89°-KODRUN E NURDOK GAREGGIANO PER LO SPAREGGIO

Prima di scontrarsi con le armi, i due comandanti in capo ci tennero a dimostrarsi reciprocamente la loro stima e la loro simpatia. Perciò, tra gli applausi dei soldati presenti, essi si strinsero cordialmente la mano, esclamando all'unisono: "Gloria al più forte!" Poco dopo, i due maggiori condottieri dell’epoca intrapresero un combattimento franco e prestigioso. Allora, essendo iniziato il duello, i soldati dei due eserciti rivali non osarono più fiatare, poiché preferivano assistere con animo sereno al grandioso confronto, il quale si stava avendo tra i capi supremi dei due schieramenti contrapposti. Soprattutto li si scorsero inclini ad ammirare le varie sequenze formidabili e galvanizzanti del combattimento.

Da quel momento in poi, essendo presi ed entusiasmati dal turbinio dei colpi magistrali che i loro eroi si scambiavano, gli uni e gli altri, mentre tifavano per il loro ammirato e celebrato eroe, non se la sentivano di mostrare rancore verso gli avversari. Perciò adesso predominava in ogni spettatore il solo sentimento di venerazione verso quei due uomini straordinari. Quasi a volere prendere esempio dai loro capi, essi, intanto che si lasciavano avvincere dalla foga del tifo espresso per il loro campione, volentieri rinunciavano ad alcuni atti sconvenienti dettati dall'antipatia. Evitavano perfino di darsi ai vari improperi e ai tanti atti spregevoli che, in una diversa circostanza, avrebbero destinato a iosa alla parte avversaria, siccome quell'abitudine si era ormai consolidata nel tempo. Al contrario, questa volta imperava nell'animo dei soldati presenti un nuovo modo di sentire e di giudicare, il quale era senz'altro inconsueto in una occasione simile. Infatti, esso li spingeva a dimenticare i rancori, le ostilità e le diversità che esistevano fra di loro. Per la quale ragione, non trovavano nessuna difficoltà ad immedesimarsi in quel sentimento fraterno, che i rispettivi capi avevano voluto dimostrarsi prima di affrontarsi. Quasi avessero voluto additarlo ai loro soldati con una forte carica emotiva!

A questo punto, però, senza perdere altro tempo, ritorniamocene allo scontro che era stato intrapreso da poco dai due eroici campioni. Così facendo, potremo seguirlo da vicino e gustarcelo in tutta la sua professionalità schermistica. Per la verità, le schermaglie preliminari del combattimento fra Kodrun e Nurdok erano state di studio reciproco e di vaglio delle capacità offensive e difensive dell'avversario. Agendo in quella maniera, ognuno dei due contendenti, per niente sorpreso, le aveva trovate nell'altro di una efficienza non comune, ossia imprevedibili le prime e difficilmente spiazzabili le seconde. In seguito, però, una volta che si furono studiati vicendevolmente a fondo, essi entrarono nel vivo delle loro azioni concernenti la scherma, essendo giunta l'ora di iniziare a farlo. Fu allora che i due valorosi campioni, i quali erano entrambi stimati e benvoluti dai rispettivi popoli, diedero a vedere a quanti assistevano al loro scontro com'essi riuscivano a tenersi testa con uguale valore. Mentre combattevano, non era difficile scoprire la loro solida preparazione nel maneggio della spada, la quale si rivelava chiaramente a quelli che li seguivano. Essi la mettevano in mostra con indubbia bravura e con abilità. Dall’una e dall’altra parte, i colpi piovevano senza sosta, rivelandosi inusitati, possenti e pressanti. Essi andavano a smorzarsi sulla lama della spada dell'avversario; oppure finivano per svigorirsi rovinosamente sul suo scudo. Anzi, a volte vi producevano ammaccature; altre volte lo fracassavano, riducendolo in uno stato sempre peggiore.

Adesso, seguendosi attentamente il loro abile tirare di scherma, da considerarsi senz'altro rivelatore di un professionismo di primo piano, si assisteva ad azioni che potevano unicamente stupire ed infervorare gli estasiati spettatori. Ciascun combattente non di rado si ritrovava a subire il preponderante attacco del rivale. Ma poi era anche lui ad imporsi al suo avversario con determinazione e con una furia incontrollabile, in una alternanza di egemonia e di soggezione. Comunque, in nessun caso si assisteva a qualche loro errore tecnico o tattico, ad una loro distrazione o ad un loro cedimento di qualche tipo nella propria impenetrabile difesa. Essi si dimostravano costantemente vigili ed attenti a non commettere qualche errore nel loro arduo ed ardito combattimento. Procedendo il confronto in quella maniera da oltre un'ora, nel quale i due contendenti si battevano strenuamente e senza far registrare alcun sintomo di stanchezza, a un certo punto, Nurdok confidò al suo rivale:

«Non puoi immaginare, Kodrun, quanto mi sento fiero di combattere ad armi pari con un avversario come te! In questo modo, ho potuto accertarmi di persona che il tuo valore di guerriero non ha nulla da invidiare alla tua bravura di stratega. Per questo diventa un onore per me cimentarmi con te nelle armi. Sono sicuro che, se gli altri re dell'Edelcadia ti avessero lasciato scegliere i partecipanti alle gare fra i soli soldati dorindani, adesso non staremmo qui a combattere per lo spareggio. Senza meno i tuoi uomini avrebbero riportato la vittoria sui miei. Comunque, non posso negare che è stato grazie alla loro presunzione erronea, se in questo momento memorabile io e te ci stiamo misurando e valutando, nonché ci stiamo apprezzando reciprocamente!»

Il re di Dorinda, da parte sua, volendo apparire alquanto modesto, gli diede la seguente risposta:

«Ora esageri, Nurdok. Pure i tuoi uomini si sono dimostrati abbastanza in gamba. Sappi che lo dico per davvero e non per ripagarti dell'ottimo giudizio che hai espresso nei confronti dei miei soldati! Anzi, mi sono convinto che a nulla mi sarebbe valsa la scelta dei partecipanti alle gare fra i soli Dorindani. Anch’essi, non avendo alcuna dimestichezza con la fionda e con il mazzafrusto, che sono due armi quasi ignorate dalla totalità dei popoli edelcadici, avrebbero perso. Sono contento invece che le gare si siano concluse in pareggio, poiché esso mi sta permettendo di battermi con un vero par mio, il quale si dimostra valente ed intrepido come pochi, oltre che essere una persona proba!»

Le ore intanto continuavano a trascorrere una dopo l'altra, senza che i due campioni antagonisti fossero in grado di portare a conclusione il loro celebre duello. Esso si manifestava ricco di atti di valore e di rara magnanimità, per cui risultavano commoventi e stupendamente esemplari. Entrambi i combattenti mostravano inesauribili fonti di energie, ma soprattutto improvvisavano colpi geniali ed irripetibili. Inoltre, a causa della stanchezza fisica, per ben tre volte a ciascuno di loro era capitato di venire disarmato e per altrettante volte l'avversario gli aveva permesso di raccogliere la spada che gli era caduta di mano. Essi erano convinti che un guerriero aveva il sacrosanto diritto di morire con l'arma in pugno, poiché era ciò a cui aspirava ogni vero eroe. Verso il tramonto, però, Kodrun e Nurdok apparivano oramai stremati per le estenuanti fatiche sostenute, per questo le forze iniziarono ad abbandonarli e quasi non li sorreggevano più. Poco alla volta, il loro respiro si andò facendo sempre più affannoso; mentre i loro movimenti andavano perdendo ogni elasticità e scioltezza, fino a difettare completamente del loro vigoroso slancio iniziale. Intanto che i colpi dei due combattenti accusavano un calo di potenza e di impeto, si scorgeva il sudore grondare a rivoli dalla loro fronte, la qual cosa stava a dimostrare il loro accanimento alla dura lotta. A quel punto, gli spettatori poterono rendersi conto che l'uno e l'altro erano allo stremo delle forze e che il loro spirito battagliero si andava affievolendo e spegnendo nella stanchezza. La quale, oramai, riusciva a privarli di ogni forza e di ogni resistenza.

L'imbrunire appariva ancora nella sua incertezza, quando i due strenui campioni soccombettero al peso soverchiante delle fatiche sostenute nell’arduo combattimento. Difatti essi furono visti crollare a terra esausti nello stesso istante, intanto che le loro ultime esili forze erano concentrate nel rigido pugno che attanagliava l'elsa della spada. Ambedue ci tennero a dimostrare che per loro aveva più valore tenersi aggrappati alla loro arma, anziché alla loro vita. Per il quale motivo, morire con la spada in pugno per loro due significava anche morire da veri eroi! Ecco perché sia Kodrun che Nurdok avevano badato a non lasciarsela sfuggire di mano, neppure in quel momento che la morte era sembrata avesse voluto degnarli della sua visita. I due valorosi e magnanimi uomini, però, erano ignari che nessuno di loro correva un pericolo del genere. Com'era evidente, sia l’uno che l’altro non erano in condizione di poter muovere nemmeno un dito contro l'avversario, allo scopo di potergli assestare il colpo di grazia.

La notte era già del tutto calata, quando i corpi spossati dei due sfiniti strateghi furono adagiati dai loro soldati sopra delle barelle, avendo essi intenzione di trasportarli nei rispettivi accampamenti. Gli stessi loro trasportatori, lungo il breve percorso che li riportava alle rispettive tende, andavano intonando canti marziali; ma anche inneggiavano all'indiscusso eroismo del loro condottiero. Inoltre, ponevano mente alla ripresa del loro scontro, la quale ci sarebbe stata il giorno dopo, poiché essa gli avrebbe permesso di entusiasmarsi ancora come non mai. Comunque, sia gli uni che gli altri speravano che l'indomani il nuovo certame si risolvesse a favore del loro leggendario comandante supremo. Essi, per niente al mondo, avrebbero voluto vederlo crollare sul campo del torneo, miseramente colpito a morte dall'arma del suo fiero avversario!


Il giorno seguente, il re Kodrun si svegliò con il sole che era già alto nel cielo. Egli seguitava a sentirsi ridotto male in ogni parte del corpo, come se esso fosse stato fatto a pezzi. Accusava, tra l'altro, dei lievi capogiri e veniva avvertito da lui un accenno di stordimento. Stendendo ed allungando poi le braccia in ciascuna direzione, cercò di sgranchirsi le membra come meglio poteva, siccome esse erano rimaste rattrappite dalla sera precedente. Mentre poi faceva esprimere il proprio corpo in quel modo comprensibile, non si era accorto della presenza nella sua tenda di Lucebio, di Tedo e di Tio. Tutti e tre erano rimasti lì per l’intera nottata ed avevano vegliato sul suo sonno, il quale non aveva smesso di apparire alquanto agitato. Alla fine, però, i suoi movimenti di stiramento gli ridestarono finalmente la memoria e gli consentirono di immettersi nella sua dimensione reale. Allora Kodrun, senza perdere tempo, badò a rivolgersi alle tre persone che gli facevano compagnia, standogli davanti in piedi. In verità, in un primo momento, esse erano state scambiate per degli autentici sconosciuti. Dopo, essendo stato preso dall'agitazione e dalla frenesia, egli indirizzò loro la seguente esclamazione, la quale appariva pure una domanda:

«Cosa ne è stato del mio duello avuto con Nurdok!? Una lieve confusione mentale non mi dà modo di ricordare più nulla di esso! Voi tre, che siete nella mia tenda e mi risultate delle emerite persone ignote, vi decidete a raccontarmi ogni cosa in merito ad esso? Avanti, sbrigatevi a farlo, se non volete che io mi arrabbi sul serio!»

Appreso infine ciò che era accaduto la sera precedente dai suoi tre amici, i quali si erano fatti prima riconoscere, egli si mise a dare ordini senza più smetterla. Sembrava un vero forsennato, intanto che urlava: «Amici miei, porgetemi subito le armi ed aiutatemi ad indossarle, poiché non voglio fare attendere Nurdok un attimo di più, altrimenti egli si farà di me una pessima opinione! Insomma, posso sapere quanto tempo dovrò attendere, prima che mi vengano consegnate le mie armi?! Voi tre, siete forse diventati sordi, per non prestarmi alcuna attenzione?»

Fu in quel momento che un soldato irruppe nella tenda del re Kodrun. Egli era venuto a recargli la notizia che Nurdok, disarmato e scortato da un esiguo numero di soldati, si stava dirigendo verso il loro accampamento. A quella nuova, il re dorindano ordinò che tutti i corni e tutte le tube esistenti nel loro campo si mettessero a suonare a festa. Egli desiderava che gli Edelcadi ricevessero l'insigne capo dei Berieski con tutti gli onori, come appunto meritava. Dopo aver dato tale ordine, il sovrano si vestì alla svelta e, accompagnato dalla terna dei suoi amici, andò ad incontrare l'illustre ospite. Quando ci fu il loro incontro in prossimità dell'accampamento edelcadico, i due ineguagliabili strateghi si espressero scambievolmente la massima stima, la quale non poteva che rivelarsi sincera. Poi entrambi, commuovendosi a non dirsi, si abbracciarono proprio come se fossero stati amici di vecchia data. Ma una volta terminato il loro caldo abbraccio, Nurdok domandò per primo al re di Dorinda:

«Mio caro Kodrun, vuoi dirmi perché mai dall'intero tuo accampamento si stanno levando tanti improvvisi suoni di corni e tanti clangori di tube? Questa mattina forse festeggiate qualche evento eccezionale, del quale giustamente non sono a conoscenza, risultandovi io un forestiero? Dunque, cos'hai da riferirmi, amico mio, riguardo a tali suoni rumorosi, i quali mi infondono soltanto allegria e brio?»

A tali domande dell’illustre Beriesko, il re dorindano gli fece presente:

«I miei soldati, Nurdok, si mostrano molto felici, poiché tra poco sarai presente nel loro accampamento. In pari tempo, si sentono orgogliosi che il prestigioso capo degli avversari presto sarà in mezzo a loro, siccome la sua presenza nel loro campo potrà solo onorarli. Perciò essi si sono dati a fargli festa, a tributargli onori e ad augurargli gloria e lunga vita. A patto, però, che la tua vita non renda breve la mia! Ah, ah!»

«Se questo è il motivo di tanti suoni, Kodrun, io li ringrazio di vero cuore e li rassicuro che la mia presenza tra di loro avrà il solo scopo di annunciare a tutti la fine dei loro incubi e delle loro preoccupazioni. Per gli Edelcadi, essa vorrà essere l'inizio di una nuova era fiorente di gioia e di pace! Di conseguenza, darà a tutti i Dorindani anche la garanzia che la vita del loro glorioso re non corre più il temuto pericolo che sarebbe potuto venir meno per mano mia. Del resto, ugualmente la mia vita sarebbe potuta essere troncata dal loro valoroso ed inclito sovrano!»

Di lì a poco, procedendo fianco a fianco con lui tra due siepi di soldati edelcadici, i quali li andavano acclamando con somma gioia, il re Kodrun accompagnò nella sua tenda il suo omologo beriesko. Quando infine essi vi si furono accomodati, giustamente egli si affrettò a chiedere al suo prezioso ospite della Berieskania:

«Nurdok, vuoi dirmi adesso cosa ti ha spinto a farmi la tua benaccetta improvvisata? Probabilmente, ne conosco il motivo. Con la tua visita, sei venuto da me per stabilire la data della ripresa del nostro combattimento! Non è forse vero, amico mio, che non mi sbaglio, ma sono nel giusto? Non potrebbe essere altrimenti!»

Nurdok, mostrandosi con un animo colmo di affetto, gli rispose:

«Come già ti ho accennato prima, Kodrun, sono qui per parlarti di pace e non più di guerra! Devi sapere che fra noi due oggi non ci sarà più alcun duello; come non ci sarà più alcuna ostilità tra i nostri due popoli. Sono venuto da te per salutarti, mio grande amico, perché ho deciso di ripartire. Presto lascerò le fertili terre edelcadiche e me ne ritornerò nel mio remoto paese, che è la Berieskania, dove i suoi rigogliosi territori non sono da meno.»

«Mi dici perché mai, Nurdok, hai preso questa decisione, tutto all'improvviso? Sappiamo che non erano questi i tuoi disegni, quando hai lasciato il tuo remoto territorio!»

«Questa mattina, Kodrun, in seguito ad un approfondito esame di coscienza, sono arrivato a delle conclusioni abbastanza significative, le quali mi hanno fatto riflettere molto. Esse mi hanno rinfacciato la mia mancanza verso i nove popoli edelcadici e mi hanno fatto vergognare di me stesso. Questo è il motivo, che mi ha spinto ad un atto del genere!»

«Vorrei apprendere da te, Nurdok, quali sono state le tue conclusioni, se ti fa piacere che le conosca anch'io. Allora vuoi riferirmele?»

«Iniquamente, ieri ho lasciato che si stabilissero fra noi due dei patti ingiusti nei vostri confronti. Lo sai anche tu che essi mettevano a repentaglio la sola libertà dei vostri popoli e non anche quella della mia gente. La quale ne usciva interamente esente da rischi, qualunque fosse stato il risultato delle gare. Infatti, mentre noi Berieski non avremmo perduto niente, se il torneo ci fosse andato male; invece voi avreste rinunciato alla vostra libertà, se ne foste usciti sconfitti. Perciò, mentre voi lottavate per cercare di non perdere ciò che già era vostro, la nostra lotta avveniva solo per cercare di vincere ciò che non era nostro, senza rischiare nulla di quanto ci apparteneva. Insomma, se la nostra unica possibilità di variare la nostra situazione era quella di diventare vostri dominatori; la vostra unica possibilità di mutare le vostre condizioni era quella di diventare nostri sottomessi. Cioè, mentre infondeva nei miei soldati l'esclusiva speranza di un successo, al contrario faceva nascere in quelli edelcadici il solo amaro timore di un antipatico insuccesso.»

«Nurdok, anche se in un certo senso il tuo ragionamento è perfettamente giusto, non dimenticare che tanto io quanto gli altri re dell'Edelcadia, a ragione oppure a torto, di nostra spontanea volontà avevamo accettato tali patti. Per questo, per nessun motivo, potevi sentirti in colpa in qualche modo nei nostri confronti! Tienilo a mente!»

«Invece non sono d'accordo con te, Kodrun. Dunque, a onta dei nostri ignominiosi patti di ieri stabiliti senza alcun senso di umanità e di giustizia, probamente ho deciso di stroncare ogni azione bellica contro tutti gli Edelcadi e di lasciare in pace i loro prosperosi territori. Siccome quei patti costituivano solo una minaccia per voi e una speranza per noi, a un certo punto, la mia coscienza si è ribellata e li ha presi in grande odio. Ma prima di partire, amico mio, ho da chiederti un grande favore. Desidero che tu, dopo che avrò condotto via il mio esercito, ti prenda cura della mia piccola Elinnia, che ho condotta con me dalla Berieskania. Devi sapere che, essendo ella divenuta orfana di madre appena nata, poiché il destino così ha voluto, la bimba mi è rimasta talmente legata, che sono stato costretto a condurla con me nella vostra regione.»

Un istante dopo, il prode Nurdok, commuovendosi ed apparendo con gli occhi lucidi, non poté fare a meno di esclamare: "Povera la mia Enker! Che Mainanun l'abbia sempre in gloria!" Ma poi, asciugandosi le uniche due lacrime che gli erano uscite dagli occhi, per non avercela fatta a trattenerle, sommessamente continuò a parlare all'amico:

«Di cosa ti stavo parlando, Kodrun…? Già, della mia piccola Elinnia. Ebbene, la sventurata ha sofferto moltissimo durante la traversata di tante terre che separano il mio paese dall'Edelcadia, alcune delle quali infide ed infette dalla malaria. Adesso Peiuk, che è il nostro stregone, tenuto conto del precario stato di salute in cui ella versa, mi ha sconsigliato dal farle affrontare un viaggio così sterminato e malsano. Egli dice che esso potrebbe anche risultarle fatale. Perciò ho pensato di affidarti la mia bambina, sicuro che tu, memore della nostra schietta amicizia, le offrirai una ottima ospitalità presso la tua reggia di Dorinda. Non è forse vero, mio indimenticabile amico?»

Questa volta fu il re Kodrun ad essere preso dalla commozione, poiché era stato toccato profondamente dalle parole dell'autorevole Beriesko, che adesso considerava un grande amico. Così, mostrandosi emozionato, quasi fosse diventato un fanciullo, nonché apparendo con gli occhi assai lucidi, gli rispose con queste parole:

«Mio caro Nurdok, la tua ultimogenita Elinnia riceverà da me e dalla mia Lurella ogni cura, di cui avrà bisogno. Ti prometto che entrambi la tratteremo come se fosse un'altra nostra figlia. Perciò le dedicheremo lo stesso amore e lo stesso affetto, che già profondiamo a favore del nostro unigenito Cloronte, senza fare alcuna parzialità. Ti garantisco che la mia buona consorte sarà felice di farle da madre affettuosa e premurosa!»

«Ti ringrazio, mio leale e valoroso amico. Il mio ringraziamento ti viene dato anche a nome della mia defunta Enker. I divini Matarum e Mainanun tengano sempre il loro occhio benigno sia su di te sia sulla tua famiglia sia sul tuo popolo! Vi concedano, inoltre, la loro grazia e la loro benedizione! Mi sarebbe piaciuto tantissimo averti come prezioso amico e trascorrere insieme con te tutti i giorni della mia restante vita! Peccato che le nostre esistenze si siano accese, come pure sono destinate a spegnersi, in mondi diversi e così distanti l'uno dall'altro, dal punto di vista sia geografico che culturale!»

«Anche per me, Nurdok, sarebbe stata una fortuna averti come intimo amico, considerata l'affinità dei nostri sentimenti e delle nostre doti naturali. È un vero peccato che la nostra lontananza, che è sul serio sterminata, ce lo vieti in modo inesorabile!»

«Come hai accennato, Kodrun, noi abbiamo tante cose in comune. Esse travalicano il confine del tempo, senza riconoscere né usanze di popoli né realtà geografiche né religioni differenti; bensì si radicano nelle essenze intramontabili dello spirito. Noi ci assomigliamo moltissimo e non soltanto per la forza, per il coraggio, per l'eroismo, per l'arte della guerra e per la sagacia nel fare le scelte più oculate. Soprattutto siamo identici, per la folta schiera dei nobili sentimenti, che albergano nel nostro animo! Tra questi ultimi, posso citartene alcuni: il senso della giustizia e dell'onore, la lealtà, la comprensione delle necessità altrui e il cercare di sopperire ad esse, l'intolleranza ai soprusi e alle vessazioni, l'avversione per la viltà e per la prepotenza, nonché il rispetto della persona umana. Non è forse così, mio grandissimo amico?»

«Non potrebbe essere altrimenti, Nurdok! Di tante qualità comuni insite in noi due, non ne hai omesso nessuna. Esse rappresentano tutte le virtù che scorgo in me e tutti i sentimenti che vado coltivando quotidianamente nel mio animo, da quando ero giovane!»

«Peccato, Kodrun, che nella gioventù odierna io scorga soltanto una grande crisi di valori. Invece essa è alla ricerca esclusivamente di beni materiali e, pur di entrare in loro possesso, non esita a calpestare i più deboli o a macchiarsi dei delitti peggiori. Così non sono mai riuscito a fare rinsavire mio cugino Ircos, il quale aveva dieci anni meno di me. Egli è stato sempre contrario ad assuefarsi alle buone maniere e al senso di responsabilità. Il mio caro parente, che eccelleva fra tutti i Berieski per atti di valore, non ha mai voluto usare tali doti a fin di bene, benché gli provenissero da me richiami continui a rivedere le sue norme di comportamento. Quelle sue erano impostate su una condotta aberrante e fuorviante. La quale lo faceva tralignare da ciò che era giusto, senza averlo fatto pentire mai una volta dei suoi errori e dei suoi torti!»

«Per favore, Nurdok, non essere troppo duro nei confronti dei giovani. Occorre che noi persone mature gli concediamo più fiducia e li seguiamo più da vicino, adoperandoci di continuo per migliorare quelli buoni e riportare sulla retta via quelli cattivi. Se è vero che ci sono giovani, la cui condotta è quella del defunto Ircos, non dobbiamo dimenticare che ce ne sono anche altri, i quali si conformano a quella di Tio. Egli, oltre ad essere il guerriero più in gamba che io abbia mai conosciuto, può essere ritenuto un cultore delle virtù migliori e il loro instancabile baluardo! Non parliamo poi dell'inestimabile mio pupillo Lucebio!»

«Forse dici bene, Kodrun. Occorre concedere più fiducia e più spazio ai giovani di oggi; però senza mai eccedere nel renderci disponibili alle loro esigenze. Tio e Lucebio, che sono due giovani senz'altro inappuntabili, mi incoraggiano a sperare in una resipiscenza futura di quelli che, ad un dato momento della loro vita, sono stati traviati da cattive compagnie. Essi mi spronano ad aver fiducia pure in coloro che si sono corrotti spontaneamente, essendo stati demoralizzati e travolti da una caterva di sventure. Tra le prime, possiamo elencare la profonda crisi di una società corrotta e la mancanza di un lavoro stabile. Sono sicuro che, se un giorno riusciremo a salvarli da tali pecche della società, alla fine essi si ravvederanno e sapranno mettersi in carreggiata.»

Esaurita la loro interessante conversazione, i due personaggi illustri, che appartenevano a civiltà diverse, si abbracciarono con affetto indicibile e si promisero che, da quel giorno, avrebbero considerato il loro incontro come una parentesi meravigliosa della loro esistenza. Inoltre, si sarebbero ricordati l'uno dell'altro, fino a quando la morte non fosse sopraggiunta a spegnere in loro la facoltà di pensare e di giudicare.


All'indomani, in mattinata, il superum Nurdok si ripresentò dal re Kodrun con la figlioletta di sei anni. Egli, dopo averla abbracciata e baciata teneramente, con gli occhi lucidi per la commozione, l'affidò al suo generoso amico. Effettuata la consegna, egli rimontò sul proprio cavallo bianco per ritornarsene all'accampamento beriesko. Ma Elinnia, prima ancora che il padre incitasse la sua bestia a lasciare il campo edelcadico, in un attimo si liberò da Kodrun, che la teneva per mano con una stretta per niente rigida. Una volta che ebbe raggiunto il genitore che stava per ripartire ed allontanarsi, si avvinse alla sua gamba, che penzolava sul fianco destro del quadrupede. Stando poi aggrappata al suo arto inferiore, incominciò a gridargli forte:

«Ti prego, babbo, non abbandonarmi qui con gente che non conosco e riportami via con te, a casa nostra! Se non ti vedrò più e sarò privata dei miei fratelli, morirò per il grande dolore! Qui non avrò nessun'altra persona con cui giocare e sfogarmi, da cui farmi perdonare i capricci e a cui rivolgermi per un qualsiasi bisogno! Senza voi tutti presenti, non potrò più contare su qualcuno; né ci sarà più chi mi farà le coccole ed appagherà i miei capricci! Ti scongiuro, padre mio, di aver pietà di me e di non lasciarmi a soffrire in questo luogo a me ignoto, tantissimo lontano da te e dai miei fratelli!»

Alla pietosa preghiera della figlia, Nurdok, comprimendo dentro di sé l'intera commozione da cui era stato pervaso all’improvviso, si affrettò a ridiscendere da cavallo per dedicarsi ancora una volta alla figlia. Dopo essersi fatto coraggio, mentre l'accarezzava teneramente, si mise a spiegarle, come poteva, la propria decisione forzata.

«Mia dolce Elinnia, credi tu che io provi piacere a lasciarti al mio grande amico Kodrun, totalmente priva del mio affetto e delle mie cure? Sappi che è il tuo stato di salute che mi costringe a farlo, il quale mi vieta di riportarti con me nella nostra casa di Geput. Il nostro stregone mi ha detto che esso, in questo momento, è cagionevole a tal punto, che ti ucciderebbe senz'altro, se tu affrontassi il lungo viaggio di ritorno insieme con tutti quanti gli altri della nostra terra. Da parte mia, ti prometto che ritornerò a riprenderti quanto prima, cioè non appena la tua salute ti consentirà di viaggiare senza pericolo. Stai certa che dirò al re Kodrun di informarmi tramite uno dei nostri piccioni viaggiatori che gli ho lasciati, non appena ti sarai completamente ristabilita. Perciò, figlia mia, fai la brava ed ubbidiscimi, se non vuoi farmi soffrire!»

Poi, tra sé e sé, aggiunse: "Scusami, Elinnia, se ti sto mentendo! Perdonami, se dovrò abbandonarti per sempre nell'Edelcadia. Oramai gli dèi hanno stabilito così per te e nessuna forza al mondo potrà opporsi alla loro volontà. Per fortuna il tuo sarà un destino benigno, avendo esso decretato che dovrai diventare la regina della più potente città dell’Edelcadia e la madre del più grande eroe di tutti i tempi. Ma chiedo alle benefiche divinità di farti soffrire il meno possibile il distacco da me e di alleviarti quelle sofferenze che, almeno all'inizio, immancabilmente ti deriveranno dalla mia mancanza!"

Non appena ebbe termine il suo piccolo sfogo interiore, come se lassù qualcuno lo avesse ascoltato, l'eroe beriesko scorse la sua piccola Elinnia smettere di piangere. La vide, inoltre, allontanarsi da lui rassegnata e correre a ridare la mano al re Kodrun. Stringendogliela forte forte, ella gli fece comprendere che era pronta a seguire il suo nuovo destino e ad accettare gli affetti della sua nuova famiglia. A quell'improvviso mutato atteggiamento della figlia, Nurdok si convinse che, ad operare un tale miracolo, poteva essere stata solamente una forza divina. Allora, incoraggiato da una simile convinzione, egli se ne ritornò al proprio accampamento assai rasserenato e per niente preoccupato per la malaticcia figlioletta. Qualche ora più tardi, quando si era a metà mattinata, fu visto il superum Nurdok allontanarsi con tutti i suoi uomini verso quella stessa parte dell'orizzonte, dalla quale era stato visto arrivare. Mentre poi galoppava verso la Berieskania, il suo animo appariva abbastanza soddisfatto e quanto mai sereno, essendo in quel momento persuaso di aver compiuto un gesto nobile e giusto, che unicamente le persone di valore erano in grado di compiere. A ogni modo, il suo cuore continuava a mostrarsi gelido e terribilmente vuoto, siccome egli aveva perduto in una volta sola una figlia e un amico, l'una e l'altro che per lui erano di incalcolabile pregio!

Così l'Edelcadia era di nuovo salva ad opera del re Kodrun, che venne acclamato ed osannato da tutti gli Edelcadi come il migliore dei sovrani edelcadici. Ma per la sua Dorinda, egli aveva fatto molto di più. Era riuscito a procacciare ad essa una potenza infinita e un grande prestigio politico. Il quale avrebbe dovuto assicurarle per molti anni l'egemonia sulle altre città dell'Edelcadia. Finalmente il re di Dorinda e l'amico Lucebio potevano ritenersi pienamente soddisfatti, avendo essi visto realizzarsi il loro sogno di inestimabile valore. Ci si riferisce a quello che da sempre essi avevano desiderato e covato ardentemente nel loro animo. I due amici, in verità, lo avevano anche vissuto con una intensità ed una tenerezza impressionanti, come se si fosse trattato di un frutto saporito, il quale è stato raccolto con la mano direttamente dall'albero! Per entrambi, l'agognato sogno aveva rappresentato qualcosa di suggestivo e di meraviglioso. Ciò, a causa del fascino incantevole e seducente, che esso aveva saputo esercitare su di loro per lungo tempo, ossia da quando il medesimo si era affacciato alla loro coscienza e l’aveva illuminata in modo leggiadro.