60-IVEONTE SULL'ALTOPIANO DEI TAI
Iveonte, Francide ed Astoride, cavalcando compiaciuti, avanzavano con moderata velocità. Da un paio di giorni, essi avevano lasciato i familiari dell'indimenticabile Babbomeo e Murzo. Quest'ultimo era il predone che da poco si era redento dal male ed era voluto entrare a far parte della nuova famiglia. Perciò aveva stabilito di dedicarsi in modo zelante unicamente ad opere di bene, a vantaggio di tutti coloro che ne necessitavano, per non essere stati favoriti dalla fortuna. Riferendoci al luogo dove erano i tre giovani, a quell'ora del giorno, i fitti raggi del luminoso disco solare, con la loro luce accecante si stavano già diffondendo sulla natura. La quale, da sonnolenta che era stata fino a poco prima, si avviava a diventare di nuovo vivificante dappertutto. Difatti essa, dopo aver superato la fase aurorale, stava riprendendo il suo ritmo febbrile. Per questo la componente floristica e quella faunistica si preparavano a raggiungere l'una il massimo rigoglio e l'altra la piena vitalità, contribuendo così al suo risveglio mattutino in modo meraviglioso.
Dunque, tutti e tre avanzavano alacremente fra quelle terre in rinascita, quando Francide chiese al suo amico d'infanzia:
«Mi dici, Iveonte, perché siamo diretti all'Altopiano delle Stelle, come ci hai informati due giorni fa, subito dopo che abbiamo lasciato la famiglia di Tio? Non ti sembra che anche noi dovremmo sapere qualcosa in merito al viaggio, che hai tirato in ballo, senza che ce ne fosse un motivo? Quando hai chiesto a Luta che strada avremmo dovuto fare per raggiungerlo, non ti nascondo che sono rimasto assai sorpreso. In quel momento, ho ritenuto giusto tacere e non ti ho mosso alcun rilievo in merito. Ma ora che siamo solo noi tre, gradirei che tu ci spiegassi ogni cosa sull'argomento, visto che fino a questo istante non ti sei incaricato di farlo da te, amico mio! Allora ce ne parli, per favore, e ci rassereni?»
«Non vedo come non potresti aver ragione, Francide, se te la sei presa, a causa dell'atteggiamento da me assunto in questa faccenda! Al massimo avrei dovuto farvi presente che questo viaggio riguardava soltanto me e che quindi non eravate tenuti a conoscerne i vari particolari. Comunque, non ho potuto agire altrimenti, sebbene in cuor mio giudicassi ingiusto che vi facessi un tale torto. Amico mio, anche se giustamente ti sembrerà strano, sono stato obbligato a comportarmi così. Perciò, adesso che hai voluto aprire il discorso sull'argomento, lo stesso non cambia nulla, poiché non posso rivelarvi lo scopo per cui siamo diretti all'Altopiano delle Stelle! Ti consiglio di evitare di farmi altre domande a tale proposito, non potendo io darti le relative risposte.»
«Perché mai, Iveonte, all'improvviso, dimostri tanta segretezza nei miei confronti? Non ti fidi forse più di me, sebbene io ti sia sempre stato come un fratello? Ma poi, una volta che siamo giunti all'altopiano in questione, non verremo ugualmente a sapere anche noi il motivo per cui vi ci siamo recati? Allora tanto vale che ce lo anticipi adesso e soddisfi la nostra curiosità in merito! Inoltre, posso sapere da dove è venuto fuori il tuo interesse per il modesto rilievo in questione, se prima, come lo ero anch'io, eri perfino all'oscuro della sua esistenza? Vuoi spiegarmi anche questo particolare, che neppure riesco a comprendere?»
«Francide, invece non è vero che in passato ne ignoravo l'esistenza. Me ne aveva già parlato il nostro Babbomeo in un colloquio privato, facendomi giurare che non avrei mai riferito a nessuno, te compreso, ciò che stava per svelarmi. Perciò, essendoci di mezzo un giuramento fatto alla nostra persona più cara, non posso raccontarti altro. Quanto a voi, sappiate che in questo viaggio non mi accompagnerete fino alla mia meta, poiché nei pressi dell'Altopiano delle Stelle dovrò invitarvi a farmi continuare da solo. Così, nel posto dove ci saremo lasciati, aspetterete che ritorni dalla mia missione segreta. Se è come penso, ci vorrà soltanto poco tempo per compierla e ritornare dopo presso di voi!»
«Possibile, Iveonte, che ci sia stata tra Tio e te una conversazione di tal genere, senza che io me ne accorgessi? Eppure in nessuna circostanza mi pare di avervi visti appartarvi da soli e darvi ad un colloquio, il quale mi desse da pensare a qualcosa di segreto!»
«Certo che essa c'è stata, Francide! Babbomeo, approfittando che tu eri occupato a spaccare la legna, un giorno mi invitò a fare quattro passi insieme con lui per mettermi appunto al corrente del suo segreto. Quindi, amico mio, ti prego di rispettare la volontà di colui al quale dobbiamo moltissimo, compresa la nostra vita. La stessa cosa feci io allora, quando egli mi parlò in forma privata e mi invitò a mantenere anche con te il segreto. Cercai di oppormi a lui, poiché non intendevo assolutamente ricevere una confidenza, alla quale poi pure tu saresti dovuto restare all'oscuro. Alla fine, però, dovetti piegarmi alla sua volontà, considerato che egli non aveva colpa alcuna di quella sua imposizione. Infatti, anche lui era stato obbligato dai suoi benefattori ad agire nel modo che conosci, ossia dietro giuramento. Adesso che hai appreso che non posso rivelarti niente di niente su questo mio misterioso viaggio, per non venir meno alla mia fede giurata al nostro Babbomeo, sono più che convinto che ti asterrai da ulteriori domande sull'Altopiano delle Stelle. Anzi, agirai, come se questa breve parentesi inerente ad esso non fosse mai stata aperta. Non sarà forse così, amico mio fraterno?»
«Sarà senz'altro come hai detto, Iveonte. Giammai io mi metterei contro il volere del defunto Babbomeo; come pure me ne guarderei bene dall'invitare il mio migliore amico ad infrangere un giuramento fatto a qualcuno. Specialmente poi, se questo qualcuno per noi due è stato più che un padre e ha fatto tantissimo, come se fossimo stati i suoi figli naturali! Per questa ragione, amico mio, puoi stare tranquillo che rispetterò la sua volontà e non ti farò più altre domande sul vostro segreto!»
Dopo esserci stato l'appianamento delle divergenze sorte fra i due amici fraterni, per le ragioni che abbiamo conosciuto, la galoppata dei tre giovani continuò all'insegna del buonumore e dello stupore. L'uno e l'altro provenivano loro dall'attraversamento delle campagne che percorrevano, poiché esse mettevano a loro disposizione dei paesaggi incomparabilmente attraenti. Ammirandoli con occhi estasiati, essi se ne deliziavano in maniera incredibile. Inoltre, si sentivano quasi intenerire il cuore, di fronte a tante stupende bellezze naturali che si mostravano con maestosa rigogliosità, dovunque i loro sguardi si posassero. Mentre avanzavano, non erano assenti fra i tre compagni di viaggio qualche scambio di vedute sia sugli elettrizzanti fenomeni offerti dalla natura sia su alcuni aspetti della vita. Di questi ultimi si servivano come spunti per accendere o vivacizzare una loro discussione sorta per caso. Così, proseguendo la loro avanzata dandosi a discorsi di vario tipo, si evitava che il cammino da loro intrapreso si trasformasse in un viaggio appiattito e caratterizzato da scarso interesse. Quanto alla sua durata, va osservato che ci vollero ancora tre giornate di galoppate, prima di arrivare alla loro meta, siccome durante le ore notturne i tre giovani amici avevano dovuto riposare e dormire per il tempo necessario. Ma durante il giorno essi non avevano potuto fare a meno di effettuare alcune soste, allo scopo di ristorarsi e concedersi qualche ora di riposo. In verità, anche le loro bestie avevano avuto la necessità di abbiadarsi e di riprendersi dalla stanchezza, avendola accusata dopo ogni loro corsa.
Pervenuti infine ad un miglio dall'Altopiano delle Stelle, ad un certo punto, Iveonte fece presente a Francide e ad Astoride che era giunto il momento di arrestare la loro galoppata. Quando si furono fermati, per aver stoppato i loro cavalli, egli disse ad entrambi:
«Adesso, amici, come già sapete, dovrò proseguire da solo. Intanto che vado a compiere la missione che mi è stata affidata dal defunto Babbomeo, voi due vi tratterrete in questi paraggi e vi aspetterete il mio ritorno. Ad evitare di annoiarvi troppo, vi consiglio di procurarvi qualche buon diversivo. Così facendo, non consentirete al tempo di mettervi addosso una insopportabile uggia!»
Fu così che Iveonte si allontanò da Francide e da Astoride, lasciandoli in quel luogo deserto. Dopo superò in breve tempo il tratto di strada che lo separava dall'altopiano. Raggiunte poi le sue falde e non dimentico delle indicazioni ricevute da Babbomeo che seguì alla lettera, egli riuscì a trovare l'ingresso che conduceva al suo interno. In quel posto, recuperata la barca nascosta sott'acqua ed usando la sua spada come remo, oltrepassò il canale e pervenne al centro dell'altopiano. Allora, seguendo ancora le istruzioni del suo maestro, non gli fu difficile impadronirsi della lanterna ed accenderla, dovendogli essa servire per illuminargli il resto del tragitto. Quest'ultimo era costituito da oltre un migliaio di gradini in salita completamente al buio. Ma il loro faticoso superamento, il quale al termine richiese pure il sollevamento di un chiusino, alla fine lo fece trovare sul pianoro dell'altopiano. Lassù il giovane si ritrovò nuovamente a diretto contatto con la luce di un sole, che era oramai sorto. L'astro splendente adesso seguitava ad inondare dappertutto qualsiasi cosa con il suo intenso ed abbagliante fulgore.
L'improvvisa apparizione di Iveonte sul loro romitaggio stupì grandemente i quattro tai che in quel momento si trovavano nelle vicinanze della lastra rocciosa di chiusura, la quale era di forma quadrata. Si trattava degli anziani maestri tà Katù e tà Milù, persone già a noi note, ciascuno dei quali stava affinando la preparazione del suo unico allievo. A dire la verità, ogni tà già gliel'aveva fatta raggiungere in modo eccellente, dopo averlo sottoposto a numerose lezioni teorico-pratiche e ad un allenamento rigoroso ed impegnativo. Entrambi, mentre Iveonte veniva fuori dalla buca, stavano dando gli ultimi ritocchi alle discipline, che essi avevano impartito ai rispettivi discepoli. Il primo era impegnato con il proprio apprendista, il quale era tà Pastù, e il suo insegnamento riguardava il pugilato, la lotta libera e le arti marziali. Il secondo, invece, con i suoi ultimi consigli, stava affinando la specializzazione del suo allievo tà Kispè. Essa consisteva nel farlo esprimere con la massima perfezione nella scherma, nel tiro con l'arco e nel lancio del giavellotto.
I quattro tai, essendo stati distratti dalle loro rispettive occupazioni dalla presenza dell'intruso, sospesero all'istante le esercitazioni a cui erano intenti; subito dopo iniziarono ad andargli incontro con passo deciso. Quando poi essi furono a sei metri di distanza da lui, tà Katù, mostrandosi irritato dalla sua presenza, gli ordinò gridando:
«Alto là, ospite non invitato su questo altopiano, per cui rappresenti per noi un clandestino! Di conseguenza, la tua presenza risulta indesiderata quassù. Dunque, se fai un altro passo in avanti, persona a noi estranea, ti pentirai di averlo fatto! Per il tuo bene, perciò, ti consiglio di ritornartene subito nel luogo da dove sei venuto, se non vuoi ritrovarti nelle grane! Spero di esserti stato chiaro, perché tu mi dia retta!»
«Devo forse spaventarmi, al clamore delle tue minacce, e recedere anche dal mio proposito?» Iveonte si diede a contraddirlo «Allora devi convincerti che, se credi che da parte mia possa avvenire una cosa del genere per puro spavento, vuol dire che il cervello non ti funziona come dovrebbe! Si vede che ignori che non mi lascio intralciare il passo da nessuno e chi ci prova viene atterrato da me senza alcuna difficoltà!»
«Questo dovrai ancora dimostrarcelo, saccente sconosciuto! Sulla mia strada, ho incontrato tanti spacconi del tuo stampo; ma poi, alla fine, tutti hanno dovuto arrendersi, filandosela con la coda tra le gambe! A ogni modo, sarà il mio allievo tà Pastù a darti la lezione che ti meriti, mio emerito gradasso! Perciò prepàrati a ricevere soltanto una bella rottura di ossa da parte sua, dal momento che siamo alieni dall'uccidere!»
«Allora che egli si accomodi pure e vediamo come sarà capace, nei miei confronti, di fare i miracoli da te menzionati! Invece, grazie alla mia superiorità, ho l'impressione che sarà lui a mordere la polvere, senza che io faccia neppure molta fatica! Dunque, stiamo a vedere come il tuo allievo saprà cavarsela nel suo vano tentativo di battermi e di conciarmi per le feste, come gli hai appena ordinato!»
Nel frattempo, tà Pastù si era già posizionato per contrattaccare lo sconosciuto, il quale aveva minacciato tempesta, in seguito alle raffiche di vento che gli aveva promesso il suo maestro. Il giovane tà non aveva dubbi che l'avversario, come già aveva affermato tà Katù, sarebbe stato liquidato in poche mosse. Glielo avrebbe consentito molto sicuramente il suo alto professionismo nella lotta e nelle arti marziali. Così, dopo che il suo contendente ebbe deposto la sua spada sopra un muretto che era situato sul suo lato sinistro, egli diede inizio alla sua fase di studio, volendo valutarlo nella sua solidità di difesa e nella sua grinta di offesa. Come stava facendo anche il suo maestro, il giovane tà ben presto dovette ricredersi e convincersi che chi gli stava di fronte non era affatto uno sprovveduto nella lotta corpo a corpo. Stranamente, egli sapeva destreggiarsi e riusciva a prevedere le sue mosse, opponendovi delle contromosse neutralizzanti. Gli parve, a un tratto, come se avesse di fronte il proprio maestro, considerata la sua incredibile capacità di vanificare qualunque tipo di affondo da lui preparato. Inoltre, era in grado di coprire con largo anticipo ogni angolo spaziale da lui preso di mira, per un proprio formidabile attacco lampo.
Quando infine si persuase che il suo antagonista era un osso duro, il quale non gli permetteva di preparare azioni e portarle ad effetto, tà Pastù decise di affrontare lo scontro in modo diretto. Allora la lotta cominciò ad esplicitarsi con tutta la veemenza delle mosse e delle contromosse, dei colpi possenti e delle parate strategiche, delle piroette e delle aggressioni gambali da terra, dei salti simili a voli e delle gomitate, le quali sembravano pugnalate. In quel dare e ricevere botte da orbi, ognuno dei combattenti dimostrava di essere in possesso di una perizia efficacissima ed insuperabile. La quale, come si constatava, dimostrava di essere la massima che potesse riscontrarsi nelle arti marziali. Lo stesso tà Katù non credeva ai propri occhi, poiché riteneva impossibile che un uomo, che non era un tà, potesse aver raggiunto una tecnica perfetta, come quella da lui posseduta. Alla fine, scorgendo il suo allievo capitolare di fronte all'imponente preparazione professionistica ed atletica dell'avversario, dovette arrendersi e riconoscere la superiorità di Iveonte. Il quale, per uno strano caso, aveva messo in mostra la stessa tecnica da loro praticata nella lotta. Inoltre, in presenza di tutti i tai del romitaggio, i quali nel frattempo si erano avvicinati ed accalcati intorno, assistendo alla restante parte del combattimento, gli chiese scusa per le parole offensive che gli aveva rivolto.
Dopo che tà Katù si fu scusato con Iveonte, da parte sua, tà Milù cercò di mettere pure lui alla prova il giovane sconosciuto. Egli era sicuro che almeno il suo allievo tà Kispé lo avrebbe battuto nella scherma, salvando così l'onore dei tai da lui screditati. Perciò, mostrandosi alquanto borioso e parlandogli con alquanto sussiego, si direbbe con un'aria prettamente di sfida, incominciò a dirgli:
«Adesso vediamo, forestiero, se riesci ad ottenere con la spada lo stesso risultato conseguito nelle arti marziali, sorprendendo in modo sbalorditivo il mio confratello tà Katù. Ma ti avverto che ti sarà molto difficile bissare il tuo successo. Il mio discepolo tà Kispé è in possesso della migliore arte schermistica esistente al mondo, considerato che egli ha avuto come maestro chi ti sta parlando!»
«Questo è il tuo punto di vista e non il mio!» gli rispose Iveonte «Anche se non metto assolutamente in dubbio l'eccellente preparazione tua e del tuo allievo, ti faccio presente che non hai messo in conto che potrei possedere anch'io la stessa vostra tecnica, unita ad uno spirito battagliero, che a voi manca. Perciò potrei frantumare con facilità la tua sicurezza, come ho già fatto con quella di tà Katù!»
«Ben detto!» affermò uno dei tai presenti, con una voce quasi spenta «Scommetto che lo sfidante sconosciuto saprà farsi valere e il nostro confratello tà Kispè sarà senz'altro battuto da lui! C'è qualcuno di voi che ha voglia di accettare la mia scommessa? Magari vorrà accettarla il nostro maestro tà Milù, il quale giustamente ha una immensa fiducia nel proprio allievo e dubita che il forestiero possa batterlo!»
L'intervento del tà più vecchio del romitaggio, che aveva centoventi anni sulle spalle, confuse un po' tutti gli altri tai che erano presenti. Essi non si aspettavano dal loro longevo superiore un parlare del genere, con il quale egli aveva preso le difese di un giovane che neppure conosceva. Se lo si squadrava appena, il vecchio tà appariva un ammasso scheletrico completamente deforme e decrepito, sul quale si trovava appiccicata una pelle secca e raggrinzita. Il tà decano, a ogni modo, era intervenuto a ragion veduta nel battibecco che era in atto in quel luogo, poiché si era reso conto che l'ignoto giovane, essendo stato inviato da Tio, poteva essere esclusivamente l'eroe protetto dagli dèi. Era stata la sua armilla di bronzo, che egli portava al braccio sinistro, a metterlo al corrente dell'identità del loro prodigioso ospite che non era stato invitato nel loro eremitaggio. Il vecchio e longevo tà aspettava da molti anni la sua venuta sul loro altopiano per essere rassicurato che la missione di Tio aveva avuto esito positivo e per spirare così in pace.
Scorgendolo in prima fila, Iveonte gli si rivolse, dicendo:
«Non sei forse tu tà Ziolì, il decano dei tai? La tua età eccessivamente avanzata me lo fa credere senza ombra di dubbio! Se lo sei, sai benissimo che mi trovo in questo luogo esclusivamente per te e non per umiliare alcuni dei tuoi confratelli!»
«Non ti sei sbagliato, giovane imbattibile, che sei destinato a memorabili imprese. La tua vita sarà una vera cascata di successi e di trionfi, quelli che anche i più grandi eroi ti invidieranno! Lo so che sei qui per me e la tua venuta sull'altopiano mi permetterà anche di morire finalmente in pace! Allora che tu sia il benvenuto tra noi, guerriero invincibile, poiché oggi si è compiuto l'atteso miracolo annunciato da tà Bortù!»
«Adesso che è stato chiarito ogni malinteso fra di noi, tà Ziolì, allora io e tà Kispé possiamo anche non misurarci più, considerato che mi ritieni superiore a lui. Mi dispiacerebbe umiliare chi non se lo merita! Per questo chiedo scusa anche a tà Pastù, per l'umiliazione che l'ho costretto a subire nel mio precedente combattimento, pur non meritandolo affatto. Infatti, la sua preparazione è assai solida e non poteva essere diversamente, visto che è un allievo dell'insuperabile maestro tà Katù!»
«Invece dovrai affrontare ugualmente tà Kispè e dimostrare a tutti i miei confratelli presenti che quanto da me affermato su di te corrisponde a verità. Adesso posso sapere, giovanotto, qual è il tuo nome? Così in seguito, ossia per il poco tempo che mi rimane, saprò come chiamarti nella restante parte della nostra conversazione!»
«Puoi chiamarmi Iveonte, tà Ziolì, perché questo è il mio nome. A questo punto, se affermi che mi dovrò cimentare con l'allievo di tà Milù, poiché è in gioco la tua credibilità, lo farò senza meno. In questo modo, dimostrerò agli altri tai del romitaggio che avevi perfettamente ragione nel considerarmi l'eroico guerriero insuperabile!»
Così ebbe inizio il duello tra i due campioni di altissimo valore, i quali si erano imbevuti entrambi della medesima arte schermistica, sia sul piano teorico che su quello pratico. Tra l'uno e l'altro, quindi, all'atto pratico la differenza di resa sarebbe dipesa esclusivamente dalle doti peculiari dovute ad altri fattori, come il coraggio, l'intraprendenza, la combattività e l'intelligenza. La somma di tali componenti, insieme con il tipo di scuola da loro seguito ed assimilato, contribuiva ad evidenziare in loro la differente capacità di primeggiare sull'avversario. Ma siccome tali caratteristiche venivano espresse al massimo da Iveonte, costui, pur con qualche difficoltà, alla fine costrinse tà Kispè a soccombere sotto i suoi colpi poderosi. I quali avevano anche manifestato un dinamismo di azioni combinate ed improvvisate. Per la qual cosa, esse si erano dimostrate temibili a colui che assai validamente tenzonava contro di lui. A un certo punto, il nostro eroe, dando un possente colpo con la sua arma, aveva perfino spezzato a metà la spada del rivale, ponendo in tal modo fine allo splendido cimento. Di quel prodigio si era sbalordito soprattutto tà Sità, che era il fabbro della comunità. Egli era convinto che la lega metallica appresa dai testi sacri della loro biblioteca, con cui aveva foggiato pure le armi in loro possesso, era superiore ad ogni altra esistente sulla terra. A meno che essa non risultasse opera di fattura divina!
Dopo la vittoria dell'ospite, che aveva riscosso il plauso di tutti i tai, compreso quello del perdente, tà Katù domandò al decano:
«Tà Ziolì, ci vuoi spiegare come mai eri sicuro della vittoria di chi inspiegabilmente si è presentato tra noi senza essere invitato? Inoltre, come ha fatto egli ad arrivare fino a noi e come faceva a conoscere il tuo nome? Vuoi rispondere, per favore, a tutte queste nostre domande, le quali a noi risultano giustamente incomprensibili?»
«Tai miei, vi ricordate del piccolo Tio, il ragazzo che fu da noi preparato in ogni arte del sapere, oltre che nell'uso delle armi e nelle arti marziali? Certo che sì! Hai dimenticato, tà Katù, che fosti tu stesso a portarlo in mezzo a noi? Non vi dissi allora che egli in seguito avrebbe trasmesso tutto il suo sapere a chi sarebbe stato poi in grado di sconfiggere le Forze del Male, salvando l'Edelcadia dalle divinità malefiche? Ebbene, la missione di Tio si è compiuta e l'eroe, che ha usufruito della sua dottrina, dietro suo invito, ci ha raggiunti. Egli è il qui presente Iveonte, il cui nome significa "il destinato a trionfare", poiché è così che tà Bortù lo definisce nel suo tomo, quando si riferisce a lui, sebbene non ne citi espressamente il nome.»
«Come mai, tà Ziolì,» intervenne a chiedergli tà Milù «Iveonte oggi si è presentato a noi, dandoci un saggio della sua preparazione? Possiamo conoscerne il motivo?»
«Egli, tà Milù, è venuto a riportarmi indietro l'armilla che consegnai a Tio, dopo avergli fatto giurare che me l'avrebbe fatta recapitare a completamento della sua missione. In riferimento al suo arrivo, tai miei, mi tocca darvi pure una brutta notizia. Il destino aveva stabilito che io sarei morto, non appena l'armilla fosse ritornata nelle mie mani, rimandando così il mio decesso all'età che ho oggi, ossia quando i miei anni compiuti sono centoventi. Vi esorto con tutto il mio cuore a non piangere la mia morte, la quale è prevista nella giornata odierna, ossia appena l'armilla sarà di nuovo al mio braccio. Invece dovete festeggiare la venuta tra di noi del più grande eroe esistente, il quale è anche il prediletto delle divinità benefiche. Il suo stesso nome, che adesso sapete cosa significa, lo comprova. Così sarà, poiché egli trionferà su tutti gli esseri umani malvagi e su tutte le divinità malefiche! Il nostro confratello tà Sità deve sapere che la stessa sua spada è opera divina, per cui non ha avuto difficoltà a spezzare l'arma di sua fattura. Prima di smettere di parlarvi, devo ricordarvi che è già previsto chi dovrà succedermi dopo la mia morte. Come ebbe a scrivere tà Bortù, egli sarà colui che un giorno condurrà in mezzo a noi il bambino orfano di entrambi i genitori, il quale è destinato a fare da maestro insigne al glorioso eroe. Quindi, come vi è facile dedurre, egli potrà essere soltanto il vostro tà Katù.»
Non appena tà Ziolì ebbe terminato il suo discorso e si ebbe aggiustato l'armilla al braccio sinistro, lo si vide accasciarsi per terra e dare l'ultimo respiro. La sua dipartita rese tristi i cuori dell'intera comunità dei tai, i quali vollero celebrare per lui dei solenni funerali. Dopo le esequie, però, essi, ubbidendo alla volontà del loro decano defunto, per l'intera giornata si diedero a festeggiare il grande eroe Iveonte, essendo egli divenuto per un giorno il loro ospite d'onore. All'imbrunire, però, Iveonte prese la decisione di lasciarli, dovendo raggiungere i suoi due amici. Essi, siccome il loro compagno stava tardando a ritornare più di quanto era stato previsto, a buon diritto avrebbero potuto cominciare ad impensierirsi per lui. Una volta che li ebbe raggiunti, egli pernottò insieme con loro all'addiaccio; ma prima si era cenato e si era stabilito che l'indomani si sarebbero messi in cammino alla volta di Dorinda, che avrebbero raggiunta in un numero imprecisato di giorni.
Il mattino seguente, Iveonte, Francide ed Astoride ripresero il viaggio, cavalcando le loro bestie con spirito sereno, poiché esso veniva confortato dall'idea che molto presto l'Invitta Città sarebbe apparsa ai loro occhi con l'intero suo fulgore. Nel procedere verso la città dorindana, che ambivano di raggiungere al più presto, essi non potevano fare a meno di darsi alle più disparate discussioni. Le quali a volte si ravvivavano sull'onda della dialettica, altre volte si accendevano di uno spirito diverso, che era intento a rivivere nuove emozioni. Agendo in quel modo, i tre giovani riuscivano ad ammazzare la noia, la quale immancabilmente avrebbe fatto breccia dentro di loro senza alcuna difficoltà. Infatti, la regione da loro percorsa si mostrava del tutto deserta e non vi si scorgeva anima viva, almeno fino a quando non raggiunsero i territori che appartenevano alla Città Invitta. Soltanto allora poterono iniziare a scorgere di tanto in tanto qualche carovana e qualche viaggiatore solitario, mentre si recavano a Dorinda oppure ne ritornavano.
In tali terre, secondo le previsioni, la vegetazione mutò radicalmente, poiché la zona da loro percorsa non si presentava più arsa dal sole. Essa, invece, era costituita da estesi campi adibiti a colture cerealicole oppure alla piantumazione di varie specie di alberi da frutta. I quali, facendosi ammirare moltissimo dai tre giovani amici che erano di passaggio, dimostravano che venivano curati ammodo dagli scrupolosi agricoltori del luogo. Costoro, da parte loro, dovevano avere un'ottima dimestichezza con la tecnica agraria, se riuscivano ad ottenere dal loro lavoro agricolo quegli stupendi miracoli ortofrutticoli. Ma, con l'arrivo della nuova notte, i tre giovani amici arrestarono la loro galoppata per darsi al ristoro e al riposo notturno. Secondo i loro calcoli, l'indomani essi avrebbero già avvistato Dorinda, essendo ormai vicina. Allora essa li avrebbe entusiasmati e li avrebbe fatti sognare come non mai, essendo sicuri che la città fondata da Kodrun sarebbe stata davvero fantastica. Nella novella città, come i tre giovani si mostravano certi, si sarebbero appagati tutti i loro desideri e magari avrebbero trovato anche l'amore, un sentimento che non avevano ancora avuto modo di scoprire, di conoscere e di sperimentare concretamente.