61-ALCUNI SCONOSCIUTI ATTACCANO IVEONTE E I SUOI AMICI
Con i primi baluginii del giorno, lembo dopo lembo, le tenebre iniziarono a ritirarsi da ogni angolo dello spazio celeste, fino a disperdersi in un terso chiarore. Il quale adesso si presentava ovunque in forte crescita. Oramai esso, diffondendosi dall'alto verso il basso ed occupando strati sempre più estesi, si andava adagiando sulla natura sottostante, come se fosse un velo nitido e trasparente. Ma soltanto dopo che l'aurora ebbe disseminato il firmamento di grappoli rosei e turchini, il cielo e ciascun paesaggio terrestre si arricchirono di un'attrattiva incomparabile. La quale, come per magia, li andava trasformando in suggestive sequenze colme di fascino pittoresco. Se non vogliamo falsare la realtà, bisogna far presente che, nelle prime luci madreperlacee del giorno, le bellezze paesaggistiche dei dintorni non erano le uniche a rappresentare un'attrazione di spicco. Ciò, almeno per alcuni viaggiatori che si trovavano a transitare per quei luoghi, dove era possibile scorgere anche campi adibiti a varie colture. Invece c'erano anche le opere dell'uomo a calamitare maggiormente l'attenzione di coloro che si trovavano a percorrere quei paraggi, che si trovavano nelle vicinanze di Dorinda.
Come era da aspettarselo, la principale di tali opere era rappresentata dallo staglio della città, le cui alte torri si scagliavano contro l'azzurro e limpido cielo. Esse, con il loro profilo imponente, oltre ad offrire una visione d'insieme seducente e spettacolare, grandeggiavano sopra tutte le altre bellezze presenti nelle zone circostanti. Le medesime davano a quelle persone, che avevano la fortuna di trovarsi ad ammirarle, l'opportunità sia di sognare imprese leggendarie sia di vedersi infiammare lo spirito da un fortissimo desiderio di compierle e di gloriarsene con somma soddisfazione. Per questo, con le sue massicce mura, munite di torrioni e di maschi rifulgenti, Dorinda apparve ai tre giovani di nostra conoscenza come una visione di sogno. La quale, in quelle luci iridescenti del mattino, già cominciava ad essere irradiata da un sole radioso e prorompente. L'imponente costruzione muraria cittadina suggestionò moltissimo Iveonte e Francide, poiché essi non ne avevano mai vista nessuna; mentre non suscitò alcuna impressione nel loro amico Astoride, siccome egli conservava ancora un vago ricordo della sua Terdiba. Riferendoci invece al primogenito del re Cloronte, pur essendo vissuto nella sua città, a causa della sua amnesia, era come se egli non l'avesse mai vista. Se poi vogliamo entrare di più nello specifico, sempre interessandoci alla Città Invitta, ebbene, le sue mura merlate, protendendosi verso il cielo, sembrava che volessero sfidarlo con il loro slancio superbo. Perciò, in quella loro altera apparizione, affascinavano in particolar modo i due ex allievi di Babbomeo. Essi, intanto che procedevano alacremente sui loro destrieri purosangue dalle froge fumiganti, non sapevano come manifestare il loro enorme stupore, talmente immensa si manifestava l'attrazione che tali mura esercitavano sul loro animo.
Sfavillanti nelle loro armi leggere, adesso Iveonte, Francide ed Astoride si dirigevano verso la famosa città, che era appartenuta al re Kodrun, per esserne stato il fondatore, la quale si trovava ormai a portata di mano. Specialmente i due amici fraterni volevano raggiungerla al più presto, poiché erano ansiosi di visitarla e di fare la conoscenza del suo sovrano. Intanto che si galoppava con spensieratezza, essi notavano l'enorme divario esistente fra le zone selvagge, che avevano abbandonato da poco, e le fertili terre, che stavano percorrendo con entusiasmo. In queste ultime, riuscivano ad avvertire in modo tangibile la presenza della meravigliosa opera umana, apprezzandola immensamente. Perfino ogni loro più piccolo dettaglio gli offriva lo spunto per nuove riflessioni e considerazioni, che cercavano di approfondire nella maniera migliore.
Entrambi avevano già l'animo stracolmo di ogni sorta di stupefazione, allorquando incontrarono sul loro cammino dei ruderi di un'antica ridotta. In un tempo assai remoto, con molte probabilità essa era stata eretta per arginare le incursioni tangale, le quali erano divenute sempre più frequenti sul territorio edelcadico confinante con la Tangalia. Le residue rovine della piccola fortezza si presentavano totalmente nascoste da alcune piante rampicanti. Le quali, proliferandovi con eccessivo rigoglio, con la loro azione invasiva si davano ad occuparne quei pochi spazi rimasti ancora scoperti. Ad ogni modo, anch'essi ne avrebbero subito la prepotente invasione in brevissimo tempo, siccome quelle specie vegetali non si arrendevano di fronte a nessun ostacolo e seguitavano ad avanzare anche nei posti più scabrosi, senza farsi fermare da niente.
Alla vista di tali rovine, Iveonte arrestò subito il suo cavallo baio, avendo deciso di dare uno sguardo più attento a quella complessa opera costruita in pietra. Intendeva, cioè, rendersi conto della ingegnosa arte muraria, che nel passato l'uomo vi aveva applicata con ingegno. Naturalmente, quegli avanzi di costruzione suscitarono la stessa curiosità anche in Francide, il quale volle secondare l'amico con altrettanto interesse. Allora Astoride, anche se poco interessato a quei ruderi, non poté fare a meno di seguirli e stargli dietro, ma solo come accompagnatore.
I tre giovani amici avevano appena posto piede fra tali squallide vestigia lasciate in balia del tempo profanatore, allorché furono assaliti alle spalle da forti grida forsennate. A quelle voci rabbiose, essi, essendosi voltati indietro in gran fretta, all'istante si resero conto che una ventina di brutti figuri dall'aspetto accigliato erano sbucati con determinazione da alcuni cespugli vicini. Adesso quegli uomini poco raccomandabili, brandendo delle grosse spade, si accingevano ad assalirli con furia selvaggia e con l'evidente intenzione di ammazzarli. Allora anche i tre amici, non appena li ebbero scorti che si accingevano ad attaccarli, diedero di piglio alle loro spade. Francide, da parte sua, proruppe a gran voce:
«Ehi, amici, arrivano numerosi lupi affamati! Sono convinto che essi hanno intenzione innanzitutto di farci la pelle e poi di impossessarsi di ogni cosa che ci appartiene! Ma non credete anche voi che essi abbiano fatto i conti senza l'oste, se hanno deciso di accopparci prima e di entrare successivamente in possesso di tutto quanto ci appartiene?»
«Sì che lo crediamo, Francide!» gli rispose Iveonte, anche per conto di Astoride «Gli assalitori, però, ignorano che sappiamo accoglierli con le dovute maniere. Ma quando quei predoni se ne renderanno conto, per loro sarà già troppo tardi, poiché non avranno più la possibilità di tirarsi indietro dalla mischia, quella che essi stessi hanno voluto provocare!»
Un attimo dopo, facendo roteare nell'aria le loro luccicanti spade, anche i tre giovani si scagliarono con fiero impeto contro i loro ostinati aggressori. Al loro primo urto, acconsentendovi con l'intero suo corpo, con agili colpi Iveonte abbatté tre degli avversari, i quali lo avevano assalito con prepotenza e ferocia. Un altro ne uccise Astoride, dopo averlo infilzato con la lama della sua spada, la quale gli trapassò il ventre da parte a parte. Francide, dal canto suo, inflisse al suo avversario una profonda ferita all'addome, che gli procurò un profondo squarcio. Perciò l'infelice, dopo aver emesso un urlo bestiale, dovuto al lancinante dolore da lui avvertito, stramazzò a terra morto, in una gran pozza di sangue.
Avvenuta quella iniziale avvisaglia, in seguito lo scontro tra i combattenti andò diventando, da entrambe le parti, sempre più aggressivo e furioso, ancora più impietoso ed inarrestabile; ma soprattutto si fece più brutale. Invece i loro ingenti colpi, assestati con molta forza ed impetuosità, non smettevano di risuonare alti ed insistenti tutt'intorno, facendosi udire anche parecchio lontano. A rifletterci bene, i dannati assalitori ce la mettevano tutta e si mostravano davvero terribili. Anzi, essi combattevano proprio come belve feroci, mentre si davano un gran daffare, al fine di vedere crepare i tre giovani, due dei quali erano stati addestrati in maniera impeccabile dal loro Babbomeo. C'era da scommettere che li aizzavano a combattere con maggiore ardimento gli stupendi cavalli dei tre avversari e le loro splendide armi, a cui intendevano far cambiare proprietario. Inoltre, se non ci si sbagliava, gli sconosciuti aggressori avevano tutta l'aria di chiudere in fretta la partita con loro.
Poco più tardi, vennero colpiti da Iveonte ancora due degli assalitori, i quali, avendo riportato delle gravi ferite, andarono ad accasciarsi presso un albero che si trovava nelle vicinanze. Quanto a Francide e ad Astoride, essi portavano avanti le loro azioni offensive e difensive. I due giovani, comunque, anche se vi si applicavano con impegno, esso risultava proporzionato alla temibilità di coloro che avevano davanti come rivali. In seguito il combattimento si protrasse ancora per breve tempo, cioè fino a quando Iveonte e Francide non si imbizzarrirono. Allora essi iniziarono a mettere ogni cosa sottosopra con i loro colpi irreparabili e portentosi. Per cui li si videro somigliare a due turbinosi cicloni che insistevano a sradicare alberi dal suolo, come se essi fossero degli striminziti fuscelli. Comportandosi in quella maniera, l'uno e l'altro abbatterono altri otto avversari che non gli davano tregua. Per la precisione, ne uccisero quattro ciascuno, colpendoli tutti in pieno petto. Nel frattempo, anche Astoride si era dato da fare, poiché lo si era visto eliminare i suoi tre assalitori, facendo così scendere a due il numero dei nemici rimasti ancora vivi. Questi ultimi, però, anziché continuare la lotta e fare la stessa fine dei commilitoni, preferirono deporre le armi ed arrendersi ai fortissimi combattenti nemici. La loro resa, in verità, avvenne in modo avvilente. Dopo essersi prostrati ai loro piedi, con gli occhi pieni di lacrime, essi supplicarono i tre guerrieri invincibili di aver pietà di loro e di graziarli. Allora i loro vincitori, non avendo nulla in contrario alla loro richiesta di grazia, generosamente li risparmiarono. Così agendo, essi dimostrarono una grandezza d'animo ammirevole. La quale virtù poteva essere riscontrata solamente in poche persone, che a quel tempo erano da considerarsi davvero delle mosche bianche.
Andati via i due malviventi da loro graziati, i tre giovani leoni si affrettarono a rinfoderare le loro spade, avendo deciso di abbandonare definitivamente quel posto, il quale, per niente previsto, si era trasformato all'improvviso in un luogo di combattimento. Comunque, dopo quel primo scontro sanguinoso, i tre amici pensarono che per il momento non ci sarebbero stati per loro altri grattacapi dello stesso genere, per aver dimostrato ai loro nemici di sapersi ben difendere e di essere pure assai temibili nell'attaccarli. Invece, contro le loro previsioni, si preparava per tutti e tre una nuova lotta contro altri individui, i quali potevano essere considerati degni compari dei loro primi importunatori. Pochi minuti dopo, infatti, Iveonte, Francide ed Astoride avvistarono altri quattordici uomini armati. Essi, dopo essere venuti fuori da una macchia in sella ad agilissimi sauri, si dirigevano pure verso di loro, allo scopo di attaccarli tremendamente. Con molte probabilità, i cavalieri in arrivo costituivano la retroguardia di quelli che li avevano aggrediti alcuni minuti prima. Senza ombra di dubbio, i nuovi aggressori che sopraggiungevano, siccome li avevano visti perire miseramente, adesso si mostravano intenzionati a vendicare i compagni che prima avevano affrontato la lotta come fanti. Perciò essi, arrivando dal lato destro a spron battuto, si ripromettevano di fare meglio dei loro compagni defunti. Anzi, erano convinti che avrebbero eliminato senza meno i responsabili della loro morte. Mentre si dirigevano contro i nostri tre valorosi cavalieri, impugnavano dei leggeri giavellotti e si tenevano pronti a lanciarglieli contro.
Questa volta fu Francide ad accorgersi per primo del piccolo drappello di uomini in avvicinamento, i quali stavano in groppa ai loro veloci destrieri. Egli, non appena li ebbe avvistati in lontananza che avanzavano contro di loro, senza porre tempo in mezzo, si era dato a gridare ai suoi due compagni, i quali in quel momento erano intenti a fare ben altro:
«Saltiamo subito in groppa ai nostri cavalli, amici, poiché dalla vostra destra stanno giungendo altri lupi famelici! Accogliamoli nello stesso modo in cui poco fa abbiamo accolto i loro amici! Così li faremo pentire della loro voglia di assalirci con propositi ostili, i quali, come facilmente possiamo intuire, potranno essere soltanto iniqui!»
Poco dopo si videro i tre giovani balzare in un attimo sopra le loro bestie e mettersi ad attendere i nuovi assalitori, senza scomporsi minimamente. Adesso, stando ritti sulle loro superbe bestie, si mostravano calmi e sereni, poiché anche i nuovi arrivati per loro non rappresentavano alcun pericolo. Ma poi, prima che i loro nemici si avvicinassero un po' troppo e gli venisse a mancare il tempo utile per prendere una rincorsa adeguata, essi, lancia in resta, partirono con la dovuta velocità ed andarono a scontrarsi con i loro avversari. Quando infine ebbero ritenuto ragionevole la distanza che li separava da loro, i tre giovani amici gli scagliarono contro le loro appuntite armi, avendole già a portata di mano. Esse, naturalmente, fecero tutte e tre centro. Invece i giavellotti dei loro rivali rimasti indenni fallirono in larga misura il bersaglio e non ci fu neppure bisogno di pararli con i loro scudi bombati.
Il successivo scontro si svolse, stando ancora a cavallo; però esso fu combattuto con le spade. Infatti, scagliate a vuoto le loro aste, gli undici aggressori rimasti incolumi innanzitutto obbligarono le loro bestie a fare un rapido dietrofront e dopo ritornarono ad un nuovo e più fiero assalto, mulinando le loro spade scintillanti. Nell'identica maniera si erano comportati Iveonte, Francide ed Astoride. Essi, una volta effettuata l'inversione di cavalcata, adesso si affrettavano a finire pure i rimanenti nemici, che erano sopravvissuti al precedente scontro. Allora, al suo primo urto con loro, assestando a ciascuno un saldo colpo, Iveonte riuscì a sbalzare dai loro cavalli i tre avversari che avevano tentato di ucciderlo senza pietà. Astoride, invece, sferrando un poderoso colpo di spada ad uno dei nemici, il quale gli si era diretto contro con stravaganza, gli troncò di netto il capo dal busto. Solamente l'infelice Francide fu disarcionato, per aver subito l'assalto dagli altri sette tutti insieme; però il giovane non riportò danno alcuno nel suo rovesciamento da cavallo. Così, mentre Iveonte ed Astoride si ritrovarono a competere con i sette avversari rimasti ancora in sella, Francide si diede a lottare con i tre rivali appiedati, i quali in precedenza erano stati sbalzati d'arcione da Iveonte. Proprio in quel momento, infatti, essi si stavano riprendendo dalla brutta caduta. Ma il prode giovane non dovette impegnarsi eccessivamente contro di loro, sebbene quelli avessero una statura gigantesca e non fossero digiuni del maneggio della spada.
Nel frattempo, avendo già trafitto mortalmente tre degli avversari, Iveonte si sbrigò ad uccidere anche il quarto, che era un uomo alto e corpulento. Costui, non volendo proprio saperne di essere ammazzato dall'avversario, ricorreva ad ogni strategia possibile, però senza conseguire alcun risultato concreto. Invece altri tre aggressori vennero eliminati dalla restante coppia di amici. Uno fu spedito al creatore da Astoride; mentre gli altri due furono ammazzati da Francide in brevissimo tempo. Ma poi fu ancora la volta di Iveonte di liberarsi del suo ultimo avversario. Così gli fu possibile correre a dare manforte al compagno Astoride, il quale era alle prese con due degli avversari aggressori. A quel punto, ciascuno dei tre amici si ritrovò ad avere contro un solo antagonista, dal momento che erano stati messi fuori combattimento tutti gli altri. Lottandosi allora con grande animosità e valentia, alla fine Iveonte, Francide ed Astoride riuscirono a trafiggere nello stesso istante la terna dei loro infuriati nemici, essendo convinti di privarli di una sporca esistenza. A combattimento avvenuto, essi ripresero l'interrotto cammino verso la vicina città di Dorinda. Va aggiunto che prima, combattendo con animosità, l'amico d'infanzia di Iveonte non si era astenuto dall'esprimersi con trovate originali e bizzarre, le quali erano servite a farli divertire moltissimo! Egli aveva mostrato una baldanza inverosimile in quel suo abile inferire di colpi a destra e a manca, senza esimersi da qualche battuta spiritosa. Il combattimento, per lui, come si era notato, aveva assunto le caratteristiche di un vero gioco da bambino.
A questo punto, però, prima di proseguire oltre nel nostro racconto, bisogna fare delle precisazioni circa il modo di affrontare un combattimento, specialmente da parte di Iveonte e di Francide. Essi, come vedremo anche in seguito, non vi si impegnavano con il cento per cento delle loro possibilità; ma commisuravano le loro capacità alle potenzialità degli avversari in fatti d'armi. Inoltre, non badavano neppure a liquidarli in breve tempo. L'uno e l'altro invece preferivano portare avanti la tenzone il più possibile, fino a stancheggiarli a tal punto, da renderli coscienti che non gli conveniva tirare troppo la corda, se volevano continuare a restare in vita. Ma se i loro avversari a tutti i costi si infischiavano di quella loro palese generosità e seguitavano ad aggredirli con caparbietà, soltanto in quel caso i due giovani ne decretavano la morte. Allora, in qualità di imbattibili guerrieri, non avendo altra scelta, essi non avevano nessuna difficoltà a procedere in tal senso, smettendo così di preferire la pietà e la misericordia nei loro confronti. Tale nobile atteggiamento, a cui essi avevano stabilito di ricorrere nei loro combattimenti presenti e futuri, era stato ispirato ad ambedue gli amici dal loro Babbomeo, quando erano stati suoi allievi durante la puerizia e l'adolescenza. Essi non lo avevano mai dimenticato, ma ne avevano fatto uno dei tanti abiti morali inculcati nel loro animo dal savio maestro. Il motivo? In Iveonte e in Francide, la sacralità della vita occupava uno dei posti preminenti nel loro concetto dell'esistenza, intesa come svolgimento integrale della persona umana. Accanto ad essa, ovviamente, torreggiavano anche i sommi ed imprescindibili valori, che erano costituiti dal bene e dalla giustizia. I quali si fondavano sul principio basilare imperniato sulla ricchezza spirituale ed insito nel genere umano, a prescindere sia dal ceto sociale che dalla razza e dalla religione.
Dopo questo chiarimento, il quale è stato un atto dovuto verso il lettore, perché egli abbia davanti un quadro nitido inerente a certi aspetti dell'attività e del comportamento dei nostri due amici fraterni, adesso possiamo riprendere a narrare la nostra storia infinita. La quale ci stupirà sempre di più, a mano a mano che continueremo a conoscerla, ad approfondirla e ad ammirarla con la nostra attenta lettura.
Avanzando verso le mura della città di Dorinda, le quali si scorgevano ormai abbastanza vicine, sia la mente di Iveonte che quella di Francide apparivano stravolte e frastornate. Ora esse deliravano in constatazioni deludenti e in interrogativi assillanti. Era quella la galante civiltà, alla quale aveva fatto riferimento il loro Babbomeo? Erano quelli i modi di ospitalità degli esseri civili? Come era possibile che la barbarie, spiritualmente intesa, persistesse ancora lì dove il progresso civile si andava evolvendo con ritmo incalzante? I due giovani scorgevano la civiltà unicamente nelle cose, ma non nelle persone. In queste ultime, almeno nel loro primo impatto, vi avevano trovato un baratro di disonestà e di cattiveria, che faceva quasi paura. Perciò essi non riuscivano a capacitarsene in nessuna maniera; anzi, erano spinti a considerare false le parole uscite dalla bocca del loro Babbomeo, quando era in punto di morte.
Allora dovette intervenire Astoride a chiarirgli ogni cosa, dissipando nei due amici i diversi dubbi, che erano venuti a nutrire verso le sagge parole del loro tutore. Le quali, fino a quel momento, avevano rappresentato per entrambi qualcosa di sacro e di inviolabile, ossia il testamento spirituale da lui ereditato, il quale non poteva non essere infallibile. Per questo egli ritenne opportuno far loro il seguente discorso:
"Amici, il vostro Babbomeo, oltre che buono, era sommamente giusto ed onesto. Perciò abbiate sempre le sue parole nell'intimo del vostro cuore, poiché provengono da un sapiente vegliardo. Egli non vi ha riferito nulla di falso; ma ha soltanto sbagliato, nel reputare uguali a lui gli altri suoi simili. Senza dubbio nel mondo ci sono anche dei Babbomeo; però tenete presente che la maggioranza degli uomini nutrono in sé il veleno più micidiale e sono pronti ad iniettarlo in chiunque si mostri debole o impotente. Un fatto del genere, da parte loro, a volte può avvenire per impossessarsi di un misero gruzzolo posseduto dagli altri! Ad esempio, il mio povero genitore era uno di quelli ai quali si riferiva il vostro saggio vecchio. Mentre il fratricida mio zio non lo era affatto! Adesso dovete sapere che quanto più ci avvicineremo alla città di Dorinda, tanto più aumenterà il numero di coloro che vorranno annientarci. Allora sarà un bene per noi premunirci delle seguenti tre doti: massima diffidenza, cautela appropriata e fulmineità nel reagire. Solo esse potranno rivelarsi nei nostri confronti dei veri amuleti. L'ultima delle quali, però, dovrà essere messa in atto contro chi, tramando nell'ombra, cercherà di sopprimerci senza pietà e senza preavviso. Agendo in questo modo, noi tre riusciremo a far fronte ad ogni avversa evenienza!"
Terminato il suo discorso, Astoride, sorridendo agli amici, con ripetuti arri incitò il proprio cavallo nero ad aumentare la velocità. Nel suo gesto, egli venne imitato da Iveonte e da Francide, siccome anche in loro c'era una grandissima ansia di ritrovarsi al più presto dentro le mura della meravigliosa città di Dorinda.