzora piena. Avvenuta poi l'uscita in una zona conosciuta da Polen, essi vi avevano trovato anche una decina di cavalli sellati, che riposavano all'addiaccio. Tali quadrupedi molto sicuramente dovevano essere appartenuti ai soldati caduti in battaglia. Essi, dopo la morte dei loro cavalcatori, trovandosi ad essere liberi, cioè senza averli più sulla groppa, se ne erano andati in giro per proprio conto, raggiungendo infine il luogo dove si trovavano a quell'ora di notte.

Allora Solcio, Zipro e Polen avevano voluto approfittare di quattro di loro. Essi, dopo essersene impadroniti, prima avevano caricato la salma della scalognata Erusia sopra una bestia e poi avevano raggiunto gli altri cento ribelli, i quali li stavano aspettando dove si tenevano nascosti. Da quel luogo, insieme con i loro copiosi commilitoni, i tre giovani avevano intrapreso la via che li avrebbe riportati nel loro campo in meno di un'ora. Ma prima di raggiungere le mura di Dorinda, il nipote di Sosimo era stato il solo a proseguire il cammino con gli altri verso il loro campo, poiché Zipro e Polen avevano fatto rientro in città per consegnare a Fusso e alla sua consorte il corpo inanimato della loro figliola.

Non era stato un problema per i due giovani farsi aprire le porte cittadine dalle guardie di turno, essendosi presentati ai gendarmi come i figli del loro ex comandante Croscione. Fra di loro, c'era stato anche chi era già a conoscenza della recente notizia rivelata dallo stesso ex consigliere militare del loro re. Essi avevano dovuto anche giustificare ai medesimi la presenza di un cadavere sopra la groppa di un terzo cavallo. Così avevano raccontato ai gendarmi che la ragazza era la fidanzata di Polen e che era stata colpita da morte improvvisa, mentre ritornavano da un viaggio. Adesso, perciò, egli ne stava portando la salma ai legittimi genitori per permettere loro di darle l'estremo saluto, oltre che farle celebrare delle solenni esequie, secondo l'usanza propria dei popoli edelcadici. Le guardie non si erano mostrate sospettose, in merito alla loro dichiarazione, per cui i due giovani avevano potuto proseguire il loro cammino e raggiungere la casa di Fusso.


Quando Zipro e Polen avevano bussato alla porta del maniscalco, la mezzanotte era passata da un paio di ore. All'energica bussata, il maniscalco non aveva tardato a venire fuori della sua dimora. Allora egli non ci aveva messo molto a scorgere il corpo della figlia sopra un cavallo. Ma credendola ancora viva ed addormentata sulla groppa della bestia, oltre che rallegrarsene, esultante si era dato ad esclamare:

«Bravi, giovanotti! Vedo che siete riusciti a liberare la mia Erusia e a riportarmela sana e salva a casa! Che il divino Matarum vi benedica! Adesso corro immediatamente a dare la bella notizia alla mia consorte! Vedrete che la mia preoccupata Attunia ne sarà felicissima e farà salti di gioia! Ma prima di questo mio atto dovuto, voglio raggiungerla ed abbracciarmela con tutto il mio affetto di padre! È giusto che sia così!»

Mentre l'uomo si lanciava di corsa verso la bestia, bramoso di abbracciare il corpo della figlia, Zipro prontamente lo aveva bloccato. Subito dopo, tenendolo fermo in quel posto, con alcune parole dal tono mesto, aveva provato a partecipargli l'amara realtà, che lo attendeva a poca distanza da lui. Così si era dato a fargli presente:

«Fusso, amico nostro carissimo, ascolta prima ciò che abbiamo da comunicarti, in riferimento alla tua sventurata Erusia! Non essere precipitoso a voler raggiungere la tua cara figliola, se non vuoi avere delle brutte sorprese all'ultimo momento!»

«Cosa vorresti dirmi, Zipro?! Forse alla mia Erusia è stato fatto del male? Desidero conoscere la verità! Perciò ti decidi a rivelarmi cosa di brutto le è stato fatto dai suoi rapitori? Voglia il cielo che quei maledetti Tricerchiati non l'abbiano brutalizzata! Se essi avessero abusato della mia bambina, non troverei più pace, fino a quando non l'avrei vendicata! Sappiatelo pure voi, cari amici miei!»

«Purtroppo, Fusso, non siamo riusciti a giungere in tempo sul luogo, dove i nostri nemici immolano le vittime del loro dio. Così anche alla poveretta tua figlia è stato arrecato il male crudele e mortale che i Tricerchiati sono soliti far patire alle disgraziate fanciulle da loro sacrificate. Ce ne dispiace moltissimo, amico nostro, di non esserti stati utili! Ma la colpa non è stata nostra oppure del piano da noi congegnato!»

«Voglio sapere, Zipro, a cosa vanno incontro le sfortunate ragazze, le quali capitano nelle grinfie dei Tricerchiati! Per favore, amico mio, dimmi l'intera verità in merito, senza sottacermi alcunché riguardante le loro immolazioni! Mi sono spiegato?»

«Dal momento che sei il padre di una di loro ed insisti a conoscerla, Fusso, la verità ti è presto detta. Ma ti avverto che non ti farà piacere conoscerla, considerata l'inumana pratica religiosa a cui ricorrono i Tricerchiati, pur di ingraziarsi la loro posticcia divinità. Ti farò anche i nomi dei due feroci responsabili che prendono parte attiva alla cerimonia, martoriando sadicamente le giovani fanciulle sacrificate al dio Kursut!»

Al termine del dettagliato resoconto del figlio della sua defunta vicina di casa, il maniscalco, schiumante di rabbia, si era dato ad urlare come un ossesso e ad imprecare contro gli stupratori e i carnefici della sua figliola, senza smettere più nel minacciarli rabbiosamente, urlando:

«Povera la mia piccola Erusia! Tali orribili cose le hanno fatte quelle malvagie persone?! Che Stiriana ed Olpun siano stramaledetti per l'eternità! Ma vi prometto che le due abominevoli canaglie un giorno me la pagheranno! Quei carnefici dovranno soffrire, per mano mia, ancora peggio di quanto ha penato mia figlia!»

«Certo che la pagheranno, Fusso!» gli aveva fatto eco Polen «Mia zia e il suo degno compare, oltre che a te, la pagheranno a me e a Zipro, poiché essi sono i responsabili pure della morte dei miei genitori e della madre del mio amico qui presente, essendo stati accoppati senza un motivo dai fanatici seguaci della setta!»

Dopo le parole del giovane, il maniscalco si era chiuso in un ostinato mutismo ed aveva incominciato ad avanzare verso il livido corpo della figlia, nel quale la vita aveva cessato di pulsare da oltre due ore. Aveva perfino rinunciato all'aiuto dei due giovani amici che, mossi a compassione, avrebbero voluto dargli una mano nel traslarlo dentro casa. Infatti, aveva manifestato di volere essere soltanto lui a compiere un'azione simile. Egli prima si era stretta al petto la gelida salma della familiare e poi, reggendola sulle sue braccia robuste, aveva iniziato ad avanzare verso l'uscio di casa. Intanto che si avviava verso di esso, era quasi parso che l'infelice uomo avesse perso il senso della realtà, essendosi estraniato dal mondo circostante, senza più riuscire a rendersene conto. La sua mente ormai navigava in acque burrascose ed inquiete, dove il delirio dei marosi impazzava senza tregua e si avventava contro ogni cosa che si rivelava esistente. Davano ad intenderlo i suoi occhi impietriti e sperduti nel dolore della propria esistenza. Essi, in quegli istanti disseminati di brusca bufera, volevano scorgere intorno a loro il solo vissuto che un giorno li aveva colpiti in modo particolare, per avere colmato l'animo di dolcezze e per avervi profuso un'appagante serenità.

A quello sguardo di Fusso, il quale si mostrava interamente annegato in una tragedia immane e voleva disconoscere tutte le cose e tutti gli esseri circostanti, Zipro e Polen avevano ritenuto giusto lasciarlo privo della loro compagnia e fare ritorno sull'altopiano, al loro nuovo campo. In quel luogo, c'era stato già il loro amico Solcio a ragguagliare Lucebio e Croscione di quanto era accaduto fuori e dentro il tempio dei Tricerchiati. Perciò, quando vi erano pervenuti nella tarda notte, essi se ne erano andati subito a letto, ammesso che fossero riusciti ad addormentarsi, dopo i fatti nefandi a cui avevano assistito durante le ore notturne.