99°-BABBOMEO FORMA EGREGIAMENTE I SUOI DUE ALLIEVI

Trascorsero altri otto lunghissimi anni, durante i quali Babbomeo si era reso conto che, passando dalla loro fase adolescenziale a quella della gioventù, giorno dopo giorno, in Iveonte e in Francide era andata lievitando una nuova forza sempre più gagliarda ed irresistibile. Ciò, anche grazie alle esercitazioni fisiopsichiche a cui egli li aveva sottoposti con molto rigore. Inoltre, aveva notato che il loro ingegno, per merito della sua validissima educazione, era divenuto sempre più acuto e brillante, mentre il loro cuore si era andato arricchendo di nobiltà e di generosità. Non gli era sfuggito neppure che il loro animo si era mostrato sempre più infervorato da propositi umanitari ed era stato sollecitato da un forte desiderio di compiere imprese eccezionali. Infine dentro di loro era finalmente albeggiata quella recondita giovinezza, che si era fatta tanto attendere negli anni precedenti. Essa era emersa dal tempo, infondendo in entrambi una carica di vitalità, che li aveva entusiasmati come non mai. Soprattutto li aveva portati ad agire senza sosta nel campo della concretezza e a programmare i più arditi progetti in quello del pensiero!

Iveonte e Francide avevano smesso da tempo di essere dei ragazzi dediti unicamente a star dietro ai loro giochi o a pascersi dei propri sogni oppure ad almanaccare piani irrealizzabili. Adesso entrambi erano diventati dei giovanotti animosi, che avevano una concezione dell'esistenza più fattiva e realistica. Ma anche erano pervasi di uno spirito ardimentoso e temerario, il quale in continuazione li spronava a compiere imprese avventurose permeate di grande eroismo. Come pure facevano mostra di una costituzione fisica eccellente, siccome essa si presentava stabile, solida e vistosamente atletica. Volendoli descrivere più approfonditamente, essi si presentavano alti di statura e armonici nelle loro perfette forme; mentre i loro occhi apparivano molto vivaci ed espressivi. Si mostravano intraprendenti, audaci, intelligentissimi, accorti, valorosi al massimo nelle armi ed eccellenti conoscitori delle arti marziali. A giudicarli dall'esterno, l'uno e l'altro potevano essere scambiati per autentiche divinità incarnate. Per questo erano da considerarsi già pronti a far fronte ad atti eroici ed avventurosi di ogni sorta.

Il fantastico racconto di Babbomeo aveva suscitato nell'animo bellicoso dei due amici l'irrinunciabile desiderio di impossessarsi della spada del famoso Koluor. L'arma fatata li spingeva senza sosta ad intraprendere quell’ardua impresa, che non aveva recato fortuna al loro inestimabile tutore. A tale riguardo, entrambi erano convinti che loro due sarebbero riusciti senz'altro in essa. Anzi, presentivano che la prodigiosa spada alla fine avrebbe ceduto ad uno di loro, pur ignorando quale dei due essa avrebbe prescelto durante il loro tentativo.

Riguardo a Babbomeo, il quale aveva avuto sempre con sé la propria spada, non si era astenuto dall'insegnare ai suoi due pupilli il suo maneggio più abile e perfetto, sia quello mirante alla difesa personale sia quello tendente ad azioni offensive. Durante le varie esercitazioni, mentre egli aveva sempre adoperato una spada di legno al posto della reale arma, ai due ragazzi aveva sempre fatto impugnare la propria spada. Era stato in tal modo che l'uomo, rendendoli pratici di colpi bene assestati ed irresistibili, li aveva addestrati a tener testa ai più temibili avversari, ma soprattutto li aveva preparati a schivare i loro colpi tremendi. Più di ogni altra cosa, Babbomeo non si era stancato di raccomandare ai due allievi di incalzarli senza esitazione, ogni qualvolta riuscivano a cogliere il momento propizio, in seguito ad un fallo che l'avversario veniva a commettere per un qualunque motivo.

In relazione alle attività fisiche, l'esperto uomo d'armi e di combattimento ravvicinato si era preoccupato precipuamente di fare eccellere Iveonte e Francide anche nell’uso dell’arco. Soprattutto gli aveva permesso di apprendere la disciplina delle arti marziali, quella che risultava la migliore in senso assoluto. Addestrandoli in esse, egli aveva fatto basare il loro combattimento corpo a corpo su tecniche codificate, attenendosi a principi fisici, culturali e filosofici. La stessa cosa era avvenuta per lui, quando aveva ricevuto il suo insegnamento da parte di alcuni dei suoi ex maestri. Perciò, attraverso tali arti, Babbomeo aveva fatto conseguire ai due giovani allievi anche le abilità di autodifesa e di autocontrollo. Ma anche li aveva abituati a familiarizzare con il proprio corpo, facendo acquisire a ciascuno di loro la sicurezza nelle proprie capacità. Infine li aveva resi coscienti che, quando ingaggiavano un combattimento a mani nude oppure armate di qualsiasi tipo di armi, siffatte abilità diventavano strumenti vitali. Ecco perché, nell’apprendimento di quel genere di arti, l'impareggiabile maestro aveva mirato ai seguenti due obiettivi: quello di sconfiggere fisicamente l’avversario e quello di difendersi dalla sua aggressione fisica. Inoltre, aveva invitato i due giovani a prendere coscienza della distinzione esistente tra le parti del corpo vulnerabili e quelle invulnerabili, poiché la vittoria gli sarebbe derivata esattamente da quel tipo di conoscenza. In modo particolare, Babbomeo aveva voluto allenarli a concentrarsi, a rilassarsi al momento opportuno, cioè a seconda delle circostanze. Nello stesso tempo, li aveva esercitati ad assecondare l’avversario nei diversi movimenti dello scontro, usando mani e piedi come spade. Prima, però, doveva esserci il rassodamento di tali organi appendicolari, fino a farli contrarre ed espandersi con una velocità impressionante.

Babbomeo, nell’impartire ai propri allievi le rigorose lezioni di arti marziali, non aveva dimenticato di condurli alla crescita delle proprie capacità psicofisiche, mentali e spirituali. Nel combattimento, perciò, egli li aveva addestrati ad avvalersi con perizia delle tecniche della mano (quali potevano essere i pugni, i colpi di mano aperta e le gomitate), delle tecniche della gamba (come i calci e le ginocchiate), delle varie prese e torsioni, di determinate proiezioni, delle leve articolari, delle pressioni nei punti vitali, della spada e dei bastoni. Alla fine, attraverso l’apprendimento delle arti marziali, Iveonte e Francide avevano plasmato il loro carattere ed erano diventati più consapevoli del loro operato. Ma avevano pure imparato ad agire con determinazione, ad essere retti e riconoscenti verso i loro benefattori, nonché ad aspirare al sommo ideale di giustizia. Essi, grazie alle capacità magistrali del loro Babbomeo, erano divenuti in special modo esperti nella conoscenza degli altri attraverso lo studio di sé medesimi.

Come esercizi propedeutici, erano risultate valide le tecniche di allenamento base, ossia di parata e di attacco, per cui il combattimento era stato posto sopra un piano rituale e non era stato eseguito sul piano reale. Praticamente, i colpi non erano stati affondati alla ricerca dell’atterramento del praticante che aveva di fronte; perciò essi erano stati sempre arrestati in tempo, al fine di preservare la loro incolumità. Va precisato che le tecniche, pur avendo avuto un significato simbolico, avevano dimostrato il loro potenziale fisico e psichico, dal momento che erano state eseguite come se fossero state reali. Per questo le avevano controllate e smorzate all’ultimo istante, perché non arrecassero danni al suo destinatario. Ad ogni modo, la loro esecuzione era stata sempre finalizzata alla massima efficacia possibile. Tra le tecniche usate, non erano mancate le seguenti: i calci alti e circolari, il calcio laterale alto, le rotazioni, gli spostamenti laterali e i movimenti rapidi, i quali dovevano rivelarsi difficilmente controllabili da parte dell'avversario.

Durante il corso delle esercitazioni, l'insigne e provetto maestro aveva fatto presente ai due allievi praticanti che la fluidità dei movimenti tonificava i polmoni e il diaframma, mentre i glutei costituivano il punto di forza. In pari tempo, egli aveva chiarito loro che i colpi andavano portati alla maggiore distanza possibile, mantenendo la postura e l'equilibrio in modo corretto, ad evitare di creare disequilibrio senza volerlo. Così Iveonte e Francide avevano imparato a difendersi da un avversario, avanzando prima verso di lui e poi schivando il suo colpo in maniera tecnica e spostandosi dietro la sua schiena, dove erano già pronti a scansare il successivo attacco dell’avversario. In precedenza, però, essendo consapevoli che la sopravvivenza dipendeva dalla capacità di annientare il nemico, avevano bene assimilato i principi tecnici basilari, i concetti energetici, le posizioni del corpo, i giochi degli arti inferiori, i movimenti di transizioni e gli accorgimenti per eseguire agili rotolamenti e cadute. Ma avevano appreso pure le varianti di difesa e di attacco, potendo esse ritornare utili nel combattimento che stavano affrontando contro l'avversario.

I molti anni di sforzo e di allenamento avevano prodotto nei due giovani campioni non soltanto una grande capacità tecnica, bensì anche una mente libera tanto dall’arroganza e dalla supponenza, quanto dalla paura e dall'indecisione. Inoltre, entrambi avevano raggiunto l’armonia e la sanità del corpo, il quale era così risultato forte, flessibile e in grado di esprimere il massimo della potenza con il minimo sforzo. Per ottenere la qual cosa, gli stessi avevano dovuto far coniugare alcuni binomi, come la potenza con l’elasticità, la stabilità con il dinamismo, la morbidezza con la durezza, realizzando così alcuni rapporti dinamici e creativi. In quel modo, le loro arti marziali, se essi avessero voluto, avrebbero potuto anche dimostrarsi micidiali nei confronti dei loro avversari. Infatti, esse si avvalevano di tecniche esplosive sia di pugno che di calcio, sia di proiezione al suolo che di intrappolamento degli arti, nonché di istantanei ed imprevisti colpi che atterravano. Alla fine del loro lungo e sodo addestramento, Iveonte e Francide erano diventati schermitori talmente formidabili ed eccezionali, che lo stesso Babbomeo se ne era compiaciuto immensamente, fino ad affermare con gioia ad entrambi: "Voi siete davvero portentosi, ragazzi miei! Non ho mai avuto allievi di così rara bravura, da superare perfino me, che sono il vostro maestro. Sono convinto che nelle vostre vene scorre sangue battagliero, mentre i vostri antenati saranno stati dei prodi guerrieri. Adesso che i vostri spiriti pugnaci si sono nutriti della mia ineguagliabile maestria, sono certo che nessuno al mondo sarà in grado di resistervi nelle diverse armi e in ogni tipo di lotta. Ve lo garantisco, senza esagerazione, miei eccellenti allievi! Che il successo e la gloria un giorno coronino la vostra esistenza!"

I due giovani, non solo si mostravano preparatissimi nelle armi e nelle arti marziali, ma avevano anche raggiunto un'ottima formazione nelle discipline umanistiche e scientifiche. Inoltre, la loro integerrima moralità e la loro devota religiosità, unitamente a tutte le altre doti di una educazione intellettuale e pratica, ne facevano dei modelli esemplari di persone urbane. Nel crescerli e nell'educarli, Babbomeo non aveva tralasciato nulla di nulla, anche perché aveva dato per scontato che i suoi allievi un giorno sarebbero vissuti presso qualche città e in mezzo a gente civile. A tale riguardo, non dimentichiamo che, in previsione del loro impatto futuro, egli si era adoperato in mille modi per inculcare nel loro animo e nella loro coscienza le usanze, i costumi, gli atteggiamenti, le abitudini comportamentali, i modi di vivere e di ragionare, i codici di vita sociale e di civiltà, le espressioni idiomatiche, che erano in voga nelle città edelcadiche. Difatti tali ricercate espressioni del comportamento risultavano proprie della raffinata e colta aristocrazia del tempo.


Un giorno, approfittando che Francide era intento a spaccare la legna e ne aveva ancora molto di tale lavoro, prima di terminarlo, Babbomeo pregò Iveonte di fare alcuni passi insieme con lui nella circostante radura. Mentre essi camminavano con passo normale e senza che si proferissero parole tra di loro, a un tratto il maturo uomo gli fece presente:

«Ti ho invitato a questa passeggiata, Iveonte, perché ho da riferirti alcune cose molto importanti. Ma poiché ciò di cui parleremo tra poco dovrà rimanere segreto per chiunque, a parte noi due, ti chiedo di promettermi che non lo rivelerai a nessuno, neppure al tuo amico Francide. Non ti ho chiesto di giurarmelo, poiché sono sicuro che per te una promessa fatta vale quanto un giuramento. E pure di più! Non è forse così?»

«Hai ragione, Babbomeo, ad affermare che per me, come lo sono anche per il mio amico, le promesse hanno lo stesso valore dei giuramenti, essendo vincolanti quanto questi ultimi. Perciò un uomo d’onore le mantiene sempre, a costo di mettere a repentaglio la propria vita! Sei stato tu ad inculcarci i principi morali che non bisogna mai violare, dimostrandosi essi salutari per l’uomo. Non comprendo, però, perché mai Francide, il quale per me è come un fratello ed insieme rappresentiamo per te due veri figli, non debba venire a conoscenza di quanto adesso hai deciso di svelarmi! Mi vuoi spiegare questo diverso trattamento di fiducia, la quale, come vedo, viene da te riservata a me soltanto?»

«Iveonte, non è mia intenzione usare due pesi e due misure nei vostri confronti; però ci sono costretto ad agire in questo modo, ad evitare di infrangere il giuramento che ho fatto tanti anni or sono ai miei rispettabili maestri. I quali mi permisero di diventare l’uomo che sono oggi, consentendo anche a voi di ereditare l’immenso mio bagaglio culturale, che abbraccia quasi tutto lo scibile umano. A ogni modo, dopo che avrai appreso ogni cosa su tali persone egregie, sono certo che capirai e non ti porrai più domande del genere. Inoltre, non ti apparirò più un uomo parziale ed ingiusto, quale ti posso sembrare in questo momento. Ora sono riuscito a persuaderti?»

«Bene, Babbomeo, sono sicuro che è come tu dici, non potendo essere altrimenti. Quindi, puoi iniziare a riferirmi ciò che ti preme dirmi, poiché hai la mia parola che ogni cosa che apprenderò da te in questa circostanza resterà solamente un mio segreto. Ma prima ci tengo a precisarti che Francide ed io non oseremmo mai ritenerti una persona ingiusta e parziale per nessunissima ragione. È giusto che tu lo sappia!»

«Iveonte, devi sapere che, quando avevo sette anni, mi furono uccisi i genitori da alcuni predoni. Mio padre faceva l’arrotino e si spostava da un luogo all’altro per guadagnarsi da vivere. Essi si trovavano presso l’Altopiano delle Stelle, quando fu consumato il tremendo delitto. Allora rimasi solo in quella sperduta contrada, dove per fortuna mi raggiunse poco dopo un tà. Il quale apparteneva ad una confraternita, i cui componenti vivono sull’altopiano citato e si fanno chiamare Fedeli Servi di Matarum. Egli, che aveva conosciuto anche i miei genitori qualche anno prima, mosso a pietà di me, mi condusse con sé tra gli altri tai, in mezzo ai quali trascorsi la mia vita fino al compimento del mio ventesimo anno di età. Da loro ricevetti moltissimo, inteso esso moralmente, spiritualmente, fisicamente e culturalmente. Mi riferisco a tutto ciò che ho fatto apprendere anche a te e a Francide negli anni trascorsi. All’inizio, gli altri tai si opposero alla mia presenza presso il loro romitaggio; ma dopo l’intervento del loro decano, essi desistettero ed iniziarono a dedicarsi a me in modo affettuoso, come se fossero tutti dei miei genitori.»

«Ti ringrazio, Babbomeo, per i fatti che mi stai narrando, i quali mi permettono di conoscere almeno in parte il tuo fiabesco passato. Adesso, però, vai avanti a narrare ogni cosa attinente al tuo racconto, per favore, dal momento che li sto trovando di mio massimo gradimento!»

«Insieme con l’affetto, essi vollero impartirmi una sana e rigida educazione, perché essa mi facesse eccellere in ogni campo del sapere. Così tà Ziolì, il loro decano, mi insegnò l’arte dello scrivere e del parlare bene, oltre alla cultura in genere. Invece tà Katù, il frate che mi aveva raccolto e salvato dalla mia solitudine, si diede ad insegnarmi le varie arti marziali e il pugilato, facendomi diventare imbattibile in ogni tipo di lotta. Quanto a tà Bibò, da lui appresi la matematica, la logica, le scienze e l’astronomia, desiderando che io imparassi a ragionare ed avessi una mente sempre sveglia e recettiva al massimo. Da parte sua, tà Sinù mi rese ferrato nelle cinque discipline che, a suo parere, rendevano saggio un uomo, cioè la filosofia, la teologia, la pedagogia, l’etica e la politica. Invece ricevetti l’insegnamento dell’uso della spada, dell’arco e del giavellotto da tà Milù, il quale mi rese un campione insuperabile in tali armi. L’educazione di tà Luanì, anch’essa importante, consistette nel farmi diventare un eccellente artista, insegnandomi le quattro arti sorelle, ossia la poesia, la pittura, la scultura e la musica. Anche tà Filù mi impartì la sua parte di educazione, la quale fu essenzialmente artigianale, insegnandomi le tecniche per esercitare i vari mestieri. Con esse, sarei stato autosufficiente nell’ambito della mia futura famiglia. Infine ci resta tà Lukò, il quale mi permise di apprendere i diversi trucchi che mi consentirono di diventare un esperto ed abile cacciatore. Come ti rendi conto, Iveonte, essi mi resero padrone dell’intero scibile da loro posseduto, che riuscii a memorizzare in modo tale, da averlo sempre a mia disposizione, ogni volta ne avessi avuto bisogno. Perciò, in tutti questi anni che sono vissuto insieme con voi, mi sono preoccupato di trasmetterlo integralmente a te e a Francide nella più completa armonia e nella serenità.»

«Noi ti siamo molto riconoscenti, Babbomeo, per quanto hai fatto e continui a fare per me e per il mio amico fraterno. A questo punto, però, desidero ardentemente apprendere da te perché mai tà Ziolì, opponendosi agli altri tai, ti concesse di restare in mezzo a loro. Mi dici quale ragione importante lo fece agire in questo modo?»

«Se devo esserti sincero, Iveonte, anch’io non sono mai riuscito a capirci qualcosa di preciso in merito; però posso riferirti soltanto ciò che il tà decano della confraternita ne pensava sull’argomento. Secondo tà Ziolì, io ero capitato sul loro altopiano per volontà del divino Matarum. Perciò essi avevano l’obbligo di trasmettermi la millenaria sapienza racchiusa nei volumi del loro archivio, nei quali era stata prevista anche la mia presenza nel loro romitaggio. Negli stessi tomi, era previsto ancora dell'altro. Ossia, dopo che fossi venuto in possesso di tanto sapere, in seguito avrei dovuto formare con esso la personalità di chi era destinato a salvare l’Edelcadia dalle Forze del Male. Per esattezza, ogni cosa era stata predetta nel libro di tà Bortù, il fondatore della loro confraternita. Secondo il quale, un giorno uno dei tai dell'eremo, di ritorno dalla vita mondana degli uomini, avrebbe portato in mezzo a loro un bambino che, da grande, avrebbe fatto da maestro all’eroe del bene. Costui, a sua volta, grazie anche ai tanti miei preziosi insegnamenti, avrebbe combattuto contro il Male e lo avrebbe sonoramente sconfitto, preservando così l’Edelcadia dalle sciagure più tremende ed inimmaginabili. Fin qui, ti sono stato chiaro, Iveonte?»

«Certo che sì, Babbomeo! Ma sei poi venuto a sapere chi sarebbe stato l'allievo predestinato a ricevere da te ciò che i bravissimi tai ti avevano insegnato? Oppure non ti è stato ancora permesso di venirne a conoscenza, contrariamente a quanto ti aveva affermato tà Ziolì? Vorrei conoscere pure questo interessante particolare!»

«Di ciò ti parlerò in un secondo momento, Iveonte, se me lo consenti, siccome prima intendo terminare la mia narrazione. Ebbene, quando ebbi compiuto i miei vent'anni, dovetti lasciare quelle meravigliose persone che avevano fatto tantissimo per me. Prima che io partissi, il loro decano mi chiamò in disparte e mi disse che aveva da chiedermi un favore. Dopo che mi ebbe dato questa armilla di bronzo, mi pregò di portarla sempre al braccio sinistro, poiché, dopo che avessi incontrato l’eroe della profezia e gli avessi trasmesso l’intero mio sapere, avrei dovuto rimandargliela indietro, servendomi di lui stesso. Con il suo arrivo sull'altopiano, egli avrebbe compreso che la loro opera era andata a buon fine. Anzi, la presenza dell'eroe in mezzo a loro avrebbe segnato pure la sua morte, ponendo fine alla sua inusitata longevità. Mi fece anche presente che esclusivamente il mio allievo prediletto sarebbe dovuto venire a sapere della loro esistenza, facendomi giurare che avrei mantenuto per sempre il segreto! Avvenuto il giuramento, lasciai l’Altopiano delle Stelle e con rimpianto mi allontanai dai Fedeli Servi di Matarum. A questo punto, Iveonte, poiché ho invitato te a fare questa passeggiata, avrai compreso che sarai tu a raggiungere l’Altopiano delle Stelle e a consegnare nelle mani di tà Ziolì l’armilla che porto al braccio sinistro. Ovviamente, non dovrai farlo ora; ma non appena sarà giunto il momento giusto. Stando così le cose, sono certo che saprai riconoscerlo da te stesso senza alcuna difficoltà; ma solo a tempo debito.»

«Adesso, Babbomeo, se non ti dispiace, vorrei sapere perché hai scelto me e non Francide, al fine di assolvere un compito del genere. Potrebbe essere il mio amico la persona giusta, a cui si riferiscono i testi sacri dei Fedeli Servi di Matarum. A quale criterio di valutazione ti sei attenuto nel fare la tua scelta, ad evitare un fallimento? Vuoi chiarirmi anche quest'altro particolare, che mi lascia alquanto perplesso?»

«Mi sono affidato unicamente al sentimento, Iveonte, o, a dirla con gli altri, al sesto senso! Ebbene, in me c'è stata la consapevolezza che sei proprio tu la persona alla quale dovevo rivolgermi e nessun’altra. E credo di non essermi affatto sbagliato, se ho scelto te nell’affidarti il futuro incarico! Inoltre, ci sono alcuni fatti della mia vita trascorsa, i quali mi convincono che soltanto tu puoi essere l'eroe che un giorno compirà l'impresa preconizzata nel libro di tà Bortù. Naturalmente, non ti so dire come ciò avverrà, non essendo io colui che manovra i fili delle sorti umane. Stanne certo, però, che alla fine si compirà esattamente ciò che il destino ha decretato per te. E per te soltanto!»

«Babbomeo, se sei convinto di ciò che hai appena affermato in merito alla mia persona, vorrà dire che sarà stato il divino Matarum ad illuminarti, non potendo farlo nessun altro. Non sembra anche a te? Allora, inchinandoci umilmente alla sua divinità, cerchiamo di non scontentarlo e di seguire con fedeltà assoluta la sua volontà! In questo modo, in avvenire non avremo di che rimproverarci.»