80-IL RE COTULDO GIUNGE PER CASO NEL CAMPO DI LUCEBIO
Adesso passiamo ai sincroni fatti che si erano avuti presso il campo di Lucebio, durante l'assenza di Francide e di Astoride. Anche in quel luogo, il vegliardo ed Iveonte avevano avuto il loro da fare, siccome c'erano state delle visite inaspettate. Delle quali una si era rivelata sgradita ed un'altra era stata benaccetta. Quasi al pari dell'amico d'infanzia, quando oramai ogni chiarore dell'alba si era tramutato in un cielo celeste e nitido, Iveonte si era allontanato dal campo di Lucebio per darsi a qualcosa di utile. Il suo intento era stato quello di procurarsi della selvaggina, poiché essa avrebbe messo a tacere i reclami dei loro stomachi vuoti. Poco tempo dopo, aveva voluto imitarli anche il loro amico che avevano liberato nel Castello Maledetto. Egli, una volta abbandonato quel posto, se ne era andato vagando tutto solo per la campagna. Astoride aveva galoppato senza meta e in compagnia di quel suo carattere chiuso ed insondabile, il quale faceva comprendere quanto soffrisse ancora il suo cuore. Procedendo poi a zonzo per il suo cammino, a un certo punto, gli era capitato di imbattersi in Francide, mentre era alle prese con ignoti aggressori. Allora non aveva perso tempo ad affiancarlo, intenzionato a combattere insieme con lui contro una masnada di farabutti, che lo stavano assalendo con propositi tutt'altro che amichevoli.
Così alla fine, a causa dell'assenza dal campo di tutti e tre i giovani, Lucebio si era ritrovato a fare il solitario nel suo luogo appartato. In verità, egli non era rimasto proprio solo, considerato che lo si era visto concedersi anima e corpo ad una grande euforia, la quale gli proveniva dal fantastico soliloquio a cui si era dato con gioia. Esso gli aveva fatto rivivere, come in un caleidoscopio, i fatti e i personaggi di un tempo, presentandoglieli come se fossero reali. Al termine, però, nel ritornare in sé, aveva riconosciuto con rammarico di avere avuto le traveggole.
Dico "con rammarico", per il semplice fatto che il saggio uomo avrebbe voluto che quel suo scavare nella preziosa cassetta dei ricordi, che è la nostra memoria, vestisse in alcuni momenti l'abito della realtà. Invece quel suo lavorio mentale, a un tratto, se n'era rimasto a sogghignargli sarcasticamente da dentro lo specchio della cruda disillusione. Egli, insomma, era venuto ad insinuarsi, con una fantasia sempre più fervida, nel paradosso di alcuni incredibili monologhi, i quali adesso vengono riportati integralmente qui di seguito.
"Mio re Cloronte, ti rivedo davanti a me trepidante e con il viso turbato, quello che avevi durante la catastrofe della nostra città. Adesso ti scorgo nelle carceri corrucciato ed amareggiato, nonché molto risentito nei miei confronti. Quasi ti sento darmi dell'indolente, nonché tacciarmi di animo pauroso e vile, poiché in tanti anni non sono riuscito neanche a punzecchiare la dispotica condotta di chi ti ha detronizzato e ti tiene suo prigioniero. Per tale ragione, vieni ancora trattenuto nella tua buia cella, la quale ti opprime e ti sta consumando poco alla volta, insieme con la tua amabile consorte. Allora ti chiedo di perdonare la mia inettitudine, mio caro amico! Ma c'è dell'altro che devo farti sapere, che non ti farà piacere. Comunque, ho il dovere di dirtelo, anche se dopo mi attirerò addosso la tua ira furibonda! Si tratta della principessina Rindella, che la regina Elinnia affidò alla nobildonna Madissa con l'incarico di portarla in salvo. Ebbene, a tutt'oggi, non sono riuscito ancora ad avere notizie di loro due e potrebbero anche essere state uccise in quella tragica notte! Ma speriamo proprio di no! Anzi, mi auguro che alla fine l'una e l'altra salteranno fuori da qualche parte e mi daranno modo di aiutarle e di soccorrerle! Non immagini, mio sovrano, quanto io lo speri, per la felicità tua e di quella della regina Elinnia! Da parte mia, sono molto fiducioso che un giorno ciò si avvererà!
Adesso, mio provato re, desidero anche addolcire la tua pena con la bella notizia che sto per darti, pregandoti di non considerarmi un sognatore, mentre te la do con immensa gioia. Tuo figlio Iveonte si trova qui tra noi, con la sua forza poderosa e con la sua preparazione d'armi, le quali superano di gran lunga quelle dei suoi antenati Litiore e Kodrun. Ti esorto a crederci e a non ritenermi un visionario, amico mio! Se tu potessi vederlo, all'istante non solo lo riconosceresti dai lineamenti del suo volto; ma lo ravviseresti soprattutto dal suo portamento fiero, poiché esso è quello di un grande eroe! Tra poco egli, dopo aver soddisfatto la sua passione venatoria, se ne ritornerà da me, carico come al solito di una enorme quantità di selvaggina. Così mi consiglierò con lui su come sconfiggere il tiranno Cotuldo per permetterti di riconquistare la libertà perduta e il trono, che ti è stato defraudato con inganno.
Il tuo Iveonte ha deciso di essere il patrocinatore della giustizia, per cui è tutto uno slancio ardente verso la soppressione di ogni iniquità. Egli racchiude in sé quella forza d'animo, con la quale riesce a trasfondere in chi lo ascolta l'ideale di libertà e l'ardente desiderio di perseguirlo. Ad opera di tuo figlio, dunque, mio caro Cloronte, noi ritorneremo a riabbracciarci come un tempo, a stringerci forte come due fratelli, a comunicarci l'antico affetto. Festeggeremo l'avvenimento grandioso e ce ne rallegreremo ogni giorno, fino a quando il tempo consentirà all'essenza vitale di fluire nel nostro corpo! Molto presto ecco quale sarà il nostro nuovo destino, mio giusto sovrano!
Ricordo ancora quella brutta circostanza, quando assistevo agli atti canaglieschi degli invasori e li scorgevo, mentre facevano a ruffa raffa nella nostra Dorinda. Ah, quanto mi sdegnai, nel vedere la nostra città, l'Invitta per antonomasia, venire depredata da soldati scalmanati, i quali facevano a gara a chi si impossessava di più roba! Quella era gente senza cuore e senza scrupoli, purtroppo! Ma gli imbelli invasori si pentiranno un giorno di aver trasceso quella volta tanto vigliaccamente nei nostri confronti! Sono sicuro che arriverà anche per loro l'ora della resa dei conti, nonostante essi preferiscano che ciò non avvenga mai! Invece, come è scritto nelle pagine del loro destino, presto il tuo Iveonte infrangerà il loro tempo dedito agli ozi e ai divertimenti, dilapidando le intere ricchezze di Dorinda e dissanguando i suoi abitanti. Quando giungerà quel giorno, gli sciacalli smetteranno di salassare il popolo dorindano e saranno obbligati ad indennizzarlo degli annosi soprusi che i poveretti hanno patito per colpa loro. Il primo a pagare sarà il dispotico re Cotuldo; seguiranno poi gli altri suoi sei alleati!"
Quando aveva finito di trascorrere quell'entusiastico stralcio di irrealtà, il quale era stato da lui vissuto come un evento così fantastico da farlo sentire di ottimo umore, Lucebio era rientrato in sé. Ma accusava nel proprio intimo molta mortificazione e qualche giustificato rimpianto. Perciò, essendo rimasto disilluso da una realtà che dopo si mostrava differente, egli si era dato alle seguenti considerazioni:
"Povero me! Sto proprio fantasticando! Quale folletto burlesco si sta prendendo gioco di me? Il mio buon Cloronte dove è finito?! Si può sapere se vive ancora oppure è morto? Inoltre, suo figlio Iveonte dove si trova adesso? Perché lo facevo vivente e in mia compagnia? Non c'è dubbio che egli dovette finire nel ventre di qualche fiera della foresta, sottraendolo all'esistenza! Ma perché non sono durati una eternità i dolci momenti, che poco fa mi sono stati offerti dalla mia vivida immaginazione? Rivedermi davanti ancora vivente il re Cloronte ed essere convinto del ritorno del principe Iveonte, due fatti entrambi stupendi, hanno rappresentato per me delle suggestioni meravigliose, dalle quali non avrei mai voluto staccarmi! Peccato che il mio sogno, avvenuto senza meno ad occhi aperti, sia finito presto ed abbia posto termine all'effusione gioiosa che mi stava pervadendo! Che bello sarebbe stato, se ogni cosa da me vissuta con la mente fosse risultata felicemente reale!"
Pochi attimi dopo, un guattire di cani, che si faceva sentire sempre più vicino, era venuto ad inserirsi nei padiglioni auricolari di Lucebio, distraendolo dal suo soliloquio. Esso subito lo aveva fatto trasalire e venire fuori dal suo alloggio. Il rifugio del saggio maestro consisteva in una specie di grotta, che era stata scavata sul versante orientale di una piccola collina. Davanti al suo ingresso, pendevano molti rami di edera, le quali ne nascondevano interamente l'imbocco. L'egregio uomo lo aveva costruito con le proprie mani per ripararsi dal rigido clima della notte. Ciò era avvenuto, quando aveva meno anni sulle spalle e le sue varie membra si presentavano più gagliarde e forti. Ebbene, una volta all'esterno della sua dimora, Lucebio aveva avvertito vicinissimi gli schiamazzi della cagnara. Di lì a poco, egli aveva anche scorto una quarantina di agilissimi levrieri sbucare abbaianti da alcuni cespugli. I cani, però, erano tenuti al guinzaglio da dieci uomini addetti alla loro custodia e al loro addestramento, ciascuno dei quali governava quattro segugi. La muta di cani e quelli che la tenevano a bada si erano fatti vedere soltanto di passaggio, poiché le bestie e coloro che le tenevano al guinzaglio avevano seguitato il loro cammino oltre il campo di Lucebio. Alla fine essi se ne erano allontanati talmente tanto, da non fare più udire il loro insistente e fastidioso scagnare.
Quando poi il verso assordante dei cani era ridiventato appena percettibile, ecco che si era visto accostarsi a Lucebio un accorrere di ansanti cavalli, le cui umide froge apparivano fumanti. Dalle insegne dei cavalieri che cavalcavano le fiere bestie quadrupedi, l'anziano uomo aveva compreso allora che si trattava di un torneo di caccia indetto dal re Cotuldo. Ammettere che il saggio uomo si fosse adombrato davanti a tale spettacolo, significherebbe falsare le cose. Egli, invece, era rimasto nello stesso atteggiamento, che era solito assumere anche in loro assenza. Per questo, quando gli si erano avvicinati il re Cotuldo e il suo seguito, l'illustre educatore, conservando il suo volto grave, non si era affatto turbato oppure agitato. All'opposto, senza scomporsi neppure minimamente, era rimasto con il suo aspetto impassibile.
Come di consuetudine, i fianchi del despota erano occupati dalle stesse persone. Sul fianco sinistro, galoppava Lerinda, che indossava un abbigliamento da caccia molto aderente ed elegante. Esso, oltre ad apportarle una snellezza leggiadra e seducente, ne metteva in mostra l'appariscente contorno di forme, pervaso di un sublime senso incantatore. Sulla sua destra, invece, galoppava Croscione, che si era unito al gruppo più tardi, poiché prima aveva avuto da fare. In precedenza, infatti, egli era stato impegnato a predisporre e a dirigere le prime operazioni inerenti alla rappresaglia, la quale tuttora si stava avendo nella Piazzetta degli Antenati, ai danni dei Dorindani che vi risiedevano. Essa era stata decretata dal suo adirato sovrano per i motivi che ci sono ben noti. Quanto al braccio destro del re Cotuldo, il quale riteneva la forza un sinonimo di carneficina, trovava molto piacere nel mostrarsi caustico verso chiunque avesse, dal suo punto di vista, un viso antipatico. Ma siccome lui, con il suo agire arrogante, personificava l'antipatia, risultavano antipatiche ai suoi occhi tutte le persone simpatiche. Ecco perché Lucebio, il quale giustamente godeva le simpatie di Iveonte e dei suoi amici, poiché vedevano in lui una persona assai degna di rispetto e di venerazione, era impossibile che non si presentasse agli occhi del gradasso Croscione come il più antipatico degli antipatici. Egli, perciò, non aveva trovato affatto simpatico l'anziano uomo dal venerabile aspetto, il quale gli stava davanti con un atteggiamento imperturbabile. Quando il consigliere del re Cotuldo si era trovato davanti all'anziano Lucebio, all'istante si era dato a riprenderlo con durezza, urlandogli contro:
«Vecchio scimunito, che cosa aspetti a prostrarti davanti al tuo illustre sovrano Cotuldo? Non sai che ogni sporco Dorindano è tenuto a farlo, se non vuole andare incontro a dei guai abbastanza seri? Quindi, sbrìgati anche tu a fare il tuo dovere, se intendi restare vivo!»
«Attendo prima che qualche divinità mi tramuti in una bestia! Dopo, vedrai, mi verrà spontaneo eseguire tale gesto davanti al tuo re!» gli aveva risposto Lucebio.
Nell'esprimersi così, egli aveva manifestato una flemma straordinaria, la quale aveva automaticamente stizzito Croscione. Allora costui aveva ancora gridato al suo interlocutore:
«Che razza di risposta è mai questa, vecchio sbilenco?! Ti rifiuti forse di onorare servilmente il tuo re, che in questo momento ti sta davanti, proprio come si conviene ai grandi sovrani?!»
«La mia è una risposta, che sanno dare soltanto le persone ragionevoli, se non lo sai. Il tuo re è forse una divinità? Se ha delle doti divine, me lo dimostri! Così dopo saprò dimostrargli anch'io come sono capace di essere un suo devoto servitore. Invece avverto che egli non ha niente di un autentico dio, per cui anche il mio atteggiamento nei suoi confronti resta immutato, visto che non mi considero una vera bestia!»
«Ho capito, bastardo rincitrullito. Vuoi proprio che io ponga fine per sempre al tuo corpo decrepito, che è ormai inservibile! Perciò sappi che, se anche il mio sovrano si mostrerà d'accordo con me, mi affretterò a farlo con sommo piacere. Dopo averti massacrato, lasceremo sollecitamente questo posto, poiché altrove ci attendono momenti piacevoli e distensivi. Invece a te non è consentito viverli, allo stesso modo nostro!»
Simultaneamente, egli aveva sollevato il braccio che impugnava la spada, mostrandosi pronto a fare ricadere l'arma sul sottostante capo di Lucebio, non appena gli fosse stato dato dal suo sovrano un ordine del genere. Ma il re Cotuldo, essendo di parere diverso, era intervenuto a trattenergli l'arto in questione, facendoglielo ritornare nella posizione iniziale. Dopo gli si era espresso in questa maniera:
«Non essere troppo precipitoso, mio Croscione. Come al solito, la diplomazia non fa per te! Io penso che costui possa e debba rispondere ancora a tante nostre domande. Ti garantisco che lo farà con le buone oppure con le cattive! Non vedi come lo tiene sciolto lo scilinguagnolo? Quindi, mi auguro che il temerario uomo che ci sta dinanzi continui a tenerlo tale, se ci tiene a conservare ancora la propria testa sul collo!»
Il re Cotuldo si era poi rivolto a Lucebio, dandosi a parlargli così:
«Uomo presuntuoso, mi dici perché vuoi fare l'eccentrico e non allinei la tua condotta a quella della maggioranza dei tuoi concittadini? Se ti consideri furbo e vuoi salvare la pelle, ti conviene adeguarti agli altri! Perciò ti consiglio di rimediare, prima che sia troppo tardi per te! Mi sono spiegato? Oppure vuoi essere la nuova vittima del mio consigliere Croscione, che non aspetta altro, per soddisfare la sua sete di sangue?»
«Sarei io, dunque, l'eccentrico? A mio avviso, gli stravaganti sono coloro che non la pensano come me, considerato che la mia condotta non contravviene a nessuna delle norme del dovere. Se ci sono dei Dorindani che agiscono diversamente da me, è solo perché essi hanno paura di essere ammazzati oppure condotti nelle carceri dai tuoi soldati. Quindi, sei tu, con le tue minacce di morte, a forzarli ad assumere una condotta abnorme. Sono sicuro che essi non hanno a sdegno il mio comportamento, siccome esso è quello giusto. Inoltre, a loro dispiace non avere un coraggio uguale al mio per potersi opporre a te!»
«Adeguarsi ai tempi e alle circostanze è la regola saggia da seguire, se si desidera vivere senza pensieri oppure si vuole sopravvivere in questo mondo! Anche i più grandi sapienti della terra non smettono di raccomandarla a tutti gli esseri umani. Per questo ti invito a prenderne atto, quando sei ancora in tempo per salvarti dalla spada di Croscione!»
«Già, ora cerchi anche di sentenziare, usurpatore. Naturalmente, a vuoto e chiamando in causa quei sapienti che pensano a tutt'altro, quando si esprimono in questi termini! Sappi che chi era degno di emettere delle giuste sentenze è stato soppresso da te abominevolmente. Il mio re Cloronte dove sta? Esclusivamente a lui va tutta la mia eterna stima, come suddito devoto! Tu dovresti sapere che la giustizia è una ed uguale in ogni luogo, oltre che in ogni tempo. Perciò non credere che, avendo travolto il re Cloronte, tu abbia pure spedito alla tomba la giustizia. Se sei di questo avviso, ti sbagli in modo grossolano! Devi sapere che essa è indistruttibile, non muore mai. Quando si crede di averla sepolta per sempre, essa tutto all'improvviso riappare vittoriosa, allo scopo di imperare di nuovo là dove era stata soppressa con l'inganno e con la prepotenza. Quanto prima, la vedrai anche affermarsi di nuovo in Dorinda! Dunque, non credere che tu abbia preso il suo posto definitivamente e che il rispetto che dovevamo ad essa, ora lo dobbiamo a te. Sappi invece che è la giustizia l'unico ideale, a cui i popoli anelano in ogni tempo, e non il servaggio che tu e gli altri re tuoi alleati avete imposto ai sofferenti Dorindani! Tienilo bene a mente, se un giorno non vorrai pentirtene!»
Era stato dopo le ultime frasi di Lucebio, le quali gli erano parse oltremodo trasgressive, che il re Cotuldo si era armato della sua naturale irascibilità. Allora aveva cercato di metterla subito in mostra nel peggiore dei modi. Infatti, mostrandosi assai indignato, egli si era rivolto alla sua testarda controparte, esclamando:
«A questo punto, anche se non è di tuo gradimento, vecchio della malora, dovrai palesarmi chi è e dove si nasconde Lucebio! Tu parli come se fossi il suo più acceso sostenitore e seguace. Perciò non mi meraviglierei, se adesso qualcuno venisse ad asserirmi che sei proprio tu Lucebio in persona! Avanti, cerca di affrettarti a rivelarmi ciò che ti ho chiesto, se non vuoi crepare mediante la decapitazione!»
«Avrai la mia risposta, soltanto dopo che mi avrai riferito se il mio re Cloronte è ancora vivo e, nel caso che egli lo sia, dove si trova in questo momento! Altrimenti, potrai unicamente sognartelo che io risponda alla tua inopportuna domanda!» l'attempato e barbuto Lucebio gli aveva replicato con tono deciso.
Nello stesso tempo, aveva ostentato una espressione del volto, con la quale aveva voluto dare ad intendere al tiranno che non aveva affatto paura di lui. La qual cosa aveva fatto arrabbiare ancora maggiormente il despota di Dorinda. Allora anch'egli, manifestando nelle sue parole parecchio sarcasmo, aveva voluto dargli la seguente risposta:
«Ti dico che Cloronte sta regnando sui morti, uomo incosciente!»
Allora il suo interlocutore gli aveva risposto seccamente:
«Sappi che Lucebio si trova allo stesso posto, avendo desiderato seguire il suo re per continuare a servirlo anche dopo la morte. Per questo, se ci tieni ad incontrarlo, puoi fare la sola cosa possibile, ossia suicidarti. Così libererai anche noi Dorindani!»
A quel punto, il nuovo linguaggio a cui era ricorso il coraggioso suo interlocutore, lo aveva indispettito ulteriormente. Esso, infatti, gli si era dimostrato protervo e pertinacemente avverso; anzi, gli aveva perfino proposto l'insano suicidio. Allora l'abusivo sovrano di Dorinda, volendo affrettare la sua fine, gli aveva ruggito contro:
«Se la vedi così, prepàrati a raggiungerlo anche tu nello stesso posto, uomo insolente, dal momento che ti sei rifiutato di mostrarti ragionevole ed avveduto! La tua morte avverrà tra breve tempo, dopo che l'avrò ordinata al mio braccio destro Croscione!»
Un istante dopo, mostrandosi incurante delle suppliche della sorella, che lo pregava di non macchiarsi di altro sangue innocente, il re Cotuldo si era rivolto al suo consigliere. Costui si mostrava tutto fremente di rabbia e stava aspettando da tempo l'ordine a lui gradito. Prendendogli così il braccio già armato e spingendoglielo, egli gli aveva ordinato:
«Avanti, falla finita, una buona volta per sempre, con questo fanatico individuo e andiamo a dedicarci ai piaceri della caccia! Caro Croscione, devo dartene proprio atto che anche la diplomazia a volte si dimostra incapace di dare dei risultati concreti, per cui finisce per fallire. Ecco perché adesso ti permetto di agire a modo tuo!»
Quelle parole crudeli erano appena uscite dalla bocca del sovrano abusivo, allorché, quasi contrapponendosi ad esse con una fermezza incrollabile, si era udita una voce poco distante. La quale, provenendo da non molto lontano, a un tratto, si era messa a farsi sentire con molto impeto e risonanza da quanti si trovavano in quel luogo.
«Se il tuo braccio destro eseguirà l'ordine che gli hai appena impartito,» essa si era data a rivolgersi a lui «ti prometto che sarà l'ultimo dei suoi misfatti, re Cotuldo! Inoltre, tu farai una fine pressoché identica un attimo dopo! Vi garantisco che entrambi i vostri colli saranno trapassati da due delle mie micidiali ed infallibili saette!»
Nel medesimo istante, tutti quelli che erano a cavallo avevano spostato il loro sguardo, volgendo i loro occhi ad una ventina di metri oltre quella persona, che per loro appariva un vecchio e non una persona anziana. Così era stato proprio alle spalle di lui che essi avevano visto apparire un giovane, il quale sopraggiungeva carico di molta selvaggina. Egli, dopo essersi alleggerito del suo peso, assumendo un contegno fiero, si era messo ad avanzare verso la compagnia regale. Era stato allora che la principessa Lerinda, il re Cotuldo e Croscione avevano riconosciuto Iveonte. Ma se suo fratello e il suo consigliere lo rivedevano per la seconda volta, siccome egli già era stato alla reggia con i suoi due amici, la ragazza invece, stava avendo la felice opportunità di incontrarlo per la terza volta.