60°-L’ODISSEA DEL DIO IVEON, MENTRE INSEGUE LA MONOTRIAD

Kosmos, il quale fino allora aveva rappresentato lo stupendo scenario da cui provenivano il compiacimento più grande agli occhi del dio Iveon ed una serenità insuperabile al suo spirito, all’improvviso si trasformò in un luogo dove la sua disperazione non aveva limite. Intanto che avanzava in esso, nessuna delle sue bellezze era in grado di calamitare la sua attenzione e di suscitare il suo interesse. Le multiformi galassie e le loro mirabili stelle, le quali erano sempre dedite ad esplosioni di ogni tipo, non significavano più nulla per lui. Adesso esse apparivano e sparivano al suo sguardo, quasi fossero per lui cose che non avevano alcun significato ed erano prive di qualsiasi attrattiva. Oramai lo spazio cosmico, quello che tanto aveva ammirato ed amato fino allora, all'improvviso gli era diventato qualcosa di abominevole e di insopportabile, siccome esso gli teneva nascosta la sua dolce Annura. Anzi, non era neppure certo che in seguito esso gliela avrebbe restituita.

Percorrendo Kosmos in lungo e in largo, oltre che da cima a fondo, egli si dedicava a scrutarlo in ogni direzione, voleva scorgervi la Monotriad e la sua consorte, che ne era diventata prigioniera. Invece non riusciva a rinvenirvi né l’una né l’altra, a causa della sua infinità. Quel suo darsi da fare nello spazio cosmico aveva il solo obiettivo di trovare quanto prima la sua adorabile compagna e di ricondurla a casa su Zupes. Se lo proponeva con tutto sé stesso, sebbene egli fosse conscio che la sua impresa sarebbe risultata tutt’altro che facile, se non proprio impossibile, per le enormi difficoltà che si prevedevano. Attraversandolo, Kosmos si espandeva intorno a lui infinito e gli si manifestava uno spazio senza fondo, in qualunque direzione si cercasse scrutarlo. Il dio positivo era partito dalla galassia di Astap, la quale si trovava nell’ex Impero del Tetraedro. Avendo poi percorso anche la galassia di Paren, si lasciò alle spalle quella parte del cosmo che, in un tempo recente, aveva costituito l’impero delle divinità positive, ossia il Tetraedro.

Adesso egli si ritrovava a viaggiare nella galassia di Oreap e puntava direttamente sul pianeta Elpen, il quale orbitava intorno alla stella Talbur con altri tre pianeti più piccoli. Tale galassia non aveva fatto parte di nessuno dei due imperi appartenuti alle divinità positive e negative. Invece vi era risultata frapposta, essendo confinante con l'uno e con l'altro impero. Quanto al citato pianeta, che si poteva considerare relativamente vicino, esso era stato scelto da lui come prima tappa delle sue ricerche. A suo parere, la stessa idea, ma soltanto per riposarsi, poteva essere venuta pure alla Monotriad. Per la precisione, tale astro spento distava da entrambi gli ex imperi del Tetraedro e dell'Ottaedro circa dodici lucet. La quale misura temporale, come siamo a conoscenza, corrispondeva al tempo impiegato dalla luce per superare ottocento miliardi di chilometri ed era equivalente al mese dei Geoni, i quali venivano chiamati anche Terrestri. Si rammenta al lettore che in Kosmos una divinità poteva raggiungere al massimo una velocità dieci volte maggiore di quella della luce. Comunque, non si era affatto sbagliato il divino eroe a pensare che sopra Elpen avrebbe potuto trovare la rapitrice di sua moglie. Così, una volta pervenuto sul pianeta, non fece alcuna fatica a notare su di esso la sua presenza; ma non scorgeva alcuna traccia della sua Annura. Da parte sua, non comprendeva come facesse la creatura aliena a tenerla celata ai suoi occhi.

A dire il vero, quando il dio dell’eroismo la sorprese a riposare, la Monotriad non tentò di sfuggirgli; anzi, manifestando una certa protervia, incominciò ad esprimersi nel modo seguente:

«Bravo, dio Iveon! Come vedo, il tuo fiuto sagace è riuscito a condurti fino a me; ma ciò non ti servirà a niente, poiché la tua bella consorte continuerà ad essere mia prigioniera. Sappi che nel frattempo sono diventata più gagliarda e agguerrita, poiché la mia essenza immateriale in Kosmos si va rafforzando mediante il plasma galattico. Se per caso lo ignori, si tratta di una specie di umore invisibile, il quale circola liberamente all’interno delle galassie e si mostra refrattario all’azione nociva del tempo. Inoltre, la mia prerogativa di potermi trasformare in un essere trino ti creerà problemi a non finire. Essa ti ingarbuglierà la vista e non saprai mai in quale delle mie tre immagini proiettate all'esterno di me ci sono io esistenzialmente a combatterti nella realtà. Qualora lo desiderassi, potrei anche trovarmi a guerreggiarti in ciascuna di loro in contemporaneità. A pensarci bene, posso perfino far trovare la tua Annura in una mia effigie. In quel caso, senza volerlo, verresti a scagliare la tua azione offensiva proprio contro di lei. Non ti sembra, dio Iveon, che hai una bella gatta da pelare? Allora iniziamo adesso a darci battaglia, battendoci strenuamente? Ammesso che tu sia intenzionato a farlo, dopo quanto ti ho rivelato!»

«Vàntati pure delle tue particolari prerogative, Monotriad!» le rispose con molta calma il dio positivo «Esse non ti serviranno nel combattere contro di me! Tra poco accerteremo se quanto affermi è vero. Ma potrei sapere dove nascondi la mia consorte, che non riesco a scorgere da nessuna parte? E in quale maniera puoi farla sparire alla mia vista?»

«Non sono mica così sciocca da informartene, dio Iveon!» fu la sua pronta risposta «Devi sapere che ella potrebbe essere qui, ma avviluppata in un velo che la rende assente e afona. Come pure potrebbe essere altrove, nascosta in una sostanza che le divinità non possono né vedere né penetrare con gli occhi. Insomma, ciò che conta per me è che tu non potrai ravvisarla in alcun modo. Solo io posso vederla; invece lei, attraverso la sostanza che l’avvolge interamente, è incapace di scorgere tanto te quanto me. A ogni modo, la poveretta può ascoltare benissimo tutto quello che noi due ci diciamo; ma non può farsi sentire!»

«La tua è una vera vigliaccata, Monotriad,» le fece presente l’eroe delle divinità positive «perché te la stai prendendo con chi non ha alcuna colpa nella distruzione della tua genitrice. Era contro di me che avresti dovuto sfogare il tuo sdegno vendicativo, dal momento che ero stato io a debellare la tua mostruosa madre, risultando essa nociva per tutti gli esseri divini. Per il quale motivo, andava distrutta nel più breve tempo possibile, come appunto ho fatto con l’aiuto degli eccelsi gemelli.»

«Hai perfettamente ragione, dio Iveon!» approvò la sua avversaria «Ma considerata la tua fama di grande eroe con tutte le carte in regola, non ho voluto rischiare. Così ho ritenuto più facile vendicarmi di te per vie trasversali, rapendo la tua metà ed apportando ad entrambi un immenso dolore. Mica ero tanto stupida, da agire altrimenti! Ricòrdati, però, che un giorno sarò in grado di affrontarti e di ridurti in una nullità, senza cadere nello stesso errore della mia genitrice! Il quale evento, ti avverto, avverrà tra non molto tempo.»

«Almeno sei disposta a dirmi, Monotriad, se hai il potere di provocare alla mia Annura qualche tipo di sofferenza?» il dio le domandò ancora, mostrando una certa ansia angosciante. La quale, poiché gli si leggeva chiaramente in volto, faceva gioire a non dirsi la sua sadica rivale.

«In questo particolare non intendo mentirti, dio Iveon, siccome la verità ti farà soffrire ancora di più! Come essere immateriale, non mi è consentito di mettere a disagio un essere spirituale. Posso soltanto costringerlo con la forza a fare ciò che esso non vuole. Se desideri saperlo, in questo momento sei esclusivamente tu a farla soffrire, anche se contro la tua volontà!»

L’asserzione della sua diabolica avversaria rese stupefatto l’eroico dio, non avendo captato appieno il senso delle sue parole. Allora, trattandosi di sua moglie e volendo capirci qualcosa di più, egli si sentì in dovere di avere dall'aliena qualche spiegazione, in merito alle sue frasi enigmatiche. Altrimenti non avrebbe trovato pace! Perciò le chiese:

«Vuoi dirmi come faccio ad arrecare del male alla mia consorte, Monotriad, se è lecito saperlo? Mi riesce difficile comprendere ciò che affermi, trovando la tua asserzione un'assurdità!»

«Adesso ti spiego meglio il senso delle mie parole, dio Iveon. Se tu non esistessi, ella non soffrirebbe per te. Ma siccome tu esisti, la sventurata soffre, al solo pensiero di non poterti essere tra le braccia, come vorrebbe. Per questo pena in continuazione. La tua Annura si rattrista, specialmente quando rivà ai dolci ricordi vissuti insieme con te e si convince che non può riviverli ancora! Adesso ti sei reso conto di quanto a cui alludevo prima?»

«Certo, Monotriad!» il dio Iveon dovette condividere il suo pensiero, poiché esso si rivelava veritiero «Devo ammettere che non hai affatto torto, considerato che ella sta soffrendo al pari di me. La qual cosa mi spinge ad affrettarmi a trarla fuori dalla sua sofferenza, sconfiggendoti e liberandola dalle tue grinfie, come tra poco farò senza meno!»

«Se credi di potercela fare, eroe divino, ti invito a dimostrarmelo!» gli asserì il malvagio frutto della Deivora con tono di sfida «Da parte mia, mi sto già mobilitando per vanificare i tuoi imminenti attacchi e renderli pericolosi soltanto nei confronti di chi vuoi liberare, ossia della tua consorte. Che la fortuna assista la tua Annura, dio Iveon!»

Così dicendo, la Monotriad si tripartì, facendo apparire le sue immagini in tre diversi posti dello spazio, separate da una considerevole distanza. Essa era ricorsa a tale accorgimento, poiché intendeva evitare che il dio le potesse colpire nello stesso tempo, facendola risultare sicuro bersaglio del suo attacco. Stando alle sue affermazioni, la creatura aliena era in grado di giostrare abilmente con la sua esistenza trinitaria, presentando ogni sua parte singola, a volte reale altre volte fittizia. In alternativa, essa poteva rendere effettiva ognuna delle sue sincrone apparizioni, mentre le considerava singolarmente nella loro trinità. Ossia la sua essenza reale poteva spostarsi da una immagine all’altra, ma poteva anche allocarsi in tutte e tre in contemporaneità, a seconda del vantaggio che voleva le derivasse dall’una o dall’altra soluzione.

Ciò che faceva preoccupare maggiormente il dio Iveon era il fatto che la Monotriad potesse sul serio trasferire, quando lo desiderava, la sua Annura in una delle sue tre figure. In quel caso, lo avrebbe costretto senza volerlo a colpire lei al posto dell’avversaria. Anche se era vero che una divinità positiva era impotente a fare del male ad una divinità della stessa natura, ciò però era valido unicamente se nella divinità veniva ad esserci la intenzionalità di offenderla oppure di apportarle del male. Invece nel caso suo, poiché l'intenzione di fare del male era rivolta alla creatura aliena, il suo atto punitivo poteva benissimo colpire la sua amata dea e procurale dei danni irreparabili. La quale eventualità gli fece allora accantonare ogni suo proposito di impacchettare, una alla volta, le tre immagini della Monotriad dentro una sua carica energetica. Essa avrebbe poi dovuto fare intraprendere a ciascuna di esse un viaggio senza fine attraverso i sentieri inesplorati di Kosmos. Perciò egli era indeciso ad esprimersi con quelle tre azioni punitive, temendo che potesse farci andare di mezzo anche la sua Annura.

Da parte sua, nel frattempo, la Monotriad si era messa ad investire l’eroe divino con imperversanti scariche energetiche, la potenza delle quali nei confronti di lui poteva definirsi appena discreta. Esse gli derivavano certe volte da una immagine singola, altre volte dall’intera terna immateriale. Ma solo in questo secondo caso, poteva essere certo che la sua Annura non si trovava all’interno di nessuna di loro; però gli sarebbe stato difficile colpirle tutte e tre insieme, considerata la distanza che intercorreva tra le medesime. Un fatto del genere risultava a tutto vantaggio della Monotriad, siccome la perfida creatura aveva il tempo, seppure risicato, di spostarsi nella immagine che in quel momento non veniva colpita da lui, lasciando così vuota proprio quella che egli aveva preso di mira. Il dio Iveon, per ovviare a tale inconveniente, poteva ricorrere a tre flussi continui di energie dirompenti, che le avrebbero investite simultaneamente. La creatura aliena, però, nel frattempo poteva far trovare la sua consorte in una delle sue figure, facendole prendere il suo posto. Invece il dio positivo, nel modo più assoluto, intendeva evitare di danneggiare la sua Annura e farla soffrire per propria colpa!

Da qualche tempo il dio Iveon incassava le reiterate scariche esplosive della rivale, senza poter risponderle, quando decise di intervenire contro la Monotriad non con attacchi punitivi diretti, bensì con forze leganti. Esse avrebbero dovuto agire in contemporaneità contro la terna delle sue entità immateriali, fossero esse tutte o in parte reali. Se poi ci fosse capitata pure la sua Annura in quel tipo di forze da lui scagliate, sarebbe stato meglio, poiché così l’avrebbe liberata subito dopo! Allora la creatura aliena, avendo avuto sentore della nuova strategia che l’avversario intendeva attuare e ritenendola abbastanza rischiosa per lei, decise di sottrarsi all'istante alla sua vista, per non dargli modo di portare a effetto il suo aggancio alle tre manifeste entità che la costituivano. Infatti, prima che l’eroico dio riuscisse a raggiungerle con i suoi flussi energetici, i quali avrebbero dovuto circondarle e vietargli di sfuggirgli, esse divennero una sola. Ossia, quella di centro e l’altra di sinistra all'improvviso sparirono, trasferendosi forse nell’unica entità visibile rimasta sulla destra. Infine anche quest’ultima, poco dopo, sulla scia delle altre due, si eclissò, senza dare più segno di sé. A quel punto, si dimostrò vano ogni sforzo del dio di rintracciare sia la Monotriad che la propria Annura. Egli si rese conto che entrambe risultavano di nuovo irreperibili, come se l’una e l’altra fossero state inghiottite dall'infinito spazio di Kosmos. Almeno fu questa la sua prima impressione, intanto che cercava di avvistarle ad ogni costo in qualche suo angolo a lui circostante!

Dopo che la discendente della Deivora si fu dileguata, costringendo anche la sua consorte a starle dietro, una terribile disperazione si impadronì dell’eroe divino e sconquassò la sua esistenza, rendendola vittima dell’impotenza più intollerante. Non riusciva più a sopportarsi come essere divino impossibilitato ad aiutare la propria consorte. Perciò quella sua situazione di stallo gli acuiva il rammarico, gli inaspriva lo sdegno ed accresceva in lui la squallida desolazione. Non bastando ciò, lo induceva a considerazioni che finivano soltanto per aggravare ulteriormente il suo stato d’animo. Il quale, in quella circostanza, si mostrava depresso all'ennesima potenza. Adesso la sua indimenticabile dea gli mancava da morire e l’esistenza senza di lei gli diventava un’angosciante sofferenza.

Il suo stato penoso era dovuto al fatto che egli era abituato a godere della sua compagnia. Questa gli era risultata ogni volta un candido fiore profumato che si era appena dischiuso, per essersi posato sopra di esso un tiepido raggio di sole. Invece, vivendo adesso senza di lei, era come se gli venisse offuscata la vista, poiché non era più in grado di rallegrarsi delle stupende bellezze del creato. Si sentiva spaventosamente vuoto dentro e gli risultavano inesistenti tutti gli astri che lo circondavano. Se avvertiva qualcosa, esso era situato nel suo intimo, siccome si trattava dei moti dell’animo, i quali gli scombussolavano tanto l’entità psichica quanto quella spirituale. Anzi, essi gli apparivano dei marosi intenti a sommergere in entrambe la serenità e a spazzarvi via l’intera gioia.

Il fulgore del gaudio, che prima vi aleggiava, e gli umori della felicità, che anche vi scorrazzavano, erano stati tumulati nel sarcofago dello squallore più insopportabile. Per questo, se non voleva spegnersi miseramente nella sua interiorità, egli doveva riportare subito al suo fianco la dolce Annura. Ella era la sola dea che poteva riaccendere intorno a lui il gaio splendore di quella esistenza da lui vissuta fino a poco tempo prima nell’amenità di attimi pervasi di solo giubilo. In quel momento, invece, avvertiva terribilmente la mancanza delle sue effusioni di affetto e di amore; ma soprattutto accusava l’assenza della sua esuberante vitalità. Quest’ultima era solita circondarlo di moine e dispensargli le sue ingenti grazie, le quali si dimostravano pronte in ogni istante a procurargli il godimento più pieno e più estasiante, al fine di renderlo sommamente felice dentro di lui. Sovente il dio Iveon si ritrovava a trascorrere il suo tempo sopra un pianeta sperduto e deserto, dove era costretto a fare i conti con un'amara realtà, la quale gli sogghignava senza battere ciglio e gli faceva rimpiangere l'esistenza trascorsa con la sua Annura. Il rimpianto, in quel frangente terribile, lo trascinava allora per i vortici tempestosi della sua componente psichica. Essi gli derivavano dalla sua rivolta interiore contro la inopportunità della sorte, che aveva voluto sbattere ambedue in una situazione sgradevole oltre ogni limite.

La Monotriad, comunque, era al centro delle sue proteste, siccome era stata l’artefice del rapimento della sua consorte; di conseguenza, essa si era anche resa responsabile delle loro disgrazie del momento. Per la quale ragione, la sua stizza si scagliava interamente contro la sedicente figlia della Deivora, essendo dispiaciuto di non poterla castigare come si meritava. Soltanto se avesse potuto impegnarla in un combattimento senza rischi per la sua Annura, avrebbe fatto risollevare il proprio animo; mentre adesso rimaneva incastrato nell’angustia del peggiore dei patemi. Oramai era sfumata la possibilità di quel confronto diretto con la sua rivale. Difatti esso, nella eventualità che lo avesse avuto, avrebbe potuto mettere a repentaglio la incolumità della sventurata sua moglie. Ma se approfondiva la questione a lei inerente e la inquadrava nella sua reale situazione, si rendeva conto che ella non se la passava meglio di lui, essendo anche i suoi pensieri ancorati ad un pessimismo spaventoso.

Nel frattempo, i decenni galoppavano indefessi attraverso i secoli. I quali, a loro volta, avanzavano in un millennio che non prometteva niente di buono al dio Iveon, nel suo infinito e lento svolgersi nell’interminabile tempo. Invece il suo viaggiare senza sosta andava riscuotendo esclusivamente insuccessi lungo le immense contrade di Kosmos, poiché la Monotriad non lasciava nessun segno di sé nel dirigersi verso la remotissima galassia di Trespan. Essa e la sua prigioniera volavano racchiuse in un velo, che non si lasciava attraversare dal suo sguardo, per cui le rendeva invisibili ad esso. Nel suo inseguimento, egli ebbe modo di azzeccare altri tre pianeti, fra quelli che erano stati scelti dalla sua avversaria per trovarvi riposo. Ne era certo, non perché ebbe la fortuna di imbattersi nel suo perfido essere singolo o trino che fosse, dal momento che essa continuò a negargli questa bella opportunità. Invece tale consapevolezza gli derivò dal fatto che la Monotriad, su quei blocchi planetari, aveva lasciato ad attenderlo dei propri mostri aggressivi. I quali attestavano indiscutibilmente la sua recente presenza in quei luoghi, per esserci stata da brevissimo tempo.


Il primo pianeta fu Tiskup, il quale orbitava intorno alla stella Suven, insieme con altri sei corpi celesti dello stesso tipo. Il dio dell’eroismo lo incontrò nella galassia di Gensur, quando il suo penoso viaggio durava da due secoli ed egli aveva già superato le galassie di Anerd, di Lark, di Peloas, di Suntal e di Limman. Le quali erano appartenute tutte e cinque all’ex Impero dell’Ottaedro. Nello spazio galattico gensurino, solamente una decina di pianeti si dimostravano compatibili con la vita. La superficie del nuovo corpo celeste spento si presentava molto attraente, però era priva di qualsiasi genere di Materiadi. Oltre a crescervi una ricca vegetazione, la quale presentava perfino giganteschi alberi secolari, vi vivevano animali allo stato arcaico. Questi, oltre a proliferarvi numerosi, non cessavano di darsi una caccia spietata, uccidendosi a vicenda. La sua discesa sul nuovo pianeta non ricevette l’accoglienza dovuta; anzi, scatenò la reazione di chi vi contrariava la sua presenza. Perciò, dopo che il dio positivo ebbe posto piede sulla sua superficie, una strana energia, a forma di reticolato, tentò di inchiodarlo al suolo.

Da parte sua, egli non le oppose resistenza, ma l’assecondò supinamente, volendo scoprire chi ne fosse l’orditrice. Mentre poi lo schiacciamento energetico continuava ad effettuarsi intorno a lui, intanto che si fingeva in sua balia, ecco giungere dall’alto una mostruosa creatura di pura energia. Essa era dedita a contorsioni di ogni specie, le quali le facevano cambiare di continuo dimensione e forma. Non essendo una divinità, ma solo il prodotto di una entità immateriale cosciente, quell’essere informe e disarmonico non si rendeva conto a cosa stesse andando incontro. Al contrario, esso si sentiva sicuro di farsi una bella scorpacciata di energia con la sua essenza divina. Quanto al dio, egli si limitò a soprannominarlo Retrattilia, a causa di una sua strana peculiarità, grazie alla quale il mostro si allungava e si ritraeva di continuo.

Così, tenendosi sulla perpendicolare che la faceva spostare nella direzione del divino eroe e scendendo poi di quota, a un certo momento, la strana creatura si arrestò. Da quella posizione, stando poi ferma, allungò verso di lui una sorta di lunga proboscide, la quale costituiva il suo apparato succhiatore. Ma non appena quell’appendice vibratile lo ebbe sfiorato, una sua saetta energetica la investì in tutta la sua lunghezza. In quel modo la fece sussultare e lampeggiare ripetutamente, fino a quando non la vide staccarsi dall’ammasso di energia, di cui essa faceva parte. La Retrattilia allora, emettendo strani versi di dolore e di rabbia, tentò di scappare; per sua sfortuna, però, già un altro fascio di energie dell’eroe divino l’aveva raggiunta. Esso, avvolgendola e bloccandola, le tagliò la fuga e la imprigionò in un campo di forza. Ma poco dopo, frantumato anche il suo reticolo energetico, il dio Iveon si sollevò verso il cielo e raggiunse una certa distanza dal suolo. Da quell’altezza, colpì la superficie del pianeta con un raggio escavatore, il quale la perforò fino a cinque chilometri di profondità, ricavandovi un cunicolo dal diametro di tre metri. Infine vi spinse all’interno, fino a farle raggiungere il fondo, la mostruosa creatura energetica, la quale in quel momento risultava incapsulata in un campo di forza invalicabile. Soltanto allora, con un suo nuovo raggio energetico, questa volta otturatore, il dio passò a riempire la profonda buca con della roccia effusiva. Quello fu l'espediente da lui messo in atto per rendere la sua prigionia durevole quanto una eternità.

Viaggiava da oltre cinque secoli, quando l’eroe delle divinità raggiunse il nuovo pianeta Skiot, che sarebbe risultato il secondo astro spento, dove lo attendeva ancora una sorpresa da parte della Monotriad. Esso, che era situato nella galassia di Balnur, orbitava intorno alla stella Zuelp, insieme con altri undici corpi planetari e quaranta loro satelliti. Pure la sua superficie faceva sfoggio di una suggestiva attrattiva. A differenza del precedente, però, esso ospitava una vegetazione lussureggiante e delle specie animali gigantesche, oltre che una sottospecie umana. Quest’ultima si presentava nella sua incipiente evoluzione. Comunque, egli giunse stremato sulla sua superficie, avendo sfrecciato per lungo tempo attraverso lo spazio cosmico. Perciò avvertiva una grande esigenza di trovare riposo in un luogo tranquillo, come quello che gli si presentava.

Alla fine trovò il posto che ci voleva per lui, il quale era non molto lontano da dove era atterrato. Si trattava di una caverna alquanto profonda, il cui interno gli garantiva la massima quiete. In verità, pur restandovi mezzo addormentato, egli teneva sempre un occhio vigile, dal momento che era sempre possibile che qualche altra creatura della Monotriad venisse a fargli visita. La sua, naturalmente, non sarebbe stata una visita di cortesia; al contrario, avrebbe avuto lo scopo di coglierlo di sorpresa con qualche attacco dagli obiettivi ancora severamente offensivi. La sua rivale, infatti, già si stava adoperando per ricambiargli lo stesso favore che egli aveva reso alla sua mostruosa Retrattilia: questa volta, però, in maniera alquanto insolita.

La Monotriad incaricò un’altra sua creatura non bella a vedersi di agganciare uno dei due piccoli satelliti di Skiot, ossia Pulm, e di farlo impattare contro il pianeta, precisamente in quel suo settore dove era ubicata la caverna che ospitava il proprio rivale. Così facendo, secondo il suo ingenuo parere, il dio Iveon sarebbe rimasto sepolto sotto l’enorme blocco satellitario. Si trattava di una massa rocciosa di media grandezza ed avente un peso enormemente esagerato. Il satellite in questione orbitava intorno al suo pianeta, stando lontano da esso cinquantamila chilometri, ed aveva un diametro lungo all’incirca cento chilometri. Invece capitò che, quando la distanza dal pianeta si fu accorciata abbastanza, la gigantesca creatura, la quale risultava anch’essa un fermento di energie, perse il controllo del suo carico. Per cui esso cominciò a precipitare a caduta libera su Skiot. Allora quanto più il satellite si approssimava al proprio pianeta, tanto più apocalittici diventavano i fenomeni naturali che si andavano verificando sulla superficie di entrambi gli astri spenti. Infine l’impatto, dando origine ad un cataclisma senza precedenti, portò i due corpi spenti allo sconquasso e allo sfascio totali, riducendoli in ammassi rocciosi informi e differenti per dimensione. Essi, poi, iniziarono ad andarsene ciascuno per proprio conto, attraverso le molteplici contrade dell'infinito Kosmos.

Volendo descrivere la deflagrazione e lo schianto che si erano avuti immediatamente dopo la rovinosa collisione, essi risultarono qualcosa di inimmaginabile e di incredibilmente rovinoso. Ma il frastuono, il quale era stato causato dalla frantumazione delle singole parti dei due corpi celesti in rovina, avevano fatto destare e sussultare tutti gli animali. Quando poi il dio si ritrovò nello spazio cosmico, circondato da una moltitudine ingente di massi di varie grandezze che andavano alla deriva, egli si rese conto di quanto era successo nello spazio a lui vicino. Allora imputò il fenomeno non a cause naturali, bensì ad una macchinazione operata da chi aveva inteso nuocergli gravemente. Lo comprovava la presenza fra tanti asteroidi dell'unica creatura costituita di energia, essendo ogni altra cosa nei paraggi di natura materiale. La sua forma, la quale somigliava del tutto a quella di una piovra, gliela fece soprannominare Piovrea. Ma non appena la ebbe scorta, deliberò di assegnarle la medesima sorte riservata alla Retrattilia. Perciò, dopo averla catturata, la relegò al centro dell’asteroide che gli risultò più grande, tra quelli che si erano formati in seguito al precedente impatto tra i due astri, per una durata non quantificabile.

Incontrò il terzo pianeta, anch’esso ospitale nei confronti dell’essenza vitale, ad otto secoli dall’inizio del suo inseguimento e lo intercettò ai confini della galassia di Arutex. Esso, di nome Celiop, orbitava solitario intorno alla stella Kenust. Essendo molto giovane, il pianeta si presentava ancora con una superficie novella, la quale risultava in gran parte ricoperta da mofete e da magma semispento, poiché qua e là si mostrava ancora ribollente. Inoltre, erano presenti su di esso dei grandi crateri di vulcani attivi, i quali potevano essere scorti nella parte bassa di quelle pendici montuose che erano prive di un loro manto vegetativo. Essi non smettevano di vomitare la loro rossastra lava, la quale si riversava sopra un suolo ancora privo di ogni genere di piante. Ma lì dove il raffreddamento era già avvenuto da molto tempo, si osservava uno sporadico e rado attecchimento di bassa vegetazione. La stessa cosa si poteva affermare anche delle scarse specie animali, che erano rappresentate da forme viventi ancora allo stato embrionale.

Quando il dio benefico vi sbarcò, benché fosse convinto che il suo scarno ambiente poteva aver spinto la Monotriad a non sostarvi lungo il suo percorso, lo stesso stette sul chi va là. Perciò, una volta azionate le procedure di allarme rosso, indusse sé stesso alla medesima sorveglianza posta in atto le altre volte. Poi, stando in quello stato di massima allerta, ad un tratto, tutt’intorno a sé egli vide affiorare dal terreno dodici esseri mostruosi di colore azzurro. Allora egli li denominò Rospibur, essendoci una forte somiglianza tra loro e i cosiddetti rospi. Rivelandosi anch’essi di natura energetica, subito li vide assalirlo e sputargli addosso scariche di energia trivalente, avendo essa tre poteri: quello soporifero, quello sfasante e quello bloccante. Ovviamente, quel loro darsi da fare, con cui cercavano di destabilizzarlo e ridurlo all’impotenza, più che destare in lui qualche preoccupazione, gli recava soltanto fastidio. Per questo, non tollerandoli più e avendo deciso di liberarsi di loro, passò ad una controffensiva che era diretta a privarli di efficienza e a debellarli.

In un baleno, così, il divino Iveon fece avviluppare i suoi assalitori da una sfera, sulla cui superficie agivano delle forze che erano in grado di opporsi con successo all'eventuale azione di traforo da parte dei Rospibur imprigionati. Così la sfera energetica impedì alla dozzina di mostri di fargli pervenire le loro scariche e i loro disturbi. Inoltre, sbarrò agli stessi l’uscita, quando cercarono di scappare per avere di nuovo campo libero nella loro azione offensiva contro di lui. Per i Rospibur, però, il brutto avvenne, allorché la sfera cominciò ad impiccolirsi senza sosta, lasciandogli uno spazio sempre più angusto. Quando il suo volume divenne tale da contenerli appena, ordinò alla sfera di centrifugarli alla massima velocità, fino a ricavarne un blocco energetico unico, privo di ogni sembianza mostruosa. Raggiunto tale scopo, la sfera riprese ad assumere delle dimensioni ancora più piccole, fino a raggiungere la grandezza di una ciliegia. Fu proprio in quell'istante che il dio diede ad essa la spinta necessaria per farla volare attraverso lo spazio di Kosmos, senza alcuna possibilità di arrestarsi.

Dopo lo sbarco sul pianeta Celiop, in Kosmos non si presentarono al dio Iveon altre circostanze, che potessero dargli modo di sperimentare ulteriormente le ostilità della Monotriad attraverso le sue creature. Per questo, fino a quando egli non raggiunse la galassia di Trespan, il viaggio si dimostrò talmente esente da intoppi e da imprevisti, che quasi stava per assalirlo una noia assillante. Ma il tedio poteva anche andare in malora, siccome nel suo attuale stato d’animo non c'era altro posto che quello riservato alla sua ambascia e alla sua disperazione, le quali continuavano a fargli la loro sgradita compagnia!

In seguito, il lungo transito del dio dell’eroismo attraverso la nuova galassia, almeno per una buona parte di essa, proseguì regolarmente, senza che delle vicende spaziali vi venissero a coinvolgerlo in qualche misura. Invece, una volta che ebbe oltrepassato la metà del suo spazio, iniziò a verificarsi davanti ai suoi occhi un fenomeno cosmico strano, di proporzioni e di conflittualità astrali indicibilmente spaventose. In quel suo spazio, Kosmos non si riconosceva più, siccome il caos stava subentrando all’armonia. In ogni suo angolo, i vari astri iniziarono prima a fibrillare e poi ad agitarsi, deviando dai loro moti perpetui o staccandosi dalla loro posizione fissa. Sembrava che l'universo non si attenesse più ad alcuna legge della meccanica celeste; ma subisse delle contrazioni di tipo espulsivo in direzione di un’ampia fascia di spazio. Essa si presentava in preda a convulsioni e pareva volesse raggrinzirsi e fendersi, intanto che nelle sue prossimità la totalità dei corpi celesti si era data ad impazzare. Nella loro tempestosa convulsione, essi apparivano fremebondi, altalenanti, esagitati e sbattuti nello spazio, come barche che si dibattono in un mare procelloso.

Anche il dio Iveon ne percepiva i malori e i frastornamenti, poiché influivano sulla sua essenza psichica assai negativamente. Anzi, presentiva che quel fenomeno cosmico, anche se limitato ad una sola galassia, presto avrebbe provocato uno scombussolamento inaudito in tale parte di Trespan. Alla fine, come previsto, quella fascia spaziale fu scorta da lui prima fessurarsi in più parti e poi squarciarsi completamente. Allora egli ebbe la netta sensazione che si fosse aperta una spaccatura immensa, la quale metteva in comunicazione i due universi contigui. A quel punto, da entrambe le parti, incominciò ad originarsi un travaso dei loro prodotti cosmici, i quali, durante il convulso e disordinato passaggio dall'uno all'altro universo, talune volte finivano per scontrarsi e disgregarsi. Quello scorrimento turbinoso di astri celesti, oltre a creare delle situazioni visive massimamente sconvolgenti, dava anche origine a paurosi fragori, la cui intensità sfiorava l’assurdo. In quel colossale sommovimento spaziale, carico di dinamismi dissestanti che stavano mettendo sottosopra una parte della galassia, il dio non si trovava a suo agio; ma ne restava sbalordito, quasi ne fosse diventato prigioniero.

Alla fine, siccome non se la sentì di lasciarsi trasportare oltre la fenditura che faceva comunicare i due cosmi, il dio Iveon si diede a lottare perché ciò non avvenisse. Comunque, in quel frangente infernale, la sua psiche risultava la sua parte che ne restava più attanagliata e frustrata, poiché l’influsso di tanta destabilizzazione locale riusciva ad immobilizzarla, mettendo in difficoltà perfino la sua componente spirituale. In quel modo, oltre che vedersi sballottato in uno spazio senza quiete ed essere impotente a recuperare la sua eccellente forma costituzionale, egli appariva disorientato e privato della facoltà decisionale. Ciò nonostante, non desisteva e si opponeva con tutte le sue forze a quella parziale trasformazione cosmica. La quale, a ogni costo, cercava di avere ragione di lui, forzandolo a seguire il corso degli eventi in svolgimento. Da parte sua, il divino eroe era riottoso a tale forzatura, che gli veniva imposta dall’esterno. Perciò puntava i piedi e tentava di sfruttare al meglio i suoi poteri divini per non permettere che qualcuno o qualcosa l’obbligasse a fare ciò che assolutamente non era nella sua reale intenzione.

Quando la crepa si fu richiusa, rimarginandosi totalmente nella sua sterminata estensione, l’intera galassia riprese a funzionare nella stessa maniera di prima. Le stelle ritornarono a caracollare nel suo spazio, il quale adesso era ritornato ad essere governato dall’armonia e dall’ordine. Invece i pianeti e i satelliti le corteggiavano, descrivendo nello spazio orbite ellittiche concentriche, anche se non sempre complanari. A quel punto, il dio Iveon recuperò le sue energie e la facoltà di manifestare liberamente i suoi propositi, senza esserne più impedito. Uno dei quali fu appunto quello di abbandonare la galassia di Trespan e di ritornarsene alla sua dimora di Zupes, tremendamente mortificato nella psiche e nello spirito. Ne era la causa il mancato raggiungimento del proprio obiettivo, con il quale si era proposto di liberare la sua sventurata Annura, che forse non avrebbe mai più rivista.

Invece noi dobbiamo convincerci che, come annunciato dall’eccelso dio Kron, in qualche squarcio del tempo futuro, con indubbia certezza l’eroe divino e quello umano, di nome Iveonte, si incontreranno nel punto esatto in cui la strada dell’uno si incrocerà con quella dell’altro. Perciò, in tale fortuita circostanza, essi si troveranno l’uno al fianco dell’altro, mentre sono intenti ad ingaggiare insieme la loro ardua lotta contro colui che al momento risulterà essere il nuovo prepotente di turno! Ma per assistere a tale evento memorabile, il lettore sarà obbligato a leggersi l’intera saga di Iveonte, la quale gli risulterà interminabile ed avvincente, nonché gli farà venire la voglia di andare sempre più avanti nella gradevole lettura.