68-IL DECENNIO DI REGNO DEL RE CLORONTE
Ebbene, miei neo adepti, chiedendomi di parlarvi di questo sovrano a voi ignoto, mi spingete a rammentare le gravi disgrazie che quindici anni fa toccarono alla città di Dorinda e al suo popolo. Contestualmente, non potrò fare a meno di raccontarvi i terribili momenti che il suo legittimo sovrano ebbe la sventura di correre. Tali ricordi potranno soltanto accrescere le tante sofferenze, le quali continuano ad affliggere questo mio cuore, che è rimasto dilaniato dal dolore. Ma è giusto che sappiate l'intera verità sul più retto e sul più nobile dei re edelcadici, a cui furono fatti subire un affronto ingiusto ed una pena iniqua. Egli, per il bene e per la libertà del suo popolo, non esitò neppure un istante a sottoporre il suo animo ai più terribili supplizi. Per cui essi alla fine glielo martoriarono nella maniera più barbara e crudele che si possa immaginare!
Nella beatissima città di Dorinda, il re Cloronte rappresentava qualcosa di prezioso agli occhi dei suoi sudditi. Perciò essi si estasiavano per la presenza nel loro regno di un sovrano così giusto e leale, così magnanimo e pacifico, soprattutto sempre dedito al benessere del suo amato popolo! Le doti dell'onesto re erano la generosità, la pietà, l'innegabile bontà, l'assennato giudizio, la savia giustizia. Comunque, in lui primeggiava su tutte le altre l'avversione alla potenza militare e alla supremazia dei Dorindani sugli altri popoli. Inoltre, non essendo un misoneista, egli si mostrava disponibile ad accogliere tutte le novità ed ogni forma di progresso civile. Le quali sue caratteristiche lo facevano apparire agli occhi del suo popolo come un sovrano molto saggio e progressista, per cui lo spingevano ad amarlo e a stimarlo immensamente. Ma egli anche signoreggiava con equità sul vastissimo territorio del suo regno, dopo averlo ereditato dal glorioso padre, che era stato il re Kodrun. Costui si era spento, quando aveva appena sessant'anni. In merito poi al suo leggendario genitore, egli, per il suo spirito bellicoso e per la sua singolare strategia militare, era riuscito a far sì che la sua Dorinda, la quale in precedenza era stata un umile villaggio di nome Litios, assurgesse alla più potente e temuta delle nove città dell'Edelcadia. Così aveva procurato ad essa l'egemonia militare e politica su tutte le altre.
Il mio amico re Kodrun, dal punto di vista del valore militare, è stato senz'altro il più prestigioso sovrano di tutta la storia dell'Edelcadia. Infatti, la sua nobiltà d'animo, la sua fierezza, la sua esperienza bellica e il suo incommensurabile amore verso la sua Dorinda ne facevano un sovrano degno della massima ammirazione ed esaltazione. Egli si batté, per l'intera sua vita e con tutte le sue forze, per la grandezza della sua amata città. Per questo i Dorindani non cessavano di magnificarlo e di osannarlo in ogni istante della loro esistenza. Il figlio di Ursito era tenuto in grande considerazione da tutti i re edelcadici, anche perché essi gli dovevano lo scampato pericolo da due invasioni che si erano avute sui territori dell'Edelcadia. Esse erano state effettuate da due popolazioni: la prima dal popolo tangalo e la seconda dal popolo beriesko. Riguardo ai Berieski, essi di sicuro avrebbero funestato la loro regione, con i suoi inevitabili ed indelebili segni di saccheggio, se il re Kodrun, agendo diplomaticamente, non si fosse adoperato per fermarli. Difatti il sovrano dorindano, grazie alle sue ottime qualità di stratega, riuscì a scongiurare l'immane catastrofe, quando già essa si andava delineando distruttrice sul territorio edelcadico. Per cui lasciava immaginare che ne sarebbero derivati sia fiumi di sangue che un orrore raccapricciante. Ma egli, intervenendo presso il loro capo Nurdok, il quale era un condottiero di eserciti par suo, con sagacia fece evitare quello che sarebbe stato senza dubbio il più sanguinoso conflitto della storia.
Questa sera, però, miei vigorosi giovanotti, mi vedo costretto a sorvolare sulle vicende, che indussero il re Kodrun ad invadere parte dell'Edelcadia, e su quelle che fecero evitare il confronto tra i due sterminati eserciti. Vi prometto, però, che ve le narrerò, non appena avrò più tempo disponibile per raccontarvele. Per il momento, mi limiterò a riferirvi succintamente sul commiato che ci fu tra i due illustri strateghi.
Ebbene, prima di intraprendere il viaggio di ritorno alla sua Berieskania, Nurdok volle affidare al re Kodrun la figlioletta Elinnia, a causa del suo precario stato di salute. Secondo il loro stregone, ella non avrebbe retto alla nuova lunga traversata, che avrebbe dovuto ricondurla a casa. Perciò sarebbe morta senza meno, prima che fosse terminato il lunghissimo viaggio di ritorno fra tante terre malsane ed infide. Allora il re di Dorinda si mostrò bendisposto ad ospitare la bambina e rassicurò l'illustre capo beriesko che egli l'avrebbe trattata come una figlia, ossia al pari del suo unigenito Cloronte. Presso la sua corte, inoltre, ella sarebbe stata trattata come se fosse un'autentica principessa. Quelle rassicurazioni dell'amico fecero brillare di gioia gli occhi di Nurdok, il quale ringraziò vivamente Kodrun, per la generosa ed amorevole ospitalità che era intenzionato ad offrire alla sua piccola Elinnia. Infine, dopo averlo abbracciato fraternamente con un animo traboccante di commozione, si congedò dall'uomo, che ora stimava più di tutti e considerava il suo più grande amico. Così lo straordinario eroe dei Berieski, dopo aver abbandonato per sempre l'Edelcadia con il suo sterminato esercito, fu visto ripartire per la sua remota terra, la quale era la Berieskania. Comunque, egli sarebbe ritornato ancora una volta nell'Edelcadia, visto che il destino aveva deciso in tal senso. Esso ve lo avrebbe ricondotto per un motivo assai importante, di cui molto presto verrete a conoscenza.
Venti anni dopo, colto da un improvviso malore, il sessantenne re Kodrun moriva. Allora gli successe sul trono di Dorinda il figlio Cloronte, il quale, pur avendo trentaquattro anni, si ritrovò ad essere signore del più vasto e del più ricco territorio dell'Edelcadia. Ma l'anno successivo alla sua incoronazione, il novello re decise di scegliersi come moglie Elinnia, la ventisettenne figlia di Nurdok, la quale era vissuta insieme con lui presso la reggia di Dorinda. Il giovane principe, durante la sua lunga permanenza alla corte del padre, si era andato invaghendo di lei sempre di più, fino ad innamorarsene seriamente. Le nozze furono salutate con solenni festeggiamenti e con lauti banchetti, ai quali prese parte l'intero popolo di Dorinda, che fu felicissimo di parteciparvi. Tra gli invitati di spicco, oltre al famoso padre della sposa, cioè il mitico Nurdok, erano presenti tutti i regnanti delle altre città dell'Edelcadia, ad eccezione del re Nortano di Actina; al posto suo, però, era intervenuto suo figlio, il principe Godian. Tutti gli invitati vi si erano presentati, facendo a gara a chi di loro portasse agli sposi il dono più bello e più prezioso.
Quanto al capo dei Berieski, egli, pur rammaricandosi immensamente di non aver trovato vivo il suo grande amico, fu lietissimo di rivedere la figlia, la quale era andata in sposa all'unigenito del glorioso re Kodrun. Sposandolo, ella era divenuta la regina del più prestigioso regno dell'Edelcadia. Egli, però, non perdette tempo ad avvedersi che il genero, quanto a valore e a strategia militari, non aveva la stoffa del padre; anzi ne era completamente digiuno. Per la quale ragione, il suo regno poteva considerarsi in continuazione traballante ed effimero. Il glorioso Nurdok era certo che il pacifista marito della figlia sarebbe stato indubbiamente un ottimo re per il suo popolo, saggio e generoso come si dimostrava. Invece non lo sarebbe stato altrettanto per la stabilità e la sicurezza dei suoi territori. Secondo il suo autorevole giudizio, un regno come quello di Dorinda, non poteva durare a lungo nel tempo, dal momento che non c'era a governarlo un uomo d'armi e di polso. Soltanto se ci fosse stato il defunto consuocero Kodrun, esso avrebbe continuato a reggersi in piedi e sarebbe riuscito a difendersi dagli attacchi dei tanti temibili sciacalli, che erano sempre in agguato. I quali, a parer suo, in ogni istante, avrebbero potuto fare la loro comparsa da varie parti e per diverse ragioni, allo scopo di dilaniarlo e di depredarlo. Ecco perché, prima di congedarsi dalla diletta sua figlia, ci tenne a farle presente il suo disaccordo con la nuova politica remissiva e riconciliante del consorte, il quale l'aveva intrapresa incoscientemente nei confronti dei restanti re edelcadici. Per questo non poté fare a meno di esprimerle i timori che nutriva circa una tenuta del regno di Dorinda a lungo termine. Anzi, nei suoi confronti, egli non si astenne dal presagire un futuro fragile e per niente roseo.
Dal connubio del re Cloronte e della regina Elinnia, in un primo tempo, ossia durante il loro primo triennio di matrimonio, nacquero tre maschietti. Essi, presi nel loro ordine di nascita, furono chiamati Iveonte, Londio e Nucreto. I tre principini, essendo nati sani e belli, furono accolti con somma felicità dai giovani regnanti di Dorinda, i quali si mostravano assai fieri di loro. Naturalmente, tutti sanno che i figli dovrebbero essere la somma delizia dei genitori. Al contrario, essi non lo furono per il re Cloronte e per la regina Elinnia. I due coniugi reali, a causa loro, non molto tempo dopo, andarono incontro esclusivamente a crudelissime disavventure. Eppure chi mai avrebbe immaginato che contro quei tre fanciulli ben presto si sarebbero scatenate le più grandi sciagure? Senza dubbio, l'avversa sorte, la quale tese ad accanirsi contro di loro con disumanità, superò ogni misura, a dispetto dell'umana giustizia!
Le disgrazie dei due sovrani di Dorinda ebbero inizio in una notte di fine estate, quando il re Cloronte ebbe a fare un sogno orripilante. Il quale al mattino lo indusse a convocare a corte i sapienti più rinomati e i maghi più affidabili del suo regno. Egli era ricorso a loro, soltanto perché il suo infallibile oniromante Virco, per un fatto misteriosamente inspiegabile, era morto nella stessa notte che c'era stato il suo sogno. Perciò sperava che fra i tanti convenuti almeno uno di loro sarebbe stato in grado di svelargli il significato oscuro del sogno da lui fatto. Invece, dopo che il sovrano lo ebbe raccontato alle esperte persone intervenute, all'inizio nessuna di loro si fece avanti allo scopo di pronunciarsi su di esso. Alla fine, quando nel re dorindano parve svanire ogni speranza di trovare qualcuno in grado di interpretarglielo, ecco presentarsi nella sala del trono il mago Ghirdo. Egli, ignorando totalmente il senso della modestia, rassicurò il monarca che soltanto un valente mago della sua portata poteva essere all'altezza di dare una interpretazione infallibile alla esperienza onirica che aveva fatta durante la notte appena trascorsa.
Così il mago, dopo averlo ascoltato, attribuendogli un significato che tendeva ad essere ingannevole, spiegò che, secondo quanto aveva previsto nel sogno, il suo primogenito Iveonte un giorno sarebbe stato la causa di una guerra disastrosa fra Dorinda e le altre città dell'Edelcadia. In seguito a tale conflitto, la sua città sarebbe stata conquistata dagli altri re edelcadici. I quali, una volta cessate le ostilità, non si sarebbero fatti scrupolo di detronizzarlo e di imprigionarlo insieme con la consorte. Una tale calamità, però, poteva essere scongiurata a una sola condizione, in base alla quale egli avrebbe dovuto sacrificare il suo primogenito al dio della pace. Solo agendo così, si sarebbe adoperato sia per il bene suo personale sia per quello della sua città e del suo popolo.
Una volta che ebbe spiegato il sogno a modo suo, Ghirdo incitò in maniera imperativa il re Cloronte a condannare a morte il figlio Iveonte, poiché risultava l'unico colpevole delle future sciagure della potente Dorinda. Per causa sua, essa si sarebbe compromessa con le altre città alleate e sarebbe andata incontro al tramonto della sua grandezza e del suo fasto. All'incitamento del gobbo e zoppo mago, gli fecero eco i suoi colleghi e i sapienti presenti nella sala del trono. Costoro seppero cavarsela molto bene nella loro obbrobriosa parte di insensibili carnefici. Invece, prima che arrivasse il mago Ghirdo nella reggia, gli stessi non erano stati capaci di nessuna argomentazione e di nessuna deduzione, circa il sogno fatto dal loro re! Soltanto io avevo cercato con tutte le mie forze di contrastare le illazioni non convincenti del perfido mago. A mio parere, se si voleva dare una interpretazione logica al sogno fatto dal re Cloronte, esso indicava l'ultimogenito Nucreto e non Iveonte, quale responsabile delle future disgrazie di Dorinda e del suo popolo. Ma poco dopo, durante una mia momentanea assenza dalla sala, all'astuto mago era bastato mettere in atto un suo trucco, per avere dalla sua parte gli attoniti ed ingenui astanti. Allora essi pressarono il sovrano, affinché facesse il suo dovere, quello che gli imponeva la sorte. Fu così che il re Cloronte, spinto dalle richieste incalzanti della schiera di sapienti e di maghi presenti a corte, i quali premevano che egli si decidesse con la massima urgenza, pronunciò la sentenza di morte contro suo figlio.
Quella barbara condanna, da lui decretata contro il suo primogenito, fece sentire il sovrano di Dorinda incredibilmente male. Il costernato re, dopo aver emesso l'iniqua sentenza, volle a ogni costo che fossi io, che ero il migliore amico del piccolo, a condurre l'innocente principino nella foresta. Egli pretese addirittura che fossero le mie mani a recargli la morte, con un colpo di spada, senza dargli neppure il tempo di accorgersene. Ma come potevo essere io a portare a compimento una missione di quel genere, che consideravo maledettamente spietata? Addirittura avrei dovuto anche squarciare il petto al principino, estrargli il cuore e consegnarlo, al mio ritorno alla reggia, nelle mani del perfido mago Ghirdo. Il quale, a mio avviso, aveva voluto la sua morte per un proprio tornaconto, che non riuscivo ad intravedere!
Accettai l'incarico, unicamente per non accrescere di più la pena del distrutto re Cloronte, pur essendo consapevole che giammai la mia persona avrebbe avuto il coraggio di macchiarsi di un'azione delittuosa così ignominiosa. Infatti, una volta nella sconfinata foresta, preferii abbandonare in quel luogo tutto solo il piccolo Iveonte, anziché colpirlo a morte con la mia spada, come mi era stato ordinato dal mio confuso sovrano. Così il giorno dopo, quando me ne ritornai alla reggia, portai con me il cuore di un cerbiatto, anziché quello del principino. Me lo ero procurato nella foresta, dopo avere ammazzato l'innocua bestiola. Giuntovi la sera dopo, lo consegnai nelle mani del mago Ghirdo, il quale, dopo che se ne fu impossessato, abbandonò in gran fretta la reggia.
Per la verità, ho sempre ritenuto che pure quella mia trovata fosse stata un madornale errore, per cui non me lo sono mai perdonato per un semplice motivo. Io avrei potuto affidare il principino a qualche famiglia di coloni, che era stanziata nei dintorni di Dorinda. Per non averlo fatto, oggi mi ritrovo a distruggermi l'animo giorno e notte, senza mai smettere. Inoltre, vengo assalito e tormentato di continuo dal rimorso di aver avuto in quella circostanza il barbaro coraggio di abbandonare il piccolo Iveonte in pasto alle fiere. Per questo, da quel giorno non ho avuto più pace, divenendo preda di un tormento senza fine. Per alcuni anni, venni martoriato anche di notte da incubi tremendi, i quali mi terrorizzavano l'esistenza e me la trasformavano in una geenna. Nella quale i supplizi e gli atroci rimorsi andavano a braccetto, al fine di distruggermi fisicamente e psichicamente. Qualsiasi cosa io facessi, il volto del mio piccolo amico mi si presentava davanti. A qualunque attività mi dedicassi, i suoi pianti mi rintronavano nelle orecchie. Qualunque pensiero mi venisse a sfiorare, vi scorgevo sempre lui che mi accusava della mia grave colpa.
Soltanto in seguito mi sarei riappropriato della serenità che mi era stata estorta, ossia dopo che avessi intrapreso la mia attività di oppositore giurato al nuovo illegittimo sovrano e mi fossi anche dedicato all'insegnamento. Infatti, entrambe le occupazioni sarebbero riuscite a distogliermi dall'abisso infernale che si era impadronito di me. Nel frattempo, però, esso restava in me, quasi fosse un mio fratello, e si faceva vivere da me con la massima sofferenza, senza che potessi muovere un dito per allontanarlo da me e per non venirne più sopraffatto. In un certo senso, me la prendevo anche con il mio sovrano, il quale, credendo di fare una cosa giusta, mi aveva cacciato in quella situazione, senza pensare al male che mi avrebbe procurato. Nei primi tempi, evitavo perfino di incontrarmi con la sua persona, siccome, stando in sua presenza, mi si acuiva la tribolazione interiore, quella che seguitavo a patire in una maniera insopportabile. Se ne accorse perfino il re Cloronte. Per cui un giorno, dopo avermi fatto chiamare presso di sé, egli mi chiese di dargli delle spiegazioni sul mio insolito atteggiamento, che non riusciva a comprendere neppure un poco. Allora, senza peli sulla lingua e addossando tutta quanta la colpa all'incarico che mi aveva affidato, gli parlai dell'intero dramma disperato che la mia persona stava vivendo a livello di coscienza. Il quale era sopravvenuto nel mio animo, dopo essere stato obbligato da lui ad arrecare un torto così grave ed ingiusto al suo primogenito, il quale era anche un mio carissimo amico. Inoltre, gli feci presente che il mio male si aggravava ulteriormente, in special modo quando ero al suo cospetto. Quella era la ragione per cui cercavo di stargli alla larga il più possibile.
Il re Cloronte, non dando alcun peso a quanto gli avevo riferito a mia giustificazione, non ne volle sapere niente. Perciò pretese che io riprendessi la mia abitudine di andare a trovarlo ogni giorno, poiché le mie visite gli risultavano gradite come quelle di nessun altro cortigiano. Esse, costituendo il bene prezioso della sua esistenza, rappresentavano per lui qualcosa di irrinunciabile. Da parte mia, dopo quanto il mio re mi aveva dichiarato, rendendomi conto che forse non mi stavo comportando secondo giustizia nei suoi confronti, non me la sentii di contrariarlo a oltranza. Così alla fine stabilii di riprendere i cordiali rapporti che c'erano prima tra noi due. Comunque, mi piegai al desiderio del mio sovrano anche per un altro motivo assai importante. Avevo saputo che la regina Elinnia, siccome tra noi due si era instaurato un grande affiatamento, risentiva con sofferenza della mia assenza dal loro ambiente. La mia frequentazione a volte le permetteva di dare libero sfogo a talune sue inibizioni dell'affettività, non riuscendole facile farlo con un marito piuttosto taciturno e spesso immusonito. Infatti, era appunto in quel modo che si mostrava il suo Cloronte per gran parte della giornata, senza mai giustificare il suo atteggiamento.
Ritornando adesso al nostro racconto, riprendiamo i fatti che erano seguiti al sogno del sovrano di Dorinda e alla condanna a morte da lui comminata contro il proprio primogenito. Ebbene, bisogna premettere che il peggio doveva ancora accadere, dal momento che l'intrigante sorte non era ancora interamente paga dei grossi guai, che già aveva fatto piovere sulla famiglia reale. Essa, senza pietà per nessuno, si accingeva a colpire il re Cloronte, insieme con il suo popolo, con nuove e più terribili sventure. Le quali sarebbero risultate all'uno e all'altro infinitamente pesanti, per essere tollerate senza alcun sacrificio. Ma contro il destino nulla si poteva fare e la sua accettazione passiva era d'obbligo ed ineludibile. Come pure il suo enorme strapotere si presentava senza dubbio ineluttabile, assurdo, intransigente, dispotico, feroce e spietato!
A questo punto, però, prima di proseguire oltre nella narrazione dei gravi e tragici episodi che si succedettero non poco tempo dopo, intendo spendere una parola in più per lo sfortunato principino.
Con tale apertura di parentesi, voglio farvi apprendere i bei momenti della fanciullezza che il piccolo Iveonte si ritrovò a vivere presso i suoi amorevoli genitori. Sono convinto che ne varrà la pena conoscere alcuni episodi interessanti di questo prodigioso ragazzo. Essi, in un certo senso, oltre ad essere controversi, si presentavano avvolti dal fitto mistero. La sua nascita aveva fatto pensare di lui come ad un evento eccezionale, poiché gli astri lo davano per vincente. Infatti, per la sua esistenza essi preconizzavano un cammino glorioso, il quale sarebbe avvenuto sotto i migliori auspici. Invece, ad un certo punto della sua vita, ogni rosea previsione sul bambino prodigio era sfumata nel nulla e per lui c'erano state soltanto disgrazie a non finire. Esse non avevano fatto altro che oscurare e seppellire qualsiasi annuncio predittivo, che era stato fatto inconfondibilmente su di lui e sulla sua futura esistenza.