69°-I DORINDANI INTRAPRENDONO LE OSTILITÀ

Le ostilità belliche contro le altre città edelcadiche, esclusa Actina, furono aperte dai Dorindani a metà primavera. La guerra, grazie alla solida preparazione militare del loro esercito e alle grandi doti di condottiero e di stratega del loro re, che ne aveva assunto il comando supremo, sarebbe stata portata avanti da loro a vele spiegate. Bisogna far presente che, già alle prime avvisaglie dell'imminente conflitto a cui Kodrun si stava preparando con animosità, il re Eleunto aveva voluto consultarsi con gli altri sovrani della regione edelcadica. Perciò li aveva convocati nella sua città di Terdiba, già alcuni mesi prima che scoppiassero le previste intenzioni ostili del re di Dorinda. Così sette di loro immediatamente avevano aderito alla convocazione del monarca terdibano.

Il solo sovrano di Actina, non essendo d'accordo, aveva declinato l'invito del collega di Terdiba e si era dichiarato apertamente neutrale, poiché scorgeva nel re Kodrun un nobile giustiziere. A suo parere, il re Kodrun giustamente si era proposto di punire gli altri sovrani, per essere venuti meno al loro dovere. Essi, pur essendo di fatto suoi alleati, non gli avevano dato il loro sostegno durante l’ultima invasione tangala. Eppure, in tale circostanza, il suo villaggio di Litios ne aveva un gran bisogno! Invece i sette vigliacchi re, non soltanto glielo avevano negato infamemente; ma avevano perfino vietato alla sua popolazione inidonea alle armi di rifugiarsi nelle loro città. Perciò, avendo arrecato ai Litiosidi simili gravi torti, tutti e sette andavano punti come si meritavano.

Il re Eleunto, da parte sua, aveva ventilato ai colleghi intervenuti nella sua città la necessità di allearsi al più presto fra di loro, allo scopo di fronteggiare uniti il potente esercito dorindano. Allora la totalità degli autorevoli convenuti subito avevano dato la loro adesione alla coalizione proposta dal collega. Nella medesima circostanza, ciascuno di loro si era impegnato a partecipare alla guerra contro i Dorindani con un esercito di ventimila soldati. I sovrani coalizzati avevano stimato che le loro forze unite sarebbero bastate a sconfiggere l'esercito di Dorinda. Anzi, esse avrebbero fatto pentire il suo sedicente re di aver intrapreso la sua ridicola guerra contro di loro. Invece le loro stime sarebbero risultate del tutto errate, come le future operazioni belliche avrebbero dimostrato.

L'esercito dorindano, forte di centodiecimila soldati, si mosse dai dintorni di Dorinda, quando i sette eserciti, che avevano stabilito di fare fronte comune contro di esso, non si erano ancora compattati in un unico grande esercito. Innanzitutto i Dorindani marciarono contro la più vicina delle città nemiche, la quale era Terdiba, il cui esercito, in assenza degli alleati, non si azzardò neppure a mettere piede fuori le mura. Esso era consapevole che, se fosse uscito ed avesse accettato lo scontro aperto, la sua parte sarebbe stata quella di un folle topo che andava a mettersi tra gli artigli di un terribile gatto affamato. Allora i soldati comandati da Kodrun, dopo aver raggiunto la città terdibana, subito la cinsero d'assedio, essendo intenzionati a costringere le truppe assediate alla capitolazione senza colpo ferire. In quella occasione, infatti, il re dorindano fece intendere di non avere alcuna fretta di conseguire la vittoria. Per questo, in un primo momento, egli ricorse ad un blocco statico delle entrate e delle uscite della città assediata. Con esso, intese evitare tra i suoi soldati delle gravi perdite, le quali ci sarebbero state senza meno tra di loro, nel caso che li avesse ingaggiati in un assedio martellante e sfiancante. In considerazione di ciò, il grande stratega cercò di far capitolare Terdiba per fame, prima di ricorrere all'assedio vero e proprio, che aveva deciso di attuare unicamente in caso di un fallimento.

Così, in seguito al blocco operato dai Dorindani, nella città loro nemica ben presto iniziarono a scarseggiare le vettovaglie, essendo venuti meno dal di fuori i rifornimenti di cibo e di acqua necessari per sopravvivere. Per questo ci furono i primi torbidi tra i suoi insofferenti abitanti. Anzi, i più riottosi fra di loro pensarono di saccheggiare i silos, sebbene questi fossero rigorosamente sorvegliati dai soldati. Con i loro tentativi di saccheggio, essi tendevano a procacciarsi cibo per sfamarsi ed acqua per dissetarsi. Soltanto dopo che si ebbero tali segni di insofferenza interna da parte della popolazione di Terdiba, il re Kodrun ordinò al suo esercito di assaltare le mura terdibane e di torchiarle da ogni parte, ricorrendo alle varie strategie, che riguardavano la poliorcetica. Le quali erano state già pianificate dallo stato maggiore in precedenza, ossia prima che si desse inizio alle operazioni belliche contro la vicina città. Ma poi egli ci ripensò, per cui, anziché risolvere l’assedio con la forza, la qual cosa avrebbe comportato una notevole perdita dei suoi soldati, stabilì di esercitare sugli assediati una ulteriore pressione psicologica. La quale, insieme con la carestia, avrebbe dovuto minare nei difensori della città le basi della resistenza e del coraggio.

Per ottenere un risultato del genere, fu necessario che i Dorindani ricorressero a mezzi persuasivi diversi, i quali fossero capaci di impressionare i Terdibani e di costringerli alla resa. Perciò il loro capo, volendo ostentare la propria potenza militare e mettere in mostra la propria determinazione, spiegò gli uomini e i mezzi a sua disposizione tutt’intorno alla cerchia muraria. Se durante le ore di luce faceva muovere in circolo i soldati con un'aria minacciosa; nelle ore notturne faceva pervenire agli assediati da parte loro rumori di ogni genere. Egli era convinto che il buio, che avvolgeva ogni cosa, ne avrebbe amplificato l’effetto acustico e terrorizzante. Quando infine si esaurì la fase dimostrativa e scenografica, con la quale aveva messo a conoscenza dei nemici l’irresistibilità del suo potente esercito, nel caso che fosse stato costretto ad un assalto in grande stile con scale e macchine belliche, il re Kodrun inviò dei propri ambasciatori presso il re Eleunto, allo scopo di invitarlo alla resa. Tramite gli stessi, egli gli garantiva che, se l'avesse accettata, avrebbe ordinato ai suoi soldati di non attuare né massacri né depredamenti nei confronti della popolazione terdibana. Il re di Terdiba, però, nonostante la scarsità di viveri iniziasse a farsi sentire pesantemente tra i suoi sudditi, lo stesso rifiutò la vantaggiosa proposta di capitolazione, che gli era stata fatta dal re Kodrun attraverso la propria ambasceria. Il suo rigido atteggiamento gli proveniva dal fatto che c'era in lui la speranza che gli aiuti dei sei sovrani suoi alleati, giungendo in tempo, avrebbero sbaragliato l’esercito che stava assediando la sua città.

Al rifiuto del sovrano terdibano, il re Kodrun si convinse che il suo rivale aveva bisogno di altre dimostrazioni di forza, se voleva ottenerne una resa senza colpo ferire. Soprattutto bisognava incrinare il morale dei suoi sudditi, spingendoli alla ribellione generale. Per questo, già la notte successiva, diede ordine ai suoi uomini di scatenare l’inferno sulla città assediata, investendola con una pioggia di lanci di sassi e di fuoco. Riguardo al prodotto incendiario, si trattava di un fuoco particolare, il quale era stato preparato da Tio. Esso non si faceva spegnere neppure dall’acqua. Il giovane maestro d'armi lo aveva ottenuto mescolando vari elementi che erano noti soltanto a lui. Egli aveva imparato a fabbricare tale miscela dal suo maestro tà Fucò, durante la sua permanenza tra i tài dell’Altopiano delle Stelle. I quali erano gli unici a sapere come ottenerlo. Ma di loro si parlerà in seguito, quando, facendo un passo indietro, apprenderemo come Tio era capitato in mezzo a loro in tenera età.

Non appena trascorse la mezzanotte, i soldati dorindani, servendosi di trabocchi, di baliste e di catapulte, si diedero a far piovere sulla città di Terdiba macigni e proiettili di fuoco simili a palle. Essi, cadendo giù dal cielo a centinaia e in continuazione, provocavano danni ingenti agli edifici e alle persone. Infatti, le abitazioni, dopo essere state colpite da pezzi di rupe oppure dai proiettili infiammati, ben presto si ritrovarono ridotte malconce. Molte di loro presero perfino fuoco, mettendosi a divampare, grazie anche alla complicità del vento, che quella notte soffiava fortissimo. Allora quelli che vi abitavano, volendo sfuggire ai crolli di tetti e alle fiamme, si precipitarono all’esterno delle loro case. Ma una volta in strada, alcuni si videro fracassare la testa o sfondare la cassa toracica dai numerosi massi di varia grandezza. Essi, venendo catapultati dai nemici su vari settori cittadini, precipitavano dall'alto invisibili ed irruenti, uccidendoli o ferendoli in modo grave.

A causa di tale rovinio di case e di quel massacro di cittadini, i quali spesso restavano soltanto storpiati dalla fitta sassaiola che rovinava dal cielo in mezzo a loro, l’esistenza nella città diventò tartarea ed impossibile. Quelli che tentavano di spegnere i fuochi nelle vie cittadine oppure nei cortili interni delle case e nei loro fabbricati, facevano un'amara scoperta. Essi, anziché spegnersi con i loro getti d’acqua, si infiammavano ancora di più. La qual cosa fece accrescere ulteriormente la loro disperazione, demoralizzandoli come non mai. In una simile circostanza infernale, ai Terdibani veniva spontaneo fare la seguente considerazione: non bastava il razionamento dei viveri e dell’acqua, ci voleva anche quell’evento catastrofico! Il quale li stava condannando a un terrore più folle di quanto non facesse lo spettro della fame! Infatti, in quella bolgia di frastuoni, di sconquassi di cose, di urla disperate di donne, di pianti compassionevoli di bambini, di pareti che cedevano e crollavano, di persone trasformate in torce umane, di falò impressionanti, la vita degli abitanti di Terdiba era diventata un autentico calvario. Perciò essi andarono a protestare in massa davanti alla reggia. In quel luogo, incalzarono il loro sovrano, perché facesse cessare con l'immediata resa quel cataclisma, che il nemico assediante stava provocando nella loro città.

Soltanto in seguito alle pressioni del suo popolo, il re Eleunto si rassegnò e decise di capitolare, prima ancora che si permettesse di combattere anche ad un solo suo soldato. Per questo diede ordine ai suoi generali di fare issare la bandiera bianca sulla torre più alta della città, in segno di capitolazione. Ma siccome la notte non era ancora sparita del tutto e il candido pezzo di stoffa sventolante poteva non essere scorto da quanti tenevano Terdiba sotto assedio, pensò di risolvere la resa in modo diverso. Allora fece giungere ai nemici la sua intenzione di sottomettersi a mezzo suoni prolungati di corni, i quali iniziarono a farsi udire intorno a Terdiba, fino a zone situate molto lontane da essa.

Mentre il disbrigo delle varie formalità inerenti alla capitolazione di Terdiba lo tratteneva ancora nella città espugnata, Kodrun fu messo al corrente dai suoi perlustratori che gli eserciti di Cirza, di Bisna e di Casunna, uniti e a marce forzate, erano diretti verso la città di Eleunto, essendo intenzionati a prestare manforte al suo popolo assediato. Al loro fianco, avrebbero dovuto marciare anche gli eserciti di Polca, di Statta e di Stiaca; ma sull'assenza di questi ultimi, nessuno sapeva fare delle ipotesi plausibili. Al contrario, si ignorava completamente il motivo della loro mancata presenza in quelle terre dove avanzavano i tre eserciti citati. Era come se la terra li avesse all'improvviso inghiottiti!

A tali notizie, il sovrano di Dorinda, senza perdere altro tempo, stabilì di anticipare il proprio attacco ai tre eserciti rivali, i quali gli muovevano contro con manifeste intenzioni ostili. Perciò, presi con sé cinquantamila soldati, marciò fulmineo contro i sessantamila nemici in arrivo, essendo sua intenzione di tendere loro qualche imboscata capace di decimare il nemico. Lasciò invece la restante parte del suo esercito al comando di Tedo. Prima di mettersi in marcia, però, egli aveva raccomandato al suo luogotenente di tenersi sempre in contatto con la loro città. Così, nell'eventualità negativa che gli altri belligeranti nemici spariti dalla circolazione si fossero rifatti vivi con l'intento di assalire Dorinda alla sprovvista, senza alcuna esitazione egli sarebbe dovuto intervenire in sua difesa, dovendo essere tale intervento il suo primo dovere.


Il re dorindano era convinto che una battaglia veniva vinta non dall'esercito più numeroso; bensì da quello che, al momento dello scontro, si trovava ad occupare una postazione più favorevole. Ma siccome anche il riuscire a cogliere il nemico di sorpresa significava porre una seria ipoteca sulla vittoria, egli cercò di avere entrambe le circostanze dalla sua parte. Così, grazie al suo occhio clinico di infallibile stratega e di un patito della tattica, il re Kodrun non trovò difficoltà alcuna ad individuare la zona migliore dove sistemare il suo esercito, in attesa che arrivassero i nemici. Esattamente, egli pensò di trarre giovamento da una forte depressione del terreno incontrata lungo la strada maestra che dalla città di Terdiba, già da lui presa d'assalto e costretta alla resa, conduceva a Bisna. Perciò, tenendovele bene occultate, il sovrano di Dorinda fece appostare le sue milizie sulle creste delle due scarpate laterali. Per la precisione, egli aveva scelto come posto di appostamento quel tratto di percorso nel quale i pendii si presentavano paralleli e ravvicinati al massimo tra di loro, fino a formare una lunga gola angusta e profonda. Ricorrendo a quell'espediente, Kodrun era sicuro che gli eserciti alleati, dopo essersi introdotti in quell'avvallamento ed essersi trovati nel punto critico suindicato, non avrebbero avuto scampo. Di conseguenza, secondo le sue previsioni, essi sarebbero stati decimati e debellati facilmente. Invece tra i suoi soldati si sarebbero registrate delle perdite irrisorie.

Le previsioni del grande tattico di Dorinda si rivelarono straordinariamente esatte anche in quella evenienza. Difatti, giunti in quell'area depressionaria controllata dai suoi soldati, i tre eserciti coalizzati inaspettatamente si videro minacciati da entrambi i lati dai loro nemici, i quali occupavano delle posizioni molto vantaggiose rispetto a loro. Costoro, al primo segnale del loro comandante, si diedero a sbarrare l'ingresso e l'uscita della gola con degli enormi massi, che fecero precipitare dall'alto con rovinio di cose. Allora i tre re condottieri, preso atto dell'imbottigliamento in cui si erano cacciati, per prima cosa tentarono di tirarsi fuori da quella scabrosa situazione. Poco dopo essi dovettero convincersi che si prospettavano ai loro tre eserciti soltanto due alternative: la resa incondizionata oppure l'accettazione dell'ostica battaglia, quella che il nemico gli imponeva impietosamente. L'unico a proporre di arrendersi fu Amereto, il re di Casunna; ma la sua proposta fu subito scartata da Listro, il quale era il re di Bisna. Così alla fine essi optarono per il combattimento a oltranza, considerandolo obbligatorio e necessario.

I tre sovrani avevano appena finito di consultarsi, allorché giunse ai soldati dorindani il secondo segnale da parte del loro capo Kodrun. Allora essi iniziarono a lanciare contro le intrappolate milizie alleate delle vere gragnole di saette e di lance, oltre a provocare contro le medesime ripetute valanghe di macigni. Ma le legioni nemiche, pur ricorrendo alla formazione di serrate testuggini, non riuscivano a sottrarsi alla concreta minaccia che proveniva dall'alto. Essa le teneva inchiodate in quel posto e le andava decimando paurosamente. Se era vero che le testuggini le sottraevano al lancio di frecce e di giavellotti operato dai nemici; esse, però, le privavano di una buona visuale, facendole diventare facili bersagli dei massi, che non smettevano di rotolare giù per i declivi laterali. Per gli eserciti alleati, insomma, non si intravedeva alcuno scampo da qualunque parte venisse esaminata la situazione, poiché essa appariva ugualmente confusa e catastrofica per i loro soldati intrappolati. A quel punto, i tre sovrani che li comandavano, dopo essersi resi conto della cruda realtà, la quale li persuadeva che non c’era possibilità alcuna di capovolgere le sorti della battaglia, ritornarono sulle loro decisioni. Per cui ritennero cosa saggia far deporre le armi ai loro eserciti, sottomettendosi senza condizioni alle gagliarde forze nemiche, le quali erano assai avvantaggiate. Comunque, volendosi guardare lo stato di cose con più obiettività, era stato il numero dei loro soldati a spingerli di più all’incondizionata resa, poiché esso si andava riducendo a vista d'occhio e ad una velocità impressionante.

Bisogna far presente che il re di Dorinda, prima di intraprendere quella guerra, si era riproposto di evitare inutili spargimenti di sangue, tutte le volte che gli fosse stato consentito. Inoltre, si era prefisso di venirne fuori non con la nomea di crudele sanguinario, bensì con la fama di benamato vincitore. Per la quale ragione, già nella presa di Terdiba, aveva ordinato ai suoi soldati di non darsi a depredare la gente dei loro averi e di uccidere solo per legittima difesa, tassativamente proibendo loro di inveire contro i vinti. Nelle intenzioni di Kodrun, quella guerra, più che i popoli delle varie città edelcadiche, andavano puniti esclusivamente i loro regnanti. In che modo? Egli intendeva fiaccarne la fumosa alterigia ed umiliarli agli occhi dei loro stessi sudditi, che non avevano alcuna colpa. Ecco perché il popolo di Terdiba, più che mostrarsi sorpreso, era rimasto sbalordito di fronte all'atteggiamento del sovrano dorindano. Egli, pur avendo tutti i suoi buoni motivi per mettere la loro città a ferro e a fuoco, invece si era mostrato alquanto clemente e si era astenuto dal farlo. Quanto ai danni provocati dall’assedio nemico, essi erano da imputarsi esclusivamente al loro monarca, non avendo voluto accettare la sconfitta e capitolare a tempo debito, senza colpo ferire. Inoltre, il re di Dorinda, come risarcimento, si era accontentato solo di una modesta indennità di guerra. Quel suo atto di generosità, com'era da prevedersi, lo aveva fatto apparire agli occhi dei Terdibani un sovrano indulgente e magnanimo, degno del massimo rispetto.

Perché il sovrano di Dorinda era ricorso a tale atteggiamento di clemenza e di grandezza d'animo nei confronti dei vinti? Quando aveva intrapreso quella guerra, egli non era forse animato da propositi ben diversi? Certo che sì! Allora cosa lo aveva trasformato ed indotto a seguire la nuova politica di riconciliazione? Essa adesso era fondata sul rispetto dei popoli vinti e sottomessi, anziché sulla loro sopraffazione. A tale riguardo, occorre chiarire che c'erano state delle sostanziali modifiche nel nuovo indirizzo politico del re dorindano. Nei tre mesi che avevano preceduto le fasi della campagna punitiva, il suo pensiero si era andato illuminando di una nuova concezione politica, la quale aveva riguardato non più la sola Dorinda, bensì l'intera Edelcadia. Essa gli aveva fatto ritenere, oltre che ingiusto, perfino controproducente il cercare di spossare la loro regione con sanguinose guerre intestine. Gli aveva perfino prospettato l'ipotesi di un effettivo accordo tra i vari popoli edelcadici. Secondo la sua nuova visione, al di sopra della reale divisione fisica della loro regione nelle nove città, sarebbe dovuta esserci in ogni tempo l'unità spirituale dei popoli edelcadici. Costoro, com'era risaputo, si presentavano accomunati da aspirazioni, usanze, consuetudini e tradizioni millenarie, delle quali non si poteva fare assolutamente a meno.

Il re Kodrun, in un certo senso, intendeva dare nuovo vigore a quell'unità spirituale che per anni era stata decantata e mitizzata da poeti e da artisti. Al contrario, essa veniva insensibilmente trascurata proprio dai regnanti, quelli che avrebbero dovuto esserne gli alfieri, i depositari devoti e gli strenui difensori. Costoro, secondo lui, avevano dimenticato che era stata ogni volta proprio quell'unità a non farli soccombere per secoli alle continue minacce di alcuni popoli limitrofi, che erano da considerarsi autentici barbari. Il figlio di Ursito, nel vagheggiare il suo nobile progetto, dentro di sé nutriva soprattutto un'aspirazione precisa. Se la sua guerra più che giustificata lo avesse fatto trionfare sui sovrani avversari, in seguito egli si sarebbe adoperato perché Dorinda assurgesse a città egemone dell'Edelcadia. Inoltre, si sarebbe fatto carico dell'attuazione di una duratura unità spirituale fra i suoi popoli, nonché del compito di difenderla, fino a quando il destino lo avesse tenuto in vita.

In merito alla nuova visione politica del re Kodrun, si vociferava che fosse stato il giovane Lucebio ad inculcare nel maturo sovrano di Dorinda quelle nobili idee. Esse, molto limpidamente, lo avevano illuminato sul progetto di una profonda solidarietà da far germinare tra i nove popoli dell'Edelcadia. A ogni modo, era anche vero che non si poteva dar credito a simili voci al cento per cento, poiché anche nel re di Dorinda erano sempre predominati il senso della giustizia e quello di una forte coesione spirituale fra tutti i popoli edelcadici.


Dopo avere umiliato e sottoposto all'obbedienza i tre re alleati, il re Kodrun, prima che si cominciasse a negoziare l'armistizio, chiese alle controparti perché mai, insieme con i loro eserciti, non ci fossero stati pure quelli di Polca, di Statta e di Stiaca. A tale riguardo, egli se ne meravigliava grandemente e non riusciva a spiegarselo. Allora Sirco, il giovane re di Cirza, il quale era il più facondo dei tre sovrani, mostrandosi sommamente seccato dalla domanda del loro vincitore, gli rispose con tono quasi irritato:

«Proprio tu vieni a chiedercelo, Kodrun, che sei al corrente più di noi del luogo dove essi si trovano adesso?! Sono convinto che nessuno meglio di te può sapere che i tre eserciti nostri alleati si trovano là dove è impegnata l'altra parte del tuo esercito. Come vedi, non serve fare lo gnorri con noi, dal momento che conosciamo l'intera verità in merito. Perciò cerca almeno di risparmiarci la tua palese ironia fuori luogo, dopo la nostra clamorosa sconfitta, che tu non ci hai permesso di evitare!»

«Vorresti farmi credere, Sirco, che essi siano già a Terdiba?! E perché mai i miei emissari non mi hanno reso edotto anche del loro arrivo?» chiese Kodrun, mostrandosi sorpreso e sbalordito «A mio parere, lo ritengo del tutto improbabile!»

Nel medesimo tempo, egli non riusciva a capacitarsi come avessero fatto i tre eserciti nemici a nascondersi agli occhi dei suoi efficienti esploratori, che lo avevano sempre messo in condizione di essere un ottimo tempista. Essi non si erano mica dati all'abbondante vino, ubriacandosi e facendoseli così sfuggire? Comunque, non ci avrebbe mai creduto!

«Ma quale Terdiba! Mi riferisco alla città di Stiaca!» lo riprese con stizza il giovane re, che si faceva portavoce pure degli altri due colleghi «Non ti è bastato averci umiliati, Kodrun, per volere anche prenderci per i fondelli? Non hai forse mandato l'altra parte dei tuoi soldati ad assediare la città del re Ulpo? Certo che sì! Quindi, è inutile che cerchi di nasconderlo, poiché noi tre lo abbiamo appreso, se pure indirettamente, tanto dal re di Polca Sifido, quanto da Scitone, che è il re di Statta!»

«Sei proprio certo di quanto mi hai appena riferito, Sirco?» gli domandò Kodrun «Se lo vuoi sapere, se fosse vero ciò che affermi, la cosa mi preoccuperebbe per davvero; invece voi non riuscite a comprendere la gravità della situazione, per parlarmi in questo modo!»

«Altroché, Kodrun! Noi stavamo in attesa di essere raggiunti dai loro eserciti e da quello di Stiaca per marciarti contro congiuntamente, quando un loro corriere a cavallo si è precipitato ad avvisarci che anche la città degli Stiachesi era stata cinta d'assedio. Mediante la stessa staffetta, i nostri amici ci hanno fatto sapere di non attenderli più, visto che essi sarebbero accorsi in aiuto dell'altra città nostra alleata. Perciò, a causa del nuovo evento bellico, solo io e i miei colleghi di Casunna e di Bisna siamo potuti venire in soccorso della città di Terdiba. Ma tu neppure ci hai permesso di raggiungerla in tempo! Dunque, hai ancora la faccia tosta di continuare a propinarci le tue bugie e a manifestarci la tua simulata preoccupazione? Noi troviamo ciò davvero assurdo!»

La notizia dell'assedio di Stiaca, qualunque cosa ne pensassero il suo interlocutore e i suoi due alleati, allarmò parecchio il re Kodrun. Egli considerò l'assedio di Stiaca opera di qualche popolo straniero, il quale era arrivato da oltre confine. In quel momento, lo stratega dorindano cercò di spiegarsi quell'inatteso avvenimento bellico con la massima lucidità di mente possibile, senza perdere la calma e senza lasciarsi sfuggire di mano la situazione. Nel frattempo andava meditando su come convincere i suoi avversari che egli non c'entrava affatto nell'assedio che stava subendo Stiaca. Adesso, più che mai, egli intendeva guadagnarsi la loro fiducia ed averli nel medesimo tempo dalla sua parte. Era suo convincimento che un altro popolo di origini barbare aveva iniziato ad effettuare l'invasione della loro fiorente Edelcadia, allo scopo di assoggettarla e di asservire a sé i vari popoli che l'abitavano.

Il temporaneo frastornamento del re di Dorinda e il suo indugio nel dargli la dovuta risposta furono interpretati dal re Sirco come prova che le sue affermazioni avevano colto nel segno, mettendo a disagio la sua controparte. Per questo essa non sapeva più in che modo sbrogliarsi. Allora, non immaginando neanche lontanamente i pensieri che si andavano agitando nella mente dell'illustre Dorindano e convinto di averlo pure sbugiardato, non esitò ad assalirlo con una certa protervia:

«Dunque, giustiziere senza macchie, che cosa ti succede? Il ritrovarti con le spalle al muro ti inibisce forse l'uso della favella? È mai possibile che non cerchi neppure con un farfugliamento qualsiasi di trarti fuori dall'imbarazzo, in cui ti sei cacciato con le tue stesse mani? Ma come constatiamo, ti riesce alquanto difficile scusarti in qualche modo e salvare così la faccia di fronte a noi! Avanti, ammetti che è come ho detto!»

Il mordace linguaggio, che era stato usato dal giovane re nei suoi confronti, venne a distogliere il risentito Kodrun dai seri pensieri nei quali si era immerso e lo rese nuovamente cosciente della reale situazione. Allora all’istante egli si ripromise di riprendere con i termini più appropriati quel saccente sovrano non ancora scozzonato, impartendogli la lezione che si meritava. Così iniziò a rimproverarlo in questa maniera:

«Da quando in qua un pivello del tuo stampo, con il moccio che gli cola ancora dal naso, osa con insolenza dare dell'impostore all'irreprensibile re Kodrun?! Non bastando un fatto così grave, egli ha perfino l'ardire di ferirlo, senza il minimo ritegno, in ciò che ha di più sacro, ossia nell'onore! Sono sicuro che, per comportarti in tal modo, non puoi essere che un mentecatto oppure sei uno che non si è affatto reso conto in quale direzione spira adesso il buon vento. Tanto perché tu te ne faccia un'idea, non è mia intenzione sottrarmi alle tue domande. Prima, però, ascolta quello che sto per dirti. Se ho indugiato a risponderti, è perché mi hanno bloccato le tue notizie riguardanti l'assedio di Stiaca; ma non per i motivi che tu hai addotti a torto senza prove. Sì, se proprio ci tieni a saperlo, esse, a dir poco, mi hanno letteralmente sconvolto!»

«Mi chiarisci, Kodrun, perché mai quanto hai appreso da me avrebbe dovuto arrecarti lo sconvolgimento della mente, al quale hai fatto riferimento? Continui forse a prenderti gioco di noi con la tua stupida farsa, che giammai accoglieremo come qualcosa di serio? Allora cosa rispondi a queste nuove mie domande, che ti ho rivolte?»

«Non mi è stato difficile, Sirco, arrivare alla seguente conclusione: siccome non sono i miei soldati ad assediare Stiaca, vuol dire che una entità allogena è entrata ad operare sul nostro sacro suolo, a tutto svantaggio di noi Edelcadi. Inoltre, vuoi tu spiegarmi a che pro avrei io dovuto spacciarvi delle menzogne e a quale castigo esse avrebbero dovuto sottrarmi? Non sono forse io quello che conduce il gioco in questa partita? Se vogliamo essere ragionevoli, solamente voi potevate essere spinti a bleffare con me e a raccontarmi frottole di ogni tipo. Di certo, io no, poiché mi trovo nella posizione di chi detta leggi e non di chi è costretto ad osservarle. Eppure ti ho creduto senza battere ciglio, quando mi hai riferito che anche Stiaca si trovava in stato d'assedio. Perciò ho evitato di considerare la tua notizia una comprensibile manovra di depistaggio da parte vostra!»

«Invece dovevi crederci, Kodrun, perché essa era la pura verità!»

«Allora, Sirco, se non è una vostra invenzione che la città del vecchio re Ulpo sta subendo un assedio, vi giuro che non è il resto dei miei soldati ad assediarla, essendo essi dislocati nei pressi di Terdiba. Io stesso li ho lasciati in quei paraggi, affinché potessero accorrere prontamente in soccorso di Dorinda, qualora gli altri vostri tre eserciti avessero tentato di occuparla. Invoco il divino Matarum a testimone che dico il vero! Se ci riflettete bene, i vostri alleati vi hanno comunicato che Stiaca era stata sottoposta ad un assedio, senza però specificarvi da parte di chi essa veniva assediata. Dunque, su quali prove avete fatto basare la vostra convinzione, secondo la quale potevano essere solamente i miei soldati a porla sotto assedio? Vorrei saperlo da voi!»

Alle convincenti parole del re dorindano, il re Sirco, facendo marcia indietro, con contrizione intervenne a scusarsi con la controparte:

«Valoroso re Kodrun, non so come la pensino i miei colleghi presenti; ma adesso ti credo fermamente, per cui faccio ammenda delle ingiuste e gravi accuse che ti ho rivolte appena un istante fa. Tu sei un uomo sia valoroso che giusto e le persone della tua statura morale non possono mentire. Tu puoi non fidarti di noi, mentre noi faremmo male a non aver fiducia in te. I vili traditori siamo noi e non tu, che sei un vero eroe. Non sono mai riuscito a concepire perché mai mio padre e gli altri re edelcadici, due dei quali oggi ti sono davanti, alcuni anni addietro ti rifiutarono il loro indispensabile aiuto contro i Tangali di Ricnos. Eppure essi, con tale rifiuto, firmavano anche la loro condanna capitale! Gli incoscienti ignorarono che, dopo la disfatta dei Litiosidi e la distruzione del loro villaggio, sarebbe poi toccato a loro essere travolti dalla furia devastatrice delle fiumane tangale. Se invece avessero avuto un po' di senno in testa, mio padre e gli altri re edelcadici avrebbero dovuto metterti a disposizione un grande esercito per facilitarti la vittoria contro il tangalo Ricnos. Della qual cosa si sarebbero avvantaggiati enormemente non solo il tuo villaggio bensì anche le loro sette città!»

«Certo che sarebbe stato come hai fatto presente, Sirco! Ma i sovrani in questione, in quella circostanza, non compresero il pericolo che stavano correndo. Anzi, scambiando la loro rovina per loro tornaconto, non vollero immedesimarsi con la verità! Comunque, mi compiaccio del fatto che oggi il figlio di uno di quei sovrani senza cervello, mostrandosi cosciente del loro errore di allora, lo riconosca pubblicamente!»

«Era il minimo che potevo fare per te, Kodrun! Ritornando poi ai sette sovrani che in quella circostanza si mostrarono irresponsabili, essi non si erano resi conto per niente che in quello scontro era in gioco il destino non soltanto del tuo villaggio ma dell'intera Edelcadia! Non parliamo poi della turpe infamia, di cui gli stessi si macchiarono ulteriormente, quando si ricusarono di accogliere le donne, i vecchi e i bambini nelle loro città, alle quali li avevi giustamente inviati, come garanzia di un ricetto sicuro. Ma il buon Matarum seppe assistervi in quel difficile frangente, a loro dispetto e, per ironia della sorte, anche a loro beneficio! Perciò, dopo l'oltraggio che vi abbiamo arrecato, di cui ci siamo macchiati obbrobriosamente, quante e quali ragioni potremmo accampare a nostra giustificazione? La mia risposta è la seguente: neppure una! Solo a noi spetta accusarci il torto, oltre che invocare clemenza e perdono da te, che sei il meritato vincitore! Spero che pure i miei colleghi presenti oggi la pensino come me, se vogliono almeno oggi mostrarsi onesti e saggi!»

Il pentito re Sirco ebbe appena finito di recitare il suo sincero mea culpa anche a nome degli altri re alleati presenti, allorché fu introdotto una staffetta actinese nella tenda, che era adibita alla stipula del negoziato. Il soldato, che appariva trafelato per aver affrontato il lungo viaggio, rivolgendosi ossequiosamente al re di Dorinda, si diede a dirgli:

«Potentissimo re Kodrun, il mio nobile sovrano Nortano, re di Actina, ti prega di accorrere immantinente in aiuto della sua città, la quale è stata posta sotto assedio da tribù barbare. Esse hanno già assediato e dato alle fiamme la città di Stiaca, dopo aver clamorosamente sconfitto gli eserciti di Polca e di Statta. Per il momento, gli assedianti sono di numero contenuto. Ma si prevede che assai presto ai cinquantamila uomini impegnati nell'assedio della Città Santa si affiancherà il grosso dell'esercito. Stando alle prime stime dei nostri emissari, esso conterebbe altri duecentocinquantamila soldati!»

Il re Kodrun, a quelle notizie niente affatto rassicuranti, che già prima aveva temuto che gli sarebbero pervenute molto presto, si turbò parecchio e se ne preoccupò non poco. Ma anche si domandò chi fossero mai i tanti nemici dell’Edelcadia e da dove essi fossero sbucati. Alla fine, senza pensare a nient'altro, egli si rivolse a Sirco e agli altri due sovrani edelcadici presenti, dandosi a parlare così:

«Bene, a questo punto, abbiamo le prove che nessuno di noi diceva il falso. Ma esse, se ci liberano dai sospetti e dalle diffidenze che poco fa nutrivamo gli uni verso gli altri, non risultano di alcun giovamento per Actina, la quale rimane comunque sommersa dal suo mare di guai. Se non vogliamo vederla piegarsi alle orde barbariche, occorre intervenire immediatamente in suo aiuto. Perciò, se altri impegni non vi tengono legati altrove, vi esorto ad unirvi a me. In questo modo, ci precipiteremo insieme in soccorso della Città Santa, dove tenteremo anche di arginare la selvaggia avanzata dei nostri comuni nemici. Intanto invio qualcuno dei miei attendenti dal mio luogotenente Tedo per ordinargli di raggiungermi il più celermente possibile ad Actina con il resto del mio esercito. È indispensabile che siamo tutti uniti in questa circostanza drammatica e molto avvilente per la nostra fiorente regione, che è l'Edelcadia!»

Allora il re Sirco, accogliendo anche le intenzioni dei suoi regali colleghi, per avergliele lette chiaramente sui volti consenzienti, non esitò a rispondergli con prontezza:

«Certo che vogliamo contribuire anche noi alla grande causa dell'Edelcadia, valoroso Kodrun! Ci sentiamo onorati di combattere al tuo fianco e ti saremmo grati, se tu accettassi di prendere anche i nostri tre eserciti sotto il tuo comando, poiché siamo sicuri che nessuno meglio di te saprà guidarli alla vittoria sui nostri comuni nemici. Inoltre, voglio partire anch'io con la tua staffetta, essendo mia intenzione convincere pure Eleunto a prendere parte alla nuova grande coalizione. La quale, a mio parere, soltanto in questa circostanza può considerarsi nobile e sacra, siccome essa ha come obiettivo comune la salvaguardia del nostro venerato suolo edelcadico!»

Poco dopo, il re Kodrun diede ordine di togliere gli accampamenti e, al comando dei quattro eserciti, si diresse a marce forzate in direzione della remota città di Actina.