62°-IL PICCOLO LUCEBIO SCAMPA ALL’INCURSIONE DEI TANGALI

Il luccichio delle stelle appariva oramai incerto sulla volta celeste. La quale, ad oriente, incominciava ad essere invasa da un tenue chiarore, siccome l'alba già vi stava stemperando il buio della notte. I primi albori, quindi, si andavano propagando per tratti di cielo sempre più ampi, allorquando il canto del gallo si fece sentire cupo per la sonnolenta vallata. Le persone, che a quell'ora erano già sveglie, all’istante notarono che nel verso sinistro del fasianide si notava qualcosa di misterioso. Perciò esso poteva soltanto indurre i suoi ascoltatori a preoccuparsene. A differenza degli altri giorni, il pennuto animale non aveva accolto il mattino con la sua solita nota di gaia vivacità; al contrario, vi aveva fatto dilagare un presentimento inquietante. Il quale, a ben rifletterci, spingeva la gente a temere qualcosa di molto terribile che stava per succedere in quei luoghi da loro abitati. Il canto del gallinaceo, anziché manifestarsi con la sua consueta ilarità mattutina, era sembrato esprimere un umore ben differente. Esso aveva voluto preannunciare una nefasta sciagura, la quale era prossima ad abbattersi sui laboriosi contadini del luogo.

Se gli àuguri avessero ascoltato quel chicchirichì dal timbro cavernoso, immediatamente si sarebbero messi ad esclamare: "O divino Matarum, ti scongiuriamo affinché non avvenga la catastrofe immane che sta per abbattersi sui pacifici popoli dell'Edelcadia. Nello stesso tempo, ti imploriamo con fervore di essere clemente verso i tanti condannati alla infelicità, per averti offeso in qualche modo senza volerlo! Perciò fai che essi continuino a godersi la pace, che da anni rappresenta per loro il solo conforto e l’unica gioia!" Purtroppo, non era il buon Matarum ad inviare le infinite sventure in arrivo sull'amena regione edelcadica. Invece era una divinità malefica la colpevole di quanto era sul punto di piombare addosso agli sventurati Edelcadi, per cui inutili sarebbero state le loro supplichevoli preghiere e i loro esilaranti sacrifici. Difatti l'oscura entità del male ugualmente avrebbe dato origine nella loro regione a crudeli guerre fratricide per ingenerarvi un profondo sovvertimento sociale e religioso. Con quel suo atteggiamento ostile, essa si prefiggeva di minare alla base le varie forme di bene e di giustizia, quelle che vi si erano radicate da tempo immemorabile.

Il lugubre canto emesso dal galliforme costrinse ad una raggelante pausa di riflessione anche Gonmo e Raida, la coppia di contadini di nostra conoscenza. All'udirlo, perfino il loro bambino, mostrando un singolare istinto, preavvertì un imminente pericolo in arrivo e se ne spaventò terribilmente. In quegli attimi tremendi, i due giovani coniugi si trovavano nel loro letto, dove stavano trascorrendo dei momenti di ineffabile dolcezza. Entrambi erano intenti a vezzeggiare il loro figlioletto di due anni, il quale, come abbiamo avuto modo di apprendere in precedenza, alla sua nascita era stato chiamato Lucebio. Facendo stupire i suoi genitori, già alla sua tenera età, egli dava segni di una intelligenza e di una intuizione che erano fuori del comune. Se poi c'è qualche lettore desideroso di conoscere il motivo della loro stupefazione, provvediamo subito ad accontentarlo. Il padre e la madre prima gli mostravano un gingillo e dopo cercavano di nasconderglielo in una delle loro quattro mani. Allora il piccolo, dimostrando una sicurezza infallibile, si buttava ogni volta sulla mano che teneva celato l'oggetto del proprio trastullo. Comportandosi in quel modo incredibile, Lucebio, oltre a tenerli a bada con sorprendente bravura, li faceva pure stupire moltissimo.

Adesso i due terrorizzati consorti si andavano chiedendo quale calamità disastrosa fosse in procinto di presentarsi in quelle zone scarsamente popolate, abitate da loro e da altri coloni che vivevano sparsi qua e là. I due giovani erano convinti che il verso del gallo non era stato il solito che erano abituati ad ascoltare ogni mattino. Secondo il loro parere, esso era apparso un autentico lamento, come se volesse predire una pioggia di guai per tutti quanti gli abitanti della regione. Allora la considerazione, che l’impensierita donna fece al marito, fu la seguente:

«Gonmo, secondo te, il gallo stamattina quale sciagura ha voluto preannunciarci, per essersi messo a cantare con un tono così sinistro? Non è apparso pure a te che il suo canto non sia stato uguale a quello degli altri mattini? Oppure mi sono sbagliata io a giudicarlo tale?»

Il contadino, però, pur essendo più preoccupato di lei, non glielo diede ad intendere, unicamente per una questione di orgoglio, se proprio non vogliamo imputarlo alla sua inarrendevole mentalità maschilista. Comunque, non potendo fare altrimenti, alla fine egli le rispose:

«Me lo vado domandando anch’io, Raida, siccome ho avuto la tua stessa impressione, in merito al nostro animale domestico. Ma ciò che trovo più strano è il fatto che il suo canto ha impaurito pure il nostro Lucebio! Comunque, non bisogna esagerare fino al punto, da farne una tragedia. Anche perché potrebbe trattarsi esclusivamente di una nostra impressione, che non ha alcun fondamento. Perciò faremmo meglio, se evitassimo di dare troppo peso a quanto è avvenuto stamattina!»

«Gonmo, sul serio non credi che il nostro gallo ci abbia voluto presagire delle grandi sventure? Se sì, io non sarei dello stesso tuo parere!»

La moglie gli si rivolse ancora con ansia, la quale andava accrescendo in lei di minuto in minuto, procurandole parecchio malessere.

«Non so come esprimermi in proposito, mia diletta. Ma ti consiglio di non farci caso e di imputare l’evento ad una semplice raucedine del pennuto, la quale gli sarà stata provocata dall'umidità della notte! Ma adesso cerca di stare tranquilla, per favore, poiché faresti meglio!»

«Invece, Gonmo, non riesco a darti retta, siccome in questo momento non mi sento per niente serena. Inoltre, devo confessarti che in me si va insediando un conturbante presentimento di morte ed avverto pure un abbandono quasi totale da parte delle mie forze. Se lo vuoi sapere, fisicamente mi sento trasformarmi in una persona anchilosata!»

«Come ti vengono in mente questi tetri pensieri, mia amabile Raida?! Secondo me, adesso cominci ad esagerare per davvero! Perciò ti invito a recuperare la calma, se vuoi evitare di infondere pure nel mio animo l'enorme agitazione che si sta avendo in te. Ma ti garantisco che essa ti viene trasmessa da un pericolo, il quale può essere solo insussistente!»

«Volesse il cielo che fosse come hai detto, mio Gonmo! Temo però che io a buon ragione stia caricando la dose, nel farti presenti le brutte cose che percepisco nel mio animo. Non ti sei accorto che anche il nostro piccolo Lucebio, dandosi ai suoi forti strilli senza alcuna tregua, dimostra che la pensa esattamente come me?»

Proprio in quell'istante, i due contadini furono certi che un cavallo si stava avvicinando di gran carriera. Poco dopo essi lo sentirono pure fermarsi nelle vicinanze della loro casa. Ma prima che il suo galoppo riprendesse la sua corsa, qualcuno dal di fuori si mise a gridare con quanto fiato avesse in gola: "Gente di questa fattoria, svegliatevi, poiché gli odiosi Tangali hanno sconfinato di nuovo e si sono ridati a fare le loro scorrerie sui nostri territori! Ben presto essi saranno anche dalle vostre parti! Perciò, se non volete diventare le loro vittime da torturare, scappate via alla svelta!" Cessate infine le parole dello sconosciuto cavaliere, il cavallo si ridiede alla sua corsa precipitosa.


Chi erano i Tangali e come mai incutevano tantissimo timore agli abitanti di quelle terre divenute da poco a noi note? Si trattava di un popolo che era venuto fuori dalla mescolanza di due gruppi etnici, ossia i Tansi e i Sagali. Tali popoli, già molto tempo prima della loro fusione, si erano stanziati nella regione, che era situata a nord dell'Edelcadia, il cui nome attualmente era Tangalia. Questa, che aveva una estensione doppia di quella dei territori di Terdiba e di Litios messi insieme, a nord confinava con le terre litiosine. Invece ad est, come confine naturale, la stessa regione aveva l'impervia catena montuosa di Elpasan. In relazione al suo territorio, esso formava un'ampia conca stepposa, dove si riscontrava un clima marcatamente continentale. Ma, per il popolo che l'abitava, l'unica porta di accesso alla fiorente regione edelcadica erano i territori posti sotto la giurisdizione del villaggio di Litios. Ecco perché sovente esso sconfinava nei territori litiosini per farvi razzie oppure per conquistare addirittura l’intera Edelcadia.

C'erano voluti più di due secoli di contrasti e di atteggiamenti bellicosi, prima che le due popolazioni stringessero un patto di sangue e si fondessero in unico grande popolo. Prendendo l'attuale nome, esse avevano accettato di rispettare le stesse leggi. I due popoli lo avevano coniato, ricorrendo ai loro nomi originari. Per la precisione, avevano preso la parte iniziale dell'uno "(Tan)si" e quella finale dell'altro "Sa(gali)", ottenendo il nuovo nome, diventato "Tangali". Costoro, essendo guerrieri spietati, da vari secoli facevano continui tentativi di impadronirsi delle fertili terre dell'Edelcadia. Saltuariamente, perciò, sconfinavano ed invadevano i limitrofi territori litiosini, dove si davano a seminare ogni volta distruzione e morte. Per tale motivo, da alcuni secoli, essi erano diventati il flagello delle popolazioni litiosine di confine, costringendole a vivere nel terrore in ogni momento della loro esistenza.

La prima invasione dell'Edelcadia, da parte del popolo tangalo, c'era stata sette secoli prima, ossia quando il villaggio di Litios non esisteva ancora. A quel tempo, spinto da un velleitario progetto di conquista, il suo capo Stactus aveva raccolto un grande esercito ed aveva cominciato ad occuparla. La qual cosa immediatamente aveva spinto i re degli otto regni edelcadici a coalizzarsi, essendo intenzionati a difendere la loro regione con tutte le loro risorse belliche. Così i loro sovrani erano intervenuti nel conflitto con numerosi armati, dopo essere partiti dalle loro città, che erano: Casunna, Terdiba, Cirza, Bisna, Statta, Polca, Stiaca ed Actina. In verità, le loro milizie, solo dopo essersi ricongiunte nei pressi di Terdiba, avevano fronteggiato gli invasori Tangali. La vittoria era stata propizia agli Edelcadi coalizzati, grazie allo stratega Litiore, il quale comandava l'esercito di Terdiba. Le sue virtù strategiche, che si erano rivelate subito vincenti, non avevano avuto difficoltà a scompigliare e a sconfiggere le orde tangaliche, facendone un grande eccidio.

A guerra finita, dietro proposta di Sarteto, che era il re di Terdiba, gli otto monarchi edelcadici alleati avevano voluto premiare il valoroso Litiore, essendosi dimostrata vincente la sua tattica militare. Come premio, gli era stata concessa l'intera fascia di territorio confinante con la Tangalia, perché vi fondasse un villaggio. Secondo il parere degli otto munifici sovrani, la presenza in quel luogo del valente stratega avrebbe distolto gli irriducibili loro nemici da ulteriori iniziative di invasione, almeno fino a quando fosse vissuto il glorioso Terdibano. Litiore, da parte sua, non aveva perso tempo a fondarvi il villaggio da loro auspicato e gli aveva dato anche un nome, ossia Litios, divenendone il capo.

A questo punto, però, avendo appreso come era sorto il villaggio in questione e chi ne era stato il primo capo, ci conviene ritornare al coinvolgente racconto che stavamo seguendo. Il quale, purtroppo, con il suo prosieguo, anziché deliziare il nostro tempo, non potrà fare a meno di intossicarcelo, a causa di un episodio crudo e spiacevole, al quale tra poco ci farà assistere. Ma da esso anche ci deriverà qualche consolazione, come tra breve apprenderemo dal seguito della nostra storia.


Sentendo pronunciare il nome dei Tangali, la donna impallidì; mentre il consorte, incupendosi in volto, si diede ad imprecare con rabbia contro di loro, facendo intendere di non volere più smettere. Il suo sfogo fu il seguente: "Stramaledette canaglie tangale! Perché vogliono ad ogni costo ciò che appartiene agli altri? Si vede che hanno dimenticato la bella lezione che ricevettero dal nostro Litiore settecento anni fa! Come pure non ricordano la recente batosta, quella che hanno incassato ad opera del nostro capo Kodrun! Speriamo che egli sia stato già informato del loro nuovo sconfinamento! Quel valoroso uomo, che già ci ha dato prova di essere molto in gamba, è in grado di accoglierli con i dovuti modi, dimostrandosi degno discendente del suo glorioso progenitore!"

Allora la consorte gli fece osservare:

«Gonmo, non è questo il momento di imprecazioni e di riflessioni, poiché esse non possono servirci a niente. In questa circostanza assai difficile per noi, la sola cosa, che può risultarci utile e che ci sbrigheremo a fare, è darci ad una tempestiva fuga. Soltanto così potremo condurci il più lontano possibile da questo posto, il quale può diventare pericoloso per tutti i coloni litiosini, se non ci sbrighiamo a lasciare questi luoghi!»

«Hai ragione, Raida, mia dolce consorte! Perciò affrettiamoci a scappare, senza perdere altro tempo. Intanto che tu prepari il nostro piccolo, io cerco di affardellare dei viveri e del vestiario da portare via con noi nella precipitosa fuga che ci attende. In questo modo, durante il nostro tragitto, anche se non potremo disfarci della paura, almeno eviteremo di soffrire il freddo e la fame!»

Così, dopo aver sistemato ogni cosa sul carro, i due contadini vi presero posto con il loro bambino e si diressero speditamente verso il villaggio di Litios, a capo del quale a quel tempo stava Kodrun, che era succeduto al padre Ursito. Mentre essi si allontanavano, alle loro spalle, sulla linea dell'orizzonte, si scorgevano varie volute di fumo, le quali si sprigionavano dalle case coloniche che gli invasori razziatori avevano ormai raggiunte e date alle fiamme. Esse, levandosi al cielo nerastre e vorticose, convincevano la gente in fuga che i loro terrorizzatori erano assai vicini. L’avanzata dei Tangali, inoltre, infondeva nei coloni fuggiaschi un terribile spavento e procurava agli stessi parecchia inquietudine.

Gonmo e Raida, insieme con il loro bambino, dovevano sbrigarsi, se non volevano farsi raggiungere e seviziare dagli obbrobriosi nemici. Ma il loro carro, trainato com'era da un solo cavallo nonché sovraccarico di masserizie e dei tre passeggeri, non poteva competere con i veloci corsieri dei Tangali. I quali, dal canto loro, avanzando rapidi come il vento, bruciavano le masserie che incontravano sul loro percorso. Nello stesso tempo, uccidevano tutte le persone che vi sorprendevano; né si astenevano dal violentare barbaramente le donne.

«Poveri noi!» esclamò Raida, vedendo che le cose si mettevano male «A quanto pare, io presentivo il vero, Gonmo! Invece tu non hai voluto credermi! Adesso vado avvertendo maggiormente l'arrivo della morte. Mentre la paura, che mi proviene dal pensare ad essa, comincia ad agghiacciarmi il sangue nelle vene!»

La donna, infatti, avendo perduto la calma, non riusciva più a stare tranquilla. Ma dopo una breve pausa di meditabondo silenzio, si rivolse ancora al marito, dicendogli:

«Lo sai che il nostro Lucebio è un vero prodigio, dolce marito mio?»

«Non ne dubito, Raida; anzi, l'ho sempre considerato tale!» l'uomo si mostrò d’accordo con la moglie, nel ritenere prodigioso il loro bambino. Subito dopo le aggiunse:

«Non temere alcun pericolo, mia brava mogliettina, perché anche Kodrun può raggiungerci a momenti. Sono convinto che egli a quest’ora sarà stato già avvertito da qualche colono dello sconfinamento dei prepotenti Tangali. Per questo il nostro valoroso capo si sarà già messo in cammino sollecitamente con l'intenzione di stritolarli e di portarci il suo sospirato aiuto! Che il dio Matarum lo faccia arrivare in tempo!»

Raida sorrise affettuosamente al proprio marito. Nel medesimo tempo, si strinse al petto il piccolo Lucebio con tutta la forza che aveva. Poi, senza smettere di contemplarselo, sembrò che volesse garantirgli con gli occhi: "Non temere, tesoruccio mio, perché non permetterò a nessuna persona di farti il minimo male! Te lo promette la tua amorevole mammina, la quale per te è disposta a fare qualunque sacrificio!"

Nel frattempo era sopraggiunta la buia notte. Allora i due coloni fuggitivi, volendo concedersi un po' di riposo, decisero di accamparsi in un canneto, che avevano incontrato sul loro cammino. Comunque, anche se avessero voluto seguitare ad andare avanti, non lo avrebbe permesso il loro stanco cavallo, il quale era stato la vittima più sacrificata in quel fuggi fuggi. La bestia si era ridotta allo stremo delle forze e nessuno più, in quella dannata corsa, avrebbe potuto costringerla a proseguire oltre!

Per i due atterriti consorti, quella notte si rivelò ben presto un vero incubo. Appena calate le tenebre, il pericolo incombente si diede ad attanagliarli in una pungente malinconia e in una tristezza quasi implacabile. I poveretti si vedevano immergersi in una fitta rete di penose ansie, le quali li privavano della calma e del sonno. Oramai sui loro volti erano avvertibili unicamente un'angoscia inesprimibile e un dolore profondo: l'una e l'altro insieme acuivano la loro incessante pena! A rendere il quadro della situazione ancora più lugubre e funesto, c’era lo strano mutismo, in cui si era rinchiuso il loro figlioletto. Egli preferiva esprimere il suo terrore attraverso i suoi occhietti, che si mostravano abnormemente sbarrati. Gonmo e Raida, da parte loro, giacendo supini sopra una coperta di lana, se lo tenevano in mezzo a loro, appunto per farlo sentire sereno. Se nelle parti circostanti ogni angolo era buio pesto e immerso in un sepolcrale silenzio, nei loro pensieri andava balenando lo spettro della morte. Allora la donna confidò al marito:

«Gonmo, penso che per noi due questa sarà l'ultima notte messa a nostra disposizione dal destino. È come se la vedessi già spalancare le sue incontinenti fauci, pronta ad inghiottirci insieme in un solo boccone. Povero il nostro Lucebio! Una volta che siamo morti noi, quale sarà il suo destino? Non ci voglio neppure pensare, ad evitare di soffrirne!»

«Raida,» l'assecondò il consorte «un presentimento simile ha iniziato a serpeggiare anche nel mio animo abbattuto. Qualcosa dentro di me pare che voglia disfarmi ed annientarmi. Comunque, cerchiamo di scacciare da noi i tanti brutti pensieri ed evitiamo di demoralizzarci più del dovuto. Sono convinto che c'è lo zampino della paura a far sì che noi due veniamo assaliti da questi foschi presagi di morte!»

Così dicendo, egli allungò la propria mano sulla riccioluta testolina del bimbo; mentre su quella sua venne ad appoggiarsi la gelida mano della moglie. La sventurata donna, in quella notte di terrore, appariva eccessivamente stravolta e non riusciva a rasserenarsi in alcun modo. Ella veniva sopraffatta dal pensiero del pericolo imminente, il quale la frastornava totalmente e la faceva essere la vittima di un presente, il quale non era disposto ad indulgere per niente verso di loro, che erano divenuti i nuovi perseguitati dalla sorte.


Dopo una interminabile nottata trascorsa dai due coniugi nell'insonnia e in un grave perturbamento psichico, il mattino si ripresentò sotto un plumbeo cielo. Il povero Gonmo si alzò tutto acciaccato, come se durante le ore notturne fosse stato impegnato in un lavoro assai spossante. Benché accusasse dei lievi capogiri e una parziale confusione mentale, il suo primo pensiero fu quello di accertarsi se sul lato nord si scorgessero i loro sanguinari nemici. Allora, con grande amarezza, egli vi intravide la temuta turba dei cavalieri tangali. Essi, che potevano essere scorti ad una distanza non superiore alle tre miglia, avanzavano a forte velocità, facendo sollevare dal suolo una densa nuvola di polvere. A quella visione, egli si affrettò a gridare alla moglie:

«Raida, dobbiamo sfrattare all’istante da questo luogo ed abbandonarlo, poiché i maledetti Tangali ci sono alle calcagna! Molto presto essi ci raggiungeranno, se non filiamo alla svelta dal posto in cui siamo!»

Non essendoci tempo da perdere, i due sventurati contadini impiegarono pochi minuti a riattaccare la bestia al carro e a salirvi sopra con il loro spaventato e piangente bambino. Dopo essi lasciarono il canneto e ripresero la loro corsa in direzione del loro villaggio, il quale, per la verità, si trovava ancora molto lontano. Invece fu esattamente mentre si immettevano sulla via maestra che i due fuggiaschi furono avvistati dai nemici razziatori, che si trovavano a una distanza non più notevole. Essi subito badarono a raggiungerli nel più breve tempo possibile, siccome non vedevano l'ora di sottoporli alle loro crudeli sevizie, come avevano già fatto con tanti altri coloni di quelle zone confinanti, che non avevano avuto l'opportunità di evitarli e di sottrarsi alle loro torture.

I due inseguiti contadini, da parte loro, non si davano per vinti e spronavano con maggiore foga la loro bestia, anche se essa trainava a malapena il veicolo che li trasportava. Essi volevano vederla distanziare di più gli inseguitori, che seguitavano a rincorrerli con ostinata animosità. Al contrario, nonostante Gonmo incitasse il loro cavallo con tenace insistenza, poiché desiderava vederlo aumentare sensibilmente la sua velocità, i Tangali venivano scorti a una distanza sempre più ravvicinata. Quando poi essi furono distanti appena due miglia dal carro, ai due consorti in fuga sembrò che anche davanti a loro, sul lontano orizzonte, una nuvola di polvere si sollevasse dal suolo e si innalzasse verso il cielo. Il quale, poiché l'alba era appena spuntata, proprio in quell'istante si stava riaffacciando alla luce. Allora l’uomo si mise a gridare tutto giubilante: “Evviva, Raida! Arrivano finalmente i nostri a salvarci dai nemici! Kodrun viene a punire gli imprudenti e scalmanati sconfinatori! Egli darà a tutti loro la lezione che si meritano, affinché essa serva poi di esempio agli altri Tangali, ai quali in futuro venisse la voglia di imitarli!”

Invece la consorte non si mostrò altrettanto euforica, non essendo ella del medesimo avviso. Il suo istinto femminile, dotato di maggior senso realistico, non la tradì e le fece vedere come stavano effettivamente le cose. Perciò comprese che esse non stavano affatto come le voleva far credere a ogni costo il suo fiducioso marito. Allora ella intervenne a riprenderlo terribilmente preoccupata:

«Gonmo, mi dici di cosa ti rallegri? Non ti rendi conto che, quando Kodrun e i suoi uomini ci avranno raggiunti, noi non saremo più in grado di rallegrarcene? Oramai i Tangali ci sono molto vicini e, prima che i nostri saranno qui, essi avranno già spediti noi due nel tenebroso regno di Buriok. Spero soltanto che ciò non accadrà al nostro bambino!»

Le parole di Raida fecero oscurare ancora di più il volto di Gonmo, il quale, volendo convincersene, rivolse lo sguardo indietro con crudo disinganno. Così anch'egli si rese conto che i loro inseguitori, essendo ormai ad una manciata di minuti, ben presto li avrebbero raggiunti e trucidati, senza mostrare la minima misericordia nei loro confronti.

Pochi attimi dopo, mentre permaneva quella circostanza drammatica nella loro attuale esistenza, un espediente geniale venne a balenare nella mente della donna. Secondo il suo parere, se avesse dato i suoi frutti, esso avrebbe salvato la vita almeno al loro figliolo. Perciò volle metterne a conoscenza il marito, illustrandoglielo come meglio poteva.

«Gonmo,» ella si diede a dirgli «a questo punto, possiamo ritenere ineludibile la nostra fine, in quanto già decretata dal destino. Infatti, essa già ci si presenta con certezza assoluta. Ma ti sembra giusto che, insieme con noi, muoia pure il nostro piccolo Lucebio? A me no! Allora perché non cerchiamo di evitargli la nostra stessa terribile sorte?»

«Raida, neppure io lo trovo giusto.» a sua volta, le rispose il marito «Un fatto del genere senz'altro risulterebbe iniquo e disumano, se si verificasse per davvero! Ma noi non possiamo assolutamente vietarlo!»

«Quindi, Gonmo, essendo della mia stessa idea, pure tu saresti disposto a salvare il nostro Lucebio, se ci fosse la possibilità. Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Se non morirà con noi, almeno lui potrà continuare a vivere con le altre persone della sua gente!»

«Certo che è così, dolce Raida! Ma mi dici in che modo vorresti metterlo in salvo?» le chiese il brav’uomo «Se devo esserti sincero, per come si sono messe le cose, non riesco a scorgere una sola via di scampo nemmeno per lui! Convincitene anche tu!»

«Esattamente come adesso ti spiego, amore mio. Prima nascondiamo il nostro bambino dentro una soffice coltre di lana, non dimenticando di praticarvi un foro che gli permetta la respirazione. Dopo, intanto che il carro sèguita a correre, lo alleggeriremo della roba che si trova ammassata sull'assale. Infine lo abbandoneremo pure noi, buttandoci insieme giù da esso. Vedrai che i Tangali baderanno a spacciare noi due, anziché inseguire un carro considerato da loro praticamente vuoto, senza più una vittima da sottoporre ai loro scempi crudeli. Quindi che ne dici di questa mia trovata? Non la trovi pure tu ottima?»

«Oh, quanto ti adoro, Raida! Io la trovo magnifica e sono persuaso che solo ad una madre essa poteva venire in mente! Possa il dio Matarum rendertene merito ed accoglierti tra poco nel suo regno dell'eterna beatitudine! Naturalmente, egli dovrà anche permettermi di restare per sempre al tuo fianco, dopo che saremo morti!»

Terminate le sue esclamazioni elogiative, le quali gli erano uscite dal profondo del cuore, il colono subito badò a sollecitare la moglie, dicendole con grande premura:

«Avanti, Raida, adesso cerca di impegnarti come hai detto, aggiustando alla svelta Lucebio sul carro! Intanto farò di tutto per infondere maggiore vigore nella nostra bestia. Con la sua estrema carica precipitosa, vedrai che essa ci darà più tempo, nel tradurre in atto l'espediente da te escogitato, in virtù di un tuo lampo di genio!»

Dopo che ebbero nascosto per bene il loro bambino in una coperta di lana e si furono anche sbarazzati dell’intera roba che era ammassata sul loro carro, i due consorti si lanciarono senza esitazione dal veicolo di legno a due ruote. Nel brutto ruzzolone che ne seguì, mentre Raida si ruppe la gamba destra, Gonmo riportò una lussazione al ginocchio sinistro e diverse escoriazioni in varie parti del corpo. Invece il carro, da quel momento in poi, anche a causa dell'avvenuto alleggerimento, incominciò ad essere trainato a rotta di collo dall’unico cavallo che vi era legato. Da parte loro, i malmessi consorti, essendo rimasti quasi immobilizzati nella polvere, cominciarono a lamentarsi delle ferite riportate nella caduta. Fu appena poco dopo che gli ombrosi Tangali li raggiunsero e li accerchiarono. Allora colui che li comandava chiese ai due coniugi:

«Mi dite perché mai vi siete buttati giù dal carro da veri incoscienti, riducendovi nello stato pietoso in cui versate adesso? Non riesco a comprendere il vostro folle gesto, il quale è stato tutto a nostro favore!»

Allora la risposta del colono arrivò subitanea, secca e decisa:

«Tu devi essere completamente guercio oppure matto fino al midollo, se parli in questo modo! Come ti saltano in mente idee così balorde?! Vuoi dirmi perché mai io e la mia donna ci saremmo dovuti gettare apposta dal carro? Forse per finire prima nelle vostre mani assassine? Sappi che non siamo ancora allocchi a tal punto! Invece è stata la carrareccia dissestata a cagionare al nostro carro degli improvvisi e forti sobbalzi! Gli scossoni, come puoi vedere, scaraventandoci giù dal veicolo, ci hanno fatto cadere ruzzoloni per terra. Anche le nostre poche masserizie, sempre a causa del terreno accidentato, poco prima avevano fatto la fine alla quale pure io e la mia consorte siamo andati incontro qualche attimo più tardi!»

«Ammesso che quanto da te asserito sia vero, Litioside, tu e tua moglie almeno sapete cosa vi attende tra poco? Oppure ve lo debbo illustrare nel modo migliore possibile?» gli domandò il Tangalo, facendo apparire dal suo volto un truce sadismo.

«Certo che lo sappiamo, maledetto uomo perverso!» sdegnato, gli rispose l'impotente Gonmo «Sappi, però, che anche tu e i tuoi uomini malvagi molto presto andrete incontro alla medesima nostra sorte. Ciò avverrà, non appena vi avrà raggiunti il nostro valoroso capo, il quale, come vedete, sta già per arrivare! Perciò sia lungi da voi l’idea di farla franca, quando egli giungerà qui per farvela pagare caramente!»

A tali parole del colono litiosino, il Tangalo si infuriò ed ordinò ai suoi uomini che si procedesse alla loro esecuzione. Inoltre, raccomandò agli stessi di far risultare la morte dei due malcapitati più lenta e più dolorosa che mai. A tale raccomandazione egli era stato spinto dalla sfrontatezza mostrata dal suo interlocutore, mentre gli rispondeva per le rime. Fu così che i suoi brutti ceffi subalterni, con l’intenzione di ubbidirgli, formarono all’istante un grande cerchio intorno ai due coniugi infelici e si misero a cavalcare in modo vertiginoso sui loro cavalli. Correndo in quel verso, essi scagliavano armi di ogni sorta contro i due coloni; ma anche stavano attenti a non colpire i loro organi vitali. Nel protrarre l'atroce martirio degli sventurati, i carnefici prolungavano il loro divertimento preferito, provandone un perfido piacere. Ma essi ignoravano che, agendo così, inconsapevolmente permettevano al carro di avvicinarsi sempre di più ai soldati litiosini, i quali stavano arrivando a tutta velocità. Di conseguenza, garantivano anche la salvezza al bambino.

Mentre le sofferenze la riducevano in fin di vita, la donna, accettandole con un esemplare martirio, si preoccupava solamente del carro. Perciò diceva al marito:

«Gonmo, possano durarmi una eternità queste insopportabili trafitture, poiché dal loro dilungarsi dipende la vita del nostro Lucebio! Sebbene mi provochino dolori lancinanti, non le detesto. Al contrario, sto provando per esse il massimo gaudio e un compiacimento profondo, i quali mi provengono dal mio animo appagato!»

Sarebbe assurdo non riconoscere che un amore ed un sacrificio materni straordinari, oltre che degni della più grande venerazione, albergavano nella serena accettazione di tanta atroce sofferenza fisica. Perciò essa era da definirsi senza dubbio un atto superiore al comune eroismo! Mentre la moglie gli parlava, Gonmo venne colpito mortalmente da un giavellotto, il quale gli perforò il costato. Allora, prima di spirare in pace, egli si rivolse sorridente alla moglie e le si espresse con queste parole colme di rassegnazione:

«Non fa niente che io muoia, Raida. Ciò che è importante per me è scorgere Lucebio già salvo tra i soldati di Kodrun. Adesso sono contento di morire, dal momento che pure il mio sacrificio, insieme con il tuo che ci sarà tra breve, sarà valso a salvargli la vita. Ma sono sicuro che tra poco, nell’altra esistenza, continueremo a gioire insieme!»

Il poveretto, mentre si esprimeva con tali toccanti parole, poggiò la testa sulle gambe della consorte ed esalò l'ultimo respiro. Qualche attimo dopo, pure la donna, abbozzando un lieve sorriso, si accasciò sopra di lui priva di vita. Un altro giavellotto, avendole trafitto un polmone proprio mentre il marito moriva, aveva troncato anche a lei l’esistenza.

Nel frattempo, il carro aveva raggiunto Kodrun e i suoi agguerriti soldati. Essi avevano fatto presto a scoprire il bambino, siccome i suoi acuti strilli avevano richiamato la loro attenzione. Allora il capo di Litios, dopo avere affidato il piccolo a uno dei suoi soldati, ostinatamente aveva ripreso la corsa contro i nemici, i quali erano ormai a pochi passi. Egli si mostrava molto desideroso di avere quanto prima tra le grinfie gli spietati Tangali, poiché intendeva conciarli bene per le feste, volendo vendicare ad ogni costo quanti erano periti per mano loro. Lo scontro, che ne seguì a breve distanza di tempo, esplose violentissimo tra i due schieramenti rivali. Da entrambe le parti, perciò, esso si scatenò con una furia travolgente, considerato che gli uni tendevano ad aver ragione degli altri. Alla fine, però, furono gli uomini di Kodrun ad avere la meglio sui barbari Tangali, sbaragliando ed ammazzando i loro nemici in brevissimo tempo. Non c’è dubbio che anche tra i Litiosidi si dovettero registrare alcune vittime. Ma le lievi perdite subite da loro in tale circostanza furono ricompensate dal fatto che essi avevano saputo tenere ben alti l'onore e la gloria del loro villaggio.

Quando la battaglia ebbe termine, volle prendersi cura del bambino il soldato Chiorro, il quale tre mesi prima aveva conosciuto al villaggio il padre e la madre di lui. Egli aveva preso tale decisione, specialmente perché non era ancora riuscito ad avere un figlio dalla propria amata consorte, sebbene fosse sposato con lei da oltre una decina di anni. In preda ad una contentezza indescrivibile, l'uomo lo portò nella sua casa di Litios, dove lo affidò alle cure premurose della moglie Iterna, la quale si mostrò più felice di lui. Una volta accolto nella nuova famiglia, non ci fu bisogno di dare un nome al neo orfanello, poiché il padre putativo era già a conoscenza del nome che i suoi genitori naturali gli avevano dato. Egli lo aveva appreso a Litios da loro due, quando li aveva incontrati.