67°-GRAZIE A LUCEBIO, L'AMBIZIOSO SOGNO DI KODRUN SI AVVERA

Non appena terminarono i solenni festeggiamenti, con i quali i Litiosidi avevano voluto celebrare la loro insperata vittoria sui Tangali invasori, Kodrun convocò nella sua casa le persone più facoltose del villaggio. Egli aveva da proporre a tutte loro una propria iniziativa, siccome la considerava di particolare importanza per l’avvenire del popolo litiosino. Quando esse si furono presentate al suo cospetto e furono esauriti fra di loro anche i convenevoli di rito, senza perdere tempo il capo del villaggio si diede a fargli il seguente discorso:

"Egregi signori, naturalmente non vi ho invitati nella mia dimora, solo allo scopo di darci una semplice stretta di mano oppure per augurarci una lunga vita, un’ottima salute e qualcos'altro del genere. Invece dovete sapere che, se mi sono permesso di radunarvi qui da me con una certa sollecitudine, ci sono stati dei seri motivi che mi hanno spinto a fare ciò. Adesso passo a chiarirvi ogni cosa. Ebbene, se voi foste d'accordo con me, sarebbe mia intenzione attuare il grande sogno della mia vita, quello che vado coltivando da moltissimi anni. Esso divenne parte di me, dopo che mio padre Ursito mi ebbe condotto con sé ad Actina per la prima volta. In tale città, come sapete, si adora l'eccelso Matarum con fede maggiore che nelle altre città dell’Edelcadia. Ma lascio da parte il suo lato religioso, il quale adesso qui non c'entra per niente, dal momento che intendo parlarvi di tutt'altro. Invece desidero farvi presente che le altissime mura turrite della Città Santa, come pure i suoi magnifici palazzi e la sua sontuosa reggia, produssero in me un immenso stupore.

Pensate che, anche a distanza di tantissimi anni, avverto in me quella meraviglia ancora intensa ed immutata! Da allora, perciò, non ho mai smesso di crogiolarmi nella dolce speranza che un giorno anche il nostro umile villaggio sarebbe potuto diventare città potente e rispettata. Inoltre, se il mio sogno dovesse realizzarsi, dopo potremmo anche dare inizio in essa ad un prestigioso regno. Così il nostro popolo sarebbe governato non più da un capo, quale sono io oggi; ma da un vero re, il quale si prenderebbe a cuore i suoi problemi. Al riguardo, vedo già la nostra futura città tutta splendida nei suoi disegni architettonici e coronata da solide mura guarnite di stupende merlature! Un’opera del genere, naturalmente, non sarà mai attuata senza la vostra solidarietà, la quale dovrebbe esprimersi con un sostanzioso contributo. Quindi, se siete disponibili a farvi carico di una parte delle spese che sono richieste per la realizzazione di un’opera così imponente, a breve termine darò avvio alla costruzione delle mura della nostra città. Esse dovranno cingerla con una circonferenza avente il diametro di cinque miglia. Vi prometto che qualsiasi somma verrà versata da ciascuno di voi, essa non costituirà un contributo a fondo perduto. Ogni anno egli potrà defalcarne una parte dai tributi che sarà tenuto a versare all'erario della nostra città; ma solo dietro una sua esplicita richiesta. In merito, preciso che la sua detrazione annuale non potrà essere superiore all’importo delle imposte a lui spettanti. Per la quale ragione, egli non dovrà versare alcun tributo, fino a quando verrà a sussistere la sua posizione creditizia nei confronti dell'erario della nostra città.

Dopo avervi messi a conoscenza delle condizioni a cui sarete assoggettati, nel caso di una vostra libera adesione alla costruzione della nostra futura città, vorrei sapere quanti di voi sono propensi ad assecondare il mio ambizioso progetto. Coloro che generosamente vorranno aderirvi, dovranno altresì dichiarare con quale somma intendono rendersi disponibili per la concreta realizzazione della nostra novella città."

Le parole di Kodrun non garbarono per niente ai loro destinatari. La maggioranza degli interpellati, mostrandosi quasi allibiti alla grandiosa proposta del loro capo, preferirono esprimersi con il linguaggio dei pesci. Quanto a quei pochi che vollero aprire bocca, lo fecero esclusivamente per piangere miseria. D'altronde, la condizione di indigenza, a cui essi grettamente avevano fatto riferimento, non poteva che dimostrarsi spudorata e mal simulata. Lo notò anche Lucebio, che era presente alla riunione per volere del suo capo. A suo giudizio, l'atteggiamento degli intervenuti stava ad evidenziare il loro netto dissenso con quanto gli aveva proposto il loro capo. L’adolescente lo aveva desunto dall'aria asettica con cui essi avevano accolto il nobile progetto di Kodrun, sebbene costui gliene avesse parlato con tutto l’ardore possibile. Senza dubbio, la loro implicita risposta ne metteva in mostra l'immensa taccagneria e la penuria di amor patrio, che facevano davvero spavento!

Di fronte alla insensibilità patriottica di quei sudditi benestanti e al loro attaccamento al denaro, Kodrun fu preso da uno sconforto assai preoccupante, fino a provarne un immenso dolore. Per questo l'amarezza e l’afflizione non tardarono a manifestarsi sul suo volto in modo abbastanza evidente. Allora Lucebio, vedendo che il suo amico stava soffrendo indicibilmente per colpa di quelle sordide canaglie, non seppe affrontare la situazione con la dovuta calma. Al contrario, sotto l'impulso di un raptus, l'adolescente non esitò a prendere una frusta che era appesa a una delle pareti. Con quella poi si diede a colpire gli antipatici ospiti di Kodrun, per essere venuti meno al loro dovere. Intanto che li frustava ripetutamente, mostrandosi alquanto irato, non si asteneva dal rampognarli con le seguenti parole: "Uscite all'istante da questa casa gloriosa, spilorci adoratori del dio denaro, che non siete altro! Sappiate che la vostra presenza l'ammorba fisicamente e la disonora moralmente! Forse sarebbe stato meglio che foste crepati tutti sotto il calcagno tangalo e foste rimasti ad imputridire nella polvere, come luride carogne in pasto agli avvoltoi! Voi, che siete persone totalmente prive di senso civico e di onore, lasciate subito questa nobile casa e liberatela dal vostro puzzo nauseabondo!"

Alla reazione di Lucebio, quelli che erano stati invitati nella sua casa dal loro capo, vedendo che egli permetteva al figlio di Chiorro di agire in quella rude maniera nei loro confronti e non interveniva a fermarlo, si affrettarono a sottrarsi alla sua vista. Mentre poi se la sgattaiolavano con la rabbia negli occhi, gli stessi apparivano colmi più di astio verso Lucebio che non di sentita vergogna per il loro atteggiamento spilorcio mostrato verso la nobile proposta di Kodrun.

Rimasto solo con il suo pupillo, dopo un attimo di esitazione, il capo di Litios non poté fare a meno di domandargli:

«Mi dici cosa ti ha preso, Lucebio? Sembravi un ossesso, intanto che scacciavi con modi assai violenti coloro che avevo invitato nella mia casa! In verità, da te non me lo sarei mai aspettato! Comunque, ti confesso che il tuo eterodosso comportamento nei loro confronti non mi è dispiaciuto per niente; anzi, mi ha risollevato in parte! Te lo garantisco!»

«O mio nobile capo,» gli rispose l'adirato adolescente «la gente va sempre trattata come si merita, sia che la si voglia premiare sia che la si intenda punire per emendarla. Come hai visto, non ho saputo resistere alla loro abietta condotta, la quale ha messo a nudo la loro assoluta mancanza di senso civico e di amor patrio. Io sono dell'avviso che le persone schiave del denaro e affatto patriottiche vadano affrontate e trattate con il dovuto disprezzo, seduta stante. Inoltre, sono convinto che quelle giuste devono essere accolte, caldeggiate e difese in ogni tempo e in qualsiasi circostanza. Anzi, ad esse occorre dare spazio e modo di poter crescere ed emergere nella società. Così tutti gli esseri umani, prendendo esempio da loro, oltre ad avvantaggiarsene, in pari tempo se ne faranno un abito mentale e virtuoso. Il quale potrà soltanto far migliorare il loro stile di vita.»

«Sei sicuro, Lucebio, di non essere pentito di quanto hai fatto nella mia casa? Oppure adesso nel tuo intimo c'è qualche ripensamento, dopo che in te è subentrata la ragione?»

«Certo che non sono pentito, capo Kodrun! Puoi stare tranquillo che l'atteggiamento, da me assunto poco fa nei confronti di quei farabutti, mi è stato dettato dalla voce della coscienza. Per cui non si è scontrato con alcun canone della liceità e della giustizia! Se ci tieni a saperlo, non esiterei a ripetere altre mille volte l'identico mio gesto di poc'anzi, se mi si ripresentasse la medesima circostanza ed avessi di fronte ancora delle persone del loro stampo! Lo farei, anche se tu non fossi d'accordo!»

«Lucebio, hai perfettamente ragione e sono anch'io convinto che il tuo comportamento è stato giusto ed appropriato; altrimenti, sarei intervenuto a fermarti. Ti paleso che, a un certo punto, esso mi ha perfino procurato sia sollievo che godimento; nonché mi ha fatto provare nell'animo una immensa soddisfazione. Prima, invece, mi stavo amareggiando più di quando morì la mia povera mamma Alcisia. Ti faccio presente che la poveretta si spense, dopo una lunghissima e tremenda agonia!»

Il giorno dopo, le stesse persone, che Lucebio aveva cacciato dall'abitazione del loro capo, fecero pervenire a quest'ultimo un loro messo per informarlo che erano disposte a dargli in donazione metà del loro patrimonio. In cambio, però, egli avrebbe dovuto far fustigare il saccente figlio di Chiorro sulla piazza d'armi, davanti a tutti i Litiosidi. Da parte sua, il capo del villaggio, a quella vile e turpe proposta, s'infuriò come una belva. Ma Lucebio cercò di fargli comprendere che essa in fin dei conti aveva un suo lato positivo, per cui poteva essere conveniente accontentarli. In quel modo, si assicurava al loro villaggio un futuro glorioso, facendolo diventare in avvenire una città potente.

Kodrun, pur essendo consapevole che con il suo reciso rifiuto sacrificava il grande sogno della sua vita, mandò a dire a quegli ignobili sciacalli che giammai avrebbe ceduto al loro ricatto, macchiandosi di un simile crimine. Inoltre, teneva a precisare ai proponenti dell'insulsa punizione a danno dell'adolescente Lucebio che la grandezza e il prestigio della città dei suoi sogni in nessun caso avrebbero avuto origine dal compimento di un tale imperdonabile misfatto. Esso poteva rintanarsi esclusivamente in cuori depravati come i loro! Invece l'una e l'altro avrebbero avuto come uniche basi quelle virtù civiche e patriottiche che albergavano nell’onesto e sensibile animo del suo pupillo. Alla fine concludeva, rinfacciando a tutti loro che non poteva fare a meno di condannare la loro bassezza d'animo e la loro abietta vigliaccheria. Al contrario, si sentiva spinto ad elogiare la nobiltà d'animo, la quale albergava nel figlio del defunto Chiorro.

La risposta di Kodrun, come possiamo constatare, fu molto sensata ed eticamente apprezzabile; ma soprattutto si mostrò degna di un grande capo e di un uomo dalla condotta irreprensibile. Dopo averla data, egli si sentì alquanto soddisfatto e nessun rimorso affiorò dalla sua coscienza neppure minimamente, non avendo alcuna cosa da rimproverarsi. All'opposto, l’egregio capo di Litios ebbe ad assaporare quei meravigliosi palpiti di gioia, che possono procurarci unicamente il senso della giustizia e l'abito dell'integrità morale.

Dopo che fu andato via il messo di quei Litiosidi che nel villaggio avevano il monopolio della ricchezza, Kodrun, che non aveva digerito la loro odiosa proposta, cercò di sfogarsi con l’amico adolescente che si trovava insieme con lui. Perciò incominciò a dirgli:

«Non avrei mai immaginato, Lucebio, che tutti i danarosi di Litios, sia i latifondisti che i commercianti, fossero di una grettezza così spregevole! Più di ogni cosa, mi ha sorpreso grandemente il contegno di alcuni di loro, che non mi sarei mai aspettato così riprovevole. È proprio vero che, prima di esprimere un giudizio equo ed irritrattabile su una data persona, bisogna frequentarla e metterla alla prova. Tu cosa mi dici in merito, mio buon amico? A ogni modo, io già lo so che la pensi esattamente come me!»

«Hai ragione, Kodrun, a dire che non si riesce mai a conoscere una persona abbastanza bene! Quando meno te l'aspetti, essa ti si rivela l'opposto di come pensavi che fosse. Ma ciò vale in entrambi i casi, cioè sia quando una persona ti sorprende negativamente sia quando essa ti stupisce positivamente. Comunque, ogni volta che bisogna farle cacciare del denaro, quasi sempre non puoi fare un totale affidamento anche su quella più fidata. Perfino i fratelli litigano fra di loro per interessi economici, per cui ognuno è pronto ad azzuffarsi con tutti gli altri, pur di non cedergli una inezia ereditata dal genitore. Eppure, da parte tua, era stata fatta a quei miserabili solo la richiesta di un semplice prestito a lungo termine e non di una donazione definitiva. Essi, però, ugualmente non hanno voluto sapere niente della tua splendida proposta!»

«È stato proprio così, Lucebio. Nonostante io abbia fatto presente alle persone convenute che il denaro gli sarebbe stato restituito negli anni avvenire, lo stesso esse si sono dimostrate delle taccagne canaglie, quali realmente sono. Si vede che esse lo sono sempre state nella loro vita e continueranno ad esserlo fino alla loro morte!»

«In questo momento, Kodrun, mi sto chiedendo se anche mio padre, trovandosi nel gruppo dei destinatari della tua richiesta, si sarebbe comportato allo stesso modo loro. Spero proprio di no, poiché non avrei voluto vederlo abbassarsi al medesimo livello di quei farabutti e meritarsi, al pari di loro, la mia riprovazione, oltre che la mia condanna inappellabile! Ma siccome il mio genitore non era più vivo, non lo si è potuto mettere alla prova. Allora, come figlio, non posso che continuare a riservargli la mia massima stima e la mia incondizionata fiducia. Perciò resterò sempre della convinzione che egli giammai si sarebbe macchiato di una bassezza così vile e meschina, se si fosse trovato nella tua casa insieme con gli altri possidenti del nostro villaggio!»

«Fai bene, Lucebio, a pensarla in questo modo nei confronti di tuo padre Chiorro! Sono più che convinto, anche da parte mia, che egli avrebbe risposto affermativamente alla mia nobile richiesta. Perciò sarebbe stato l'unico ad aderire al mio progetto. In lui venivano coltivati, parallelamente e con la stessa importanza, sia il focolare domestico che l'amor patrio. Puoi esserne certo che il tuo genitore giammai avrebbe preferito l'uno all'altro ideale, essendo consapevole che tale preferenza sarebbe poi servita a gettare fango su quello non prescelto o ripudiato. Egli considerava il focolare domestico alla stessa stregua dell'amor patrio e li avrebbe difesi entrambi a spada tratta. A costo di rimetterci tutte le sue ricchezze e la sua stessa vita! Te lo posso giurare, caro Lucebio, e fai bene a ritenere il defunto tuo genitore diverso dagli altri!»

«Te ne sono molto grato, mio buon Kodrun, per l'illimitata fiducia che riponevi nel mio genitore. Quanto a me, ti giuro che farò il possibile, perché tu non abbia mai a ricrederti su di essa o a pentirtene in qualche modo. Dunque, come figlio di Chiorro e sangue del suo sangue, contrariamente a quanti poco fa ti hanno messo in pessimo umore con la loro spilorceria, sono pronto a sacrificare tutti gli averi ereditati da mio padre. Per me è importante vedere realizzato il sogno che hai accarezzato per un sacco di tempo, il quale è di tutti i Litiosidi. In questo modo, siccome si dice che buon sangue non mente, dimostrerò che il mio genitore poteva essere soltanto una persona di sani sentimenti, se è riuscito a trasmetterli all'unico figlio che ha avuto dalla moglie, il quale sarei io! Comportandomi come ho detto, lo farò contento, anche mentre trascorre l'altra esistenza!»

«Lucebio, fra tutti i Litiosidi, sei il solo a non essere né civilmente né moralmente obbligato verso il nostro villaggio. Tu gli hai offerto ciò che nessuno mai gli avrebbe potuto dare, me compreso. I suoi abitanti dovranno esserti eternamente riconoscenti, avendoli salvati da una morte certa. Senza il tuo piano geniale, oggi rimarrebbero di Litios esclusivamente poca cenere e scarsi ruderi bruciacchiati. Mentre tutti noi giaceremmo al suolo, ormai ridotti in cadaveri putrescenti, se prima non fossero intervenuti gli avvoltoi a trasformarci in scheletri spolpati. Per questa ragione, puoi tenere per te l'invidiabile patrimonio che hai ereditato dal tuo integerrimo e generoso genitore, ossia l'infaticabile allevatore di cavalli, che è stato Chiorro.»

«No, capo Kodrun, io intendo spenderlo interamente per la realizzazione del tuo sogno, il quale adesso è diventato pure mio. Perciò anch'io non avrò pace, fino a quando il nostro umile villaggio non sarà diventato la più temuta e la più rispettata città dell'Edelcadia! È questa la mia volontà e nessun'altra! Mi sono spiegato?»

«Ammiro il tuo altruismo e il tuo amor patrio, Lucebio. Ma per come si sono messe adesso le cose, il tuo capitale, benché si presenti assai cospicuo, non riuscirebbe a coprire le intere spese richieste dalla costruzione della città. Anzi, non sarebbe bastevole nemmeno per fare erigere le mura che dovrebbero cingerla. Ciò che noi due possiamo permetterci oggi è soltanto augurarci tempi migliori, cioè quelli che ci consentiranno di concretizzare il nostro sogno. Perciò, per la felicità di entrambi, speriamo che il buon dio Matarum li faccia presentare al più presto possibile a vantaggio nostro e del nostro popolo! A questo punto, conviene raggiungere la cucina per desinare, poiché la mia Lurella di sicuro avrà già apparecchiato la tavola per il pranzo. Ammesso che l'unigenito mio figlio Cloronte, che ieri ha compiuto cinque anni, non l’abbia obbligata a restare lontana dalle pentole, tenendola impegnata invece in altre faccende più del necessario! Come sai, egli ne sarebbe davvero capace!»

«Questa sì che è un'ottima idea, amico mio Kodrun! Devo confessarti che già aveva cominciato a perseguitarmi una fame da lupo. Inoltre, non vedo l'ora di rivedere quello sbarazzino di tuo figlio, al quale mi sono affezionato morbosamente, come se egli fosse davvero il fratello minore che non ho mai avuto. Cloronte, nonostante abbia una tenera età, ti assicuro che, se venisse a trovarsi in mezzo ad un esercito, sarebbe capace di far tribolare i suoi numerosi soldati, facendoli impazzire tutti, dal primo all'ultimo!»


Sei giorni dopo, l'alba era appena spuntata, quando Lucebio si precipitò a svegliare Kodrun, poiché aveva premura di parlargli. Il capo di Litios, trattandosi del suo diletto pupillo, accolse l'incomodo per niente infastidito. Perciò, anziché mettersi a borbottare per l'ora inopportuna in cui l'adolescente gli stava arrecando disturbo, si andava domandando con insistenza che cosa mai lo avesse indotto a destarlo così presto. Comunque, conoscendolo molto bene, egli era convinto che soltanto una ragione abbastanza seria poteva averlo indotto a saltare giù dal letto così presto. Nello stesso tempo, il figlio di Ursito si augurava che egli fosse andato a recargli una notizia bella e non brutta! Quando poi il figlio del defunto Chiorro fu al suo cospetto, vedendo che l'adolescente si mostrava molto ansioso di parlargli, il capo di Litios gli si espresse con queste parole:

«Vuoi dirmi, Lucebio, quale motivo ti ha sollecitato a svegliarmi, quando l'alba è appena spuntata? Comunque, sono sicuro che, se hai voluto contattarmi a quest'ora del mattino, uno ce ne sarà senza meno! Anzi, trattandosi di una tua visita alquanto mattiniera, esso dovrà essere pure assai valido! Perciò raccontami quanto hai da riferirmi, per favore.»

«Mio buon Kodrun, come anche tu hai supposto, è di una certa rilevanza la ragione, che mi ha spinto a venire da te. In verità, avrei dovuto parlarti di ciò che mi era successo già due giorni fa, quando mi è capitato la prima volta. Ma prima volevo convincermi che non era un sogno oppure un'allucinazione l'episodio che veniva a coinvolgermi, puntualmente allo spuntare dell’alba. Ora comprendi la mia inopportuna visita?»

«Mi riferisci, ragazzo, quale episodio ti è accaduto sia oggi che nei due precedenti mattini, quando giacevi ancora nel tuo letto? Trovo strano il fatto che tu non me ne abbia parlato durante il giorno, considerata l'eccezionalità di quanto ti era successo. Adesso, però, tenuto conto che mi hai molto incuriosito, mettiti a rapportarmi ogni cosa!»

«Un fatto davvero incredibile, grande Kodrun, mi è capitato per tre mattini consecutivi. Tutte le volte mi sono ritrovato desto, poco prima del canto del gallo. Ma poi, mentre cercavo di riaddormentarmi, mi sono giunte all'orecchio le seguenti parole: "Mio caro Lucebio, io sono Gonmo, il tuo babbo che tanto ti vuole bene. Tu devi correre subito dal capo di Litios e gli devi narrare in ogni particolare in che modo sfuggisti al Tangalo, che ti inseguiva sulle pendici dell'altopiano. Se farai ciò, il nostro villaggio diventerà celebre e si compiranno i gloriosi destini di Litios!"»

«Allora mi dici, caro Lucebio, perché non hai ubbidito al tuo genitore già il primo giorno in cui egli ti ha sollecitato a condurti da me? Che cosa ti ha impedito di farlo?»

«Non l'ho fatto, Kodrun, perché non ho dato alcun peso a tale episodio mattutino. Pur lasciandomi esso perplesso per taluni suoi aspetti, l’ho sempre considerato un semplice prodotto della mia attività onirica. Poco fa, invece, dopo aver udito per la terza volta la solita voce, mi sono anche sentito tirare giù dal letto da qualcuno. Ma una volta in piedi, ho avuto la sensazione che venissi strattonato da una persona, la quale un istante dopo mi ha aggiunto: "Lucebio, adesso stesso vai da Kodrun e riferiscigli quanto ti ho detto!" Perciò eccomi qui da te, disposto ad eseguire la volontà del misterioso fantasma, il quale si è addirittura spacciato per mio padre. Adesso conosci il motivo che mi ha costretto a svegliarti in questa ora insolita!»

Kodrun, dopo aver udito ciò che era accaduto all’adolescente nei tre giorni appena trascorsi, volle rassicurare l'amico:

«Lucebio, tu non sei stato vittima di un'allucinazione. Il misterioso essere, che ti ha parlato ed ha preteso che ti precipitassi da me, era davvero tuo padre. Egli intende darci una mano nella realizzazione del nostro splendido progetto, anche se non so ancora in che maniera! Forse la risposta ci verrà data da quello che tuo padre ti ha esortato a raccontarmi. Ecco come stanno realmente le cose!»

«Ma sai anche tu, mio nobile Kodrun, che mio padre si chiamava Chiorro e non Gonmo!» gli obiettò Lucebio «Forse è abitudine delle persone morte cambiare nome nella loro vita ultraterrena? Se avviene ciò, dopo che siamo morti, lo ignoravo completamente, poiché non lo avevo mai sentito dire dai miei genitori e da nessun altro! Allora vuoi essere tu a spiegarmelo e a convincermi che egli era davvero mio padre?»

«Invece non è affatto così, Lucebio,» lo contraddisse Kodrun «il tuo genitore naturale, il quale fu ucciso dai Tangali tredici anni fa, si chiamava proprio Gonmo. Anche la tua povera madre Raida fu barbaramente assassinata insieme con lui. Chiorro e Iterna, invece, non erano altro che i tuoi genitori putativi. Essi avevano voluto adottarti con grandissimo amore nello stesso giorno che i tuoi genitori naturali morirono ammazzati. Dunque, riferiscimi alla svelta sull'increscioso incontro che avesti con il Tangalo sul fianco dell'altopiano! In esso, secondo quanto afferma il tuo defunto padre, dovrebbe esserci la chiave che farà toccare al nostro popolo i fastigi della gloria. Ma ora, mio grande genio, mettiti a raccontarmi senza indugio l'episodio da lui indicato, senza tralasciare neanche il particolare più insignificante. Solo così avremo modo di trovare tale chiave, la quale, a quanto pare, esiste sul serio e mi permetterà di realizzare il sogno di una vita, che da poco è diventato pure tuo!»

Lucebio si sentì molto lusingato di avere ancora una volta un ruolo preminente nei destini di Litios, specialmente adesso che c'era in gioco la realizzazione del grande sogno di Kodrun, che egli da alcuni giorni considerava anche suo. Ecco perché subito si mise a completa disposizione del suo capo, iniziando a fargli un ampio resoconto della vicenda ed esibendosi con un racconto circostanziato e preciso.

«Grande Kodrun, i fatti riguardarono la mia venuta da te, quando l'ingente esercito tangalo era accampato ai piedi dell'altopiano di mio padre. Essi si svolsero come ora te li espongo. Avendo deciso di venire a chiederti l'aiuto che conosci, mi diedi a discendere lo stradone. Ma al di là del terrapieno, mi trovai in presenza di due sentinelle tangale, le quali si davano ad un continuo andirivieni. Tale movimento le faceva incrociare dopo ogni cento passi, cinquanta di andata e altrettanti di ritorno. Esse, volgendosi le spalle subito dopo essersi incrociate, non potevano vedersi per l'intero loro tragitto di andata. Decisi allora di approfittare di quel lasso di tempo per intervenire contro il Tangalo che mi stava più vicino. Perciò, dopo aver raccolto un grosso sasso da terra, lo aggredii alle spalle e lo colpii con esso energicamente alla nuca. La mia brusca azione offensiva, però, non sfuggì alle orecchie dell'altro Tangalo, le quali, dopo averla intercettata, lo fecero subito voltare indietro. Scorgendo poi il suo commilitone stramazzare al suolo senza vita, in un attimo egli brandì la spada e si scagliò contro di me, a guisa di un orso stuzzicato, con l'intenzione di accopparmi e vendicare il compagno. Allora, vedendo che le cose per me si mettevano male, nobile Kodrun, ritenni giusto scappare in fretta da quel luogo e trovare rifugio nella boscaglia, che ammantava il versante situato sulla mia destra. Il sottobosco, fortunatamente, anche se era un po' disagevole, consentiva una discreta percorribilità. Il guaio sarebbe stato se mi fossi lanciato sul lato sinistro, dove la vegetazione si inerpicava lungo un greppo scosceso, che ne impediva in modo assoluto l'accesso e un'agevole transitabilità.»

«Lucebio, cosa ti successe, dopo esserti lanciato nella boscaglia?»

«In seguito, siccome il Tangalo non mi dava tregua con il suo inseguimento, decisi di nascondermi in una tetra spelonca, che avevo incontrata sul mio percorso, della quale avevo sempre ignorato l'esistenza. Poco dopo, però, anche il mio inseguitore raggiungeva l'antro e vi si inoltrava, avendo sospettato che mi ci fossi nascosto. Ma quando egli fu al suo interno, lo sentii esclamare: "Questa è una miniera d'oro!" Alla sua esclamazione gioiosa, seguirono subito dopo uno straziante urlo di morte e il tonfo di un corpo che stramazzava al suolo. L'uno e l'altro mi fecero intuire che il mio inseguitore era piombato a terra privo di vita.»

«Lucebio, prima di uscire dalla caverna, controllasti se egli era morto sul serio per averne la certezza?»

«Certo che no, mio prode capo! Essendomi persuaso che lì dentro doveva nascondersi una insidia mortale, stabilii di riversarmi di corsa all'esterno di essa. Una volta che ne uscii, prima badai a recuperare il mio cavallo, che avevo lasciato all’inizio dello stradone, e successivamente raggiunsi con sollecitudine il tuo accampamento.»

Quando l'adolescente ebbe terminato la sua minuziosa e soddisfacente narrazione, Kodrun, abbracciandoselo lietamente, gli gridò forte:

«Presto, Lucebio, raggiungiamo subito la spelonca che si trova sul tuo altopiano. Essa, a quanto pare, è la depositaria della fortuna di Litios! Voglia il cielo che quella sera il Tangalo non abbia preso nessun abbaglio, quando parlò del metallo giallo! Oggi, per realizzare il nostro bellissimo sogno, ci occorre proprio una miniera d'oro. Essa, secondo il defunto tuo genitore, senza meno ci sta aspettando a braccia aperte per farci diventare ricchi e permetterci di costruire la nostra città!»

«Sì sì, amico mio Kodrun!» gli fece eco Lucebio «Siccome ne abbiamo una grande necessità, corriamo subito ad accertarci che la miniera d'oro c'è sul serio nell'antro! Essa ci serve per fare assurgere a città potente il nostro villaggio e per dare ai nostri alleati fedifraghi la lezione che si meritano. Non scordiamoci che essi ci hanno sempre rifiutato di darci una mano, ogni volta che ne abbiamo avuto un disperato bisogno!»

Più tardi, stando l'uno al fianco dell'altro, Kodrun e Lucebio si diedero a cavalcare rapidamente verso l'altopiano, considerato che esso prometteva una immensa fortuna. Dopo che ne ebbero scalato una metà, raggiunsero l'antro che, stando alle parole del defunto Gonmo, era il depositario di una ingente quantità d'oro. All'interno, essi trovarono il corpo già putrescente del Tangalo, il quale, con molte probabilità, era rimasto vittima di qualche scorpione velenoso. Come previsto, oltre a scorgere quel corpo già in decomposizione che emanava un cattivo odore, i due visitatori si resero conto della presenza in esso di un filone aurifero di considerevoli proporzioni. E siccome si poteva già fare una valutazione della preziosa miniera, si stimò che da essa si sarebbe potuto estrarre oro a non finire, di sicuro abbastanza per rendere reale il sogno che essi coltivavano nel proprio animo.

Alla vista di quelle pareti luccicanti, Kodrun assaporò una gioia immensa ed abbracciò intensamente Lucebio, come per dimostrargli la sua più profonda gratitudine. In quella circostanza fantastica, a nessuno dei due veniva la voglia di parlare. L'incredibile commozione, la quale era esplosa in entrambi all'improvviso, li teneva intenti agli stessi stupendi progetti futuri e vi inibiva ogni tipo di conversazione. Quando infine l'acme della felicità nell'animo dei due amici si abbassò ad un livello ragionevole, venne a normalizzarsi il loro sovreccitato stato psichico. A quel punto, essi non poterono fare altro che ritornarsene al loro villaggio in preda alla felicità più sentita. Ma erano anche desiderosi di recare la bella nuova agli abitanti del villaggio, la quale li avrebbe resi assai lieti.

Una volta a Litios, Kodrun fu dell'idea che tutti i Litiosidi dovevano essere messi a conoscenza della scoperta del filone aurifero scoperto sulle falde dell'altopiano. Egli volle anche far presente a tutti loro che, siccome quell'altura era stata di proprietà del defunto allevatore Chiorro, automaticamente quell'insperabile fortuna andava al figlio Lucebio. Costui, infatti, per successione diretta, ne risultava l'erede universale e l’unico proprietario. A quelle due belle notizie, la maggioranza dei Litiosidi ne fu più felice che mai; mentre non l’appresero con lo stesso umore allegro le pochissime persone, che possiamo bene immaginare quali fossero. Nello stesso tempo, gli abitanti del villaggio si compiacevano tantissimo dell'incredibile sorte favorevole toccata al loro beniamino, il quale risultava essere anche il loro ex salvatore.

Lucebio, da parte sua, si rifiutò di disporre anche della più piccola parte dell'incredibile fortuna ereditata dalla sorte. In quella stessa assemblea pubblica, l’adolescente annunciò che, con la sua immensa ricchezza, egli intendeva perseguire due obiettivi: uno di carattere umanitario e l'altro di carattere civico. Con il primo, il ragazzo si prefiggeva di riscattare dall'infima indigenza quanti ne erano vittime; con il secondo, invece, intendeva fare assurgere il suo villaggio a città potente e temuta. Essa avrebbe dovuto superare le altre otto città edelcadiche tanto nello splendore quanto nell'importanza, dopo che vi si fosse instaurata una prestigiosa monarchia. Insomma, Lucebio desiderava ardentemente che divenissero delle realtà concrete i due straordinari sogni, che l'amico capo Kodrun si teneva nel cassetto da una infinità di tempo. Egli si era dato a coltivarli con amore ogni giorno, senza mai smettere, siccome traeva da essi una gioia sovrumana. Nello stesso tempo, dalla loro realizzazione anch’egli ne avrebbe ricavato una gioia immensa; inoltre, sarebbe stato orgoglioso di tale opera grandiosa.


Un quinquennio dopo, Litios aveva smesso di essere l'umile villaggio di un recente passato ed era diventato la città più grande e più splendida di tutta l'Edelcadia. Il suo primo re, che non poteva essere che Kodrun, ossia l'ex capo dello scomparso villaggio di Litios, aveva voluto dare ad essa il nome di Dorinda, il cui significato era "la città sorta grazie all'oro". Tra poco, quando andremo ad esplorarla in lungo e in largo, potremo anche renderci conto di tutte le sue caratteristiche, le quali si presentavano insuperabilmente mirabili e straordinarie.

La maestosità dei sontuosi edifici e dei suoi monumenti, nonché la luminosa spaziosità delle sue strade principali, rendevano la novella città superba ed affascinante. Essa era cinta di mura ciclopiche ed inespugnabili, la cui estensione perimetrale superava le venti miglia; mentre il loro coronamento si stagliava nel cielo con due diversi ordini di merlature, l'uno e l'altro di raro valore architettonico. Soprattutto la reggia di Kodrun si presentava molto favolosa e di un fasto eccellente! L’avevano costruita alcuni rinomati architetti fatti venire dalla remotissima Edia, che era considerata la culla dell'architettura più ardita ed avanguardistica. Perciò vi erano stati profusi i marmi più pregiati esistenti al mondo. Questi, con le loro venature policrome dai meravigliosi effetti chiaroscurali, conferivano ad essa uno splendore più unico che raro. Inoltre, la città di Kodrun disponeva di un potente esercito, il quale, per espresso volere del suo sovrano, si avviava a diventare il più agguerrito degli eserciti esistenti nell'Edelcadia, se non lo si poteva ancora stimare tale.

Prima ancora che venissero gettate le fondamenta delle mura di Dorinda, Kodrun, consigliato da Lucebio, aveva inviato dei messi in tutte le città edelcadiche, affinché vi facessero propalare alcune allettanti voci. Con le quali, egli faceva sapere ai loro abitanti che avrebbe garantito una regolare retribuzione, da corrispondersi ogni decade, a chiunque avesse posto a disposizione della sua erigenda città le proprie capacità di artigiano provetto oppure la propria professionalità attinente ad uno qualsiasi dei settori dell'edilizia. La stessa garanzia veniva estesa anche a coloro che avessero prestato la propria opera di manovalanza nell'edificazione della sua Dorinda, la quale era già in fase di attuazione.

Al termine dei lavori, gli uni e gli altri avrebbero anche acquisito il diritto alla cittadinanza dorindana e ad uno stabile decente, dove potere alloggiare in modo permanente. Allora quelle notizie non avevano tardato a dare i loro frutti sperati. Infatti, simili a schiere di formiche che si affrettano a raggiungere l'avvistata preda per ricavarne un pingue bottino, da tutte le città edelcadiche erano cominciati ad affluire a Dorinda lunghissimi cortei di persone che erano formati da intere famiglie.

Nei disegni del generoso Kodrun, oltre ad intravedervi una vita più decorosa, esse vi scorgevano l'opportunità di uscire dalla loro grama esistenza, quella che erano costrette a condurre nelle loro città di origine per colpa dei loro sovrani senza cuore. Ad un così massiccio esodo di sudditi dalle loro città, i vari re dell'Edelcadia non si erano affatto allarmati oppure impensieriti in qualche modo. A dire la verità, essi, fatta eccezione del re di Actina, ne erano stati felicissimi, ma solo perché osservavano che Kodrun finalmente aveva cominciato a rinsavire. Il motivo? Egli, a loro parere, li stava liberando dal lezzo nauseabondo, che poteva solo provenire da un esercito di persone povere e pidocchiose.

Erano trascorsi poco più di tre mesi dall'ultimazione dei suoi vari lavori, quando la novella città di Dorinda venne inaugurata con solenni festeggiamenti, i quali si protrassero per trenta piacevoli giorni consecutivi. Tutta la cittadinanza vi prese parte con rumorosa allegria, divertendosi come non era mai successo in Litios. In special modo, essa trovò un immenso piacere nell'assistere alle grandiose parate che si tenevano per le strade e agli spettacolari tornei. Si era stabilito che questi ultimi, che si svolgevano nell'arena del circo, anche se erano stati indetti in occasione dell'inaugurazione di Dorinda, si sarebbero invece dovuti rinnovare in città ogni anno, poiché essi avrebbero dovuto servire pure a designare annualmente nella loro città la "primadonna dell'anno".

Ritornando alla festività in corso, l'ebbrezza e la vivacità, che venivano dettate da essa, raggiunsero perfino le piazze e le strade dei quartieri più popolari, dove i festosi schiamazzi diurni e notturni della gente si avvicendavano senza sosta. Spesso essi si accompagnavano ad atti sconci e a frasi triviali, per il semplice fatto che alcuni, sotto l’effetto del vino, non riuscivano a farne a meno in quella particolare circostanza. La quale non poteva che spingere la gente a divertirsi, senza che essa si curasse minimamente della moderazione e della decenza.

Kodrun aveva invitato ai solenni festeggiamenti di inaugurazione anche i re delle restanti città edelcadiche; invece nessuno di loro si era degnato di parteciparvi. Ma a differenza degli altri sovrani edelcadici che si erano ricusati perfino di rispondere al suo invito, il nobile Nortano, re di Actina, aveva fatto pervenire a Dorinda una sua delegazione. Con essa egli aveva fatto giungere al sovrano di Dorinda anche le proprie scuse, per non poterli presenziare di persona per motivi di salute. Naturalmente, l'assenza immotivata dei restanti re dell'Edelcadia non era piaciuta a Kodrun. Secondo il suo giusto punto di vista, essa, oltre a denotare una evidente manifestazione di invidia da parte loro nei suoi confronti e verso la sua città, si era dimostrata un grave affronto alla sua persona. Per questo egli si riprometteva di fargliela pagare alla prima occasione propizia, augurandosi anche che essa non si presentasse molto tardi. Magari avrebbe intrapreso a breve termine una guerra punitiva contro quei sovrani che già gli si mostravano ostili senza neppure una ragione plausibile. Così ne avrebbe fiaccato la protervia e li avrebbe costretti a trattarlo con il dovuto rispetto, quello che si conveniva ad un grande re come lui! Con quel suo proposito era d'accordo anche Lucebio, ritenendolo motivato e doveroso sotto ogni aspetto.