46°-CONTINUA IL CAMMINO DEL DIO IVEON IN ANIMUR

Infine terminarono le due miglia di gola, le quali erano state superate dal dio Iveon in circa mezzora di cammino, lasciandosi dietro la tregenda e la gazzarra inscenate dagli ultimi mostri incontrati. All'uscita da essa, egli si ritrovò a percorrere un sentiero che attraversava un territorio, sul cui terreno la vegetazione si presentava rada ed era rappresentata da arbusti e suffrutici. Comunque, non mancavano alcune sterpaglie e ceppaie, le quali potevano intravedersi sparse qua e là. Si trattava di un luogo in cui, almeno all'inizio, pareva che il silenzio regnasse sovrano, siccome si rivelava tombale dappertutto. Anch'esso, se si prescindeva dagli esseri mostruosi che prima vi avevano fatto la loro apparizione, similmente agli altri che erano stati percorsi in precedenza, faceva registrare l'assenza assoluta di qualunque traccia tanto umana quanto animale. Per questo lo si poteva considerare letteralmente deserto. Ma bisognava ancora vedere fino a quando tale calma apparente sarebbe durata, senza essere disturbata da qualche ulteriore fenomeno non previsto. Il quale, facendo la sua improvvisa comparsa, si sarebbe mostrato anch'esso in vena di produrvi lo schiamazzo che gli fosse risultato più connaturale, visto che un fatto di quel genere era senz'altro possibile.

Il dio Iveon, da parte sua, non se la sentiva di fare affidamento su quella tranquillità immota, la quale, a suo parere, era da reputarsi soltanto illusoria. Egli era convinto che pure questa volta, quando meno se lo aspettava, sarebbero apparse altre mostruose creature intenzionate a portare scompiglio in quella landa, che appariva priva di vita. Perciò, considerato che la loro apparizione ci sarebbe stata senza meno, si trattava solo di una questione di tempo. L'unica cosa, su cui non si poteva formulare un pronostico attendibile, era il prevedere il tipo di mostri che vi sarebbero giunti, con l'obiettivo di farvi la loro grottesca esibizione.

Alla fine ogni sua previsione a tale riguardo si avverò puntualmente. Essi apparvero, dopo che il dio positivo ebbe percorso un altro paio di miglia di quella terza zona naturale incontrata sul nuovo sentiero. Egli la stava attraversando con la massima indifferenza, anche se con un po’ di diffidenza, allorché incominciarono a spuntare fuori dal terreno degli esseri orribili. I quali, una volta venuti all'aperto, immediatamente si diedero a sfrecciare verso il cielo come bolidi impazziti, quasi fossero avidi di assaporare l'ambiente esterno. Ma ne ritornavano poco dopo, sia per far rientro alla loro base che si trovava sottoterra, sia per uscirne ancora, allo scopo di riprendere a fare il medesimo tragitto di andata e ritorno, senza mai sospenderlo. Le loro azioni di uscita dal terreno e di penetrazione in esso, come pure il loro volo, si rivelavano degli scatti così rapidi ed istantanei, che quasi sfuggivano alla percezione sensoriale dell'uomo. Per questo motivo, occorreva stare molto attenti, se si voleva riuscire ad individuare le caratteristiche di quegli esseri strani, i quali non erano esemplari di mostri da collezione. Anch'essi, a causa della loro deformità e delle loro peculiarità fisiche orrende, infondevano terrore in coloro che non potevano esimersi dal contemplarli.

Giacché ci troviamo, badiamo ad esaminarne la complessione, che non era da stimarsi enorme, poiché la grandezza dei medesimi raggiungeva al massimo quella di una nostra iguana. Volendo essere più precisi, i nuovi mostri somigliavano parecchio a tale squamato per certi aspetti, come la loro conformazione e le loro sembianze esteriori. Queste ultime, però, studiate nella loro disarmonicità, si manifestavano più accentuate nei primi; per questo essi facevano una cattiva impressione parecchie volte più del rettile da noi preso in considerazione. C'è soltanto da aggiungere che anche tali mostri scattanti emettevano dalle loro fauci continui getti di fuoco, i quali raggiungevano gli sterpi e le ceppaie con avvolgenti fiammate. Così provocavano un immediato incendio su di loro, facendo bruciare e diventare pura cenere gli uni e le altre. Se i movimenti dei nuovi mostri venivano rapportati ai passi che faceva il dio Iveon, che se li vedeva sbucare a decine intorno a sé e provenienti da ogni direzione, si assisteva ad uno spettacolo scoraggiante al massimo. Difatti non era bello per lui vedersi circondare da quella turba di esseri obbrobriosi, che certe volte sembravano dirigersi proprio contro di lui, facendogli prevedere un impatto di sicuro non piacevole. Anch'essi riempivano la circostante aria di molesti stridi, che risultavano assai fastidiosi all'orecchio di un uomo. Ciò, se egli si fosse trovato a transitare da quelle parti e ne avesse subito gli effetti rintronanti ed assordanti!

Come nei precedenti casi, di fronte a quel moto di masse viventi, che seguitavano ad immettersi nello spazio adiacente e ad abbandonarlo a grande velocità subito dopo, il divino eroe si asteneva dall'approfondire il fenomeno. Anzi, egli se ne disinteressava e si comportava come se quell'episodio non accadesse intorno a sé. Inoltre, non cercava di comprendere perché mai esso, al pari degli altri che già si erano verificati prima, tentasse di distoglierlo dal suo cammino. Reputandone irreale l'esistenza, preferiva estraniarsene e procedere dritto per la sua strada, senza sobbarcarsi a quei vari quesiti che considerava di nessuna utilità.

A questo punto, visto che poco fa abbiamo dato quasi per certo che il nostro divino eroe non era più dotato della sua divinità, giustamente il lettore vorrà sapere come mai egli non se ne fosse ancora reso conto. Ebbene, se è vero che una consapevolezza del genere non c'era ancora stata in lui in modo palpabile, era però altrettanto vero che egli aveva cominciato a sospettare che nella sua essenza divina qualcosa avesse smesso di funzionare regolarmente. In più di una occasione, il dio ne aveva preso coscienza con dati di fatto; ma lo stesso non aveva creduto opportuno approfondire tale problema. Possiamo conoscerne il motivo? Secondo lui, non poteva aspettarsi niente di positivo e di certo da una dubbia realtà, che egli riteneva totalmente priva di fondamento. Dare credito ad essa, quindi, equivaleva ammettere alcune cose che, a rigor di logica, andavano giudicate assurde al cento per cento. La sua natura divina era fuori discussione, come lo era la sua esistenza reale, nonostante quella presente tendesse ad annullare l'una e l'altra. Allora, non essendo egli in grado di darsi neppure una risposta esatta in merito, gli conveniva rinunciare a comprendere l’odierno mistero e mettersi a vivere la sua nuova realtà, come se fosse per niente falsata.


Riprendendo il nostro racconto, troviamo il dio Iveon che aveva già superato anche la nuova regione arbustacea e si era affacciato da poco ad una località, che era molto diversa dalle precedenti. Adesso egli avanzava tra piccoli rilievi di forma conica, i quali erano alti meno di dieci metri; mentre la loro sommità si presentava tricuspidale. Alla base di ognuno di loro, poteva scorgersi un piccolo ingresso che aveva la forma di un semicerchio. Con un diametro avente la lunghezza di un metro, esso conduceva dentro una cavità. Da parte sua, in verità, il dio dell'eroismo non ci tenne a visitare il suo interno, non sentendosi obbligato a farlo per diversi motivi, che non staremo qui a riportare. A ogni modo, secondo un suo calcolo approssimativo da lui ritenuto più che esatto, essa non doveva essere profonda oltre i tre metri, considerato che il raggio della base della piccola altura poteva raggiungere al massimo i cinque metri. Invece ciò che gli premeva incontrare era ben altro; però, siccome tale circostanza non si verificava ancora in nessuna parte, essa adesso lo teneva in una spasmodica attesa.

Per chi volesse saperlo, il suo desiderio era quello di imbattersi in qualcuno o in qualche entità che lo aiutasse a comprendere quanto gli stava succedendo in quel luogo arcano. A suo giudizio, dal momento che quella pseudo realtà esisteva, di sicuro doveva esserci pure colui che, manovrandola a suo piacimento, lo stava mettendo a dura prova. Ma se gli fosse capitata l'occasione di incontrarlo, egli avrebbe poi posto fine alla vuotezza di ogni sua intraprendenza intellettiva volta a districarsi in quel ginepraio esistenziale? Ammesso cioè che una simile evenienza gli si fosse presentata, sarebbe stato anche capace di obbligare il manovratore della sua attuale realtà a privarla dell'incantesimo in atto, dal quale veniva costretto ad esistere in una differente dimensione spaziale e temporale? Comunque, data la sua situazione precaria del momento, non si poteva asserire con certezza che il dio Iveon sarebbe stato in grado di ottenere ciò che si prefiggeva dall’ipotetico essere misterioso, che lo avrebbe incastrato consapevolmente o senza volerlo.

Ragionandoci meglio, poteva anche darsi che non esistesse affatto colui che egli considerava l'unico responsabile di quella sua avversa traversia e che l'esistenza dello stesso fosse il contenuto di una sua ipotesi lievitata unicamente su una logica errata. Perciò non era sbagliato ipotizzare pure che fosse stata una semplice circostanza a renderlo vittima di quel suo infelice stato, senza che nessuno sapesse niente di quanto gli stava avvenendo in quella situazione, dopo la sua avvenuta cattura. Per questo motivo, ogni suo tentativo di uscire da quel paradosso esistenziale, il quale gli gravava addosso come un pesante macigno, sarebbe stato vanificato maggiormente dall'assenza di colui che gli avrebbe dato una origine, fosse esso reale oppure irreale.

Con un po' di giudizio, dunque, ci rendiamo conto che non vale per niente la pena soffermarsi su simili congetture, probabili o improbabili che siano, dato che ci troviamo a barcamenarci in un campo di ipotesi destituite di ogni fondamento. In quanto tali, perciò, possiamo attenderci da esse esclusivamente un approdo a dei meri nulla di fatto, oltre che ad una gran perdita di tempo. Allora ci conviene sotterrare tutti quei ragionamenti che si propongono di trovare la soluzione ad un argomento del genere e andare avanti nel nostro interessante racconto, senza che ci siano altre inutili interruzioni. Agendo in tal modo, eviteremo di spremerci oltre le meningi su una questione che attualmente ci si presenta davvero di ardua interpretazione. Al contrario, ci faremo cullare dalla speranza che nel prossimo futuro ci verrà chiarito ogni cosa da un nuovo avvenimento, che si dimostri probante e del tutto inerente al caso. Come pure faremo in modo che essa ci venga a sorreggere nei momenti di grande sfiducia verso il dio positivo.

Ritornando al divino eroe, notiamo che la sua occupazione adesso era quella di circolare tra le migliaia di alture, delle quali già abbiamo fatto la conoscenza. Esse erano disseminate sul territorio pianeggiante che egli stava attraversando. Ma il dio non era interessato a conoscere chi si trovasse nelle loro cavità, poiché supponeva che nell'interno di ciascuna non dovesse esserci nessun essere intelligente, con il quale poter far nascere un feeling. Allora perché esistevano quei rocciosi blocchi conici, che erano sormontati da cime tricuspidi ed avevano una cavità proporzionata alla loro base, se poi in esse non si riusciva a rilevare la presenza di nessuno, in qualità di suo abitatore? Pur domandandoselo con una certa curiosità, ugualmente il ramingo dio non seppe darsi una risposta. In assenza di essa, quindi, gli convenne continuare il cammino con la sua andatura normale, la quale era quella che gli faceva studiare nel modo migliore la zona che si era dato a percorrere.

Intanto che camminava a zonzo, non essendoci un sentiero da seguire, nel dio Iveon era viva la speranza di imbattersi in qualcuno oppure di trovarsi davanti ad un fenomeno che desse una risposta ai suoi molteplici interrogativi. Egli presentiva che oramai non avrebbe più avvistato altri mostri sul proprio cammino, siccome essi finalmente non avrebbero più tentato di importunarlo. Al loro posto, se vedeva giusto, si sarebbe avuto uno straordinario evento, senza sapere ancora spiegarsi di che tipo. Ma dovendo esso risultargli favorevole, come egli osservava, allora che si affrettasse ad arrivare e non lo facesse stare più sulle spine, come stava facendo! Soltanto in quel modo, ci sarebbe stata la fine della sua odissea, quella che si stava svolgendo in una tirannica irrealtà, permettendogli così di far ritorno presso la sua amata Annura. La cui indubitabile disperazione lo faceva soffrire più di ogni altra cosa, in quella circostanza sfavorevole.

Ora era il pensiero della disperata consorte ad angosciarlo maggiormente in un posto simile. Essendo stato egli costretto ad abbandonarla senza preavviso e senza neppure una giustificazione, il suo abbandono, in quanto immotivato e repentino, di certo le stava arrecando una sofferenza non tollerabile dalla sua psiche angustiata. Allora, immaginandosela come la più sventurata delle dee, egli si sentiva macerare lo spirito; nonché anelava di correrle in soccorso e di tranquillizzarla per porre termine alla sua pena. Dentro di sé, sperava come non mai che quella sua assurda prigionia avesse presto fine e gli si permettesse di raggiungerla, di abbracciarla e di profondersi per lei in baci e carezze. Facendo cessare il suo turbamento, avrebbe arrecato anche a sé stesso il beatifico rasserenamento dell'animo, giovandosene in modo incredibile.

Venute infine meno in lui le riflessioni affettive, le quali avevano riguardato la moglie e lo avevano messo in grande difficoltà dal punto di vista psichico, il dio Iveon si diede nuovamente a considerare il mondo che lo circondava. Intendeva scoprirvi ciò che di esso lo teneva avvinto alla persistente irrealtà. Tale meccanismo illogico, senza che egli gli avesse dato il consenso, aveva posto una ipoteca sulla sua esistenza. Così gliel'aveva confinata in una realtà diversa da quella di Kosmos, la quale non gli lasciava intravedere alcuna uscita da essa. Ma pur adoperandosi con scrupolosa attenzione, davvero non gli riusciva di trovare nell’attuale realtà quanto di interessante vi cercava. Probabilmente esso non c'era e non vi era mai esistito; oppure era difficile individuarlo nel punto esatto dove il medesimo si rintanava. Desistendo poi dalla sua scrupolosa ricerca, il divino eroe attese che l'evolversi degli eventi gli si mostrasse favorevole. Oramai egli non se la sentiva più di far fronte a quella circostanza criptica con le sole sue forze, le quali adesso si presentavano sommamente esauste.

Per un fatto inconcepibile, come non gli era mai successo, il dio Iveon iniziava a pensare e a sentirsi come un essere umano. Ne avvertiva perfino certe percezioni sensoriali e talune preoccupazioni, che potevano essere riscontrate soltanto nella specie umana. Quindi, cosa gli stava accadendo realmente, per avere simili impressioni improvvise? Ma dopo che se lo fu chiesto, egli se ne dimenticò presto, per cui rivolse la mente ad altro. Ossia, il dio si diede ad attendere il fenomeno che, secondo il suo presentimento, lo avrebbe aiutato a liberarsi dalla realtà, nella quale stava versando la sua grama esistenza. Per sua fortuna, l'attesa non sarebbe durata a lungo, poiché una evenienza insperata avrebbe dato corso ad esso. Egli, però, ne avrebbe trovato giovamento soltanto indirettamente, in quanto non sarebbe stato l'episodio stesso ad avvantaggiarlo. Invece sarebbe stata una fortuita circostanza, della quale essa avrebbe fatto parte molto presto.

Era trascorsa mezzora, da quando il dio dell'eroismo si aggirava tra quei monticcioli, allorché vide la parte aerea sovrastante affollarsi di una moltitudine infinita di piccoli dischi opalescenti, i quali avevano un diametro di appena dieci centimetri. Essi, pullulandovi numerosi, mantenevano sempre la stessa posizione, come se stessero ubbidendo a degli ordini. Per questo si mostravano pronti a lasciarla, non appena qualcuno o qualcosa fosse intervenuto ad ordinarglielo. Nel frattempo, tali dischetti seguitavano a brulicare nell’aria; anzi, muovendosi simili a candide farfalline dedite al loro lieve svolazzamento, essi destavano la curiosità del dio e lo spingevano ad interessarsi a loro.

A un certo punto, sopraggiunse da non si sa quale luogo un prolungato trillo acuto e modulato, il quale si sparse ovunque. La presenza di tale suono, che non era casuale, dopo averli messi in agitazione, li spinse ad abbandonare il posto che occupavano. Infine, anche se non tutti simultaneamente, ognuno di loro si affrettò a raggiungere il proprio rilievo, essendo desideroso di occuparne la cavità. Dopo che essi vi ebbero fatto rientro, in quel posto ritornò la calma precedente, come se niente fosse avvenuto poco prima. Perciò il dio Iveon, in un certo senso, si ritrovò al punto di partenza. Comunque, egli considerò l’evenienza sotto quell'aspetto soltanto inizialmente, cioè per il tempo che decise di valutare il fenomeno come fatto a sé stante e non concomitante.

In seguito, quando la sua meditazione si concentrò sui dischetti e non più sull'accaduto in sé, il dio smise di ritenerlo privo di significato. Infatti, il suo discorso tese a dare una spiegazione alla loro presenza nelle infinite cavità, in ognuna delle quali ora poteva scorgere la piccola macchia bianchiccia, quasi fosse essa un piccolo essere animato. Il dischetto vi assumeva un moto verticale, dal basso verso l'alto e viceversa, senza mai porvi fine. Eppure, a parer dell'eroe divino, il suo movimento doveva volere significare qualcosa. Per questo bisognava scoprirlo al più presto. Quanto al modo di pervenire alla scoperta del suo significato, il dio Iveon non sapeva ancora a quale doveva ricorrere, al fine di perseguire il suo obiettivo. A ogni modo, era persuaso che, prima o poi, lo avrebbe trovato; per cui occorreva unicamente spendere un po' del suo tempo, se egli voleva riscuotere il successo tanto bramato dalla sua lunga attesa.

Al termine delle sue diverse considerazioni, il divino eroe si rese conto che la cosa più ovvia per lui, se voleva conseguire un risultato sicuro, era quella di porre piede in una delle cavità ed avere un contatto diretto con il suo abitatore. Egli si era ormai convinto che ogni candido dischetto, nonostante la sua natura e la sua forma fossero quelle che apparivano, doveva rappresentare un essere vivente, a cui poteva rivolgersi e fare tutte le domande che voleva, da quelle più semplici a quelle più complesse.