66-NEL CAMPO DI LUCEBIO
La presenza dei cinque cavalieri nella località dei ribelli, al cui comando stava il sapiente Lucebio, fece accorrere una ventina di uomini, i quali si trovavano nelle vicinanze ad allenarsi nelle armi. Essi volevano rendersi conto dei nuovi arrivati e del perché della loro presenza nel loro campo. Dopo essersi avvicinati a quelli che erano appena giunti, si accalcarono intorno a loro. All'inizio, le persone accorse scambiarono i visitatori inattesi per gendarmi del re Cotuldo, per cui le si videro ardere di sdegno. In seguito, però, avendo riconosciuto Solcio e Retrico, benché restassero ancora camuffati, si placò in parte l'odio che esse covavano nell'animo. Allora il riconoscimento da parte loro dei due compagni, almeno in un primo momento, contribuì a far ritornare tranquillo quel sito, ma soltanto apparentemente. Infatti, la maggioranza dei ribelli intervenuti a controllarli, presentandosi bene armati, continuavano a mostrarsi aspri nell'aspetto. Il motivo? Essi non avevano gradito l'arrivo dei tre forestieri nel loro rifugio, pur essendo accompagnati dalla coppia dei loro commilitoni. Costoro, a loro parere, potevano esserci stati costretti con minacce a condurli nel loro campo. Così, assunta una posizione di accerchiamento, adesso gli stessi ribelli restavano assiepati tutt'intorno ai loro due compagni di lotta e ai tre sconosciuti cavalieri che li accompagnavano. In pari tempo, essi non smettevano di indirizzare i loro truci sguardi ora verso i tre forestieri ora verso un uomo che era avanzato negli anni, dal quale attendevano di ricevere degli ordini precisi. Egli, che era il loro capo, si trovava poco distante da loro ed era assiso sopra una specie di macigno, il quale gli fungeva da sgabello.
Da parte loro, Iveonte e i suoi amici, come sempre, facevano trasparire dai loro volti una maestosità imponente, la quale incuteva soggezione a chiunque venisse a trovarsi al loro cospetto. Per la quale ragione, non si preoccupavano affatto dell'assembramento di quegli individui che, mostrandosi per il momento poco ospitali, indirizzavano verso di loro espressioni più di forte ripulsione che di accoglienza gradita. Inoltre, quella cerchia di uomini armati, che parevano osteggiarli, al massimo li spingeva a fare la seguente considerazione: Se essi desideravano la morte, non dovevano fare altro che provare ad aggredirli. In quel caso, non lasciandogli essi una diversa alternativa, li avrebbero obbligati ad ucciderli senza alcuna pietà. Allora il giovane, che aveva parlato loro in città e li aveva anche invitati in quel ritrovo di ignota natura, essendosi impensierito per l'atteggiamento dei suoi commilitoni, prima che la situazione degenerasse, si affrettò a spiegare ai loro tre ospiti:
«Non badate minimamente a questi nostri compagni, nobili cavalieri, poiché essi non sanno quello che fanno e quello che dicono. La loro reazione deriva da uno sciocco risentimento nei vostri confronti, per i motivi che tra poco vi verranno chiariti. Comunque, vi garantisco che presto qualcuno saprà ammansirli come docili agnellini!»
Subito dopo, egli, indicando una persona attempata che si trovava ad una ventina di metri da loro, la quale non osava ancora aprir bocca, aggiunse al terzetto di formidabili cavalieri:
«Vedete là quell'uomo anziano? Egli è il nostro capo e si chiama Lucebio. È stato lui in persona a volere che voi vi trovaste nel nostro campo. Comprendo il vostro stupore in questa vicenda; ma tra breve apprenderete ogni cosa su di essa. Con vostro sommo piacere, sarà egli stesso a spiegarvi tutto quanto in merito al suo invito!»
Lucebio, da quando i suoi due uomini lo avevano lasciato per andare in cerca dei tre prodigiosi cavalieri che non erano nativi di Dorinda, occupava ancora il medesimo posto, come se vi fosse incollato. Alcuni suoi uomini erano convinti che da quel masso roccioso gli provenivano la sua imperturbabilità e la sua ponderatezza. Le quali doti gli consentivano di dare dei giudizi sempre retti a quanti militavano nelle file dei ribelli.
Poco dopo, il loro solito interlocutore, il cui nome era Solcio, continuò a dire ai tre giovani:
«Adesso devo presentarvi subito a colui che ha voluto che foste qui. Anche perché l'atteggiamento di quanti ci circondano vocianti e minacciosi mi hanno distratto dal farlo prima.»
Così, senza perdere altro tempo, egli gridò forte al suo capo:
«Nobile Lucebio, i tre cavalieri, di cui ti avevo parlato in mattinata e che abbiamo fatto venire qui per espresso tuo volere, attendono di essere presentati a colui che li ha invitati presso di sé. A buon ragione, essi iniziano a spazientirsi, a causa dell'accoglienza niente affatto gradita che gli stanno riservando i nostri compagni presenti nel campo!»
«Solcio, ti riferisci a quelli che stamani hanno ucciso i nostri uomini?» il vegliardo gli chiese con voce ferma «Allora spero che essi siano venuti in questo luogo innanzitutto per scusarsi con me, per avergli arrecato la morte. È quanto mi attendo da loro, se vogliono la mia comprensione e il mio benvenuto! Se sono disposti a farlo, puoi farli avvicinare a me, perché essi compiano il loro dovere.»
«Sono loro in carne ed ossa, Lucebio!» gli rispose prontamente il suo uomo «Ma devo rammentarti che spetta invece a noi fare ai tre cavalieri qui presenti le nostre scuse, essendo stati loro a subire il nostro attacco per primi! Lo hai forse già dimenticato?»
A tale chiarimento del loro compagno d'armi, tutti quelli che erano presenti incominciarono a dare in escandescenza e ad urlare pazzescamente: "Ora vi faremo pentire di essere venuti qui, assassini dei nostri compagni! Che si impicchino! Che si strangolino! Che si impalino! Che si facciano a pezzi e si diano le loro carni in pasto agli avvoltoi! Essi non se la devono cavare, senza essere puniti da noi come si meritano!"
A quelle grida rabbiose dei suoi commilitoni, Iveonte domandò all'uomo di Lucebio:
«Dimmi, Solcio: Sono forse stanchi di vivere i tuoi compagni? Vogliono proprio che questo luogo diventi per sempre la loro tomba? Se è questo che desiderano, non hanno che da dichiararcelo palesemente. In caso affermativo, siamo disposti a contentarli, nostro malgrado, poiché la loro strage non ci farebbe piacere per niente. Ciò, solo perché essi hanno abbracciato una giusta e nobile causa, la quale persegue i begli ideali di libertà di giustizia!»
«Non prendertela così, nobile cavaliere! Convinciti invece che fra di noi non potrà mai più aversi alcun combattimento. Ma se ci dovesse essere, evento che escludo in modo categorico, io sarei dalla vostra parte e combatterei al vostro fianco, siccome vi devo due vite. Grazie a voi, sono riuscito a sfuggire per ben due volte alla già imbaldanzita morte. Perciò vi sono e vi sarò sempre immensamente riconoscente!»
«Solcio, perché hai detto due vite,» Iveonte gli chiese meravigliato «se soltanto in città ci siamo incontrati per la prima volta, dove c'è stata l'unica occasione di salvarti da morte certa? Già, ti riferisci anche a quella del tuo amico: non è forse vero? Soltanto in questo modo, i conti tornano! Perciò non può essere altrimenti!»
«Niente affatto, generoso cavaliere! Se vogliamo tirare in ballo anche le vite salvate al mio amico, allora esse diventano quattro. Ti garantisco che non c'è alcun errore aritmetico! Anch'io e il mio compagno abbiamo preso parte all'aggressione di stamani, quella che avete subito per mano nostra e di alcuni nostri compagni, che ora sono tutti morti. Noi siamo i ribelli che vi abbiamo implorati, perché non inveiste contro di noi, anche se avevate le vostre buone ragioni per agire in tal senso. Adesso ricordi? Ma come potresti non rammentartelo, illustre cavaliere!»
«Certo che lo ricordo, Solcio! Ma il vostro travestimento non ci ha dato modo di riconoscervi subito, essendovi esso riuscito benone!»
«A questo punto, vi dovrebbe essere chiaro anche perché questi dissennati vi manifestano la massima ostinazione ed imprecano contro di voi. È stata l'appresa uccisione dei loro commilitoni per mano vostra a spingerli a nutrire tanto livore nei vostri confronti. Per fortuna, mi sono accorto in tempo che voi tre non eravate soldati dell'usurpatore, bensì dei nobili cavalieri. Così sono riuscito a convincere anche il nostro capo che voi non avevate nulla a che spartire con i gendarmi del despota. Allora egli ha voluto che venissimo a cercarvi e a pregarvi di fargli una vostra visita benaccetta. Perciò invito te e i tuoi compagni a non fare caso a questi ignorantacci e di non dare nessun peso alle loro minacce, poiché con le loro grida essi buttano solo via il fiato. Sebbene a volte all'inizio si mostrino assai cocciuti, alla fine bastano le convincenti parole del nostro capo a farli ammutolire in un battibaleno, inducendoli a ravvedersi. Con il vostro permesso, ora vado con il mio camerata a scambiare due chiacchiere con il capo, il quale mi sta aspettando ansioso.»
Così dicendo, Solcio e Retrico spronarono i loro cavalli verso il luogo dove l'anziano Lucebio era solito trasumanare, come dicevano i suoi ligi uomini. Difatti il vegliardo preferiva trascorrere una buona parte della giornata seduto sopra una breccia di origine vulcanica, vietando a tutti di disturbarlo per qualunque motivo, mentre vi sedeva. Restandovi sopra, sembrava che egli si immergesse in un clima oltremondano oppure, meno metafisicamente parlando, nell'illimitatezza del proprio pensiero.
Iveonte e i due amici, intanto che i due uomini di Lucebio si intrattenevano con il loro capo venerando, cercavano di comprendere meglio quanto stava succedendo intorno a loro. Invece quelli che imprecavano e li minacciavano, come se venissero istigati da un demone interiore, seguitavano a far valere in mezzo a loro l'iniziale vociare di protesta, di minaccia, di odio e di rabbia. Perseverando in quel loro atteggiamento, essi intendevano trasmettere il loro messaggio che giammai ci sarebbe stata una riconciliazione tra loro e i tre forestieri! Invece il saggio Lucebio, dopo essere stato informato dettagliatamente dal fido Solcio anche del conflitto che era avvenuto qualche ora prima in città e della loro conclusione positiva, decise di intervenire presso i suoi uomini per farli finalmente ragionare. Perciò, dopo essersi alzato dalla breccia cilindrica, si avvicinò ai ribelli che protestavano. Riprovandone poi le insensate reazioni, si diede a fare loro il seguente discorso:
"Miei fedeli e coraggiosi uomini, con dolore vi scorgo in errore. Non vi accorgete che il vostro non è un ragionare, ma un urlare sdegnoso? Esso di certo non vi fa onore e vi mette sullo stesso piano del nostro odioso tiranno! Si vede che non conoscete bene i fatti, se continuate a reagire in questo modo selvaggio. Quindi, è necessario che apprendiate da me come essi si sono svolti realmente, perché non proseguiate nel persistere in questo vostro abietto comportamento, il quale può soltanto disonorarvi tantissimo! Sappiate allora che i vostri compagni sono stati dei pessimi osservatori, siccome essi hanno scambiato questi tre illustri cavalieri con soldati del despota Cotuldo. Perciò abbiate il coraggio di asserirmi che voi, al posto loro, non avreste reagito allo stesso modo, ma vi sareste fatti ammazzare come cani! Anzi, sono certo che non avreste risparmiato neppure Solcio e Retrico, i quali dopo hanno potuto recarci il luttuoso annuncio e ci hanno messi al corrente dell'esistenza di questi tre insuperabili cavalieri! Ma per fortuna il nipote del mio amico Sosimo, grazie alla sua perspicacia, si è reso conto in tempo della verità sui nostri ospiti benaccetti e della loro nobiltà d'animo. Perciò, da oggi in avanti, al nostro fianco avremo l'aiuto di coloro che odiano e disdegnano con i fatti le vessazioni e le infamie di questo mondo. Visto che non lo sapete, vi rendo noto che è loro costume darsi a debellare le une e le altre ovunque si trovino e indipendentemente da chiunque le medesime provengano, siano essi re, nobili o delinquenti comuni.
I qui presenti cavalieri, però, potranno essere dei nostri commilitoni, ad una sola condizione. Vi si chiede di ritrattare le vostre errate opinioni sul loro conto e di mostrarvi contriti del vostro ostile ed ingiustificato modo di agire. Esso, in questo momento, viene da voi manifestato nei loro confronti in modo acceso, insistente ed ingiusto! Comunque, sono convinto che la comunicazione che sto per farvi con gioia vi renderà più coscienti e ragionevoli. Soprattutto vi spingerà a cambiare tono ed atteggiamento verso i tre valorosi cavalieri che voi state offendendo. Essi sono appena giunti da fuori ed intendono restare in Dorinda per una duratura sistemazione. Inoltre, dovete sapere che poco fa, nella Piazzetta degli Antenati, sono stati trucidati dai nostri campioni qui presenti parecchi soldati del tiranno, che stavano per arrestare Solcio e Retrico. Il loro numero è stato tale, da ripagarci in misura più che equa delle perdite da noi subite all'alba! Da parte loro, potrebbe esserci un contributo più prezioso, perché essi entrino a tutti gli effetti a far parte della nostra società segreta? A mio parere, no! Dunque, sparisca immediatamente in voi quell'ingiusta indignazione e, nello stesso tempo, si imbandisca un pranzo succulento in onore dei nuovi tre affiliati!"
Terminato di parlare ai suoi uomini, che adesso apparivano frastornati, Lucebio si affrettò a chiarire:
«A proposito, non ho neppure chiesto ai tre cavalieri arrivati da fuori se vogliono essere dei nostri, combattendo il tiranno al nostro fianco. Come vedete, la mia è stata una imperdonabile sbadataggine! Ma sono convinto che i nostri ospiti mi comprenderanno e vorranno perdonare la mia leggerezza, essendo essi delle persone magnanime, generose ed inclini al perdono! Lo so, perché me lo ha rivelato il mio sesto senso!»
Subito dopo, il capo dei ribelli volle riparare a quello che egli riteneva un grave errore commesso nei loro confronti. Perciò, rivòltosi ai tre giovani, gli chiese:
«Prodi cavalieri, volete voi entrare a far parte della nostra società segreta e abbracciare la nostra causa? Prima di darmi la vostra risposta, però, dovete sapere che le finalità primarie della nostra associazione sono la cacciata dell'usurpatore re Cotuldo dalla nostra città e il reintegro sul trono di Dorinda del suo legittimo sovrano. Soltanto in questo modo, la giustizia e la legalità saranno ristabilite nella nostra città e i suoi abitanti potranno ritornare a vivere serenamente, come lo erano un tempo! Allora intendete fare anche vostre tali finalità, che sono essenziali per noi Dorindani? Aspetto che voi mi rispondiate.»
La risposta di Iveonte, il quale decise di darla con schiettezza anche a nome dei suoi due amici, non si fece attendere molto. Anzi, essa arrivò all'istante e fu la seguente:
«Certo che lo vogliamo, Lucebio! Perciò, fin da questo momento, sul nostro onore giuriamo fedeltà e lealtà alla vostra onorabile associazione. Inoltre, da oggi essa rappresenterà anche per noi la nuova famiglia adottiva. Per cui ci riterremo i suoi figli di fatto, perseguendo con tutti voi quegli obiettivi che possono solo considerarsi sacri, quali appunto sono la giustizia, la liberazione dell'oppresso popolo dorindano dal suo tiranno e la legittima reintegrazione del re Cloronte sul suo trono!»
Dopo le parole di Lucebio e l'espressa volontà dei tre giovani di far parte anch'essi dei ribelli, un grande silenzio piombò fra quegli uomini, che un momento prima inveivano e minacciavano con ostinazione contro i tre cavalieri forestieri. Dentro il loro animo, all'improvviso, si ebbe un vuoto incolmabile, non sapendo ognuno di loro quale sentimento farvi prevalere. L'intervento del loro illustre capo li aveva scioccati, siccome era venuto a ferirli nell'orgoglio, rinfacciando a tutti loro che stavano peccando di sciocca supponenza, senza un giustificato motivo. Alla fine, però, essi tennero presente che i tre formidabili neo affiliati non avevano esitato ad impegnarsi solennemente con il loro capo a non tradire mai la nobile causa dei rivoltosi e a battersi per essa senza condizioni fino alla morte. Perciò, uno dopo l'altro, gli stessi iniziarono a svincolarsi da quella loro futile pretesa di stare dalla parte della ragione. Essi, inoltre, si diedero ad estrinsecare un'assoluta accondiscendenza ad ogni constatazione del loro venerato capo, il quale rappresentava il fulcro delle loro aspirazioni. A loro parere, chi più di lui, che aveva un ferreo carattere ed emetteva in ogni momento della sua vita dei giudizi equilibrati, poteva indirizzarli verso la tesi che era più giusta e più logica? Così, alcuni attimi dopo, li si videro mettere in pratica le loro sensate considerazioni. Allora all'unanimità essi emisero degli evviva gioiosi, facendo ammenda dei propri errori e dei propri torti. Qualche attimo più tardi, gli stessi si diedero pure a fare baldoria. Ma la loro festa si espresse non solo con chiassose e bizzarre acrobazie, bensì anche con un pranzo che i vari commensali trovarono una vera leccornia. Due erano i motivi di quella loro gazzarra indiavolata: la perdita subita dal re Cotuldo nella Piazzetta degli Antenati e l'affiliazione dei tre valorosi cavalieri alla loro società segreta, che se ne sarebbe giovata grandemente.
Iveonte, Francide ed Astoride, i quali avvertivano sul serio una fame insaziabile, per aver digiunato a lungo, si misero allora a divorare con grande voracità le diverse pietanze, le quali erano state messe a loro disposizione. Essi, mostrando un appetito da leone, facevano sbalordire tantissimo gli altri festosi convitati che sedevano a mensa con loro. I tre giovani stavano accanto a Lucebio, il quale si compiaceva di libare, di tanto in tanto, un sorso di vino abboccato. Intanto che divoravano le varie vivande carnee, essi si divertivano a seguire le piroette e i lazzi arguti, dei quali si rendevano protagonisti alcuni simpatici ribelli. Questi ultimi rallegravano maggiormente il lauto convito, dal momento che infondevano nei banchettanti vivacità, gaiezza e tanta spensieratezza.
Infine, attese per consuetudine, anche in quel giorno le ore notturne si sbrigarono a presentarsi improvvise. A dire il vero, durante una serata simile, esse apparvero agli allegri convitati più celeri del solito, come se fossero volate. Difatti sappiamo che i momenti trascorsi nell'allegria ci sembrano talmente fuggevoli, da darci la sensazione che essi ci sfuggano inafferrabilmente. Invece abbiamo l'impressione che gli attimi trascorsi in qualcosa di spiacevole oppure nella noia durino una eternità. Purtroppo l'esistenza umana procede in questa maniera e non ci permette di opporci ad essa, non potendosi cambiare le cose a nostro piacere. Comunque, conviene non farci caso, se vogliamo evitare una vita per niente serena ed intossicata in continuazione da una folla di pensieri, che si rivelano quasi sempre banali. Ai quali non dispiacerebbe ingarbugliarci l'iter esistenziale, almeno fino a quando non ci avranno scombussolato la coscienza e la ragione in modo terribilmente opprimente.
Con la sopraggiunta notte, il campo dei ribelli subì un radicale mutamento. Nessun frastuono lo movimentava più, essendo stato abbandonato da tutti i crapuloni, i quali adesso risultavano inghiottiti dalle tenebre. Non mancava però l'orchestra dei grilli canterini, la quale faceva evitare che quel luogo assumesse una parvenza di tetra malinconia. I tre giovani amici erano stati gli unici a restare a far compagnia a Lucebio. Essi si intrattenevano con lui, stando intorno ad un falò che li riscaldava e li proteggeva dall'umidità della notte, la quale incominciava a farsi sentire penetrante e pungente. Francide, dopo aver dato una sbirciata in giro per cercare di scorgervi qualcuno, ma senza riuscirci, ruppe l'imperante silenzio circostante, dichiarando al saggio uomo:
«Accidempoli, Lucebio! In un attimo, i tuoi uomini si sono dileguati nella notte, come se fossero stati degli invisibili folletti. Secondo me, un capo non dovrebbe mai essere lasciato solo ed indifeso, potendo egli correre dei grossi pericoli, da parte di malintenzionati senza scrupoli! Non ho forse ragione a pensarla in questo modo?»
«Invece non sono né solo né indifeso.» lo contraddisse il saggio uomo «Anzi, non sono mai stato così protetto, come lo sarò stanotte! Per questo oggi posso considerarmi più fortunato e sicuro delle altre notti! Se ci rifletti, giovanotto, è proprio come ho detto!»
«Come fai a dire che sei protetto, Lucebio,» gli fece notare il giovane «se ogni tuo uomo ha sgomberato il campo, lasciandoti completamente solo? Io non ne vedo neppure uno in giro a farti da vigile guardia del corpo! Sono sicuro che in questo non mi sbaglio!»
«La cosa importante per me è che siate rimasti voi tre nel mio rifugio! Perciò chi più di voi potrà assicurarmi una valida protezione? A mio avviso, nessuno! Dovete sapere che questo è un campo occasionale, ossia lo diventa esclusivamente in determinate circostanze, poiché tutti i miei uomini abitano in città, insieme con le loro famiglie. Soltanto quando c'è da fare qualche riunione straordinaria oppure c'è da mettere a punto qualche azione di guerriglia contro la tirannia di Cotuldo, essi, dopo essere stati informati da me, si precipitano qui come saette. Allora il mio desolato rifugio diventa un campo rumoroso di armati. Così facendo, non ci esponiamo troppo all'usurpatore della nostra città, il quale mira giorno e notte ad annientarci totalmente.»
Dopo aver chiarito varie cose riguardanti l'attività dei ribelli e il loro campo, il quale serviva ai suoi uomini soprattutto per allenarsi, Lucebio si rivolse agli ospiti, chiedendo:
«Adesso, se non sono indiscreto, mi dite i vostri nomi, per favore?»
Alla sua richiesta, l'uno dopo l'altro, i tre giovani si affrettarono a presentarsi a colui che si era prestato ad ospitarli. Per primo fu Francide a riferirgli il proprio nome; invece dopo seguì Astoride a dirgli il suo; infine toccò al loro compagno Iveonte fare lo stesso con molta naturalezza. Ma non appena sentì pronunciare il terzo nome, il vegliardo prima trasalì e poi se ne stupì moltissimo. Egli non voleva credere alle proprie orecchie di avere ascoltato esattamente quel nome! Poi, essendo desideroso di farselo ripetere, emozionato, si affrettò a chiedere al giovane:
«Giovanotto, hai detto proprio Iveonte oppure le mie orecchie hanno ascoltato male le tue parole? Già, di sicuro non avrò sentito bene, non potendo essere altrimenti!»
«Certo che il mio nome è quello che hai udito, Lucebio!» gli confermò il giovane «Se esso ti è risultato strano, mi dici che cosa ha di diverso dagli altri il mio nome, per farti reagire con quella faccia? Non mi dire che non lo hai mai sentito pronunciare da nessuno in tutta la tua vita trascorsa, poiché non ci crederei!»
L'uomo, però, prima ancora di attendere da lui la conferma oppure la smentita, rapidamente si era trasferito altrove con la mente. Nel medesimo istante che il giovane gli aveva confermato il suo nome, egli si era estraniato mentalmente dai suoi ospiti. La sua coscienza, non più adatta a far fronte al reale presente, suggestionata com'era, aveva spiccato un bel volo nel passato. Lucebio, al sentir pronunciare quel nome da lui molto gradito, aveva provato una grande emozione e se ne era volato via con la mente in una realtà remota. La quale gli era rimasta molto cara e adesso gli faceva rivivere dei ricordi indimenticabili. Perciò quella sua calma imperturbabile, la quale da molti anni non si era lasciata alterare da alcun evento e risultava la forza che alimentava le speranze dei Dorindani, aveva accusato per la prima volta una certa fiacchezza. Infatti, era bastato il nome di Iveonte a togliere ad essa ogni sigillo di resistenza e ad infrangerla in pochi istanti, come se si fosse trattato di un fragile vetro! Per cui Lucebio non si riconosceva più; pareva che l'animo di un emozionato bambino avesse sostituito quello attuale di adulto, rendendolo sensibile ad ogni più piccolo cambiamento affettivo. Adesso la sua mente andava ormai frugando nella cassetta dei ricordi, poiché ce n'erano alcuni a cui egli intendeva rivolare con ardore.
Quando poi li ebbe ritrovati, egli volle impossessarsene con grande amore e con tenerezza. In verità, ai tre giovani parve che egli li stesse rivivendo nella realtà con intensità, così suggestionato appariva il suo volto! Per questo non tentarono di distoglierlo dai suoi ricordi per non defraudarlo di un gaudio, che in quel momento si presentava in lui genuino ed intimamente avvertito.