84-IVEONTE E LERINDA VIVONO IL LORO PRIMO IDILLIO
Una volta svanito sotto terra nel modo che è stato riportato, il Talpok aveva lasciato l'eroico Iveonte in una grande stupefazione. A maggior ragione, ne era rimasta esterrefatta Lerinda, a causa della ingenuità e della inesperienza del suo senno in certi argomenti, essendo essi di pertinenza proprio del pianeta uomo. Con molte probabilità, quel tipo di vita l'avrebbe accompagnata fino alla morte, siccome ad ogni ragazza come lei si addicevano precipuamente la grazia e l'eleganza, l'innocenza e la semplicità, il bell'abbigliamento e una carezzevole favella. Infatti, questi sono i doni che Madre Natura ha riservato al gentil sesso fin dalla sua origine, perché se ne serva per rendere felice il sesso forte. Nemmeno ad Iveonte venne meno questo genere di consolazione, poiché anch'egli a un tratto si vide assalire e circondare dalle moine di riconoscenza che gli provenivano da Lerinda. Per la verità, se era innegabile che la ragazza si prodigava in esse con molta liberalità, era altrettanto vero che ella lo faceva con discrezione nel dispensargliele.
Invece il giovane, nel quale al fuoco dell'ira era subentrato l'ardore della passione, si vide guidare dai suoi sensi amorosi, che gli fecero smarrire il lume della ragione. Allora, non facendo più caso alla moderazione della fanciulla, iniziò ad agire inconsciamente sotto l'impulso dell'istinto. Essendo stato invaso da una eccitazione fremente, intanto che la ragazza si teneva avvinta al suo petto, all'improvviso Iveonte si sentì in balia dei suoi bollenti spiriti. I quali, scorrazzando per i voluttuosi sentieri della sensualità, alla fine finirono per fare scomparire dentro di lui l'equilibrio interiore, il senso della misura e perfino la temporanea repulsione per ogni forma di dissennatezza. Intanto che ciò succedeva nel suo intimo, come se un forte magnetismo si fosse instaurato fra lui e lei, creando tra loro due una irresistibile attrazione, egli circondò Lerinda con le sue robuste braccia e l'avvinse fortemente a sé. Quando infine ebbe poggiato le sue labbra ardenti sopra quelle di lei, si diedero a divorarsi l'un l'altra di baci caldi e focosi. Perciò, baciandosi in quella maniera oltremodo appassionata, entrambi si andavano trasfondendo reciprocamente un amore fervente ed inestinguibile. Alla fonte del quale, in quel momento estasiante, entrambi attingevano per la prima volta l'essenza di tutto ciò che si presentava sublime ed incantevole.
Statene certi, cari lettori, che, se Iveonte si fosse astenuto dal compiere un atto simile, sarebbe senza meno scoppiato. Inoltre, se tale risultato non ci fosse stato per un qualsiasi motivo, la sua calda natura umana si sarebbe tramutata in una gelida e dura roccia, restandovi così imprigionato per l'eternità, quasi fosse divenuto una statua priva di vita!
Ebbene, dopo che si furono disgiunti e si furono ritrovati ancora contrapposti l'uno all'altra con i volti erubescenti, in loro ritornò a librarsi la ragione. Allora essa, facendogli ritenere scorretto ciò che era accaduto fra di loro un attimo prima, li faceva quasi vergognare del loro momentaneo comportamento e, in un certo qual modo, li spingeva a schivarsi. In verità, quel loro atteggiamento iniziale un po' troppo serioso avrebbe avuto vita breve. I due cotti innamorati ignoravano che la favolosa circostanza gli aveva invece fatto suggere un filtro, che aveva il potere di provocare un effetto diametralmente opposto. Esso era venuto ad erigere tra loro due il monumento bifronte della bramosia e della insaziabilità. Il quale, da quell'istante in poi, non avrebbe mai più smesso di essere tale. Qualche attimo più tardi, infatti, a dimostrazione di quanto si è appena detto, i due giovani innamorati potevano essere ancora scorti, mentre si davano a vivere la loro calda intimità sopra un soffice tappeto di erba. Lerinda, stando seduta contro il tronco di un albero, era chinata sopra la testa del suo eroe salvatore. Il quale era disteso supino per terra e poggiava il capo sopra le sue morbide cosce. Restando poi in quella comoda posizione, che li deliziava, Iveonte e Lerinda intrapresero un dilettevole colloquio amoroso, quello che gli uccelli circostanti armonizzavano con un serto di gorgheggi soavi. Così si era venuta a creare fra i due giovani ebbri d'amore un'atmosfera di idillio incantevole e di paradisiaca esistenza, la quale andava addolcendo quei momenti come non mai. Con movimenti leggeri e morbidi, le mani della fanciulla mettevano in continuazione in subbuglio la bionda chioma di Iveonte. Egli, al tocco di quelle dita lievi ed elettrizzanti, andava in estasi, sentiva serpeggiare sotto la sua pelle una sensazione soave e beatificante, volgeva i suoi pensieri là dove tutto concorreva ad una divina delizia.
Quindi, il precedente bacio passionale li aveva condotti ad una immedesimazione quasi trascendente. Per cui il punto di congiunzione dei loro spiriti si perdeva oltre l'incognito e l'inaccessibile. Per la quale ragione, essi non bramavano altro che appagarsi l'uno dell'altra e sentire palpitare all'unisono i loro cuori trepidanti. Soprattutto anelavano a compenetrarsi con i loro animi e i loro spiriti in una perfetta e felice unione, che adesso si mostrava trascendentale e sensitiva, oltre che infinitamente gratificante. In quegli momenti incantevoli, Iveonte e Lerinda si sentivano integrare a vicenda e, al solo pensiero di una loro separazione coatta, una tetra notte infernale si avventava contro di loro e li avviluppava sinistramente. Per questo, dall'una e dall'altra parte, partivano fervide implorazioni a divinità benefiche, affinché quegli istanti ameni si dilungassero per un tempo infinito e divenissero i loro inseparabili compagni. Stando così materialmente e spiritualmente congiunti, sembrava che essi non si accorgessero più del mondo circostante. Al di fuori della loro meravigliosa passione, nessuna cosa era in grado di farsi notare e di farsi ritenere esistente, poiché tutto periva in un niente e in un vuoto insignificanti. Ciò, perché il loro ardente amore, in quegli attimi gaudiosi, rappresentava l'unico promotore di vita, di gioia e di benessere. Anzi, esso rappresentava il perfetto amalgama che li teneva divinamente fusi in un entusiasmo mirabile.
Quando infine la passione amorosa si decise a sbollire un poco nei due innamorati, facendogli riacquistare il loro pieno controllo, Lerinda fu la prima a parlare. Rivolgendosi al giovane, gli domandò:
«Sai, Iveonte, che cosa si dice dell'amore? Se non ne sei mai venuto a conoscenza, posso metterti io al corrente di una sua stupenda concezione, la quale ci è provenuta da una persona ignota. Vedrai che non ti dispiacerà affatto venire a conoscenza di essa! Te lo garantisco!»
«Ad esserti sincero, Lerinda, qualcosa ho sentito anch'io sull'amore. Ma non posso assicurarti che il suo contenuto è il medesimo che intendi farmi conoscere tu. Perciò, solo dopo che me lo avrai riferito, potrò risponderti a tale riguardo. Quindi, comincia pure a parlarmene!»
«Mio caro Iveonte, si racconta che, agli albori dell'universo, il caos primordiale imperava sui tenebrosi e freddi spazi cosmici. In seguito, però, l'onnipotente Matarum li irraggiò con la grazia dell'amore, il quale ovunque si diede a guizzare, a balenare e a scintillare, fino ad imporsi come legge regolatrice di ogni cosa. Così, sotto la sua egida, la luce subentrò alle tenebre ricalcitranti, l'armonia dilagò dappertutto suprema e vittoriosa; mentre la vita iniziò a palpitare e a pullulare in seno alla materia. Esclusivamente nello spirito dell'uomo, che aveva prescelto come sua stabile dimora, l'amore eresse il suo tempio sacro, nel quale le ardenti passioni umane potessero accendersi ed alimentarsi con il suo fuoco eterno. Inoltre, esse avrebbero dovuto cominciare a vivervi intensamente il soave incanto dell'amore, in seno ad un'estasi che si mostrava travolgente, esaltante ed inebriante! Ora ho finito! Allora che ti pare quanto ti ho appena rapportato sul meraviglioso tesoro, che è amore?»
«Innanzitutto, Lerinda, ti faccio presente che questo concetto dell'amore mi giunge completamente nuovo. Se poi vuoi che ti esprima un giudizio su di esso, adesso ti accontento subito. Senza dubbio, lo trovo una specie di genesi dell'amore sublimemente poetica e magicamente seducente. Ma in merito ad esso, vorrei sapere da te che cosa pensi tu dell'amore, la qual cosa, se ci tieni a saperlo, mi interessa molto di più!»
«Sono convinta, Iveonte, che, se venisse meno l'amore, l'universo verrebbe ad essere privato del suo mistero e del suo fascino. Inoltre, le stelle perderebbero la loro magia, il sole non avrebbe più il suo splendore, la luna smetterebbe di ispirare i poeti e i cantori, svanirebbe la maestà del mare, i monti non si ritroverebbero più la loro imponenza, la natura resterebbe senza vitalità, ai fiori verrebbero tolti il loro profumo e il loro candore. Infine la vita stessa cesserebbe di manifestare la sua ilarità e di esprimere la sua creatività. Quanto al mondo degli innamorati, esso smarrirebbe il suo dolce incanto, diverrebbe una essenza arida e morta, sprofonderebbe nel baratro più buio, si ritroverebbe nella notte più cieca, si perderebbe per spazi senza mete; anzi, errerebbe per tempi senza speranze e senza progetti, privo di ogni sublime ideale. Per questo lo si scorgerebbe esistere con l'amaro sapore del crudo disincanto e con il pungente oblio di sé stesso, senza più ritrovarsi in qualche angolo di questo mondo, che ne ha tanto bisogno.»
«Mia dolce Lerinda, le tue amabili riflessioni sull'amore si sono rivelate un'autentica e genuina poesia. Esse mi hanno affascinato immensamente e mi hanno fatto rammentare ciò che una persona cara espresse sull'amore a me e al mio amico Francide. Si tratta di qualcosa molto simile al tuo racconto sulla sua nascita, cioè concepita in una visione che non è affatto filosofica e risulta invece più essenzialmente poetica.»
«Allora cosa aspetti a parlarmene, Iveonte? Non sai come già sto fremendo, per l'ansia di ascoltare le tue parole, le quali potranno essere soltanto meravigliose, considerato l'argomento che dovranno trattare! Devi sapere che tutto ciò che concerne l'amore mi entusiasma e mi avvince. Specialmente adesso che ho trovato la persona ideale, con la quale ho iniziato a concretizzarlo! Comunque, spero di poterlo coltivare per l'intera mia esistenza, vivendolo accanto a te!»
«Il nostro Tio una sera, sotto un cielo stellato e al chiaro di luna, a proposito del sentimento amoroso, ci disse quanto sto per riferirti. Subito dopo essere echeggiato il primo vagito umano sulla nostra terra novella, il leggiadro sorriso dell'amore, apparendovi magico come una aurora boreale, abbagliò gli azzurri firmamenti. Intendeva così farvi librare lievemente le sospirose passioni dei futuri innumerevoli amanti. Più tardi l'amore, con la sua bellezza e la sua grazia, fu scorto, mentre era intento a lenire le ambasce di quegli animi angustiati, che avevano voluto sorbire il suo nettare soave al calice della passione amorosa. Poi esso accese gli spiriti umani di focoso ardore, di folle bramosia dei sensi e di lascivi desideri incontrollati. Perciò essi, oltre a fare strage di cuori, decisero di innalzare un monumento altissimo ed immortale a quel piacere e a quella gioia che avevano la loro beata origine dall'amore. Infine, in seno ad esso, l'uno e l'altra si cementarono con l'obiettivo di diventare inseparabili per l'eternità.»
«Avevi ragione, Iveonte. La visione genetica dell'amore, così come veniva interpretata dal vostro Tio, supera di molto quella che ti ho fatta apprendere un momento fa. Essa si presenta quasi un caldo connubio di poeticità e di sensualità, il quale rende ancora più umano il senso amoroso e più appetibile l'atto che lo concretizza. Inoltre, vi sono rimarcate stupendamente una esaltazione e una immortalità dell'amore né del tutto platoniche né del tutto materiali, ma equamente distribuito in entrambe le forme. L'amore, come espresso dal vostro defunto tutore, abbandona ogni irreale ed arido schematismo; invece, assurgendo al più alto dei valori, si estrinseca, si ravviva e si perpetua in una realtà unica. La quale, alla fine, finisce per assemblare il piacere dei sensi, l'equilibrio della ragione e l'incanto della poesia, fino a farli fondere in un qualcosa che pare si rifugi nel trascendente, al solo scopo di immortalarsi e di sopravvivere ad ogni processo storico.»
I discorsi sull'amore dei due giovani innamorati, siccome si andarono facendo sempre più vivi ed intimi, a un dato momento, suscitarono tra di loro un clima travolgente ed elettrizzante. Esso, a mano a mano, andò accendendo sempre di più nel loro intimo una impetuosa passione. Allora, senza accorgersene, entrambi i loro corpi si sentirono desiderare avidamente l'un l'altro. In quella circostanza, si cercavano non solo con gli occhi e con le mani, ma pure con le labbra, le quali andavano attingendo ovunque l'ambrosia sublime dell'amore. Sembrava che i loro corpi fossero divenuti più grandi per le loro mani, sebbene esse risultassero più lunghe in quella occasione. Le loro dita erano impegnate a sfiorarli, ad accarezzarli e a palpeggiarli, volendo sentirvi agitarsi dentro l'irruente ardore della loro incipiente ebbrezza passionale. Così i due giovani si ritrovarono, tutto a un tratto, l'uno sopra l'altra, con i loro corpi che fremevano in un caldo abbraccio. Quell'intimo amplesso, anche se espresso parzialmente, dopo averli fatti sentire fantasticamente un solo corpo e un solo spirito, come per incanto, li rapì alla loro reale esistenza.
Oramai Iveonte e Lerinda veleggiavano per acque sconfinate e senza tempo, rese tempestose dai ritmi focosi del crescente incalzare della loro bramosia amorosa. Intorno a loro, invece, si udiva una procella di sospiri, di deliri e di gemiti, la quale tumultuava e furoreggiava. Essa, intanto che li inondava e li estasiava con la sua voluttà e la sua frenesia, donava all'uno e all'altra il dolce oblio di ogni umana traversia. Alla fine, l'intima fusione dei loro corpi, avvenuta sempre parzialmente, segnò il suggestivo atto finale di quel loro incantevole rapporto amoroso. Il quale aveva visto ardere nei loro cuori tanti assurdi e voluttuosi appetiti. Inoltre, esso, seguendo la bizzarria dei loro impulsi sfrenati ed ignorando per breve tempo qualsiasi contegno, aveva permesso ad ogni sovrumano appagamento di prendere posto nella loro interiorità estasiata. Per questo la felicità non vi aveva conosciuto soste ed era brillata nel loro intimo, come se si fosse tratto di una stella che si era data a rifulgere nella immensa galassia di un amore, il quale del vocabolo fine non intendeva assolutamente sentire parlare.
Qualche minuto dopo, Iveonte e Lerinda ripresero il controllo psichico della situazione e badarono a riordinarsi alla meglio. In quella maniera, non sarebbero apparsi agli occhi degli altri in una situazione tale, da dare adito a sospetti. Così, una volta che si furono riordinati nell'aspetto, essi si sedettero l'uno accanto all'altra e si diedero alla conversazione. Questa volta essa era risultata di diverso tipo, comunque altrettanto piacevole ed interessante. Allora fu la ragazza a dire al giovane:
«Mio caro Iveonte, mentre amoreggiavamo, mi è sembrato di scorgere la tua spada darsi ad un continuo trascoloramento, ma sempre restando sulle varie tonalità del rosso. Da un rosa pallido iniziale, attraverso crescenti intensità tonali, l'ho vista alla fine assumere perfino un colore rosso scarlatto, simile a quello di un ferro arroventato. Inoltre, ho notato che in essa seguitava a verificarsi un alternarsi di varie coloriture, le quali ora si affievolivano ora si intensificavano. Anzi, mi è parso quasi che essa prendesse viva partecipazione alle nostre effusioni amorose, seguendone addirittura i ritmi e le eccitazioni. Tu cosa sai dirmi, amore mio, a questo proposito? Credi che possa essere stato un fenomeno reale quello a cui ho assistito? Oppure ritieni che, venendo in quel momento estasiata tantissimo dall'amore, alla fine mi sia vista sfuggire la realtà e mi sia data a navigare nella pura irrealtà? Desidero che tu mi palesi il tuo parere su questo particolare, che è da non credersi!»
«Lerinda, non mi sembra né giusto né gentile mettermi ad asserire che la tua visione riguardante la mia spada è stata il frutto di un'allucinazione. Dovresti già aver notato che essa ha dei poteri prodigiosi. Infatti, hai avuto modo di constatarlo quel giorno in città e oggi nella mia lotta contro il Talpok. Perciò, se l'hai vista tingersi come hai detto, non è escluso che ciò sia accaduto sul serio. Non chiedermi, però, il perché e il come ciò avvenga, dal momento che neppure io non saprei rispondere alle domande, che ti sei rivolta. Della mia arma fatata, so soltanto che mi ha preferito agli altri, quando sono andato a prenderla!»
«Sorvoliamo allora su questo argomento, Iveonte, e parliamo di cose che più coinvolgono la nostra realtà. Io, per esempio, ho appreso il tuo nome quando venisti alla reggia di mio fratello, accompagnato dai tuoi due amici. Da quel momento, non l'ho più dimenticato, essendomi esso diventato all'istante familiare, oltre che caro! Fu in quell'occasione che intravidi in te un uomo di tempra assai diversa da quella di mio fratello Cotuldo e del suo braccio destro Croscione. Per questo ebbi paura di non rivederti più nei mesi che sarebbero seguiti. Per fortuna, così non è stato; anzi, si è verificato esattamente l'opposto. L'odierno nostro idillio, inoltre, ha consacrato l'eterna unione delle nostre anime. Voglio sperare che esse non si separeranno mai più in avvenire, fino alla consumazione dei nostri giorni! Lo desideri anche tu, amore mio?»
«Certo che lo desidero, dolce mio tesoro! Anzi, lo brano ardentemente! Comunque, anche a me è successo la medesima cosa, Lerinda, per cui ho espresso il tuo stesso desiderio. Perciò voglia il divino Matarum che il nostro amore non venga a spegnersi tra noi due per sempre. Al contrario, agogno che esso si rafforzi ulteriormente con il tempo, senza che nessuno e niente possa riuscire a frapporsi tra di noi, allo scopo di distruggercelo oppure di portarcelo via!»
«Devi sapere, Iveonte, che ho un altro fratello, il cui nome è Raco, il quale attualmente è il viceré di Casunna. Egli non somiglia per niente a Cotuldo; al contrario, è fatto di tutt'altra pasta. Del resto, anche il defunto mio genitore era di indole buona e generosa, nonché amava servire la giustizia in ogni situazione. Perciò, ogni volta che l'applicava, non faceva mai sconti a nessuno, fossero essi nobili oppure plebei. Ricordo che, nelle sue dissertazioni sulla giustizia, mio padre amava citare sempre Cloronte, il magnanimo re di Dorinda, che egli considerava il sovrano più giusto e più nobile dell'Edelcadia. Ritornando a mio fratello Raco, pure lui, come mio padre, è un cultore della giustizia e riesce ad immedesimarsi nelle esigenze del popolo casunnano. Ma non sempre può farsene carico e soddisfarle, siccome gli tocca scontrarsi con la dura realtà che è rappresentata dal fratello Cotuldo, essendo il suo sovrano. Allora deve desistere dai suoi buoni propositi di alleviare almeno in parte le sofferenze del popolo di Casunna e di evitargli qualsiasi forma di ingiustizia sociale.»
«Dunque, Lerinda, devo desumere che Cotuldo sia la sola pecora nera della tua famiglia, se tutti gli altri componenti la pensano all'opposto di lui. Questo fatto dovrebbe consolarti per buona parte, se vuoi avere un mio giudizio in proposito!»
«Anche se mi dispiace ammetterlo, Iveonte, ma è proprio così! Egli è come lo hai tu dipinto in breve. Non avresti potuto trovare un termine più azzeccato. Fin dall'adolescenza, il suo pessimo carattere non è mai cambiato ed è rimasto sempre lo stesso. Per sfortuna degli altri, però, esso è portato ad ispirarsi più al male che al bene! Magari fosse stato mio fratello Raco il primogenito della nostra famiglia!»
Cambiando poi ancora argomento, Lerinda aggiunse:
«Non sai quanta consolazione mi ha arrecato la bella lezione che ieri hai inflitto al sanguinario Croscione. Egli è un cane che abbaia solo contro le persone abituate a scappare, nonché contro i vecchi e gli infermi. Mio fratello Cotuldo, ancora più esaltato e più folle di lui, lo asseconda in tutte le sue turpi decisioni. Dovresti vederli come vanno d'amore e d'accordo, quando c'è da appioppare un nuovo balzello al popolo, sia casunnano che dorindano! Vanno pazzi per i tartassamenti da operare sulla povera gente, facendoli risultare sempre necessari ed impellenti. Come pure gongolano nel decretare continue indebite requisizioni contro i possidenti dorindani, dopo averli incriminati apposta di cospirazione. La cosa peggiore è che tali loro spoliazioni sono quasi sempre accompagnate da uccisione o da arresto di gente innocente. La quale cerca di difendere i suoi averi, avendoli accumulati dopo lungo ed estenuante lavoro. Io me ne addoloro immensamente, oltre a vergognarmene!»
«Lerinda, tu non hai alcuna colpa delle inique azioni che vengono commesse da tuo fratello. Perciò devi restare tranquilla, poiché nessuno potrà mai condannarti per colpa sua!»
«Ma ugualmente provo un sacco di disagio, Iveonte, per cui non ce la faccio più a rimanere nella nuova città, nella quale tutti mi puntano addosso i loro occhi, solo per esprimermi odio e tanta rabbia! Sarei vissuta a Casunna ben volentieri, insieme con mio fratello Raco; però scelsi di venire a vivere a Dorinda. Lo sai quale ne fu il motivo? Te lo dico subito. Decisi di trasferirmi qui, esclusivamente perché diedi credito al vaticinio di una vecchia e cieca chiromante, la quale mi predisse che qui avrei trovato la mia fortuna e la mia gioia. Quest'oggi ho avuto la conferma che ella non era una megera ciarlatana, come allora mio fratello Raco la dipinse severamente. Ella, invece, diceva soltanto il vero. Ma qual senso hanno la mia fortuna e la mia delizia, se poi ci sono molti Dorindani che soffrono, risultando vittime delle inumane ingiustizie patite per colpa del mio pessimo germano Cotuldo?»
«Abbi pazienza e speranza, Lerinda! La causa degli oppressi Dorindani è diventata anche mia e dei miei amici. Per cui il cane da noi conosciuto ha già constatato che gli ossi che gli sono capitati sotto le zanne in questi ultimi tempi sono stati di ben altra durezza. Essi addirittura hanno deciso di spaccarle, anziché farsi triturare da loro! Per questo ti do assicurazione che, prima o poi, Dorinda riscatterà la sua libertà!»
«Quindi, quel giorno foste proprio voi ad uccidere nella Piazzetta degli Antenati i soldati di mio fratello! Il pensiero non mi tradì, quando sospettai di voi, appena giunse la notizia a corte. Eppure la loro uccisione fu addebitata dai tre soldati superstiti alla sola plebaglia, mentendo al loro re. Per il qual motivo, mio fratello deliberò la ritorsione contro di loro, che poi c'è stata puntualmente ieri mattina!»
«Certo che i relatori mentirono a tuo fratello, Lerinda, per evitare un duro maltrattamento da parte sua, conoscendo di quali reazioni egli sarebbe stato capace. Inoltre, devi sapere che non erano predoni quelli che ci avevano assaliti all'alba di quello stesso giorno in cui ci presentammo nella reggia del tuo germano, costringendoci ad ucciderli. Ti ricordi che ne rapportammo la strage pure a corte? Si trattava invece di patrioti che, traditi dalle nostre splendide armi, erroneamente ci avevano scambiati per soldati di tuo fratello. Ma adesso pure i miei amici ed io facciamo parte dei ribelli!»
«Sono contenta, Iveonte, di apprendere che voi tre avete abbracciato la loro giusta e nobile causa. Ma dispero della vostra vittoria finale, per il semplice fatto che è stato stretto un patto di alleanza tra mio fratello e altri sei sovrani edelcadici. I quali, se lo vuoi sapere, sono gli stessi che furono spinti da lui a detronizzare il re Cloronte e a spartirsi i suoi territori. In virtù di tale patto, essi hanno rinsaldato ancora di più la loro amicizia. Fra le altre cose contemplate dalla loro intesa, c'è pure l'impegno comune a non permettere la restaurazione del regno di Dorinda. Per cui essi interverranno insieme contro chiunque tenti di adoperarsi per conseguire tale obiettivo. Per vincere, voi dovreste sconfiggere, oltre che mio fratello, i sovrani delle città di Terdiba, di Cirza, di Statta, di Polca, di Bisna e di Stiaca. I quali hanno tutti a disposizione degli eserciti potenti. Mi sai dire, Iveonte, come faranno i pochi ribelli dorindani, che oltretutto sono anche male armati, a sbaragliare i sette agguerriti eserciti dei loro oppressori? Come vedi, i fatti parlano da soli. Inoltre, fra i ribelli, i veri forti siete solamente tu e i tuoi amici. Invece tutti gli altri, ai fini della vostra causa, valgono tanto poco quanto niente. Se mi sbaglio, correggimi! Ma sarei felice del contrario!»
«Non dirmi, Lerinda, che vuoi dissuaderci dal condurre la nostra lotta contro tuo fratello e gli altri sovrani suoi alleati! Se così fosse, hai ragionato in modo sbagliato!»
«Ti ho parlato così, Iveonte, non per smontarti o per demoralizzarti; ma soltanto per porti davanti alla realtà dei fatti. Sono convinta che quanto più si conosce il proprio nemico e le sue forze, tanto più facilmente lo si può debellare. Sebbene ci siano reali ed enormi difficoltà nella vostra lotta di liberazione, incito te e i tuoi amici a raddoppiare le forze in ciò in cui avete fede, poiché la giustizia non va fatta mai crollare. Il torto, che ingiustamente ebbero a subire Dorinda e il suo re Cloronte, fu grande, immenso. Darei chissà che cosa, anche parte di me stessa, pur di vedere vendicato quel torto! Mio padre, come già ti ho fatto presente, elogiava spesso la saggezza del re Cloronte e le sue virtù, quali l'equanimità, il buonsenso, la magnanimità e il rispetto della persona umana, da lui ritenuta qualcosa di sacro e di inviolabile. Il suo giudizio sul padre di lui, il famoso re Kodrun, ugualmente era molto positivo, ma in tutt'altro senso. Ritenendolo un insuperabile stratega e un eroico guerriero, egli era solito decantarne le gloriose gesta, dalle quali veniva affascinato in maniera esaltante.»
«Anch'io, Lerinda, ho sentito parlare delle gesta e dell'eroismo del fondatore di Dorinda e ne sono stato affascinato moltissimo. Peccato che il figlio, ossia il re Cloronte, non abbia preso neppure un poco da lui ed abbia seguito una politica completamente differente. Alla fine, così, essa lo ha condotto alla rovina di sé stesso e della sua città!»
«Qui, Iveonte, ci sarebbe voluto proprio il re Kodrun, le cui imprese bellicose ho sempre ascoltato con piacere da mio padre, prima che venisse assassinato da... non so da chi! Volendo dare retta a mio fratello, che ha sempre additato il re Cloronte come il principale responsabile della morte di nostro padre, è come gettare del fango sulla fama del re di Dorinda e screditare, a un tempo, le parole del mio povero genitore. Questo enigma mi tormenta da tanti anni; però continuo ad avvertire dentro di me che il tradimento commesso dagli altri sovrani ai danni del re Cloronte fu ingiusto, irresponsabile e turpe. Esso non potrà essere facilmente cancellato dalla storia!»
«Il tuo, Lerinda, è un nobile sentimento che non ti tradisce. Tu non ti inganni, poiché tuo padre Amereto fu ucciso da un ragazzo appena settenne, perciò non responsabile dei propri atti. Egli per caso aveva sollevato un giavellotto e lo aveva scagliato là dove neppure si sognava che andasse a finire, uccidendo involontariamente tuo padre. Quel ragazzo era Nucreto, il terzogenito del re Cloronte. Egli, terrorizzato dal grave incidente provocato, preferì non accusare il proprio delitto al genitore, sgattaiolandosela furtivamente e lasciando il padre in un brutto guaio. La verità si seppe, solo quando Lucebio tentava di condurre in salvo lo stesso Nucreto e il fratello Londio, l'altro figlio maschio del re Cloronte. Trafitto a morte da una freccia, il ragazzo, prima di morire, confessò a Lucebio il suo colposo reato. L'arma, naturalmente, lanciata com'era stata alla cieca dal principino, poteva benissimo andare a colpire anche suo padre Cloronte! Questa è l'unica verità sulla uccisione di tuo padre e non quella che in seguito vollero fare apparire i re traditori, al fine di giustificare il loro vile atto!»
«Sia benedetto il divino Matarum! Da oggi non avrò più dubbi nella mente, poiché conosco finalmente la verità. Il mio sventurato babbo cercò di manifestarmela attraverso un sogno e proprio nella versione che mi hai esposta, Iveonte. Nel sogno egli intese farmi capire che soltanto mio fratello Cotuldo lo avrebbe assassinato con la sua insana ed iniqua condotta, come oggigiorno sta avvenendo!»
«Adesso, mia dolce Lerinda, conviene alzarci alla svelta e salire in groppa al mio cavallo per raggiungere gli altri. Se è come mi hai fatto presente, cioè che Croscione ti ha vista in pericolo, prima ancora che tu venissi raggiunta da me, presto ce li vedremo tutti quanti addosso. Sono certo che la notizia della tua disgrazia avrà messo in allarme tuo fratello e gli altri. Essa, oltre che farlo preoccupare tantissimo per te, lo avrà perfino spinto a correre in questa parte del bosco con gli altri cortigiani!»
Dopo essersi alzata ed aver guardato bene intorno, la ragazza si accorse che non c'era alcun cavallo in giro, intento a brucare nelle vicinanze. Perciò domandò al suo ragazzo:
«Mi dici, Iveonte, sulla groppa di quale cavallo dovremmo salire noi due, se non ne intravedo neppure uno qui intorno? Il tuo sarà scappato spaventato, non appena avrà visto il mostro che mi aveva rapita! Sono sicura che è andato proprio così!»
Il giovane le sorrise e, dopo averla presa per mano, le fece presente:
«Già, ho timore che ci toccherà andare a piedi, mia cara Lerinda! Avevo dimenticato che, prima di accingermi ad ingaggiare l'aspra lotta contro il mostruoso Talpok, avevo ritenuto opportuno mandare via la mia bestia. Con tale mia precauzione, ovviamente, intendevo metterla al sicuro, facendola allontanare dal grave pericolo.»
Dopo un buon tratto di cammino, mentre avanzavano tra la fitta boscaglia, i due giovani si ritrovarono a pochi metri dalla tigre, la quale era stata pure uccisa da Iveonte poco prima. La ragazza, non appena la ebbe scorta ad una dozzina di metri di distanza da loro, la credette addormentata. Allora si ritrasse impaurita e si avvinse al suo innamorato; ma il giovane si affrettò a rassicurarla, dicendole:
«Non averne timore, Lerinda, perché quella mangiatrice di uomini è morta da un pezzo! La mia spada le aveva già fracassato il cranio, quando mi è pervenuta la tua invocazione di aiuto. La quale mi ha fatto correre come un fulmine in tuo soccorso, non volendo perdere nemmeno un attimo di tempo! Quindi, puoi stare tranquilla!»
«Che enorme bestia! Non avevo mai visto da vicino una tigre!» la fanciulla esclamò, quando le fu assai vicina.
Un attimo dopo, allontanando il suo sguardo dall'enorme felino, si rivolse al suo Iveonte. Così, intanto che se lo abbracciava e se lo baciava, non si astenne dall'affermargli in forma di domanda:
«Non ti pare che quest'oggi io ti abbia procurato già abbastanza lavoro, amore mio? Certo che sì! Sono convinta che, per starmi dietro, hai dovuto faticare più di quanto ti sarebbe toccato, se tu fossi rimasto al campo con i tuoi amici! Nevvero?»
In quell'istante, giunse alle loro orecchie un vero baccano in avvicinamento e, pochi istanti dopo, si presentò ai due giovani l'intera schiera dei cacciatori che accompagnavano il sovrano. Tutti allora, nello scorgere incolume Lerinda, rimasero basiti, dopo quanto avevano sentito raccontare da Croscione. Il re Cotuldo, invece, sceso dal suo cavallo, si avvicinò alla sorella e l'abbracciò, esclamandole:
«Vedo che sei ancora tutta intera, Lerinda! Il miope Croscione ci aveva riferito che il mostro, dopo averti catturata, ti stava portando via con sé! Perciò ci ha fatti correre con l'intento di salvarti!»
«Invece davvero sarebbe avvenuto ciò, fratello, se non fosse intervenuto il valoroso Iveonte a trarmi in salvo in tempo utile. Altro che bazzecola del popolino era il mostro Talpok, come tu affermavi! Per mia fortuna, c'è stato chi, cimentandosi temerariamente con esso, è riuscito a metterlo in fuga, sottraendomi in questo modo da una morte certa! Da oggi, perciò, dovrai smettere di considerarlo un essere fiabesco!»
«Vuoi dirmi dove è andato a finire il mostro Talpok, cara sorella?»
«Esso è sparito sottoterra, fratello mio, poiché è lì che si trova la sua dimora! Il mostruoso bestione, a quanto pare, conduce vita ipogea. Avresti dovuto vederlo con quale facilità si è fatto strada nel terreno e in che modo è sprofondato nel sottosuolo! Sono convinta che esso avrebbe fatto invidia perfino ad una talpa, mentre scavava nel suolo!»
Accortosi poi del felino morto, il re Cotuldo, assai stupito, le chiese:
«Lerinda, cosa ci fa qui per terra questo esemplare di tigre morta? Uguale ad essa, non ne ho mai viste una in vita mia! Mi faresti il favore di dirmi chi è stato ad ammazzarla?»
«Sempre il mio impareggiabile protettore, fratello. Ma essa era stata uccisa, prima di correre in mio aiuto e di raggiungermi. Come vedi, egli è un eroe autentico!»
«Adesso ne ho la certezza anch'io, Lerinda! Non ho mai visto uomini compiere imprese simili. Perciò spetta a lui la ricompensa che avevo messo in palio, prima che la partita di caccia avesse inizio. Ora non ci sono dubbi che il meritevole vincitore di essa può essere soltanto il tuo salvatore! Ne sono convinti anche tutti gli altri, non potendo negarlo!»
«Puoi tenerti il tuo premio, re Cotuldo, dal momento che non so cosa farmene.» fu la risposta data al sovrano da parte di Iveonte, il quale non voleva apparirgli venale «Sono convinto che, fra tutti i cacciatori che sono al tuo seguito, ce ne sarà qualcuno disposto a prenderselo, al posto mio! Perciò puoi darlo benissimo a lui!»
Allora Lerinda intervenne a contraddire il giovane, poiché, secondo il suo punto di vista, egli stava commettendo un grosso sbaglio. Così, facendogli l'occhiolino, interloquì:
«Fratello mio, davvero hai creduto che Iveonte stesse parlando sul serio? Invece egli stava soltanto scherzando! Per il progetto che intende realizzare, sono convinta che non gli basterà l'oro depositato nei forzieri di sette sovrani! Per questo egli non potrà rifiutare il premio che hai promesso al miglior cacciatore e che lui giustamente ha meritato!»
Alle ultime parole della ragazza, non conoscendo le reali intenzioni di lei, Iveonte si conturbò visibilmente. Per cui all'istante mutò l'espressione del proprio volto. Il re Cotuldo, da parte sua, mostrandosi incuriosito dall'intervento della sorella, che aveva trovato alquanto strano, e volendo comprenderlo meglio, si affrettò a chiederle:
«Mi dici, Lerinda, quale progetto egli ha in mente di attuare, per avere un costo così caro? Se non lo sai, neppure le mie due splendide regge costerebbero quanto hai detto!»
«Lo vuoi sapere davvero, fratello? Ebbene, egli ha deciso di comperarsi sette infaticabili muli!» ridendo, gli rispose la ragazza «Per lui, ognuno di essi costa più di un regno!»
Insieme con lei, risero pure tutti quelli che erano presenti, compresi Iveonte e il re Cotuldo. Poi, al termine di quella battuta scherzosa della principessa, la comitiva regale intraprese la via del ritorno a Dorinda. Ma prima della loro partenza, Iveonte aveva accettato di riscuotere la ricompensa del fratello, il quale gliel'aveva voluta anche decuplicare. Egli aveva deciso in tal senso, poiché si era reso conto delle vere allusioni di Lerinda. Ella, adesso che ci rifletteva bene, aveva inteso fargli comprendere che, per abbattere sette regni, ci voleva tanto oro quanto ne possedevano sette sovrani. Oltre al denaro, però, il giovane aveva riscosso anche fama ed onore a non dirsi presso il re Cotuldo, per le brillanti imprese che aveva compiuto a salvezza della sorella. Ma poi Iveonte, dopo aver fatto subito ritorno al campo dei ribelli, consegnò l'intero denaro nelle mani di Lucebio, allo scopo di farglielo adoperare a beneficio della loro giusta e nobile causa. Essa, a suo parere, avrebbe richiesto, tra le altre cose, anche una ingente quantità di denaro.