71-L'UCCISIONE DEI PRINCIPI LONDIO E NUCRETO

L'alba era prossima a spuntare ad oriente, quando Surto venne a riferire al re Cloronte che il principe Cotuldo chiedeva con insistenza di essere condotto in sua presenza, poiché doveva trasmettergli delle comunicazioni urgenti. Allora l'abbattuto sovrano, dopo avermi affidato momentaneamente la sua famiglia, si fece accompagnare dal figlio di Tedo nella sala del trono per ricevere l'insolente figlio del defunto re Amereto. Il principe, quando si trovò al cospetto del sovrano di Dorinda, quasi fosse diventato lui il padrone di casa, senza mezzi termini e con molto cinismo, gli si espresse in questo modo:

«Se per caso lo ignori, re Cloronte, il mio esercito e quelli degli altri sovrani tuoi ospiti questa notte sono entrati nella tua città e in questo momento ne stanno portando a compimento l'occupazione. Naturalmente, i nostri soldati non possono fare a meno di uccidere quei tuoi sudditi che osano ribellarsi. Perciò, se ci tieni alla tua Dorinda e al tuo popolo, non ti resta che arrenderti e sottometterti alla nostra potestà. In questo modo, eviterai che l'una e l'altro vadano incontro a guai peggiori, come il saccheggio, la razzia e il massacro. Inoltre, si porrà anche termine allo spargimento di sangue, che tuttora si sta effettuando fra la tua gente. A tale riguardo, voglio farti presente che il tuo popolo cesserà di versare il suo alto tributo cruento, unicamente quando, rimettendoti al nostro giudizio, ti rassegnerai alla sconfitta e tratterai con noi la tua capitolazione! Per ultimo, volendo farti evitare di prendere delle decisioni avventate, ti informo che i comandanti in capo dei nostri sette agguerriti eserciti, qualora dovesse accaderci qualcosa di spiacevole, hanno l'ordine di mettere a ferro e a fuoco la tua città e di sopprimere l'intero tuo popolo, compresi te e l'intera tua famiglia! Ecco quanto avevo da riferirti, re Cloronte, anche a nome degli altri sei sovrani, con l'intento di indurti alla ragione! Adesso sta a te cosa decidere!»

Il sovrano di Dorinda, durante tutto il tempo che il suo interlocutore gli aveva parlato, giungendo perfino a minacciarlo, aveva tenuto gli occhi abbassati e non lo aveva degnato neppure di uno sguardo. Seguitando poi a conservare il medesimo atteggiamento, oltre che a manifestare una calma inflessibile, egli gli rispose:

«A quanto pare, dalla vita non si finisce mai di imparare, anche se spesso ci capita di avere a che fare con delle persone vomitevoli. Le quali, a volte, si danno ad infangare l'umana essenza con le peggiori mostruosità, come sta appunto succedendo questa notte nella mia città! Così, dal turpe tradimento, siete passati anche all'ignobile ricatto, come se io, da par vostro, avessi potuto porre mano ad una insulsa vendetta! Quindi, se adesso non mi resta altra scelta per salvare la mia città e il mio popolo che amo più di me stesso, non posso che arrendermi e sottostare alle vostre ignobili condizioni. Visto che oggi il destino vuole che io faccia da incudine e voi da martello, ebbene sia! Perciò vengano subiti da me i vostri colpi ignominiosi! Ma mi auguro che esso un giorno, premiando la giustizia delle persone che sono dotate di animo nobile, ve la faccia pagare con interessi salati! Sono convinto che ciò accadrà senza meno, essendo stato decretato dal futuro destino, il quale sarà positivo per me e molto negativo per voi! Tenete ciò a mente!»

Dopo avergli risposto con queste poche frasi, il re Cloronte congedò il futuro re di Casunna con un certo distacco, invitando Surto a ricondurlo nel reparto dove stavano gli altri sovrani, i quali erano suoi degni compari. Egli, invece, se ne ritornò in gran fretta presso i suoi carissimi familiari, dove c'ero io a tener loro compagnia. Quando ci ebbe raggiunti, mi ragguagliò sull'incontro avuto con il protervo principe Cotuldo. Dopo mi trasse in disparte e, con un tono di voce sommesso e sofferente, ebbe a dirmi:

«Lucebio, mio buono amico, due anni fa ti pregai barbaramente di condurre il mio piccolo Iveonte nel bosco perché tu lo uccidessi. Quella volta, come i fatti stanno dimostrando, senza dubbio commisi un imperdonabile errore. Ma oggi, al contrario di allora, ti chiedo di portare in salvo fuori Dorinda i miei due maschietti, ossia Londio e Nucreto, perché qui ormai li ritengo in grave pericolo. Per condurli all'esterno della reggia e salvarli, ti servirai del passaggio segreto che conosci. Sono convinto che i viscidi serpenti, i quali si sono già macchiati iniquamente di tradimento e di sporco ricatto, non si fermeranno neppure di fronte al brutale assassinio, senza farsi scrupolo di colpire perfino dei ragazzi innocenti! Invece affiderò la nostra piccola Rindella alla damigella di corte che Elinnia mi indicherà come la più fidata di tutte, poiché desidero che anch'ella trovi la salvezza lontano da questo ambiente malsano. Quanto a me e alla mia cara Elinnia, ho deciso che ce ne resteremo a corte, essendo intenzionati ad affrontare il nostro destino senza timore e a testa alta. Semmai dovranno essere i re traditori a vergognarsi del loro spregevole operato, il quale deve considerarsi indegno della razza umana!»

Non vi so dire quanta compassione provai verso l'amico mio sovrano ed avrei fatto chissà che cosa, pur di alleviargli l'immensa pena, quella che se lo stava divorando dentro. Purtroppo non mi era possibile in alcun modo fare qualcosa di utile per lui e per la mia regina. Allora, a sollievo del suo animo angustiato, credetti giusto fargli presente:

«O mio buon re, il dio Matarum ci mette alla prova! Perciò dobbiamo avere pazienza nell'affrontarla! Desidero però svelarti un segreto, che mi sono tenuto per due anni dentro di me. Devi sapere che il tuo primogenito, che mi mandasti ad uccidere, non trovò mai la morte per mano mia, poiché preferii abbandonarlo nella foresta in balia della sorte! Ma oggi sono portato a credere che allora feci la cosa più giusta da farsi!»

Alle mie parole, il re Cloronte, trovandole prodigiose e confortevoli, prima si ricompose e poi si ricaricò di quell'ottimismo, dal quale si sentiva abbandonato da ore. Un istante dopo, quasi egli fosse risorto dall'abisso della disperazione, mostrando una gioia raggiante sul proprio volto, che adesso glielo illuminava interamente, mi esclamò:

«La massima divinità dell'Edelcadia vigili sempre su di te, mio saggio Lucebio! Tu oggi mi permetti di rinascere a nuova vita, privata di ogni ambascia deprimente. Vedrai che, grazie a te, la profezia di Virco si avvererà e il mio prediletto Iveonte diventerà l'implacabile giustiziere dei nostri attuali nemici. Alla fine li farà pentire amaramente di avere assunto il loro deplorevole atteggiamento odierno nei miei confronti, facendoci andare di mezzo anche la mia città e il popolo da me amato.»

«Sono convinto quanto te, mio re, che un giorno frantumeremo il loro lercio tradimento!» gli feci eco «Anch'io sono persuaso che, con l'intervento del tuo primogenito, lo laveremo col sangue, dal momento che il divino Matarum è dalla parte dei giusti e, quindi, anche dalla nostra parte! Per questo non disperiamo di un futuro migliore!»

Dopo le mie ultime parole di incoraggiamento e di indubbio sollievo, vidi il re Cloronte rasserenarsi nel volto; anzi, illuminandosi all'improvviso, mi sembrò rifulgere della luce della speranza e della fiduciosa attesa. Allora, scorgendolo finalmente tranquillizzato e privo di ogni ambascia interiore, gli feci questa solenne promessa:

«Se dal destino mi sarà concesso di vivere per il tempo necessario, mio re Cloronte, ti prometto che un giorno fonderò un movimento di liberazione, il quale all'inizio opererà in piena segretezza. In seguito, però, quando i tempi saranno ritenuti maturi, io stesso guiderò una rivolta armata contro i nostri oppressori. Essa cesserà di esserci, solamente quando restituirà l'estorta dignità regale alla tua persona, la perduta libertà al nostro popolo e le tante opere d'arte trafugate alla nostra città! Vedrai che manterrò senz'altro la mia promessa, giudicandola già da questo momento un mio dovere!»

Terminato il nostro breve e commovente colloquio di addio, il re Cloronte ed io ci abbracciammo fraternamente. Subito dopo, quando ritornammo ad essere disgiunti, presi con me i due principini e mi munii di una fiaccola accesa. Infine, insieme con loro, mi avviai per il passaggio segreto, attraverso il quale ci immettemmo in una galleria, la quale si presentava buia pesta ed aveva una lunghezza lunga poco più di un miglio. Essa non aveva l'uscita all'esterno della città, bensì dentro le mura, siccome terminava nella necropoli di Dorinda, che era situata a poca distanza dalla cerchia murale. Ma per venir fuori dal tetro cunicolo, bisognava prima sbloccare dall'interno di esso il coperchio di un sarcofago posticcio. Altrimenti il pezzo di marmo non si lasciava sollevare e non ci permetteva di uscire per consentirci la fuga dalla città.


Quando giungemmo alla fine della galleria, scorgemmo una scaletta di ferro a pioli alta cinque metri. Essa era fissata al muro, appunto per consentirci di arrivare fino alla lastra marmorea, che ricopriva il sarcofago. Allora, senza perdere tempo, mi arrampicai ad essa per primo. Quando poi ebbi raggiunto il coperchio di marmo, azionai la leva, che lo faceva scivolare verso destra, e scoperchiai il sepolcro. Ottenuta la sua apertura, mi riversai subito fuori, da dove invitai i due ragazzi a raggiungermi all'esterno. Al mio invito, essi, quasi fossero stati degli agilissimi scoiattoli, in un batter d'occhio, superarono i ventiquattro pioli dell'arrugginita scaletta e si ritrovarono anch'essi fuori del posticcio sarcofago, dove si posero di nuovo al mio fianco per continuare a restarmi vicini. Così poco dopo, richiuso con cura l'arca sepolcrale, riportai la lastra alla sua posizione iniziale e mi diressi con i due principini verso il cancello, poiché esso ci avrebbe permesso di uscire dalla necropoli.

Avanzando così tra le centinaia di tombe, eravamo già ad una trentina di metri dal cancello di uscita, allorché una freccia colpì il povero Nucreto alla schiena, trafiggendogli il polmone destro. Al colpo, il ragazzo emise un acuto strillo di dolore e si accasciò al suolo moribondo. Allora, senza perdere tempo, lo raccolsi da terra e lo portai al riparo, cioè dietro un vicino mausoleo. Nel frattempo mi tenevo sempre alla cintola il fratello maggiore, il quale mi dava una mano a guardare nel buio e a controllare la situazione. All'improvviso, il terzogenito del re Cloronte fu preso da convulsioni e cominciò a delirare: "Lucebio, ho ucciso io il re Amereto, ma non volevo che ciò accadesse! Ho tirato l'arma solamente per gioco, senza avere intenzione di colpire nessuno! Povero il mio babbo! In che brutto guaio l'ho messo!" Terminato di pronunciare quelle frasi in preda al delirio, il piccolo principe spirò tra le mie braccia, rimanendo con il capo riverso sul petto, oramai abbandonato dalla vita. Allora lo adagiai per terra e cominciai a piangere la sua morte, sotto un cielo di stelle morenti. Insieme con me, la pianse anche il fratello maggiore Londio. Comunque, il nostro pianto era stato forzatamente breve, come pure alla svelta avevamo dovuto comprimere il dolore che ci struggeva nell'intimo. Infatti, il tempo era scarso sia per piangere che per dolersi, visto che nella necropoli c'era un tombarolo che ce lo vietava.

Adesso la sua mano assassina seguitava a restare brutalmente in agguato nell'ombra e di sicuro era pronta a colpire ancora. Ciò spinse pure me ad armarmi di arco e di freccia per cercare di avvistare l'infame uomo, che già aveva fatto una vittima e di sicuro si affrettava a farne altre, se ne avesse avuto l'occasione. Anche il secondogenito del re Cloronte, che adesso era diventato l'erede al trono, mi dava una mano nell'avvistamento dell'ignoto omicida, il quale evitava di farsi scoprire. Ad ogni modo, avevo affidato al ragazzo il solo compito di guardarmi le spalle, sorvegliando attentamente la parte a me retrostante. A un certo punto, il piccolo Londio intravide un'ombra che sbucava da dietro un sepolcro. Avendola poi vista tendere la corda del suo arco, egli subito cercò di avvertirmi, gridando forte: "Attento, Lucebio! Qualcuno ci sta prendendo di mira per ucciderci!" Alle sue grida, mi voltai di scatto all'indietro e feci partire il mio colpo in direzione dell'ombra che ero riuscito a scorgere anch'io in tempo. Così, poiché avevo colpito un suo organo vitale, vidi il nostro vigliacco avversario piombare a terra privo di vita, facendo sentire un secco tonfo nello stramazzare a terra. Dopo la sua uccisione, esclamai soddisfatto al ragazzo:

«Lo abbiamo colpito, mio caro Londio! Adesso, principino, con la sua morte cesserà di mettere in pericolo anche la tua e la mia vita!»

Nello stesso istante, però, ebbi la sensazione di aver parlato solo ai morti, visto che non c'era stata nessuna espressione di gradimento e di giubilo da parte di qualche anima viva. La qual cosa mi fece preoccupare tantissimo; anzi, mi infuse parecchia agitazione e mi fece raggelare il cuore. Quando infine mi volsi a guardare sul mio fianco sinistro, per trovarvi il principino, mi accorsi che il poveretto non stava più in piedi accanto a me vivo e vegeto, poiché anch'egli giaceva oramai a terra morto. Essendo stato raggiunto anch'egli da una freccia che gli aveva trapassato il collo, adesso il suo corpo era disteso al suolo esanime e in una grande pozza di sangue. Il dardo micidiale era stato scagliato dalla stessa mano omicida di colui che, un attimo prima che venisse ucciso dalla mia freccia, era riuscito a colpire e ad uccidere il ragazzo. Era stato un vero peccato che la mia saetta mortale avesse raggiunto l'assassino del principino troppo tardi! In quel modo, essa non mi aveva permesso di salvare la vita almeno ad uno dei due figli del mio re. Il quale me li aveva affidati, allo scopo di farmeli condurre in salvo, in un luogo sicuro; ma il nobile tentativo non aveva avuto esito positivo.

A quel punto, il mio dolore e la mia disperazione divennero tali, da provocare dentro di me una rabbia tremenda, la quale finì per scagliarsi contro ogni cosa e contro tutte le persone esistenti in questo mondo. Da una parte, me la presi con il destino, poiché si era mostrato così spietato nei confronti dei due ragazzi. Dall'altra, incolpai della loro morte le divinità benigne, poiché esse non avevano voluto o non avevano potuto intervenire in loro aiuto. Me la presi perfino con me stesso, per non essere stato in grado di salvare i due principini, come il loro genitore mi aveva raccomandato. Anzi, quasi fossi stato il loro brutale carnefice, li avevo condotti direttamente incontro alla morte. Essa aveva carpito ad entrambi l'esistenza, quando erano ancora dei teneri virgulti e la vita in loro si presentava ai primi passi! Non bastando ciò, decisi pure di sfogarmi duramente con le stelle, le quali ne erano state le impassibili testimoni. Perciò mi rivolsi a tutte loro con questi strazianti accenti:

"O voi, luccicanti stelle, che siete sul punto di dileguarvi, per essere giunta l'ora del vostro ritiro, non fate finta di non esservi accorte di nulla, con il solo proposito di considerarvi estranee al grave delitto, quello che poco fa si è consumato in questa necropoli! Anche voi adesso partecipate al grande lutto e al mio dolore! Anche voi piangete insieme con me la morte acerba dei due ragazzi, i quali sono stati uccisi barbaramente alla penombra di questi sepolcri! Sì, versate pure voi, in mia compagnia, il vostro tributo di lacrime e fatele unire a quelle che mi stanno procurando una grande disperazione e un tremendo tormento! Mentre nei loro sarcofaghi si rivoltano i corpi dei morti, a causa delle due efferate uccisioni, vegliate sulle anime degli sventurati principini! Vi prego, se vi è possibile, di accogliere i due innocenti ragazzi in mezzo a voi e di distrarli con le vostre meraviglie e con il vostro fascino. Così essi, durante la loro vita ultraterrena, avranno una serenità ed una gioia durature, che niente e nessuno potranno mai smorzare per l'eternità!"

Mi ero appena sfogato con i tanti occhi d'argento del cielo, allorché la luce del giorno ritornò ad illuminare ogni cosa. Fu allora che il reiterato suono di centinaia di corni si mise ad annunciare a tutta Dorinda che il re Cloronte aveva dato l'ordine della resa, rimettendo il suo destino e quello del suo popolo nelle mani dei vincitori, i quali non erano altro che dei malfattori traditori. Ciò voleva dire anche che i soldati conquistatori dovevano cessare le loro carneficine di massa ed ogni tipo di violenza contro il popolo dorindano, se quest'ultimo non avesse dato loro il pretesto di continuare a farlo. Invece, come più tardi ebbi modo di constatare, in alcune strade si preferì fare orecchie da mercante da parte di talune milizie. In tali posti della città, infatti, esse seguitarono ancora per ore le loro violenze e le loro razzie, a danno dei cittadini dorindani.

Quando uscii dalla necropoli, evitai di imbattermi in quei pochi soldati facinorosi, che preferivano ignorare l'avvenuta resa incondizionata da parte del re Cloronte. Così non si attenevano all'ordine ricevuto dai loro superiori, che gli imponeva di smettere ogni altra forma di vandalismo nei confronti dei vinti. Prendendo una precauzione del genere, alla fine raggiunsi la casa del mio carissimo amico Sosimo. Il facoltoso uomo se ne stava ancora barricato con la sua famiglia all'interno di essa, non fidandosi completamente degli aggressori. Perciò picchiai con insistenza alla sua porta, ma nessuno si azzardò ad aprire; né qualcuno di loro osò chiedere dall'interno chi fosse a bussare alla porta con reiterazione. Allora, per spingere chi l'abitava ad aprirmela, dovetti chiamare a gran voce il mio amico per nome. Solo in quel modo egli mi riconobbe e mi aprì. Mentre poi mi accoglieva con calore in casa sua, Sosimo, che non si reggeva in piedi per l'ira che gli usciva dagli occhi, iniziò a lamentarsi con me e ad infiammarsi contro gli aggressori grassatori, dicendo:

«Così, mio caro Lucebio, l'intera potenza e l'intero splendore di Dorinda sono svaniti nel nulla, in un batter d'occhio! Come posso avvedermi, la sua rovina si è consumata in una sola notte! Possibile che un fatto del genere sia potuto succedere proprio alla nostra invincibile città? Cosa sai dirmi in merito, che non conosco, mio saggio uomo?»

«Non ti preoccupare, mio buon amico!» cercai di rasserenarlo «Ti chiedo di portare pazienza e di tranquillizzarti, poiché un giorno tutto ritornerà come prima nella nostra Dorinda! Così è scritto nelle pagine del libro del destino e così avverrà sena dubbio, quando giungerà l'ora stabilita. A costo di venir meno l'universo intero!»

«Chi sono quelli che hanno occupato la nostra città, Lucebio? E perché hanno osato tanto contro il nostro popolo? Non ci ho capito un bel niente in questo putiferio, il quale si è scatenato questa notte nella nostra Dorinda! Per favore, mi racconti qualcosa al riguardo?»

«Dopo ti narrerò tutto, mio caro Sosimo. Ma adesso c'è da dare una degna sepoltura ai principini Londio e Nucreto. Nella necropoli, entrambi sono rimasti vittime di un malvagio soldato allogeno, il quale a sua volta è stato ucciso da me. Suggerirei di sistemarli nel mausoleo del re Kodrun, che è il loro nonno paterno. Sono certo che egli, più di qualunque altro nell'aldilà, saprà vegliare amorevolmente sui due piccoli nipoti!»

«Mammamia, anch'essi sono stati uccisi dagli invasori! Vuoi dirmi pure cosa ne è stato del nostro re Cloronte e della nostra regina Elinnia? Su, parlami anche della principessina Rindella, Lucebio, perché in questo momento è quanto desidero conoscere più di ogni altra cosa, se non ti dispiace! Ma perché Matarum lo ha permesso, senza intervenire?»

«Li ho lasciati tutti e tre a corte, che erano sani e salvi. Ora come ora, Sosimo, non so dirti che cosa possa essere capitato alla principessina e ai suoi sventurati genitori, da parte dei sette re traditori, dai quali ci si può attendere di tutto. Ma bisogna sperare che per loro tre il destino non si mostri troppo crudele e li preservi da ulteriori sofferenze, se vuole mostrare una briciola di compassione!»

Nei giorni che seguirono all'occupazione della nostra città, non si sentì più parlare del re Cloronte e della regina Elinnia. Si assistette unicamente alla scellerata spartizione dei nostri territori da parte dei sette re aggressori, che si erano uniti in una riprovevole coalizione. Quanto al principe Cotuldo, egli manovrò così abilmente la suddetta spartizione, da farsi assegnare dai sovrani suoi alleati la città di Dorinda e i territori ad essa circostanti. Quando poi venne incoronato re di Casunna, egli scelse Dorinda come sua residenza regale, anziché la sua città natale. Perciò, dopo aver istituito un vicereame nella città di Casunna, stabilì di demandarne il governo al suo unico germano, rappresentato dalla persona del principe Raco; ma prima dovette insignirlo del titolo di viceré.