67-LUCEBIO RIVIVE ALCUNI EPISODI DEL PASSATO

Il primo ricordo riportò Lucebio ad un lontano mattino di primavera. A quell'ora del giorno, come di consueto, egli stava impartendo le sue lezioni al piccolo Iveonte, che era il figlio maggiore del re Cloronte. Il sovrano di Dorinda, che possedeva il più grande regno dell'Edelcadia, gli aveva affidato il proprio primogenito, allo scopo di fargli ricevere da lui un'ottima educazione. Siccome il tenero allievo di cui si prendeva cura aveva compiuto da poco i sei anni, con le sue lezioni, egli cercava di erudirlo nei primi rudimenti del sapere. Nello stesso tempo, mirava a trapiantare nel suo animo innocente i preziosi semi del bene, della giustizia, della religione, della morale, dell'onore, del coraggio, della fermezza e dell'intraprendenza. A un certo momento, quando il suo docente meno se lo aspettava, il ragazzo aveva voluto interromperlo, poiché gli premeva fargli la seguente domanda:

«Lucebio, esistono per davvero i mostri, come vengono descritti da alcune persone? Oppure possiamo sentire parlare di loro solamente nelle fiabe? Sai, me lo sono chiesto parecchie volte; ma non sono mai riuscito a darmi una risposta da solo! Per questo vorrei che fossi tu a rispondere a tale mia domanda, chiarendomi ogni cosa su di loro.»

«I mostri esistono realmente, mio caro Iveonte, anche se non sono quelli fantastici, dei quali si sente parlare nelle favole! Pensa che alcuni sono assai tremendi, per cui hanno un corpo spaventoso, ossia smisurato e deforme. A volte un mostro può raggiungere perfino la grandezza di una stanza! Povere quelle persone che hanno la disavventura di imbattersi in tali mostruosi esseri! I malcapitati, come puoi immaginare, vanno incontro ad una fine orrenda in poco tempo!»

«Secondo te, Lucebio, può un audace guerriero uccidere un mostro? Oppure non gli è possibile? Anche a quest'altra domanda mi è stato difficile rispondere. Per fortuna ho te, che sei un cervellone e riesci a dare la risposta ad ogni mio quesito. Anche a quelli più difficili!»

«Iveonte, se ci riferiamo a un semplice guerriero, quello che è solo un combattente valoroso, trovo difficile che egli possa sconfiggere un vero mostro. Invece colui che intende affrontarlo ed ammazzarlo deve essere un grande eroe, siccome costui è l'unica persona che può batterlo ed ucciderlo con la sua forza straordinaria! Adesso lo sai anche tu.»

«Ma non mi hai detto, Lucebio, chi è un eroe. Anche se spesso ho sentito citare da altri questo termine, non sono mai riuscito a comprenderlo nel suo vero significato. Magari lo avrò solo confuso con un guerriero intrepido e invincibile! Perciò tuttora ignoro chi egli sia! Per favore, vuoi darmi tu la sua esatta definizione, perché io l'apprenda una buona volta per sempre? Dopo avermela data, ti ringrazierò infinitamente!»

«L'eroe, Iveonte, è un guerriero temerario, il quale è portato a sfidare tutti i pericoli esistenti; inoltre, è dotato di una forza fuori del comune e di un coraggio, che solamente pochi guerrieri hanno. Allo stesso tempo, egli possiede un'acuta intelligenza ed una vasta esperienza nel maneggio delle armi. Devi sapere che gli eroi quasi sempre si mettono a disposizione della gente sventurata, quella che ha bisogno del suo aiuto per liberarsi dall'oppressione di chi la fa soffrire!»

«Allora, Lucebio, da grande, mi piacerebbe essere un eroe: il più forte di tutti, naturalmente! In questo modo, sarò in grado di uccidere uno di quei mostri che terrorizzano i bambini della mia età nei loro sogni oppure li fanno spaventare, soltanto a nominarli! Credi tu che io, quando sarò adulto, riuscirò a diventarlo? Sarei molto felice, se ciò accadesse!»

«Se ti comporterai come i tuoi illustri antenati Litiore e Kodrun, sono sicuro, Iveonte, che sarai più che un eroe! Anzi, sono convinto che supererai tutti e due i tuoi avi da me citati. Lo sai perché? Alcuni sogni premonitori hanno previsto che, quando sarai maggiorenne, diverrai un eroe invincibile, che nessuno mai sarà in grado di superare in ogni tempo. Sei contento adesso, dopo che hai appreso da me questa bellissima notizia, la quale ti può fare unicamente onore?»

«Come potrei non esserlo, Lucebio! Anch'io stanotte ho fatto uno strano sogno; però non so se è bello oppure è brutto. Desideri che te lo racconti, mio buon amico? Forse è meglio che non lo faccia, poiché vedo che oggi sei più stanco degli altri giorni, per cui probabilmente ti seccherà parecchio ascoltarlo. Oppure mi sto sbagliando?»

«Certo che non è così, ragazzo mio! Per questo pretendo che tu mi racconti il tuo sogno. Non immagini neppure quale piacere mi farai nel riferirmelo! Su, comincia a parlarmene, per cortesia!»

All'invito del suo precettore, il quale gli era apparso quasi una pretesa, senza perdere un attimo di tempo, il principino si era messo a raccontargli il suo strano sogno.

[Ebbene, Lucebio, ho sognato che si svolgeva una grande festa qui nella reggia di mio padre, la quale, essendo notte, si presentava interamente illuminata dalle torce dei molti candelabri. Mentre gli invitati stavano nel patio a mangiare e a bere, io girovagavo in mezzo a loro, divertendomi un mondo. All'improvviso, nel cielo è comparsa una stella luminosa, alla cui apparizione, i commensali hanno esultato di gioia e si sono messi a gridare: "Viva Dorinda e il suo re Cloronte!" Un attimo dopo, al fianco della prima stella, ne è apparsa una seconda. Essa ha fatto reagire di nuovo con esultanza i festeggianti, i quali hanno gridato ancora la medesima frase. Il fenomeno, così, è continuato a ripetersi senza variazioni. Ma prima che l'ottava stella venisse a collocarsi al fianco delle altre sette, mi sono visto assalire da un'ombra nera. La quale, dopo avermi avvolto interamente, mi ha trascinato via e mi ha portato in un luogo appartato, costringendomi così a restarvi con la forza. Comunque, pur restando in quel posto, non mi è stato vietato di scorgere sia la comparsa delle successive stelle sia la reggia di mio padre, dove sono seguitati ad esserci grandi festeggiamenti e bagordi.

Dopo un breve lasso di tempo, c'è stata l'apparizione di un'altra stella identica alle precedenti. Anch'essa è stata accolta con grida di festoso giubilo. Con l'arrivo del nono astro splendente, però, la reggia ha subito un radicale mutamento. All'istante in essa si è fatto buio pesto, come pure non ci sono state più le gioiose grida dei numerosi convitati. È stato in quella circostanza che è apparsa sopra la reggia una tigre alata, la quale immediatamente è stata aggredita alle spalle da un drago bianco con sette teste. Esso allora si è messo ad azzannarla, fino a quando non l'ha vista precipitare giù nel vuoto sottostante. Comunque, la sua precipitosa caduta a terra non ha arrecato la morte alla poveretta. Accaduto anche un simile episodio, le stelle hanno ricominciato ad aumentare di numero. Quando però è apparso il ventiseiesimo astro, l'ombra, la quale mi teneva prigioniero, si è trasformata all'istante in un drago nero. Esso, che era di grandezza doppia del drago bianco e teneva una unica testa, si è scagliato contro quest'ultimo e lo ha incatenato. Eseguito tale incatenamento, il drago nero è ritornato da me, naturalmente sempre con l'intento di impedirmi di raggiungere la vicina reggia di mio padre. Ma poi le stelle hanno ripreso ad aumentare di numero.

Quando infine nel cielo c'è stata l'apparizione della ventinovesima stella, mi sono visto davanti un guerriero a cavallo. Egli mi ha chiesto perché me ne restavo tutto solo in un posto simile a quell'ora di notte, anziché decidermi a rientrare in casa. Allora gli ho risposto che non dipendeva da me. Anzi, io desideravo raggiungere i miei genitori nella reggia; però c'era il drago nero che mi obbligava a restare lontano da loro. Appreso ciò, il guerriero è venuto in mio soccorso ed ha affrontato temerariamente l'antipatico drago. Così, combattendo contro di esso, alla fine lo ha battuto ed ucciso. Poco dopo, sorridendomi, egli mi ha fatto salire sulla groppa del proprio cavallo e si è rimesso in cammino con l'intenzione di riportarmi a casa mia. Mentre galoppavo insieme con lui verso la reggia, un fatto nuovo ha attratto la mia attenzione. In mezzo ad un cerchio di ventinove stelle, è ricomparsa nel cielo la tigre alata. Le stava accanto il drago bianco, affrancato oramai da ogni catena. Questa volta, però, anziché darsi ad azzannare la tigre come aveva fatto in precedenza, esso le leccava dolcemente il collo, in segno della sua gratitudine e del suo affetto.

Giunti infine davanti alla reggia di mio padre, ho fatto presente al prode guerriero che ero arrivato a casa mia. Egli allora mi ha risposto che ne era a conoscenza ed ha aggiunto che la reggia era anche la sua dimora. Allora ho domandato al mio liberatore chi fosse e perché non lo avessi mai incontrato a corte. Di risposta, il cavaliere mi ha dichiarato che era Iveonte, il primogenito del re Cloronte e l'erede al trono di Dorinda. Siccome il padre aveva abdicato in suo favore, egli andava appunto ad occupare il seggio regale, il quale adesso gli spettava di diritto. Quella inattesa sua dichiarazione mi ha indispettito così tanto, che mi ha fatto svegliare di colpo.]

Avendo terminato di narrare la sua interessante esperienza onirica, Iveonte, desideroso di avere da lui un parere su di essa, si era rivolto al suo docente e gli aveva domandato con molta ansia:

«Dunque, Lucebio, come trovi il mio sogno di stanotte? Io non so come interpretarlo. Dimmi tu qualcosa su di esso perché, trovandolo complicato, non riesco a dargli una valida interpretazione!»

«Mi sembra un sogno grandioso, Iveonte, anche se non adatto ai bambini. Ma hai ragione a dire che esso si presenta alquanto complesso; per cui neppure io riesco a capirci un accidente. Perciò, allo stesso modo tuo, non so se considerarlo di buon auspicio oppure il contrario. Più tardi pregheremo il nostro amico comune, che è Virco, di spiegarcelo. Vedrai che, in qualità di oniromante di vasta esperienza, egli saprà rivelarci senz'altro il suo oscuro significato! Quindi, attendiamo che egli ce lo interpreti, prima di rallegrarci di esso oppure di lamentarcene!»

Proprio in quel momento, l'oniromante di corte si era presentato a loro due, poiché intendeva proporre al suo grande amico un quesito di natura teologica, che gli risultava assai ostico. Mentre poi veniva avanti per raggiungerli, Lucebio, mostrandosi felice, gli aveva esclamato:

«Càpiti qui a fagiolo, Virco, grande amico mio! Io e il mio discepolo Iveonte proprio adesso abbiamo un gran bisogno di te! Perciò, dal momento che ti trovi presso di noi, prepàrati a metterti a nostra completa disposizione! Anzi, non azzardarti nel modo più assoluto a rifiutarci il tuo aiuto, se vuoi continuare a considerarti il nostro migliore amico!»

«Posso sapere, Lucebio, per quale motivo la mia presenza risulta essere preziosa ad entrambi?» Virco gli aveva chiesto meravigliato.

«Te lo dico immediatamente, insuperabile oniromante! Il nostro principino Iveonte, durante la scorsa notte, ha fatto un sogno incredibile e difficile da interpretarsi. Siccome nessuno può farlo meglio di te, ti preghiamo di aiutarci a comprenderne il criptico significato! Allora sei tu disposto a venirci incontro? Che stupido che sono stato, a chiedertelo! Come potresti rifiutarti di farlo, essendo stati noi due a chiedertelo?»

«Infatti, Lucebio, giammai potrei negare qualcosa proprio a voi, che siete i miei amici preferiti! Dunque, non appena mi avrete raccontato il sogno con molta chiarezza, senza indugio mi darò ad appagare la vostra ansia, dandomi a spiegarvelo con la mia immensa bravura!»

Quando il saggio uomo aveva terminato di raccontargli il sogno del ragazzo, Virco si era dato a spiegarlo nel modo seguente:

«Prima di tutto, Lucebio, c'è da far presente che questo sogno mostra un suo lato oscuro e misterioso, anche se una spiegazione logica può essere data a gran parte di esso. Senza dubbio, le stelle rappresentano gli anni del nostro Iveonte, la tigre alata raffigura la città di Dorinda e il suo re Cloronte; mentre il drago bianco simboleggia la coalizione fra sette delle città edelcadiche che sono legate alla nostra città politicamente. Quanto al drago nero, mi risulta davvero arduo dargli una plausibile interpretazione. Invece, stando ai vari episodi del sogno, si comprende senza sforzo che Iveonte sarà allontanato da Dorinda, non appena avrà compiuto i sette anni. Così sarà tenuto lontano da essa fino al compimento del suo venticinquesimo anno di età. Ma dovranno passare ancora quattro anni, prima che il principe Iveonte venga incoronato re di Dorinda. Quindi, stando ai fatti che si evincono dal sogno del ragazzo, la sua incoronazione avverrà, quando egli avrà compiuto il suo ventinovesimo anno di età.»

«A questo, Virco, c'ero arrivato anch'io, poiché lo si poteva intuire con una certa facilità; però a noi due interessa avere spiegato da te la parte seguente del sogno, che ci risulta assai incomprensibile! Allora vuoi svelarci qualcosa su di essa, se ti riesce di farlo senza sforzo?»

«Ebbene, Lucebio, ritornando indietro con il sogno, due anni dopo l'allontanamento del principino dalla sua città natale, sorgeranno degli aspri dissidi fra Dorinda e sette delle altre città dell'Edelcadia, dopo essersi coalizzate. Essi porteranno gli altri sovrani edelcadici a tradire la nostra città e ad occuparla. Quando invece il nostro Iveonte compirà i suoi ventisei anni di età, in tutta l'Edelcadia si verificherà uno strano fenomeno, che io stesso non riesco a vederlo chiaro e ad immaginarmelo in qualche maniera. Unica cosa certa è che esso mi spaventa tantissimo! Il drago nero, secondo me, non può rappresentare che una forza malefica soprannaturale. Essa, dopo aver cospirato invano contro il piccolo e protetto Iveonte, senza mai essere in grado di sopprimerlo, in seguito terrà sotto il suo dominio l'intera regione edelcadica, ad eccezione della sola città di Actina, la quale ne sarà senz'altro esente.»

«Ben lo credo anch'io, amico mio! Matarum, la nostra somma divinità, opponendosi alla divinità malefica, non glielo permetterà nel modo più assoluto. E non potrebbe essere altrimenti!»

«Invece, Lucebio, se la Città Santa non sarà soggiogata da tale divinità malefica, ciò non avverrà ad opera del dio Matarum. Sebbene la cosa possa apparirti assurda, sarà invece proprio Iveonte ad operare un prodigio del genere. Inoltre, bisogna precisare che, anche se quest'ultimo si farà vivo in Dorinda quando avrà venticinque anni, sarà soltanto al compimento del suo ventinovesimo anno che egli sconfiggerà la Forza del Male. Così non le permetterà di dominare su Actina e libererà da essa sia Dorinda che le altre sette città ingrate. Per questo motivo, alla fine dell'evento, esse tributeranno ancora una volta alla Città Invitta, come al tempo del re Kodrun, i giusti onori e la meritata gloria. Adesso che ci penso, quando Iveonte aveva appena tre giorni, anche Cloronte ebbe a fare un sogno analogo; ma esso riguardava più direttamente il sovrano di Dorinda. Anche allora, come ricordo, il principino assunse il ruolo di protagonista principale della misteriosa vicenda.»

«Virco, sei certo che in Dorinda avverrà quanto il sogno ti ha fatto vaticinare sulla nostra città e sull'intera Edelcadia? Non può esserci un tuo errore di interpretazione, a tale riguardo?»

«Invece si verificherà esattamente ogni cosa da me rivelata, Lucebio, anche se devo ammettere che un lato del sogno mi lascia incredibilmente perplesso. Per la precisione, non capisco come potrà Iveonte riuscire in una impresa, nella quale neppure il nostro dio Matarum sarà stato in grado di opporsi alla potente divinità malefica. Questa, infatti, alla fine lo costringerà all'impotenza, fino a farlo capitolare. Vorrei perciò comprendere questo particolare indecifrabile, che trovo davvero inconcepibile sotto vari aspetti!»

Con quelle sue ultime parole, l'oniromante Virco aveva finito di dare l'esatta interpretazione all'esperienza onirica dal principino, per il quale essa aveva fatto presagire al veggente delle imprese grandiose. Allora Lucebio, accogliendola con somma gioia, aveva voluto abbracciare il ragazzo con immenso affetto. Tenendoselo poi stretto a lui, mentr'era in preda ad un grande giubilo, gli aveva esclamato:

«Iveonte, hai sentito come Virco ha interpretato il tuo sogno stupendo? Da grande, quindi, compirai imprese strepitose non soltanto per la nostra Dorinda, bensì per l'intera Edelcadia! Adesso sono convinto che un giorno nessuno potrà vantarsi di essere un eroe più grande e più decantato di te! Tienilo sempre bene a mente!»


Un secondo ricordo, invece, riportò il commosso Lucebio ad una giornata di fine estate, ossia tre giorni prima che il re Cloronte facesse il famoso sogno. Anche allora, presentandosi il pomeriggio sereno e non particolarmente caldo, egli aveva deciso di effettuare una passeggiata nei campi prossimi a Dorinda insieme con il principino. Per la verità, era stato lo stesso ragazzo a pregare l'amico adulto di condurlo all'esterno della reggia, precisamente oltre le mura cittadine. Secondo lui, in quel luogo gli sarebbe stato consentito di bearsi, inseguendo farfalle e lucertole sui prati cosparsi di fiori. Così, montato a cavallo insieme con il piccolo Iveonte, che gli stava davanti sulla groppa della bestia, Lucebio si era condotto in direzione della porta meridionale della città. Ma prima che riuscissero a superarla, uno dei gendarmi in servizio presso il posto di guardia situato in quel luogo, sospettando un rapimento da parte di Lucebio, immediatamente gli aveva intimato l'altolà. Poco dopo, essendosi avvicinato alla persona fermata, la quale era rimasta sul proprio cavallo insieme con il fanciullo, le si era espresso con queste parole:

«Signore, se non dimostri che sei il padre di questo grazioso bambino, mi obblighi a pensare male di te, ossia che lo hai rapito ai suoi malaccorti genitori e ora te lo stai portando via di nascosto. Intanto sei pregato di scendere giù dal tuo cavallo e di seguirmi nell'ufficio del mio comandante, dove sarai interrogato da lui. Spero che tu riuscirai a convincerlo che il bambino è tuo figlio oppure, in alternativa, un tuo parente stretto, se non vorrai essere arrestato e tradotto nelle carceri. Quanto al piccolo che viaggia con te, anch'egli dovrà venire con noi.»

Lucebio, senza fare obiezione alcuna e tenendo il principino per mano, lo aveva seguito fin dentro il corpo di guardia, dove il gendarme che li aveva trattenuti si era rivolto al suo superiore, dicendogli:

«Comandante Fairos, ho fermato questo tipo perché mi è sembrato poco raccomandabile. Il motivo? Ho pensato che il bambino, che cavalcava con lui, potesse essere il frutto di un rapimento da lui operato.»

«Davvero dici, Gazun? Allora vuoi riferirmi da cosa lo hai desunto che l'uomo qui presente potrebbe aver rapito il bambino a qualche donna sfortunata? Non hai pensato che egli potrebbe essere suo padre?»

«È stato il mio occhio clinico, comandante, a farmi comprendere subito come stavano realmente le cose. Sono convinto che, dopo che avrai interrogato questo individuo, pure tu la penserai allo stesso modo mio!»

«Invece, Gazun, io intendo interrogare prima il bambino. Così vedrò cosa egli saprà rispondermi sul proprio conto e sul suo accompagnatore. Perciò fammi la cortesia di condurlo davanti a me, dopo che lo avrai tolto a colui che adesso lo tiene stretto con una mano.»

Lucebio, restando ancora muto come un pesce, dentro di sé continuava a divertirsi per quanto stava succedendo a lui e al principino. Per questo si era anche affrettato a consegnare nelle mani del gendarme il piccolo Iveonte, per consentirgli di soddisfare la richiesta del suo superiore. Il quale, non appena il bambino gli si era trovato davanti ad un metro di distanza, era rimasto stupefatto nello scrutare i suoi occhi. Essi erano così vivi e penetranti, da incantarlo e da fargli perfino ritardare il proprio interrogatorio. Quando infine si era riavuto da quella momentanea magnetizzazione, si era dato a chiedere al minore:

«Allora, ragazzo, ti va di rispondere ad alcune mie domande? Se decidi di farlo, dovrai dirmi l'intera verità su di te e sulla persona che ti accompagna, senza alcun timore. Ci siamo intesi?»

«Invece non desidero rispondere alle tue domande, ma voglio solo darti un mio ordine. Se vuoi apprendere esso qual è, ti accontento subito. Siccome abbiamo fretta di andarci a divertire nei campi, ci devi lasciare andare all'istante. Mi sono spiegato nella maniera giusta?»

La risposta data dal suo piccolo interlocutore aveva fatto meravigliare il comandante Fairos e il suo subalterno. In verità anche Lucebio, non aspettandosi dal principino una tale risposta, era rimasto molto sorpreso. Ma poi era stato l'ufficiale a cercare di comprendere come mai egli gli avesse risposto in quel modo. Perciò, volendo approfondire l'atteggiamento del bambino, il quale in un certo senso lo aveva anche divertito, gli aveva fatto presente:

«Posso anche lasciarvi andare, ragazzo, a patto però che tu me lo chieda per favore, senza che la mia generosità sia la conseguenza di un tuo ordine! Allora sei disposto a ragionare nel modo che ti ho proposto oppure, rifiutando la mia condizione, preferisci che vi faccia arrestare e condurre nelle carceri della nostra città? Se fossi in te, saprei cosa fare!»

«Invece, gendarme, farò quello che faresti tu, se fossi al mio posto. Ossia ti ordino di non ostacolarci, mentre andiamo via da questo posto. Ma se tentassi di trattenerci, dopo ti ritroveresti senza più un lavoro. Ti garantisco che avverrebbe esattamente quanto ti ho detto!»

«Saresti tu a licenziarmi, ragazzo? E con quale autorità? Me lo vuoi chiarire?» molto divertito gli aveva domandato l'ufficiale Fairos, ignaro che egli fosse l'erede al trono.

Iveonte, anziché rispondergli, si era rivolto al suo amico, dicendogli:

«Quando ti decidi, amico mio Lucebio, ad intervenire e a farlo ragionare come si deve, prima che io perda del tutto la pazienza? Al contrario, tu te la ridi e non fai niente per farli rigare diritto. Secondo me, è meglio andarcene proprio adesso, senza neppure salutarli!»

Allora il pupillo del re Kodrun, che si stava divertendo un mondo nel vedere il principino comportarsi come non si sarebbe mai aspettato, aveva smesso di sorridergli e si era avvicinato a lui. Prendendolo così per mano e senza degnare i gendarmi di un loro saluto, gli aveva detto:

«Hai ragione, Iveonte, ora ci conviene andare via da questo luogo.»

Pronunciate tali parole, egli si era avviato con il ragazzo verso l'uscita. Ma il gendarme Gazun, da parte sua, non avendo gradito il modo di fare di Lucebio che aveva considerato arrogante e villano, dopo essersi piazzato davanti a loro due, era intervenuto a fargli presente:

«Se volete saperlo, voi due non andrete da nessuna parte, senza che il mio superiore vi abbia dato prima la propria autorizzazione. Perciò ritornate da lui e attendete ciò che egli vorrà decidere nei vostri confronti. Il comandante Fairos potrebbe anche mettervi in stato di fermo, fino a quando non avrà esperito tutti i mezzi possibili per risolvere il vostro caso. Quindi, ritornate da lui e attendete il suo ordine!»

Fatto nuovamente ritorno presso l'ufficiale, sempre tenendosi il ragazzo per mano, Lucebio, mostrandosi un po' scocciato e altrettanto adirato, aveva voluto chiarirgli:

«Vedo che qui non avete compreso con chi state avendo a che fare!»

«Di grazia, se non ti pesa troppo, ce lo vuoi dire tu chi è la persona illustre con la quale abbiamo a che fare?» era seguita l'ironica risposta del comandante Fairos, che si era espresso con una domanda.

Prima che Lucebio gli rispondesse, una guardia si era presentata di corsa nel locale del suo ufficiale. Così gli aveva comunicato che l'illustre comandante della Guardia d'Onore, accompagnato da cinquanta delle sue guardie, stava fuori ed attendeva che l'ufficiale di picchetto andasse a riceverlo. Come aveva potuto capire, l'onorevole personaggio di corte, trovandosi nei paraggi, aveva deciso di fare una visita al loro reparto.

A quella notizia, Fairos, non dando più retta al suo interlocutore e quasi impappinandosi, aveva ordinato al nuovo soldato sopraggiunto di far essere presenti all'ingresso tutti i gendarmi in servizio, volendo ricevere degnamente una persona tanto nobile. Allora il suo subalterno Gazun si era sentito in dovere di domandargli:

«Nel frattempo, comandante, cosa ne facciamo del nostro sospettato qui presente? Egli potrebbe svignarsela con il bambino, se li lasciamo soli nel tuo ufficio. Perciò mi dici come devo regolarmi con lui?»

«Se questo è il tuo timore, Gazun, allora incarico te di sorvegliarli!»

Data tale disposizione al suo vice, con gli altri gendarmi al suo seguito, i quali non avevano tardato a radunarsi, l'ufficiale si era affrettato a ricevere colui che ricopriva la massima delle cariche nel campo militare. Ad essa, che era rappresentata dal nobile Sosimo, in qualità di comandante della Guardia d'Onore, veniva affidata la protezione dei regnanti di Dorinda. Quando poco dopo si era trovato davanti al suo illustrissimo superiore, lo aveva accolto con queste parole:

«Quale immenso onore, insigne comandante Sosimo, ci stai recando con la tua presenza presso il nostro umile reparto. La tua venuta nel nostro corpo di guardia è come un sole che fa la sua apparizione in mezzo ad un banco di nuvole. Che tu sia il benvenuto fra di noi!»

«Anziché sdilinquirti in complimenti non richiesti, mio devoto ufficiale, perché non mi dici cosa ci fa quel cavallo baio presso il vostro corpo di guardia? Ti assicuro che esso è proprio quello che regalai ad un mio grandissimo amico. Lo riconosco dalla sua macchia bianca a forma di stella sulla fronte e dalla catenella a girocollo placcata d'argento.»

«Visto che le cose stanno come hai detto, eccellentissimo comandante, ti do la bella notizia che poco fa abbiamo arrestato il ladro che lo ha rubato al tuo amico. Con l'uomo c'è anche un bambino, che noi riteniamo sia stato rapito da lui. Stavo appunto dando l'ordine ad alcuni miei gendarmi di tradurlo nelle nostre carceri; ma non sapevo come comportarmi con il piccolo. Potresti suggerirmelo tu, se non ti dispiace?»

«Prima conduci il minore in mia presenza, ufficiale, e poi vedrò quale destinazione assegnargli. Anzi, faresti meglio a farmi conoscere anche l'uomo da te ritenuto il suo rapitore. Per il tuo bene, spero proprio che entrambi non siano le persone che in questo momento mi stanno passando per la mente. Se lo fossero, non sai in quale brutto guaio ti saresti cacciato! Adesso accompagnali subito al mio cospetto!»

«Per favore, illustrissimo comandante, mi dici chi essi potrebbero essere, per cui avrei sgarrato in maniera madornale nei loro riguardi? La cosa comincia ad impensierirmi abbastanza e a farmi preoccupare!»

«Mi riferisco al mio intimo amico Lucebio, il quale è il consigliere del nostro sovrano, oltre ad essere la persona più saggia dell'intera Edelcadia! Se non lo sai, lo si deve a lui, se esistono la città di Dorinda e i suoi abitanti! Ora ti rendi conto del grave errore che avresti commesso, se tu avessi fatto incarcerare un personaggio del genere? E questo non è tutto, incauto Fairos, siccome c'è dell'altro! Esso ti farà inquietare ancora di più, ammesso che l'uomo sia davvero il mio amico Lucebio!»

«Mi dici cos'altro di più terribile avrei potuto commettere, mio eccellentissimo superiore? Comunque, oltre al consigliere del re Cloronte, è stato fermato solo il ragazzo. Forse si tratta di suo figlio?»

«Assolutamente no, malavveduto ufficiale! Invece egli è il principino Iveonte, il primogenito del nostro sovrano Cloronte, che è il destinato a succedere un giorno al padre, diventando il nuovo re di Dorinda!»

«Povero me! Essi non possono essere che loro due, considerato anche il modo con cui mi ha assalito il ragazzo, ossia il piccolo principe! Egli, rivolgendosi all'uomo, lo ha chiamato proprio Lucebio! Ma perché quello stupido del mio vice doveva fermarli? Per rovinarmi la giornata? Dopo le notizie che mi hai dato, non riesco a risolvermi in qualche modo! Ho dimenticato perfino cosa dovevo fare…, Anzi, mi sento svenire…»

Così dicendo, l'ufficiale Fairos aveva perso i sensi ed era caduto per terra. Allora erano dovute intervenire due guardie della scorta del comandante Sosimo a farlo rinvenire e a rimetterlo in piedi. Nel frattempo, l'autorevole Sosimo era volato nel locale dove venivano trattenuti l'amico e il principino per ordinare al gendarme Gazun il loro rilascio, volendo abbracciarsi l'uno e l'altro con grande affetto. A ogni modo, grazie alla sua bontà, Lucebio non aveva voluto che venisse inflitta qualche punizione allo sprovveduto ufficiale Fairos e al suo vice. Infatti, egli aveva deciso di soprassedere all'increscioso episodio, il quale non aveva permesso a lui e ad Iveonte di andarsene in giro per i campi.


Una volta che Lucebio si fu ridestato dai due cari ricordi che lo avevano fatto gioire e commuovere oltre ogni misura, la sua psiche pian piano si acclimatò alla realtà presente. Allora, ragionando sul nuovo Iveonte con una logica più realistica, dovette ammettere che l'Iveonte, il quale ora gli stava davanti, assolutamente non poteva essere quello di allora, anche se l'età di entrambi, più o meno, poteva considerarsi la medesima! Adesso il primogenito di Cloronte, se proprio non era stato sbranato da qualche belva della foresta, di sicuro era andato incontro ad un totale imbarbarimento. Senza meno egli, nei modi e nel comportamento, non poteva presentarsi migliore di un autentico selvaggio. Per cui non era neanche lontanamente da paragonarsi al suo civilissimo interlocutore, che in quel momento gli stava davanti. Costui, considerato nel suo aspetto, si presentava eccezionale in ogni senso, quasi avesse avuto l'educazione di un principe. Allora, per fugare ogni dubbio, Lucebio domandò ancora al giovane:

«Se per te rispondermi non costituisce alcun problema, Iveonte, vorrei sapere chi sono i tuoi genitori, ammesso che siano vivi. Comunque, si vede che essi hanno saputo ottenere da te un giovane così ammodo, che meglio non avrebbero potuto fare! Te lo posso garantire! Allora mi dici qualcosa sul loro conto, compresa la famiglia di cui fanno parte?»

«Anche se la cosa potrà sembrarti strana, Lucebio, non ho mai conosciuto né mio padre né mia madre, per il fatto che l'uno e l'altra non ci sono mai stati nella mia vita. Di conseguenza, non so neppure dove essi si trovano in questo momento! La stessa risposta è valida anche per il mio amico Francide, poiché tutti e due siamo vissuti sempre nella foresta, dove ci ha cresciuti il nostro Babbomeo, il quale era un uomo degno di rispetto e di ammirazione. Quando poi il poveretto è morto, seguendo il suo consiglio che ci aveva dato da moribondo, abbiamo deciso di stabilirci in una città. Perché proprio Dorinda? Ti starai chiedendo. La ragione è molto semplice. Essa è la città che ci aveva indicata il nostro vegliardo prima di morire. La quale, a sentirlo parlare, doveva stargli tantissimo a cuore!»

In verità, neppure il nome di Francide era risultato nuovo a Lucebio. Nel passato, egli lo aveva già appreso da qualcuno. Ma quando e dove gli era accaduto di sentirlo? Infine, sforzando parecchio la memoria, riuscì a rammentare lucidamente. Difatti un terzo ricordo lo riportò a venticinque anni prima, quando Iveonte aveva due mesi e si era a caccia nel bosco. A quel tempo, egli e la regina Elinnia si intrattenevano a vezzeggiare il piccolo principe, allorquando era capitata dalle loro parti una donna con un bimbo della stessa età di Iveonte. Ben presto si era saputo che l'infante della forestiera si chiamava Francide. Il piccolo era stato anche allattato dalla regina di Dorinda. In quella circostanza, uno strano episodio poco dopo era venuto a stupire entrambi. I due infanti, portati vicini e facendoli sfiorare con le punte dei loro nasi, a un tratto si erano presi con le manine e non volevano più separarsi. Per cui ogni loro tentativo di disgiungerli li faceva emettere degli strilli acuti. In quel modo, essi manifestavano la loro ferma volontà di tenersi per sempre uniti.

Rientrato infine dal nuovo ricordo di tantissimi anni prima, Lucebio chiese al giovane:

«Possibile, Iveonte, che tu e Francide siate sempre vissuti nella foresta? Allora chi si sarebbe preso cura della vostra educazione, se da soli voi giammai sareste stati in grado di farlo?»

«È stato proprio come ti ho riferito, Lucebio.» il giovane gli rispose alquanto determinato «Perché avrei dovuto dirti una cosa non vera? Ad ogni modo, la nostra formazione è stata seguita da una persona straordinaria, la quale non ha mai smesso di educarci, fino a quando è rimasta in vita. Egli ci ha resi esperti in ogni campo. Hai già dimenticato che di lui ti ho fatto anche il nome, che era Babbomeo?»

«Eppure non lo si direbbe affatto, Iveonte! Voi figurate meglio di quelli che sono sempre vissuti in una città. In voi c'è un'ottima istruzione, una solida formazione e una perizia d'armi rara a trovarsi. Ho conosciuto soltanto un uomo con una competenza nelle armi da considerarsi superiore alla vostra. Adesso chissà dove egli sarà finito! Venendo al vostro Babbomeo, egli certamente non doveva essere una persona qualunque, per avervi fatto raggiungere un grado di preparazione così solida e tanto apprezzabile! Ma mi vuoi dire quale nome si cela sotto il nomignolo familiare, che adesso affettuosamente voi gli date e forse gli davate anche prima, quando abitavate nella foresta?»

«Lucebio, secondo quanto abbiamo appreso da poco direttamente dai suoi familiari, che lo stesso Babbomeo ci ha aiutati a ritrovare da morto, il suo vero nome era Tio. La moglie Luta, che è una vera nobildonna, ce lo ha confermato con assoluta certezza. Noi l'abbiamo conosciuta, quando le abbiamo riportato a casa sani e salvi i suoi due giovani figli Zelio ed Ucleo. Li avevamo salvati appena in tempo dal predone Kuercos, prima che costui e la sua crudele banda li uccidessero.»

Il nome di Tio spinse Lucebio ad estraniarsi nuovamente dalla realtà presente e a rincorrere un quarto suo ricordo del remoto passato. Questa volta si trattava di un sogno che egli aveva fatto la stessa notte in cui aveva abbandonato il piccolo Iveonte nella foresta. In verità, il padre del principino, il re Cloronte, gli aveva ordinato addirittura di ucciderlo! Nel sogno gli era apparso Virco, l'indovino di corte, il quale si teneva tra le braccia il primogenito del re Cloronte. Egli subito si era messo a rimproverarlo e a chiedergli perché mai si era assentato dalla reggia, proprio quando doveva difendere Iveonte dal mago Ghirdo. L'indovino allora gli aveva risposto che stava appunto provvedendo, perché al ragazzo non succedesse nulla di male. Ma poi si era presentato a loro due anche l'amico Tio. Egli, dopo aver preso in consegna dall'oniromante il principino, si era allontanato da quel luogo, senza proferire parole.

Messo da parte anche l'ultimo ricordo, egli disse ai due giovani:

«Così il bravissimo Tio vi ha fatto da maestro?! Fortunati voi! Era proprio a lui che mi riferivo, quando ho detto di aver conosciuto soltanto una persona superiore a voi nel maneggio delle armi! Adesso me ne darete atto che non esageravo! Ma voglio ringraziarvi, per avermi svelato il mistero della vostra scherma perfetta ed incontrastabile. Io sono convinto che voi avete ricevuto da Tio anche un'ottima formazione spirituale, dal momento che egli era all'altezza di promuoverla in voi! Infatti, il mio amico aveva una preparazione eccellente in ogni campo dello scibile, da fare invidia a qualsiasi persona, fosse essa anche un principe oppure un re! Ve ne do assicurazione!»

«Lucebio,» Iveonte gli fece presente «noi siamo al corrente del perché conosci tante cose sul nostro Babbomeo, ossia su Tio. Quando siamo stati ospiti presso la dimora della signora Luta, ella ci ha accennato alla grande amicizia che esisteva tra voi due; anzi, essa vi legava intimamente, per cui vi faceva trattare come due fratelli. Saresti perciò così gentile, da dirci qualcosa in merito? La cosa ci farebbe gioire!»

«Senz'altro, Iveonte: lo faccio con molto piacere! Noi due ci volevamo un sacco di bene, più che se fossimo stati due fratelli! Anche a me egli cercò di dare lezioni di scherma, da grande maestro d'armi qual era. Ma io ero negato per le armi e non potetti ricavarne alcun profitto. Partiti che dovevamo fare pratica d'armi, per il mio addestramento, invece finivamo ogni volta con l'addentrarci nei tanti problemi della vita, in particolar modo in quelli di natura teologica. Egli, oltre a possedere una cultura poliedrica, una moralità ed una rettitudine irreprensibili, era ferrato anche nel campo della teologia. Più che se egli fosse stato un sacerdote del dio Matarum!»

«Hai ragione, Lucebio,» acconsentì Iveonte «in lui c'era l'uomo integrale, poiché possedeva perfino un sapere ed una preparazione psicologica non comuni. Per nostra immensa fortuna, egli è riuscito ad infondere con zelo in Francide e in me tutte le sue straordinarie doti, rivelandosi a un tempo un esimio educatore e un maestro d'armi insuperabile. Da parte nostra, rendendolo orgoglioso del suo nobile operato educativo, abbiamo fatto di tutto per dimostrarci due suoi bravissimi allievi, essendoci dimostrati in ogni sua lezione all'altezza della situazione. La qual cosa gli infondeva una infinita felicità.»

«A questo punto, Iveonte, vorrei chiederti un'altra cosa, la quale mi sta molto a cuore: Mi dici da chi ti fu dato il nome che porti, ammesso che te lo ricordi, dal momento che sono trascorsi un sacco di anni? Anche ciò mi farebbe piacere apprendere da te!»

«Naturalmente, fu Babbomeo, ovvero Tio! Prima non ne avevo nessuno, Lucebio. Fu Francide a chiedergli di darmene uno, poiché ne ero sprovvisto e lui non sapeva come chiamarmi, quando si rivolgeva a me. Allora egli, dopo averci pensato a lungo, si decise a chiamarmi Iveonte, convinto di compiere così una buona azione.»

«Avvenne proprio così, Lucebio,» approvò pure Francide «perché fui io a chiedere al nostro Babbomeo di dare un nome al mio amico, il quale si ritrovava a non averne nessuno.»

«Già...» acconsentì Lucebio «in questo modo, egli intese far rivivere chi aveva ucciso in circostanze misteriose. Alcuni poi, quelli che non lo conoscevano bene quanto me, lo tacciarono di assassinio e di ladrocinio, essendo state trovate accanto al cadavere del cugino del re alcune monete sparse qua e là sul manto erboso. Ma io sono stato sempre della convinzione che egli non poteva essersi macchiato di tali turpi delitti che gli erano stati ascritti. Un uomo, moralmente e religiosamente integro come era lui, con una famiglia che adorava a cui badare, giammai sarebbe sceso così in basso!»

«Puoi stare tranquillo, Lucebio, che mai lo sfiorò una bassezza d'animo del genere!» gli convalidò Iveonte «I fatti si svolsero come te li riporto io adesso. Siccome stava raccattando dietro dei cespugli alcune monete d'oro che gli erano cadute di mano, il cugino del re Cloronte faceva muovere la sterposa vegetazione che gli stava intorno. Babbomeo allora, convinto che dietro gli sterpi fosse nascosto il cinghiale che stava inseguendo, lanciò in quel posto un suo dardo e lo uccise inavvertitamente. Il suo grave errore allora lo spinse a segregarsi nella foresta e ad appartarsi da tutti gli esseri umani, facendoci andare di mezzo ingiustamente anche i suoi tre familiari. Ma per fortuna in seguito il destino, mosso a pietà del poveretto, decise di inviare presso di lui prima Francide e poi me. Così noi due iniziammo a fargli compagnia e a concedergli un po' di meritata distrazione, di cui aveva tanto bisogno, come adesso sai pure tu, per non morire di solitudine nella foresta!»

«Finalmente conosco tutta la verità su Tio, il mio indimenticabile amico!» Lucebio esclamò gioioso «Adesso, però, mio caro Iveonte, vorrei apprendere qualcosa anche sulla persona di Astoride. Da come ho potuto rendermi conto, egli non è sempre vissuto insieme con te e con Francide. Mi riferisci allora chi egli è veramente e in che modo vi siete incontrati con lui nel vostro recente passato?»

«Ti accontento subito, Lucebio! Il nostro amico si è unito a noi solo da poco tempo, cioè da quando lo abbiamo liberato dal Castello Maledetto. A differenza di noi, Astoride conosce i suoi genitori, ma desidera che non li sveliamo a nessuno. Forse un giorno, quando lo riterrà opportuno, sarà egli stesso a narrarti la sua storia. Adesso, però, visto che ci hai fatto tante domande, vorremmo fartene anche noi una. Vorremmo essere messi al corrente perché dobbiamo combattere contro il re Cotuldo e chi è costui, effettivamente. Fuori le mura di Dorinda, un vecchio ci ha parlato del re Cloronte, descrivendocelo come una persona nobile e giusta. Tu puoi riferirci qualcosa su questo sovrano, il quale fu detronizzato da altri sette re edelcadici, dopo il loro turpe e vigliacco tradimento? Ascoltare ogni cosa sul conto di questo nobile sovrano ci farebbe assai piacere e giustificherebbe la nostra lotta contro il re Cotuldo.»

Nel sentire pronunciare il nome del suo amico re, Lucebio sussultò e si abbuiò in volto, sul quale nello stesso tempo si impresse un velato rammarico. Subito dopo egli assunse un atteggiamento intenso e profondo, quasi volesse rintracciare i tanti ricordi appartenuti ad un passato nero, il quale gli apriva il cuore a niente di buono. Infine il suo viso era già cosparso di malinconica fierezza, allorché le sue labbra si diedero a scandire una moltitudine di amare parole, che parevano non finire più. Esse, uscendogli di bocca, presto sarebbero state intente a ricomporre i vergognosi fatti che riemergevano dalla più drammatica delle storie. Eppure si erano resi responsabili di tali ignominie alcuni sovrani edelcadici, i quali, per tale motivo, dovevano essere ritenuti indegni del loro titolo regale. Secondo loro, più che una vigliaccata ai danni di un sovrano nobile e giusto, la loro condotta obbrobriosa andava considerata una operazione di autodifesa e di salvaguardia, dal momento che essa aveva mirato a tali due scopi. Invece i loro sudditi non avevano potuto giudicarli obiettivamente, poiché essi erano stati messi a conoscenza della sola verità appresa dai rispettivi monarchi. Costoro, ovviamente, prima di propinarla a tutti loro, avevano dato ad essa la versione che avevano voluta, ossia quella fallace ed ingannevole. La quale, di fronte ai rispettivi popoli, alla fine li aveva fatti apparire delle persone onorevoli e molto rispettabili, senza alcuna macchia sulla loro fedina.