20-L’intimo umano, l’anima e il loro rapporto

Condotto a termine lo studio della morte, il quale mi aveva fornito il modo di conoscere il primo aspetto della realtà del Caducon, ripresi l'approfondimento dell’umana perfezione, che avevo momentaneamente sospeso. Questa volta, ad ogni modo, intendevo studiare a fondo l’essere umano nelle sue componenti essenziali e nelle sue molteplici potenzialità. Perciò avrei iniziato a trattare per prime quelle di natura fisiopsichica, rimandando a dopo la trattazione di quelle intellettive e spirituali. In precedenza, avevo appreso che l’uomo possedeva un corpo e un’anima, dei quali il primo costituiva la prigione della seconda. Ma che cosa rappresentavano l’uno e l’altra per lui? Naturalmente, il corpo stava ad indicare la sua espressione biopsichica; mentre l’anima era la sua parte spirituale, che non aveva niente a che spartire con esso. Infatti, quest'ultima si esprimeva nel corpo mediante una presenza e un’attività così imponderabili, da spingere l’uomo nella sua intimità al seguente dilemma: Essa c’era o non c’era in lui? Nel caso poi che ci fosse una risposta affermativa, ne conseguivano altri due interrogativi: L’anima era a conoscenza oppure no di esserci in lui con una propria identità? Inoltre, una simile componente spirituale disponeva di un proprio mezzo per comunicare con il corpo ospitante allo scopo di trasmettergli le proprie considerazioni, sia pure in modo indiretto e a livello puramente coscienziale?

Senza dubbio, il corpo di ogni uomo aveva la sua anima individuale ed irripetibile; inoltre, essa era ben consapevole di appartenergli, anche se non proprio come un qualcosa di natura spirituale. Tale componente facente parte dello spirito, in realtà, era l’io del corpo che andava riflettendo tutta la vastità delle sue azioni, da quelle concrete a quelle astratte, e delle sue percezioni, da quelle empiriche a quelle razionali. Per la qual cosa, la sua funzione esclusiva consisteva nel prendere coscienza di quanto avveniva intorno a sé, esprimendo magari anche dei giudizi in merito. Circa il suo essere operante, l'anima giammai poteva fuoriuscire da quella sfera di impotenza, dove, dopo esservi stata relegata, si consentiva ad essa soltanto di riflettere, senza avere pure la possibilità di prendere delle proprie iniziative. Inoltre, poiché la sua riflessione non veniva deprivata della sua sensibilità, ne scaturiva che l'anima prendeva viva partecipazione alla vasta gamma degli umani sentimenti. I quali andavano turbinando ininterrottamente nell’intimo dell’essere umano.

L’uomo, quindi, oltre ad un corpo e ad un’anima, aveva un intimo. Ma che cosa esso rappresentava per lui? Come lo si poteva definire e quale valore attribuirgli? Infine, in quale rapporto esso coesisteva con il corpo e con l'anima? Se non mi sbagliavo, all’inizio della mia esistenza, già avevo avvertito in me la sua presenza e avevo avuto l’impressione che esso si dimostrasse la vera guida di tutto me stesso. Anzi, mi era sembrato la spinta propulsiva dell’intera mia attività psichica ed intellettiva, oltre che il modulatore delle sue molteplici estrinsecazioni. Difatti l’intimo dell’uomo rappresentava l’attivatore e il coordinatore di tutte quelle azioni ad hoc, attraverso le quali il corpo umano esprimeva la sua esistenza biopsichica e quella intellettuale. Di conseguenza, il corpo risultava subordinato completamente al suo intimo, da cui gli venivano impartiti senza sosta i più svariati comandi. Questi miravano a procurargli il maggior numero possibile di sensazioni di ogni specie, regolandone l’afflusso e l’intensità espressiva. Perciò se ne deduceva che il corpo non era altro che lo strumento materializzatore, cioè il vero traduttore in concreto, delle più disparate esigenze dell’intimo umano. Il quale, a sua volta, costituiva nell’uomo il substrato astratto che era in perpetua attività, oltre che in continua ascesa evolutiva, come era appunto avvenuto fin dalla sua origine. In verità, bastava che il corpo andasse incontro ad una delle tante complicazioni cerebrali oppure morisse, che subito si vedeva anche il suo intimo accusare dei disturbi di funzionamento o andare incontro ad una paralisi totale.

Allora nel primo caso si registrava in esso una parziale regressione; mentre nel secondo si assisteva all’arresto totale della sua evoluzione. Un fenomeno del genere mi induceva a riconsiderare e a studiare daccapo il vero rapporto esistente tra il corpo umano e il suo intimo, poiché mi andavo accorgendo che esso non mi appariva interamente lampante. Anzi, direi che mi avesse fatto incappare in un autentico rebus guastafeste. Infatti, pur potendo il corpo esistere senza il suo intimo e pur non potendo l’intimo vivere senza il suo corpo, alla fine si aveva che l’attività psicofisica del corpo dipendeva realmente dall’attività razionale del proprio intimo. Ma come era possibile l’esistenza di un simile paradosso, ossia che, dipendendo una cosa da un’altra, era poi quest’ultima ad essere diretta dalla prima e a subirne i dettami? Almeno al suo primo vaglio, un tale stravagante rapporto aveva senz’altro il sapore di un autentico enigma! Poco dopo, invece, avendo approfondito sotto tutt’altra luce l’argomento che stavo trattando in quel momento, compresi che non si stava affatto di fronte ad alcuna assurda situazione, poiché niente veniva ad urtare contro la logica coesistenza di quelle due componenti umane. A ben considerare la cosa, tra di loro non si attuava nessun rapporto né di dipendenza dell’uno dall’altro né tanto meno di interdipendenza, come poteva apparire ad un primo esame.

L’uomo era e restava una pura entità biopsichico-intellettiva, la quale si dimostrava armonica ed inscindibile. E tale rimaneva, anche quando pareva che la parte intellettiva se ne staccasse e si elevasse al di sopra di quella biopsichica, allo scopo di dirigerla oppure di dominarla a suo piacimento. Nessuna separazione reale, dunque, avveniva tra il corpo umano e il suo intimo; altrimenti, in certi accidenti più o meno gravi, la morte del primo non avrebbe comportato anche l’estinzione del secondo. Così anche l'intimo, per la stessa ragione, sarebbe sopravvissuto anche dopo la morte del corpo. Ma tale separazione doveva essere ritenuta solo apparente, in quanto si effettuava di riflesso, trattandosi di una pura estrinsecazione dell’intimo che veniva operata dal corpo. Comunque, l’uno e l’altro sarebbero restati sempre nell’unità di esistenza, identica e indivisibile. Perciò occorreva rendersi conto che, se una differenza si poteva ravvisare tra il corpo e il suo intimo, essa consisteva in un fatto molto semplice. Il primo era destinato ad un ciclo biologico standardizzato ed immodificabile nel suo continuo e perenne rigenerarsi. Mentre il secondo era munito di una perfettibilità all’infinito e non soggetta ad alcuna morte, ma trasmissibile da una generazione umana ad un’altra. Ciò faceva intendere che ogni discendente aveva la possibilità di disporre utilmente della somma delle perfezioni raggiunte da quanti lo avevano preceduto nel tempo. Inoltre, gli veniva anche accordata la possibilità di ripartire da essa, sia per fruirne nei modi indicati dalle sue esigenze di vario tipo, sia per incrementarla e arricchirla con il contributo personale della propria insita perfettibilità.


L’intimo umano, che era da considerarsi una entità sintetica sistematicamente organizzata, si presentava racchiuso in una piccola sfera, dove esso risultava costituito di cinque componenti particolari, l’una indipendente dall’altra. Le quali lo sezionavano in altrettante sfere concentriche, di cui le quattro più esterne erano logicamente cave. Per sfera cava, si intendeva lo spazio compreso tra le superfici di due sfere concentriche aventi i raggi di differente lunghezza. Quanto alle cinque componenti dell’intimo, partendo dalla sua zona periferica verso quella centrale, esse prendevano il nome di: sentimento, ragione, giudizio, intelligenza e coscienza.

Il sentimento era la parte dell’intimo deputata a captare quelle sensazioni fisiopsichiche e quelle astrazioni che continuamente investivano l'esistenza dell’uomo, facendolo agire di conseguenza. Per tale ragione, esso era situato alla periferia dell’intimo, cioè nella parte prossima a quell’area in cui si manifestavano i fenomeni capaci di influenzare l’intera attività umana. Non era escluso che esso rappresentasse proprio la loro via di accesso a tutta la sfera della complessa struttura dell’intimo umano. Dunque, il sentimento non risultava una entità con funzione selezionatrice; ma era da considerarsi semplicemente un recettore della totalità delle diverse situazioni. Le quali si andavano verificando là dove l’uomo si trovava ad operare, compresi gli elementi concreti ed astratti che le generavano. La sua ricettività, come intuivo, si dimostrava sensibile e capillare al massimo, per cui non era possibile che gli sfuggisse qualcosa del mondo circostante, neppure la più impercettibile modificazione che veniva a registrarsi in ogni suo ambiente. Dopo che l’area del sentimento era diventata satura delle diverse percezioni che vi erano affluite dall’esterno per varie vie e in modo differente, la limitrofa ragione interveniva ad impossessarsene. Così le avviava per i diversi canali che confluivano nell’area del giudizio, che erano chiamati selettori di categorie. Ciò, perché era competenza della ragione classificare gli elementi e i fenomeni che erano stati captati dal sentimento, allo scopo di ottenerne varie categorie. Ma la sola consapevolezza dell’esistenza di tali categorie di elementi e fenomeni rappresentava ancora ben poca cosa, perché l’intimo potesse giovarsene e ricavarne il massimo profitto. Occorreva invece che tali categorie di percezioni venissero selezionate da esso, in base ad un criterio teso a valutarle qualitativamente. Solo in quel modo l'intimo era in grado di usufruire della parte migliore di ciascuna di esse. La quale gli avrebbe garantito una crescita evolutiva efficace e soddisfacente.

Nella zona mediana dell’intimo, il giudizio svolgeva la sua azione di discernimento e di critica. Ad esso pervenivano le varie categorie delle percezioni per essere sottoposte al suo vaglio, ossia a quella sua azione che mirava a stimarne la qualità nel modo migliore. Un fatto del genere stava ad indicare che non tutte le percezioni delle diverse categorie venivano scelte e tenute per buone da parte del giudizio. La scelta di quest'ultimo, come sembrava, cadeva esclusivamente su quelle che esso riteneva per qualità più idonee a servire l’intimo nel soddisfacimento delle sue esigenze e nel raggiungimento dei suoi fini. Per esattezza, erano proprio queste percezioni selezionate che venivano avviate per l’unico canale diretto all’area dell’intelligenza, il quale era detto appropriatamente selettore di vaglio. Una volta poi che le percezioni vagliate dal giudizio erano giunte all’area dell’intelligenza, questa provvedeva ad elaborarle, assegnando a ciascuna un ruolo specifico, ossia quello che avrebbe fatto ottenere all’intimo il massimo rendimento. Senza alcun dubbio, l’intelligenza si rivelava davvero la parte dell’intimo più importante, poiché era l’unica a cui l’essere umano doveva la sua infinita perfettibilità. La quale poteva evolversi con o senza l’ausilio di quei fenomeni che si andavano svolgendo nel mondo esterno ad essa.

A quel punto, lo studio della complessa attività dell’intimo poteva considerarsi esaurito, dal momento che ero venuto a sapere come in esso si attuava il processo di selezione, di elaborazione e di vaglio di tutte le percezioni che venivano ad investirlo. Restava soltanto da stabilire qual era, nell’efficientissima macchina dell’intimo umano, la funzione della coscienza. La quale occupava quella parte centrale dell’intimo, che pareva essere la vera dimora dell’anima umana. Ma, in seguito ad un suo ulteriore approfondimento, alla fine mi resi conto che nella coscienza ci stava la consapevolezza di tutta l’attività dell’intimo, unitamente alla facoltatività di accettarla oppure di respingerla. Essa, insomma, c’era per rendersi conto delle diverse possibilità di scelta, di fronte alle quali l’uomo veniva a trovarsi, al fine di optare per una qualsiasi di loro. Ovviamente, la libertà di scelta da parte dell’uomo era ancorata alla sua soggettività e al suo credo, fatto che non escludeva che essa potesse discostarsi anche deliberatamente dall’assoluta verità divina. Così veniva finalmente chiarita la vera funzione della coscienza. Il quale chiarimento mi faceva pure constatare che, mentre le restanti zone dell’intimo si presentavano come delle mere facoltà di apprendimento e di produzione a carattere puramente strumentale, essa assumeva un valore alquanto diverso da quello delle altre. La coscienza, in verità, veniva a rappresentare l’essenza pura che azionava l’intera attività dell’intimo, guidandola e dirigendola verso quegli obiettivi che si era proposti in precedenza. Sotto tale aspetto, perciò, essa poteva considerarsi la sola parte dell’intimo che riusciva ad assurgere a personalità autentica, ossia ad autonomia di pensiero e di azione.


A completamento del mio studio riguardante la perfezione prettamente umana, mi restava da apprendere solo in quale rapporto coesistevano l’intimo e l’anima e se quest’ultima, nonostante il suo precario stato di prigionia coatta, riusciva in qualche modo ad influenzare il primo. A mio parere, era proprio quell’apprendimento che mi avrebbe fatto comprendere sia la presenza dell’anima nell’uomo sia la perfettibilità di quest'ultimo. La quale poteva unicamente derivargli da essa, in quanto essenza eternoniana.

Ebbene, nell’uomo, l’anima era incapsulata nella sferetta della coscienza. Ma, essendo inconsapevole sia di sé che della sua natura soprannaturale, finiva per credersi parte della stessa coscienza o, addirittura, per identificarsi con essa. La coscienza invece, da parte sua, non ne avvertiva affatto la presenza, anche perché la sua esistenza in essa si rivelava quasi assente, essendo l’anima priva di un proprio modus vivendi. Si poteva affermare che l’unica attività dell’anima, ossia quella riflessiva, si immedesimava con la stessa riflessione della coscienza, senza mai dare luogo a qualche sdoppiamento esistenziale e senza mai evidenziare divergenze di alcun tipo nei suoi rapporti con la coscienza. Perciò l’anima, se di fatto sfuggiva a sé stessa, come poteva non sfuggire pure alla coscienza? Eppure, anche se non poteva influire sulla coscienza in nessun modo, l’anima doveva senz’altro avere dei momenti riflessivi discordanti dalla riflessione della coscienza. Essi dovevano essere manifestati in una qualsiasi forma o in un qualunque modo. Di sicuro la vigile coscienza, pur captandoli nella propria riflessione, non riusciva ad attribuirli ad una entità che non fosse la sua. Perciò li spiegava come scaturiti da sé stessa e li giudicava come momenti di incertezza oppure di dubbio del tutto normali, ritenendoli appartenenti alla propria attività meramente comparativa. Ma quei momenti di divergenza e di chiaro contrasto, quando si verificavano nella coscienza dell’intimo, offrivano all’anima l’opportunità di scorgersi come un qualcosa di differente e di nettamente distinto dalla coscienza? Cioè, in quella circostanza di manifesta contrapposizione o di ribellione, l'anima era cosciente di possedere una esistenza interamente sua, anche se impotente ad esprimersi in una qualsivoglia forma? No, essa avrebbe continuato a ritenersi parte integrante della coscienza, anche quando in quest’ultima due diverse e contrastanti opinioni si fossero fronteggiate e lottate, allo scopo di avere la meglio l’una sull’altra!

L’anima, quindi, nei suoi rapporti con la coscienza, era costretta a condurre una esistenza inconscia ed inerte, priva di ogni libera iniziativa, viva esclusivamente a livello di riflessione. Ma non la stessa cosa avveniva, quando essa si lasciava trascinare nell’intelligenza dai desideri della coscienza. In quell'occasione così importante, immedesimandosi con tali desideri, l’anima riusciva a viverli molto intensamente. Alla fine, si dimostrava in grado di ottenere in sé quello slancio di brama realizzatrice che, unicamente in quel caso e in via del tutto eccezionale, si palesava influente ed attivo. E siccome la sua natura era quella che era, ossia immensamente portentosa, contribuiva insieme con l'intelligenza alla loro straordinaria realizzazione. Al riguardo, occorreva precisare che il contributo dell'anima era molto limitato; risultava appena quella minima parte che le poteva consentire la sua riflessione. Ma ciò si aveva, dopo che quest'ultima era stata proiettata nell’intelligenza dai desideri indagatori e conoscitivi dell’attiva coscienza. Era esattamente in questo modo che l’intelligenza si arricchiva di un'infinita perfettibilità, la quale avrebbe permesso all’uomo di progredire, senza cessazione e trionfalmente, attraverso lo scorrere dei secoli. Tale progresso, però, sarebbe stato consentito all'essere umano, a condizione che egli non se ne servisse in maniera aberrante. In caso contrario, per lui non ci sarebbe stato scampo, siccome ci sarebbe stato ad attenderlo dietro l'angolo la propria autodistruzione. A conclusione del mio studio sulla perfezione umana, mi rimaneva solo da aggiungere che l’intelligenza poteva risultare diversa da una persona all’altra e che poteva essere differente anche il grado di intensità partecipativa dell’anima all’attività delle varie intelligenze. Logicamente, esso riusciva ad esprimersi al massimo nell’intelligenza di quell’essere umano superiore, a cui poteva essere dato il nome di genio.

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