94°-LUCEBIO ABBANDONA IVEONTE NELLA FORESTA

Quando la sala del trono fu sgomberata da quegli pseudomaghi e pseudosapienti, solamente Lucebio rimase a far compagnia al suo re. Entrambi si mostravano vittime di una costernazione tremenda e spasmodica, la quale ne andava dilaniando gli animi. Per loro, la vita aveva perduto ogni colore ed ogni significato, per cui non consisteva più in niente. Al contrario, era diventata una fatalità opprimente, violentatrice delle cose più genuine e più sublimi. L'innocente immagine del piccolo Iveonte si era insediata nella loro mente e pareva che reclamasse i suoi inalienabili diritti, tra i quali era compreso pure quello della vita. Perciò li accusava di debolezza e di viltà. Un fatto del genere accresceva ulteriormente i loro strazi e li faceva accanire contro la natura, in quanto permetteva che si abusasse di un fanciullo senza colpe e si commettesse una simile nefandezza. I due sventurati amici si chiedevano perfino perché mai il buon Matarum, con un atto di clemenza, non interveniva a salvarlo con qualche strabiliante prodigio. Alla fine, però, entrambi si rassegnarono e pensarono che forse la somma divinità dell'Edelcadia, pur volendolo, non avrebbe potuto farci niente, dal momento che i destini umani avevano un loro corso incontrastabile. Ma poco dopo, essendo state accantonate le sopravvenute riflessioni dolorose, il sovrano si rivolse all'amico e gli fece presente:

«Mio buon Lucebio, non credi anche tu che il destino ci abbia voluti colpire senza alcuna pietà, direi con violenza selvaggia e calpestatrice di ogni giustizia? Noi, però, sopporteremo la nostra evenienza calamitosa con grande pazienza e con rassegnazione! Abbiamo sempre saputo che occorre mostrarci forti, quando le disgrazie ci vengono a bersagliare in modo disumano, senza permetterci di difenderci da esse!»

«Hai ragione, mio re! Senz’altro è un destino tremendamente spietato quello che costringe un padre ad ordinare l'uccisione del proprio figlio, senza lasciargli alcuna possibilità di dispensarsene. Mentre rifletto su un fatto simile, mi sento impazzire e anche morire per la sofferenza. Farei chissà che cosa, pur di poterti annunciare che quanto ci è accaduto stamani è stato solo un brutto sogno, che non può farci alcun male!»

«Purtroppo, mio amico Lucebio, la nostra disgrazia non è per niente un sogno, per cui la mia disperazione non può essere che reale. Al contrario, l'avverto dentro di me, mentre mi corrode, mi divora, mi distrugge, mi annienta e mi fa soccombere! Insomma, non posso disfarmene in nessuna maniera! Allora mi tocca piegarmi al crudele destino, il quale in questo momento mi soggioga tirannicamente e brutalmente.»

Subito dopo, il re Cloronte fu visto sprofondare in chissà quali meandri della mente, nei quali parve quasi smarrirsi nella ricerca disperata di un qualcosa, che non sapeva neppure lui cosa fosse. Ma poi, mentre si asciugava le tiepide lacrime che gli rigavano le gote, aggiunse all'amico:

«Adesso chi avrà il coraggio di recare alla mia povera Elinnia una notizia così straziante, la quale la renderà la più inconsolabile di tutte le madri esistenti al mondo? Alla notizia, ella ne soffrirà immensamente; anzi, sono sicuro che la sua pena sarà ancora più immane e più terribile della nostra! Il dolore, il quale senz'altro si abbatterà sulla poveretta, sarà così duro e veemente, che forse le stroncherà perfino l'esistenza. Già avverto che il tragico evento le risulterà un vero uragano, di quelli che travolgono e spazzano via ogni cosa sul loro percorso disastroso! Per la quale ragione, imploro il nostro generoso dio Matarum che me la conservi in vita e non me la porti via, con il mio sfortunato Iveonte. Egli lo sa che mi restano altre due creature, le quali hanno anch’esse bisogno delle sue cure amorevoli e del suo immenso affetto!»

Detto ciò, l'afflitto re si diede ad un pianto dirotto abbastanza commovente, quello che poteva uscire esclusivamente dal cuore di un padre che era in preda ad una disperazione forsennata. Lucebio, pur essendo presente, non interveniva a consolare il suo re, poiché sapeva che in quel momento difficile sarebbe risultato vano ogni suo intervento rivolto a lenirgli la sofferenza, essendo egli molto giù di corda. Perciò gli sarebbe giovato di più il pianto, siccome esso gli avrebbe fatto scaricare la tensione nervosa e lo stato agitato, che in precedenza si erano accumulati in lui. Nello stesso tempo, gli avrebbe permesso quello sfogo naturale, che gli era così necessario per smaltire l'intera sua angoscia attuale e per non morire in quella dolorosa circostanza di crepacuore. Quando infine le lacrime gli ebbero alleviato in parte la pena dell'animo, il re Cloronte, che si mostrava ancora affranto dal dolore come non mai e aveva gli occhi molto arrossati, avvertì dentro di sé un unico desiderio. Perciò si affrettò ad esprimerlo al suo carissimo consigliere Lucebio:

«Ti raccomando, amico mio, quando per te giungerà l'inesorabile attimo, farai in modo che il nostro Iveonte soffra il meno possibile. Egli dovrà essere all’oscuro della sua condanna, fino a quando il colpo fatale non gli giungerà istantaneo e lo travolgerà, senza che neppure se ne accorga. Inoltre, per compiere la tua delicata missione, lo condurrai nel bosco, come se si trattasse di una piacevole passeggiata, senza dimenticarti di farlo anche divertire, prima di spegnergli per sempre l’esistenza. Se vuoi farmi contento, non devi negarmi questo grande favore!»

A quelle assurde parole dell’amico sovrano, Lucebio trasalì. Si sentì come paralizzato, totalmente distrutto, non sapendo quale atteggiamento assumere nei suoi confronti, dal momento che lo scorgeva già paurosamente abbattuto. Qualche attimo dopo, però, egli decise di ribellarsi e di troncare sul nascere certe sue assurde pretese, le quali gli procuravano una intossicazione peggiore di quella che gli era provenuta dalle conclusioni diaboliche del mago Ghirdo! Perciò non si sarebbe mai fatto piegare da alcuna pietà verso il suo precario stato di salute. Taluni suoi principi morali e religiosi, quando c'erano in gioco la verità e la giustizia, lo portavano ad essere al di sopra di ogni compassione umana. Giammai essi gli avrebbero fatto commettere delle azioni indegne dell’uomo, a cominciare da quella dell'omicidio. Perciò si affrettò a riprendere il suo re, parlandogli chiaro e tondo:

«Mio caro Cloronte, quali assurdità vai meditando? Il tuo dolore ti ha forse reso folle il cervello, per venire a farmi simili richieste supplichevoli?! Possibile che vorresti incaricare proprio me di uccidere Iveonte? Mi hai forse preso per un volgare carnefice? Anzi, non capisco come tu abbia avuto l'ardire di considerarmi un essere dalla condotta più obbrobriosa di quella di un uomo simile! Se consideriamo il fatto che egli si limita ad uccidere persone che, oltre ad essere adulte, gli sono anche del tutto estranee, senza dubbio verrei ad essere peggiore di lui. Da te non mi sarei mai aspettato delle pretese di questo tipo e dei giudizi negativi nei miei confronti! Lo sai benissimo che non potrei mai accettare un incarico del genere, dal momento che, dopo Elinnia e te, ci sono io ad amare il piccolo Iveonte più di chiunque altro essere vivente. Anche egli mi ricambia allo stesso modo l’amore che nutro per lui! Perciò mai e poi mai sarò l'esecutore materiale della sua condanna a morte!»

Di fronte al serio atteggiamento assunto da Lucebio, il re Cloronte avvertì un forte schianto interiore. Ad essere più precisi, egli ebbe l'impressione che delle tenaglie gli stessero lacerando uno per volta i vari organi vitali interni. E siccome in lui il dolore si andò acuendo sempre più efferatamente, a un certo punto, egli non lo tollerò più e perse i sensi. Anzi, era già in procinto di rovesciarsi dal suo trono e di barcollare per terra, allorché Lucebio prontamente lo soccorse e lo respinse contro lo schienale del seggio regale. Subito dopo, egli intraprese quelle cure atte a farlo rinvenire, mettendocela tutta per riuscire in tale suo intento. Quando poco dopo riprese conoscenza, il re di Dorinda si rivolse ancora a Lucebio. Ma questa volta si diede a fargli presente:

«Povero il mio amato Iveonte! Non solo è stato condannato a morte dal proprio genitore, ma lo si vuole fare pure soffrire, prima che la condanna venga eseguita contro di lui. Consegnarlo brutalmente nelle mani di un boia sarebbe, da parte mia, una vera ignominia, poiché gli farei vivere anzitempo il terrore della morte. Inoltre, gli darei l'opportunità di meditare con orrore sula 'ingiustizia umana e di stimare i suoi genitori dei veri vermi schifosi, per aver permesso che lo uccidessero come un cane rabbioso. Al contrario, desidero che egli riceva il colpo di grazia, senza che abbia il tempo di avvertirlo e di soffrirne. Voglio che il mio bambino si ritrovi in un attimo nel regno della beatitudine eterna, senza portarsi dietro alcuna amarezza di questo mondo malvagio. Non è forse meglio che egli, fino all'ultimo istante della propria esistenza, non sospetti la crudeltà che sta per accopparlo? Per questo desidero che, prima di morire, gli si scorga negli occhi il dolce sorriso della felicità. Ciò, però, non potrà aversi, se a condurlo al supplizio non sarà qualcuno nel quale egli ripone la massima fiducia. Possibile che tu non voglia comprenderlo, mio saggio Lucebio, ed insisti ad opporti a quanto ti ho proposto?»

«Sappi, mio re, che quella persona non potrò mai essere io, considerato che amo tuo figlio, come nessun altro al mondo, a parte te e la regina Elinnia. Per questo occorrerà pensare a qualcun altro che accetti con assoluta indifferenza tale malvagia incombenza!»

«Invece, Lucebio, insisto a dire che sei tu la persona più indicata ad arrecargli la morte. Nonostante ti costi molto, sei l'unico uomo che potresti presentare ad Iveonte il suo viaggio di morte come una gita gioiosa e spensierata. Con te, egli ha trascorso le ore più liete, essendogli riuscito sempre il più simpatico. A te ha voluto sempre più bene di tutti: oserei dire perfino più dei suoi genitori! Ecco perché, mio buon amico Lucebio, se quest'atto esecrando, per un verso, non dovrebbe essere compiuto da te; per un altro verso, invece, richiede proprio la tua persona a condurlo a compimento. Convinciti che le cose non possono andare altrimenti, se vogliamo preservare il nostro Iveonte dalle sofferenze, alle quali ho fatto accenno prima!»

Questa volta Lucebio non se la sentì di contraddire il suo amato re con vibrante rimostranza. Invece soffocò in sé ogni opposizione che in precedenza aveva avvertita come istintiva e giustificata, a causa del suo forte senso morale e religioso. Egli si rendeva conto che le condizioni fisiche del re Cloronte avrebbero fatto temere il peggio, se non lo si fosse accontentato secondo il suo desiderio. Allora non badò più a nulla; ma nel frattempo preferì trasportarsi con la mente in una fitta rete di congetture, le quali non si mostravano per niente incoraggianti. Lo stesso, però, intendeva cercare in esse quella che gli avrebbe prospettato una soluzione più indulgente per il re Cloronte e meno esecrabile per sé stesso. Alla fine Lucebio credette di aver trovato la soluzione che gli appariva più conveniente per tutti e tre, visto che c'era compreso pure il piccolo Iveonte. Ma si guardò bene dal renderne partecipe il suo sovrano, essendo sicuro che egli si sarebbe opposto ad essa e lo avrebbe costretto a non metterla in pratica. Così se la tenne segreta nel profondo del suo intimo ed attese di ricorrere ad essa al momento giusto, siccome la riteneva la sola che potesse evitargli di commettere un assassinio insano a danno della persona che amava tantissimo.


L'indomani, a metà mattinata, Lucebio, stando in groppa al suo cavallo, lasciò la reggia e si diresse verso la porta meridionale della città. Essa gli avrebbe permesso di raggiungere più velocemente il bosco, che distava da Dorinda circa dieci miglia. Egli conduceva con sé il piccolo Iveonte, contro il quale il padre aveva decretato la pena capitale. Il ragazzo si presentava così bello e grazioso, che si faceva inviare molti teneri sorrisi da quanti lo scorgevano lungo le diverse strade cittadine che conducevano fuori le mura. Tra di loro, c’era anche chi avvertiva la voglia di averlo per poco tra le braccia per accarezzargli i biondi riccioli. Il pupillo del defunto re Kodrun aveva ricevuto dal suo sovrano l'ordine perentorio di condurlo lontano da ogni agglomerato umano. In quel luogo poi, ad evitare di farlo soffrire, avrebbe dovuto ucciderlo con un solo colpo di spada bene assestato, arrecandogli così una morte subitanea.

Una volta fuori città, il saggio uomo si diede a correre a spron battuto in direzione della cupa boscaglia, la quale era situata a sud della città, alla distanza già appresa. Il poveretto, non sapendo prendere il coraggio a due mani, restava assorto in tristi pensieri. Inoltre, non riusciva a trovare la forza per ammazzare l'innocente fanciullo, che si presentava candido come un giglio appena sbocciato. Perciò, nel proprio intimo, egli non faceva altro che maledire e rimaledire il mago Ghirdo, per averlo fatto trovare in quella inesorabile situazione, dall'oggi al domani.

L'artefice della grandezza di Dorinda adesso percorreva le terre che precedevano la foresta. Esse, per la loro natura in gran parte boschiva, erano abitate da una fauna aviaria e terrestre prevalentemente selvatica. Procedendo così attraverso tali luoghi senza fare neppure una sosta, si dava a pensare in continuazione. Egli sarebbe corso volentieri in quella maniera per l'intera sua vita, se la sua corsa fosse servita a fare annullare la condanna inflitta al principino. Iveonte, da parte sua, manifestando tantissima ilarità, cavalcava insieme con il suo amico Lucebio, il quale appariva piuttosto titubante e malinconico. Il ragazzo non immaginava neanche lontanamente la vera ragione, per cui era stato intrapreso quel viaggio che stava facendo in compagnia della persona che amava di più al mondo, dopo il padre e la madre. Quando Lucebio cominciò ad inoltrarsi nella foresta, il suo cavallo fu costretto a rallentare la corsa, siccome vennero ad intralciargliela i lunghi rami, che si diramavano fronzuti dai tanti alberi secolari. Essi a volte, attorcigliandosi e restando incastrati gli uni negli altri, sbarravano il cammino a quanti si trovavano a transitare per quel luogo infido. In esso, il groviglio delle piante e il trionfo della vegetazione risultavano di grande ostacolo a coloro che vi si avventuravano, rendendo spesso il loro passaggio molto difficoltoso e faticoso. Allora il saggio uomo, volendo crearsi un varco che li facesse avanzare più agevolmente, scese da cavallo; poi, sguainata la spada, si diede ad inferire dei forti colpi sulle resistenti ramificazioni arboree. Invece il ragazzo era seduto sulla groppa del cavallo e seguiva felicemente le azioni dell’amico adulto. Gli piaceva tantissimo trovarsi in mezzo a quella esuberante vegetazione, dove il verde trionfava e predominava in ogni suo angolo.

La foresta era immensa ed incuteva terrore agli stessi esseri che vi dimoravano. Il sole, da parte sua, non riusciva a penetrarla minimamente attraverso i folti rami, poiché essi si presentavano contorti e strettamente avviticchiati tra loro. Per cui la sua luce non giungeva nel sottobosco neppure un poco. Invece nei dintorni sovente si avvertiva la presenza di alcuni animali da rapina, come i falchi e le poiane, che non si astenevano dal fare udire i loro versi acuti e minacciosi. Inoltre, ogni tanto perveniva ai loro orecchi il sibilo acuto di qualche serpente che strisciava bene occultato sul suolo, sotto lo spesso manto di foglie. Anzi, esso si mostrava quasi infastidito dal transito malaccetto degli intrusi disturbatori. Sopra la volta celeste, oramai il sole aveva già compiuto metà del suo percorso. Allora Lucebio, essendo stanco per il lungo tragitto che durava da un paio di ore, pensò di interromperlo e di riprenderlo in seguito, non appena essi si fossero sufficientemente riposati. Durante il riposo, egli avrebbe anche fatto ristorare il suo piccolo amico, non volendo fargli soffrire la fame in quella circostanza.

Così, quando ebbero raggiunto un posto con una vegetazione meno fitta, decise di farvi la loro sosta. Ma prima dovette ricorrere all'arco per procurarsi della selvaggina, che mise poi a rosolare sul fuoco acceso. Quando infine essa risultò cotta abbastanza per essere mangiata, Lucebio si sedette sullo strato erboso insieme con il ragazzo, dove entrambi si diedero a divorare la calda pietanza a base di carne. Intanto che Iveonte mangiava di gusto, mostrando un ottimo appetito, Lucebio contemplava la sua ricciuta testolina. Ripensava però anche all'ingrato compito che gli era stato affidato dal suo re. Allora si dava a rimuginarci sopra e a soffrirne grandemente. No, egli non avrebbe mai avuto il barbaro coraggio di colpire lo sventurato ragazzo, accoppandolo con inumana ferocia! Possibile che bisognava ucciderlo, solo per assecondare la sciocca profezia del mago? E se essa fosse stata falsa, visto che Virco aveva vaticinato esattamente il contrario sul conto del suo amichetto?

A ogni modo, essendo egli il confidente e il consigliere del re di Dorinda, costui per nessun motivo avrebbe dovuto affidargli quell'azione degna di un abietto carnefice, ponendolo sullo stesso livello di un essere di tal genere. Invece il suo dovere era quello di dargli dei saggi consigli sul buon governo della città e non quello di ammazzare, per suo esplicito ordine, dei fanciulli in tenera età. Ciò valeva, anche quando essi venivano a macchiarsi di qualche gravissima colpa! A suo parere, egli aveva fatto molto per il suo sovrano. Lo aveva sempre servito con assoluta dedizione e gli aveva recato anche un grande conforto spirituale, in qualche suo transitorio periodo di crisi interiore. Perciò, adesso che il re Cloronte gli aveva commissionato il brutale assassinio del principino, avvertiva dentro di sé un senso di rivolta incoercibile. Anzi, dal profondo del suo animo, continuavano a provenirgli delle incontrollabili manifestazioni di decisa ribellione. In pari tempo, compativa l'amico re, provando tanta pietà per lui. Ma soprattutto odiava e condannava quanti lo avevano spinto a deliberare la disumana sentenza contro il proprio figliolo, scombussolandogli terribilmente l'intera esistenza! Intanto che Iveonte finiva di consumare il suo pasto, Lucebio, a proposito del malvagio incarico ricevuto, si era dato a talune sue considerazioni. Adesso l'idea di dovere assassinare il povero ragazzo lo faceva raggelare, siccome essa si era ripresentata sopra uno sfondo macabro ed allucinante. In conseguenza di ciò, delle profonde crisi esistenziali iniziarono a tumultuare nella sua coscienza. La quale, ribellandosi giustamente, si era data ad agitarsi costernata dentro di lui. L'uomo si sentiva come se lo avessero legato vivo sopra una graticola arroventata.

Era da poco che lui e il ragazzo avevano finito di sfamarsi e di riposarsi, quando Lucebio prese la decisione di annunciare ad Iveonte che era giunta l'ora di riprendere il loro viaggio, poiché c'era ancora parecchio cammino da fare. Il ragazzo, però, prima che l'amico aprisse bocca e gli trasmettesse la sua intenzione, lo prevenne, dicendogli:

«Adesso ritorniamo a casa, Lucebio? Oppure proseguiamo ancora la nostra bella passeggiata in questo bosco incantevole? Ma come mai oggi ti scorgo alquanto nervoso e non ti va di sorridere e di scherzare neppure un poco? Non ti piace forse questo stupendo viaggetto? Se lo vuoi sapere, io lo adoro, per cui trascorrerei l’intera mia vita tra questi alberi altissimi, che hanno il tronco enorme e i rami zeppi di foglie! In questo luogo appartato, non c'è bisogno di costruirsi le capannelle, come io e i miei fratellini facciamo nel nostro parco. Qui ce ne sono molte e già tutte bell'e pronte all’uso! Non è vero, amico mio, che è come ho detto?»

Alle carezzevoli frasi del ragazzo, Lucebio rimase silenzioso; mentre le gambe gli tremavano e il suo volto appariva smunto e cogitabondo. Per la verità, esso faceva quasi trasparire la folla dei suoi foschi pensieri che gli balenavano nella mente, scombussolandogliela e mettendogliela in un dissesto enorme! Non riuscendogli di mentire al ragazzo, alla fine concluse che la cosa migliore era quella di non dargli alcuna risposta. Per questo se ne restò muto come un pesce e badò a ridarsi a quella che il bambino considerava una divertente passeggiata.

Dopo aver ripreso il loro cammino, Lucebio ed Iveonte seguitarono ad attraversare quei luoghi paurosi, penetrando nelle aree più interne della vastissima ed intricata foresta. Essa, però, sembrava che non volesse più terminare. Strada facendo, a un certo momento, la flora diventò più rada e meno aggrovigliata di quella precedente. Oramai era giunta l'ora del tramonto, il quale iniziava a ripresentarsi dappertutto infuocato e maestoso. La vegetazione allora assunse dei riflessi rosseggianti e si arricchì di molte fiammelle, le quali, apparendo dappertutto policromatiche e scintillanti, occhieggiavano tra le foglie brunastre dei rami. Lo scenario, che si presentava adesso agli occhi dei due visitatori, si mostrava incredibilmente incantevole e suggestivo. Esso, se si vuole essere sinceri, attraeva solamente Iveonte, il quale si divertiva come non mai, mentre contemplava e additava al suo accompagnatore la miriade di quelle fantasmagoriche cosette luminose. Queste, infatti, avevano iniziato a luccicare come smeraldi tra i rami frondosi di quegli alberi giganteschi, che avevano parecchi secoli sulle spalle.

Per Lucebio, a quel punto, si era avvicinato il momento più difficile, poiché gli si chiedeva di prendere la decisione più imbarazzante della sua vita. Gli era stato ordinato di sbarazzarsi barbaramente del bambino nel modo che gli aveva suggerito il suo sovrano oppure in un altro diverso, ossia in quello che avrebbe fatto più comodo a lui. Invece egli non riusciva a sbrogliarsela in nessuna maniera. All'inizio, fu angosciato dall'abominevole alternativa; ma poi alla fine, pur di non spacciarlo con un sol colpo di spada, egli fu tentato di abbandonarlo tra le innumerevoli fiere, in balìa del suo destino. Ripensandoci, l'uomo ritenne ignobile anche tale proposito, in quanto neppure esso si mostrava clemente verso lo sfortunato ragazzo. Allora si sentì soggiogare, con un ritmo sempre più frenetico, da una disperazione oppressiva e da una gazzarra di pensieri turbolenti e frastornanti. In quella brutta circostanza, oramai gli veniva la sola voglia di infuriarsi e di maledire quei momenti crudeli, i quali erano solo in grado di arrecargli un senso di atroce malessere.

Restando così vittima di simili tremendi pensieri che gli bombardavano la mente, Lucebio non riusciva a tollerare nemmeno la sofferenza del suo animo angustiato, a causa della quale egli provava perfino un senso di nausea. Ma poi, superando le varie indecisioni e i diversi dubbi che gli procuravano unicamente amarezza, l’uomo avversò l'uccisione del ragazzo e si schierò a favore del suo abbandono in quel luogo. Perciò, facendosi coraggio, si rivolse al principino e gli domandò:

«Ti piacerebbe, Iveonte, vivere in questo posto e contemplare il magnifico spettacolo, che esso generosamente ti offre? Se non mi sbaglio, il tuo volto mi fa pensare che ne sei molto entusiasta!»

«Hai proprio ragione, Lucebio! Tutte quelle fiammelle rallegrano il mio animo e fanno provare al mio cuore una felicità immensa. Oh, se mio padre venisse a costruirsi la sua reggia in quest'angolo meraviglioso della foresta! Ti giuro che ne sarei abbastanza lieto! Anzi, ti garantisco che lo sarebbero anche i miei due fratelli più piccoli, che sono Londio e Nucreto. Essi non sono mai stanchi di giocare a rimpiattino, poiché esso è il loro gioco preferito! Posso assicurarti che è come ti ho detto!»

«Ebbene, Iveonte, mentre tu rimani qui a goderti quelle infinite perline lucenti, io faccio pochi passi più avanti, poiché intendo spiare meglio il sentiero che noi due stiamo percorrendo. Comunque, tra breve sarò di nuovo da te a farti compagnia. Intesi? Ma ti raccomando, amico mio, di non allontanarti da questa zona e di aspettare in questo posto preciso il mio ritorno, il quale ci sarà al più presto!»

In verità, Lucebio lo stava ingannando, poiché si preparava a mettere in atto la decisione più maledetta della sua vita, la quale era quella che aveva preso alcuni istanti prima, dopo un esame di coscienza altrettanto maledetto. Con essa, infatti, egli aveva deliberato di abbandonare il ragazzo in quella sconfinata boscaglia, nella quale quasi certamente egli sarebbe stato sbranato e divorato da qualche belva feroce in cerca di preda. Altrimenti, nella migliore delle ipotesi, vi sarebbe morto di fame, poiché l'amico minorenne non era assolutamente in grado di procacciarsi del cibo da solo in quel luogo. Quindi, andato avanti per qualche centinaio di passi nella stessa direzione che in precedenza aveva indicato al ragazzo, dopo Lucebio se ne ritornò di nuovo indietro; però stette attento a seguire un altro sentiero ed una diversa direzione. Allora lo sventurato principino rimase in quella foresta privo di ogni compagnia, nonché completamente ignaro della triste sorte che l'amico, contro la sua volontà, era stato costretto ad assegnargli.

In un primo momento, il piccolo Iveonte fu invaso da una gioia incommensurabile e da un forte desiderio di restare per sempre in quell'ambiente boschivo, che gli appariva magico ed irreale. In seguito, però, con l'avvicinarsi delle tenebre e con lo sparire di quelle graziose lucine, egli si sentì vittima di una profonda tristezza. L'animo gli si oscurò, non appena la penombra della sera si calò cupamente sopra di lui, mettendolo in un grande disagio di tipo psicologico e spirituale. Nel frattempo, le ultime luci del giorno si erano spente ed un pulviscolo inargentato si era diffuso sull'erba e sugli arbusti della buia foresta. Allora, vedendosi avvolgere ed opprimere dalle fitte tenebre, Iveonte ebbe molta paura e si diede a chiamare a gran voce il suo amico Lucebio. Non ricevendone alcuna risposta, egli iniziò a strillare forte, ad affliggersi e ad invocare i suoi genitori, perché lo togliessero da quel luogo nero e spaventoso. Ma i suoi lamenti e le sue grida non potevano che risultare inutili; perciò, di minuto in minuto, la sua disperazione andò lievitando a dismisura.

In seguito, essendo stato preso dal panico, Iveonte si alzò da terra e si mise a correre a perdifiato, senza sapere neppure dove si stesse dirigendo. Oramai lo spavento, che si era impadronito di lui ed alimentava la sua folle corsa, non gli faceva venire in mente un'altra idea; né gli suggeriva di agire in un modo diverso. Correndo a più non posso, il ragazzo si addentrava sempre di più in quella vastissima foresta, dove ogni tanto si udivano i ruggiti di qualche pantera lontana oppure di qualche tigre inquieta, che vegliava premurosa sui suoi tigrotti. Nell’udire i loro versi che laceravano il silenzio della notte, egli si sgomentava ancora di più e trasmetteva alle sue piccole gambe una speditezza maggiore. Mentre poi procedeva a tutta velocità in quel cieco intrico della vegetazione, avvenne che il principino inciampò e ruzzolò per terra. Quando poi cercò di rialzarsi per riprendere la sua corsa, Iveonte avvertì una grande fiacchezza nelle gambe e si rese conto che esse non gli consentivano più di tenersi in piedi e di camminare oltre. Era come se gli arti inferiori gli si fossero all'improvviso paralizzati del tutto! Prima il senso della paura gli era stato attutito dalla corsa, la quale lo aveva distratto almeno un poco da esso. Adesso invece il ragazzo veniva costretto a viverlo nel suo aspetto più lugubre e nella sua oppressione più angosciante, non potendo essere altrimenti per lui!

Vedendosi sperduto in mezzo alla tenebrosa foresta e costretto a restarvi immobile a causa della sua parziale paralisi, egli si sentiva il cuore battere forte come non mai. Pareva quasi che il suo battito gli arrivasse in gola e gli reprimesse il respiro! Il suo grande spavento era dovuto anche al fatto che spesso venivano a visitarlo due occhi di fuoco. Essi, guizzando rapidi nel buio della notte, vi ruotavano come delle autentiche girandole luminose. Allora, a causa della loro apparizione, il primogenito del re Cloronte divenne preda di un terrore panico, anche perché egli non poteva più fare ritorno nella reggia del padre. Per sua fortuna poco dopo fu attratto da una visione straordinaria, la quale gli si rivelò quasi da sogno. Essa, dopo essere apparsa all’improvviso dal nulla, si diede a svolgersi sopra la sua testa. Per la precisione, egli iniziò a scorgere le alte chiome degli alberi ritrarsi a cerchio. Atteggiandosi infine in quel modo, le loro cime lasciarono campo libero alla infinita volta del cielo, la quale adesso si presentava scintillante di stelle rilucenti. Nel medesimo tempo, una musica soave si diede a risuonare per l'aria, emettendo flebili note di una grazia irresistibile. Oltre a ciò, si scorgeva una falange di candidi spiriti dalle ali dorate, che sbucavano sublimi dalle irte cime degli alberi e si davano a formare un circolo immenso con il contorno lievemente ondulato. Essi, dopo essere apparsi, presero ad aleggiare nel firmamento turchino con leziosità, improvvisando danze stilizzate e fantasmagoriche di un fascino incomparabile. Quegli stupendi esseri, i quali somigliavano a bellissime fanciulle dai corpi avvolti in pepli diafani, intrecciavano le loro danze, procedendo nel loro volo al rallentatore. In pari tempo, non mancavano delle arcane voci che, intonando un dolce coro melodioso, si accompagnavano alle loro fantastiche ed aggraziate movenze ritmiche, le quali seguitavano ad aversi nell'aria senza sosta.

Nel piccolo Iveonte, quella visione paradisiaca venne prima a lenire e poi a fare sparire completamente la soverchiante ambascia, la quale perciò smise di martellarlo con la sua asprezza e con la sua crudezza. Infine, venendo immerso dalla medesima visione in un clima soporifero, il ragazzo non trovò alcuna difficoltà ad addormentarsi pesantemente sulla verde erba. Allora, visto che la sua triste sventura era finita per sparire per sempre nell'oblio più assoluto, in lui vennero meno anche il terrore e la disperazione. Invece un attimo prima, l'uno e l'altra lo stavano soggiogando senza nessun ritegno, infischiandosi perfino della sua tenera età, la quale avvertiva solo il bisogno di conforto e di serenità.