451-IL DIO IVEON COMUNICA AD IVEONTE LA SUA NUOVA MISSIONE

Ritorniamo adesso al recente passato del nostro eroe per apprendere quando e come egli era dovuto allontanarsi dal suo accampamento, per espresso invito delle due eccelse divinità di Luxan. Nello stesso tempo, verremo a conoscenza dei vari incontri da lui avuti con chi aveva il diritto di saperlo, per avvisarli del suo nuovo improcrastinabile viaggio, che stava per intraprendere al di là del confine del loro mondo. A tale riguardo, era previsto che esso lo avrebbe sottoposto a fatiche incredibili, le quali si sarebbero rivelate superiori ad ogni possibilità umanamente intesa, pur di fargli conseguire il nobile scopo che si era proposto.

Riconducendoci presso di lui, troviamo Iveonte nel suo accampamento, mentre discute con il cugino Leruob e l'amico Tionteo, circa l'imminente arrivo del loro esercito in prossimità dei territori edelcadici. A suo avviso, esso doveva prepararsi a tale evento nella forma dinamica più adeguata possibile e con la dovuta cautela, considerato che Actina, la città del suo amico fraterno, veniva sottoposta ad un martellante assedio. Quello era il giorno, che avrebbe preceduto l'apparizione della divina Kronel a Leruob per invitarlo a correre in soccorso degli Actinesi. I quali stavano per essere intercettati ed annientati dal convoglio degli eserciti alleati. Ebbene, nel mezzo della loro discussione a tre, la quale si stava avendo all'esterno della sua tenda, ad un certo punto, Iveonte aveva scorto il divino Iveon a poca distanza da lui. Il dio gli aveva anche fatto cenno con la mano di avere bisogno di lui. Ma era stato permesso soltanto a lui di scorgere la presenza del dio dell'eroismo in quel luogo. Allora, pur di non farlo attendere molto, subito si era congedato per il tempo necessario dai suoi due interlocutori, dovendo incontrarsi nella propria tenda con la prestigiosa divinità.

Quando vi era entrato con una certa sollecitudine, il giovane aveva trovato in essa il dio dell'eroismo, il quale già lo stava aspettando con una certa impazienza. Perciò, non appena l'eroe umano vi aveva fatto il suo ingresso, lo aveva accolto con le seguenti parole:

«Iveonte, non c'è altro tempo da perdere! Per volere degli eccelsi gemelli, sei chiamato a compiere una missione, che solo da te essa potrà avere il risultato da loro sperato! Essi ne sono convinti!»

«Come è possibile, dio Iveon, che, proprio ora che qui c'è un gran bisogno di me, mi si comunica che devo lasciare ogni cosa nello stato attuale per affrontare un viaggio, la cui conclusione non si sa neppure quando ci sarà! Adesso mi sentivo anche orgoglioso di accompagnare i miei genitori a casa loro trionfalmente! Ciò non è proprio giusto!»

«Non ti do torto, Iveonte: hai tutta la mia comprensione! Ma qualora tu ci rinunciassi, credi poi che dopo ti verrebbe permesso di ottenere quanto oggi ti sei ripromesso? Se ne sei certo, è perché non immagini neppure cosa di estremamente terribile sta per accadere nell'intero universo! Devi sapere che, se non ci porrai in tempo riparo con il tuo intervento, fra non molto qui tutto cesserà di esistere. Non ci sarete più né tu, né la tua famiglia, né i tuoi amici, né l'Edelcadia, né il tuo mondo intero, né il resto degli altri astri appartenenti a Kosmos!»

«Perché dovrebbe succedere tutto questo, dio Iveon? E da parte di chi? Se si tratta di qualcosa assai spaventoso e letale, perché non intervengono direttamente il padre e lo zio della mia protettrice, che sono le divinità più potenti dell'universo? Inoltre, ci sei anche tu, che potresti benissimo prendere il mio posto. Perciò non riesco a spiegarmelo perché devo essere proprio io a portare a termine tale straordinaria missione! Quindi, sei pregato di darmi le risposte giuste alle mie domande.»

«Iveonte, tu già sai dell'esistenza dell'Imperatore delle Tenebre, che è il dio Buziur. Come pure mi hai già sentito parlare della Deivora in altra circostanza, la quale aveva avuto origine da un Simbios. Ebbene, l'autorevole divinità di Tenebrun è stata in grado di trasformarsi in un'altra Deivora, alla quale è stato dato il nome di Kosmivora, poiché essa non solo imprigiona le divinità benefiche, ma anche va distruggendo quella parte di Kosmos in cui essa viene a trovarsi, quando lo attraversa. Perciò, se la Deivora, la quale ebbe origine da un insignificante Simbios, costituì per le due eccelse divinità un vero problema, figuriamoci adesso che essa è stata originata da un dio della potenza di Buziur! Per questo la Kosmivora non può essere attaccata da nessun'altra divinità, neppure dall'onnipotente Splendor. Egli, per poterla annientare, dovrebbe far ritornare nel nulla l'universo da lui creato. Solo così Buziur smetterebbe di essere Kosmivora e sarebbe costretto a ritornarsene in Tenebrun, insieme con tutte le altre divinità negative. Invece quelle positive farebbero ritorno in Luxan, ridandosi a vivere come prima.»

«Ma se il dio Kron e il dio Locus sono ricorsi a me, ciò vuol dire che c'è qualcosa che non mi hai riferito ancora, divino Iveon. Non è forse vero? Altrimenti come potrebbe un essere umano conseguire quanto neppure al creatore di tutte le divinità è possibile ottenere?»

«Iveonte, non ti sei sbagliato. Sto qui da te, appunto per rendertene partecipe. Esiste in Kosmos un potere, il quale supera qualunque altro potere, fosse esso anche quello di Splendor, pur essendo costui il creatore dell'universo e pur potendo distruggerlo a suo piacere. Tale potere, denominato Potere Cosmico, non solo riesce a distruggere tutto ciò che fa parte del male, ma ha anche la facoltà di far tornare alla sua precedente efficienza quanto nello spazio cosmico è stato rovinato o distrutto, ad opera di qualcuno oppure di qualcosa.»

«Allora come mai, divino eroe, nessun dio positivo è ricorso ad esso per usarlo contro la Kosmivora? C'è forse una ragione, la quale vieta a tutte voi divinità di fare anche un tentativo di impossessarvene?»

«Altroché se essa c'è, Iveonte! Potrà provare a venirne in possesso esclusivamente un Materiade, di qualunque specie risulti. Ma per impadronirsi del Potere Cosmico, non è una impresa facile, perché chi la tenterà dovrà avere tutte le carte in regola. Altrimenti non ci riuscirà e potrebbe anche rimetterci le penne! Nel caso tuo, però, questo problema non si pone, considerato che moriresti lo stesso, nel caso che nessuno intervenisse a fermare la divoratrice Kosmivora, ponendo termine alla sua distruzione di galassie. Nelle quali caracollano senza cessazione miliardi di stelle, di pianeti e di satelliti, insieme con altri astri dalle forme più disparate.»

«Bella prospettiva è quella che mi poni davanti, dio Iveon! Allo scopo di favorire quanti risultano abitatori di Kosmos, siano essi divinità, Materiadi od animali, sono obbligato a cimentarmi nell'impresa. Anche perché essa mi viene proposta direttamente dalle due eccelse divinità del Regno della Luce. Ma posso sapere dove si trova questo Potere Cosmico e in quali mani in questo momento viene esso custodito?»

«Iveonte, lo si può trovare soltanto in Potenzior, che è il suo luogo di residenza. Riguardo poi ai suoi detentori, costoro sono cinque e ciascuno ha il controllo sulla quinta parte di esso, per questo prendono il nome di Guardiani del Potere Cosmico. In riferimento a Potenzior, va chiarito che si tratta della terza realtà metafisica, la quale si è autocreata insieme con la creazione di Kosmos; mentre le altre due sono Landipur ed Animur. L'insuperabile potere vi si costituì pure autonomamente; anzi, vi si trovò ad esistere già bell'e pronto per essere adoperato, ma s'ignorava chi sarebbe dovuto essere a farlo.»

«Vorrei saperlo anche io, dio Iveon, poiché sono sicuro che alla fine intervenne qualcuno a dichiararsi il suo padrone!»

«Invece, Iveonte, ci fu l'intervento di sé medesimo in tal senso, stabilendo che a nessun Materiade sarebbe stato concesso di disporne, se ne avesse posseduto solo una parte. Perciò, non vedendo la necessità che si ricorresse ad esso nella sua totalità per qualche ragione importante, anzi non la prevedeva neppure in un lontano futuro, decise di non dare a nessuno di loro la possibilità di farne uso. Così si frazionò in cinque parti uguali e si fece possedere da cinque Materiadi, che definì suoi guardiani, i quali erano risultati presso i loro popoli degli invincibili eroi. Inoltre, ognuno non avrebbe dovuto cedere a nessuno la sua parte, ma avrebbe combattuto strenuamente perché essa restasse sempre nelle proprie mani e non di altri.»

«Divino Iveon, conosci anche i nomi di questi Guardiani del Potere Cosmico, unitamente al loro mondo di origine e alla loro razza?»

«Ne sono venuto a conoscenza da poco tempo, Iveonte, dopo che ne sono stato informato dall'eccelso Kron. Adesso te ne faccio un quadro sinottico, il quale è quello che ti riporto qui appresso; ma non ci sarà bisogno, da parte tua, di memorizzarlo.»

Dopo che il dio del coraggio aveva finito di riferirgli l'intero quadro, l'eroe umano gli aveva detto:

«Ti ringrazio, dio Iveon, per avermeli elencati tutti e cinque, con le principali notizie che li riguardano. Ma adesso mi dici anche come farò a pervenire in Potenzior, se in me c'è l'ignoranza più assoluta della sua posizione in Kosmos e del modo di accedervi?»

«Di questo non ti devi preoccupare, Iveonte. Devi sapere che neppure io so come raggiungere Potenzior, pur dovendo essere il tuo accompagnatore fino alla sua porta di ingresso. Infatti, sarà l'eccelso Kron, quando saremo pronti per partire, a farci viaggiare in un suo raggio temporale fino all'asteroide Tibos, sul quale è situata la porta di ingresso a Potenzior. Vedrai che egli ci farà trovare in un attimo sul piccolo astro, che è situato nella galassia di Abrep e si dà alla sua corsa interminabile all'interno del sistema stellare di Nuber. Altrimenti non ci sarebbe il tempo per farti compiere la missione che dovrà farti prima impadronire del Potere Cosmico e poi affrontare la Kosmivora per dare ad essa scaccomatto e metterla fuori gioco.»

«Almeno, divino eroe, prima della mia partenza, mi sarà concesso di incontrare i miei parenti e i miei amici, per avvertirli di questa mia nuova missione, giustificandomi con tutti loro di non poter fargli compagnia nei grandi momenti che stanno per sopraggiungere e che considero davvero cruciali per i miei genitori e per la mia gente?»

«Lo potrai fare senza meno, Iveonte, poiché gli eccelsi gemelli vogliono vedere in te un combattente privo di rammarichi e di rimorsi, mentre ti prepari alla tua ardua lotta contro i Guardiani del Potere Cosmico, essendo essi degli eroi di indubbio valore. Anzi, da questo momento, sei libero da ogni impegno e potrai dedicarti ai tuoi parenti e ai tuoi amici ed appagare il loro desiderio di abbracciarti e di parlarti.»



A quell'annuncio del dio Iveon, Iveonte aveva voluto incontrarsi subito con il cugino, che si intratteneva ancora a parlare con Tionteo. Non appena li aveva scorti poco distante, li aveva chiamati ed invitati a raggiungerlo nella propria tenda. Quando vi erano entrati, anziché lui, era stato Leruob ad aprir bocca per primo, dandosi a chiedergli:

«Non è vero, Iveonte, che prima hai dovuto lasciarci solo perché qualche essere divino, che non si è fatto scorgere da noi, ti ha fatto intendere che aveva bisogno di abboccarsi con te per importanti comunicazioni? Ormai sappiamo che hai delle aderenze tra le divinità!»

«Non posso negarlo, cugino. Se lo facessi, dopo non potrei comunicarvi le cose che sto per riferirvi. Prima è stato il dio Iveon, che Tionteo ha avuto modo di conoscere di recente, a farmi cenno che aveva urgenza di contattarmi per delle ragioni molto serie, quelle di cui vi metto a conoscenza, senza entrare nei particolari. Dopo il vostro incontro, dovrò anche volare dai miei genitori, i quali si trovano nella reggia di Actina, ospiti del mio amico fraterno e di mia sorella Rindella. Sarà mio dovere avvisarli del mio nuovo viaggio, che sto per intraprendere, e giustificarmi con loro per non potere gestire in prima persona gli importanti eventi che presto si avranno nella regione edelcadica e nel resto del mondo.»

«Quindi, Iveonte, devi riferirci che ti è stata affidata un'altra missione dalle divinità tue protettrici, proprio in un momento in cui la tua presenza fra noi risulta indispensabile?»

«Indispensabile non direi, Leruob, visto che mi fido di te come di me stesso. Perciò sono certo che te la caverai brillantemente, quando tali eventi si presenteranno nell'Edelcadia.»

«Ti ringrazio per l'immensa fiducia che riponi in me, cugino. Ti prometto che farò di tutto per meritarmela, quando sarò messo alla prova dai prossimi avvenimenti. Adesso, però, parlaci di questa tua nuova missione che ti è stata affidata e delle ragioni che hanno indotto le divinità a fartela affrontare. Mi chiedo come mai non sono state loro stesse a risolvere tale problema che riveste una grande importanza, anziché porne la soluzione nelle tue mani.»

«Rispondo prima alla tua domanda, mio caro cugino materno. Se le divinità sono ricorse a me, è perché il problema potrà essere risolto soltanto da un essere umano dotato di grandi capacità. Per esse, essendo il migliore fra tutti gli eroi del nostro pianeta, solo io potrei essere in grado di superare la difficile prova che mi si chiede di affrontare. Ma non è detto che la mia riuscita sia indiscussa, potendo anche rimetterci la pelle. In quel caso, si andrebbe incontro alla catastrofe dell'intero universo e alla morte di quanti vi esistono.»

«Allora, Iveonte, ce ne parli più in particolare, dicendoci anche contro chi dovrai combattere per superare questa difficilissima prova, dal cui cimento sono escluse le divinità?»

«Leruob, il dio Buziur, che è la divinità più autorevole delle divinità malefiche e si è pure autoinsignito del titolo di Imperatore delle Tenebre, è riuscito a trasformarsi in un mostro, chiamato Kosmivora, che perfino Splendor non può distruggere, sebbene sia il creatore di Kosmos, ossia dell'universo intero. Costui, perché il malefico dio smetta di essere un pericolo per le divinità benefiche e per tutte le cose esistenti in Kosmos, confinandolo di nuovo in Tenebrun, dovrebbe eliminare l'intero universo, nel quale adesso la Kosmivora continua ad operare con atti distruttivi. Allora, ad evitare di ricorrere ad una soluzione così drastica, che significherebbe la fine di interi mondi e di creature intelligenti appartenenti alle varie razze, le due divinità benefiche più potenti dopo Splendor hanno deciso di ricorrere al Potere Cosmico. Solo se io riuscirò ad impossessarmene, dopo non avrei più difficoltà ad affrontare la mostruosa creatura e a sconfiggerla, costringendola a ritornarsene in Tenebrun.»

«Ma davvero, cugino, il Potere Cosmico ti darebbe una tale straordinaria potenza? Allora mi dici cosa dovresti fare per impadronirtene?»

«Certamente, Leruob! Si tratta davvero di una potenza incommensurabile e qualitativamente non plus ultra. Pensa un po' che esso può perfino restituire alle cose danneggiate la loro originaria integrità oppure richiamare all'esistenza le cose già fatte sparire nel nulla! Quanto poi al modo di conquistarlo, esso non è molto semplice. Pur di non diventare qualcosa in possesso di qualche Materiade, nome dato dalle divinità a qualsiasi essere dotato di intelligenza e di ragione, si frazionò in cinque parti e ne consegnò una ad ogni suo guardiano. I Guardiani del Potere Cosmico, oltre ad appartenere a vari ceppi cosmici, presso i rispettivi popoli, erano risultati eroi insuperabili e magnificati. Per cui adesso, se voglio diventare l'unico padrone del potere cosmico, mi toccherà affrontarli uno alla volta, batterli e venire in possesso della sua parte di potere. Tali guardiani si trovano in Potenzior ed io dovrò andarvi privato del mio anello e della mia spada, non essendo entrambi di fattura umana. Perciò dovrò procurarmi di una nuova spada, se voglio competere con loro. Adesso che vi ho riferito ogni cosa sul mio viaggio, è giunto il momento di salutarci e di lasciarci, siccome dovrò raggiungere i miei genitori, poiché non mi è stato ancora possibile incontrarli ed abbracciarli con tutto il mio amore filiale. A proposito di loro due, cugino, sarai tu a condurli a Dorinda, visto che non mi sarà possibile di farlo io. Così sarò certo di averli affidati ad ottime mani, le quali sapranno ben difenderli da qualsiasi pericolo.»

«Non preoccuparti, Iveonte, perché essi, come tu hai detto, davvero si troveranno in mani sicure. Guai a quelli che oseranno procurare ad entrambi la minima offesa oppure il minimo danno!»

Pochi attimi dopo, avvenuti gli abbracci con il cugino Leruob e con l'amico Tionteo, Iveonte aveva preso il volo alla volta della Città Santa. Avendola raggiunta in circa mezzora, dopo si era affrettato a pervenire a corte per presentarsi agli amici Francide ed Astoride, nonché alla sorella Rindella, i quali gli avrebbero fatto incontrare i suoi genitori. Essi adesso erano ospiti del cognato e della sorella, dopo che il principe Raco li aveva fatti scarcerare dalla prigione di Casunna per affidarli a loro due.

Nel vederselo davanti all'improvviso, poiché essi non immaginavano che ciò potesse succedere, il re Francide ed Astoride erano rimasti di stucco, a causa della gioiosa meraviglia. Poco dopo si erano lanciati ad abbracciarselo e ad esprimergli le più felici espressioni di gratitudine. Anche Iveonte aveva reagito allo stesso modo, rallegrandosi con i suoi amici con grande soddisfazione. Quando infine si erano esaurite le loro effusioni di contentezza, specialmente da parte dei residenti a corte, essi si erano dedicati a farsi varie domande, gli uni sul suo arrivo repentino, che si presentava lontano da ogni rigido schematismo, e l'altro sui propri familiari, non potendo essere altrimenti. Naturalmente Iveonte, anche se questa volta in forma più succinta e veloce, aveva dovuto rispondere alle domande del cugino, giustificando in tal modo il nuovo viaggio che stava per intraprendere. Subito dopo si era fatto accompagnare dall'amico Francide presso la sorella, la quale in quel momento stava con la suocera, la nobildonna Talinda. Anche le due donne, nello scorgerlo, erano rimaste stupefatte, oltre che oltremodo liete di trovarselo davanti. Ma Rindella era stata quella che, insieme alla stupefazione, aveva voluto manifestargli anche la sua giocondità con un abbraccio interminabile. Profondendo lacrime di gioia sul suo petto, si era data ad esclamargli:

«Finalmente, carissimo fratello, ci viene data l'occasione di scambiarci il nostro affetto. In passato, pur stando qualche volta l'uno accanto all'altra, non abbiamo mai potuto farlo, per la semplice ragione che ignoravamo di essere fratelli. Non è vero che è stato così?»

«La cosa importante, sorella, è che alla fine ci è stato consentito di conoscere la verità, per cui potremo cominciare a gustarci il nostro affetto per il resto della nostra vita. Perciò accontentiamoci già di questo cambiamento di cose che c'è stato a nostro favore. Esso, da oggi in poi, ci farà vivere le gioie che non ci siamo godute fino a questo momento.»

«Adesso, Iveonte, ti accompagno dai nostri genitori, i quali non vedono l'ora di vederti e di abbracciarti, da quando hanno appreso i tanti fatti straordinari sul tuo conto!»

«Allora non perdiamo altro tempo, Rindella, e conduciamoci immediatamente da loro, poiché non voglio che l'attesa di entrambi di avermi tra le loro braccia si prolunghi ancora per molto!»

Quando infine i due germani si erano ritrovati nel locale dove soggiornavano i loro genitori, d'istinto Iveonte si era buttato prima tra le braccia della madre, dandosi così in un vicendevole e tenero abbraccio, durante il quale non si lesinava sui baci che piovevano a iosa. Comunque, l'uno e l'altra non manifestavano alcuna voglia di parlarsi; ma preferivano estasiarsi con quel loro mutismo, che riusciva a creare per loro due il massimo godimento. Solamente dopo che si era sentita massimamente appagata, la madre si era data a dire al figlio:

«Grazie, Iveonte, per essere ritornato tra noi, riempiendoci di una felicità sovrumana! Adesso, però, procura anche a tuo padre la stessa gioia che hai infuso in me con il tuo intenso abbraccio. Egli era più impaziente di me di ricevere il trattamento che mi hai elargito per prima.»

All'invito materno, il giovane all'istante si era lanciato tra le braccia paterne per condividere anche con lui quel sentimento profondo, che era in grado di suscitare nel loro animo la gioia più ineffabile e il gaudio più avvertito. Infine, pago di quella stretta filiale, il padre, in preda alla massima soddisfazione, si era rivolto al figlio, dicendo:

«Ti sono molto grato, Iveonte, per tutto il benessere che mi stai procurando in questo istante con la tua presenza. Come constato, la profezia dell'oniromante Virco si è avverata, nonostante molte avversità abbiano cercato di sopprimerti ad ogni costo. Mi dici chi devo ringraziare, per averti fatto diventare quello che sei? Una persona ci sarà stata, figlio mio, la quale ti ha protetto ottimamente dalla barbarie della foresta e ti ha reso in gamba sotto tutti i punti di vista, ossia migliore di come saresti cresciuto presso la mia corte. Allora mi dici chi è stato?»

«Certo che qualcuno c'è stato, padre mio! Si dà il caso che essa sia proprio la persona, che non hai mai smesso di osteggiare, ritenendolo colpevole della morte di tuo cugino, che aveva il mio stesso nome. Invece egli era innocente, poiché il suo colpo era diretto ad un cerbiatto e non al nostro parente. Si trattò soltanto di una disgrazia non voluta da parte sua. Ad ogni modo, sono portato a credere che le cose dovessero andare proprio come avvennero, poiché il destino aveva già previsto che Tio, rifugiandosi nella foresta, in seguito sarebbe stato il mio maestro in ogni branca del sapere e nella mia formazione di insuperabile guerriero. Perciò non si poteva contrastare l'ineluttabile destino.»

«Allora Lucebio aveva ragione, quando mi affermava che un giorno mi sarei pentito di pensare male di Tio e di accanirmi contro di lui, arrivando perfino a maledirlo e a perseguitare i suoi familiari. Ma adesso dove si trovano lui e la sua famiglia, poiché intendo farmi perdonare di tutto il torto che ho arrecato a tutti loro? Tu, Iveonte, sai niente dei familiari di Tio e del luogo dove trascorrono la loro esistenza?»

«Tio è morto, padre, e non puoi più farti perdonare da lui. Invece la sua famiglia, grazie al mio intervento, vive agiatamente. Ma in seguito proporrò ai suoi componenti di venirsene a vivere a Dorinda, dove saranno accolti da te e da me con il massimo rispetto.»

«Bravo, Iveonte, farai proprio come hai detto, poiché lo voglio anch'io più di te! Ma già ti anticipo che, quando ciò avverrà, io non sarò più il re di Dorinda, siccome ho deciso di abdicare in tuo favore, essendo tu il degno sovrano della Città Invitta. E poi il mio macilento stato di salute, che attualmente mi priva di ogni forza, non mi permetterebbe di seguitare a regnare! Perciò sarai tu a sedere sul trono di Dorinda, al posto mio, ricevendo anche la mia benedizione.»

«Quest'argomento, padre, lo tratteremo, quando arriverà il momento giusto. Adesso mi attende un nuovo viaggio, la cui durata non è possibile prevedere. Sono certo che, al mio ritorno, starai ad attendermi a Dorinda. Sarà allora che deciderai se continuare a regnare sulla nostra città o se vorrai abdicare in mio favore, per i motivi che mi hai fatto presenti.»

«Cosa mi dici mai, figlio?! Sei appena arrivato fra noi e già ci parli di ripartire, poiché un'altra missione ti aspetta? Vuoi dirmi chi ti ci manda e perché questa tua urgenza di compierla?»

«Spiegarti ogni cosa in merito ad essa, padre, non ti servirebbe a niente, siccome dopo lo stesso sarò obbligato a partire, non potendo io evitarla per il bene di tutti. Ti asserisco il vero, quando ti garantisco che la mia nuova missione riveste una importanza capitale. Pensa che, se non andrò ad eseguirla, facendo andare le cose come stanno procedendo, l'universo intero sarà in pericolo e, con esso, morirà l'intera umanità. Tu vuoi che ciò accada, facendoci andare di mezzo tutti? Desideri la fine del nostro mondo e quella degli altri popoli sparsi nelle remote regioni cosmiche? Con la mia missione dovrò fare in modo che il mondo non venga sommerso dal nulla, che lo trascinerebbe nella non-esistenza. Infatti, è ciò che avverrà, se io non corro a porvi i dovuti ripari!»

«Allora, Iveonte, fai il tuo dovere e non permettere che l'universo sparisca nel niente, con tutti quanti noi che ci abitiamo! Dopo l'umanità te ne sarà riconoscente. Ora, però, mi devi chiarire chi sarà ad accompagnarci alla nostra Dorinda, se tu non potrai farlo. Mi hai detto anche che, quando ritornerai, tua madre ed io staremo ad attenderti con ansia nella nostra amata città. Dunque, conosci già la persona che vi ci condurrà. Perciò ci dici chi egli è?»

«Sarà mio cugino Leruob a condurvi a Dorinda con un centinaio dei suoi uomini. Di lui potete avere la massima fiducia, perché egli mi uguaglia nell'intraprendenza e nella preparazione d'armi.»

«Hai detto tuo cugino, figlio mio, se ho bene udito le tue parole? Egli chi sarebbe, se non ne hai neppure uno?»

«Se ti riferisci ai miei cugini paterni, padre, allora hai ragione. Ma Leruob è uno dei tantissimi miei cugini materni, ossia uno dei nipoti di mia madre, esattamente il figlio di suo fratello Celton. Scommetto che entrambi vi state chiedendo come mai egli si trova da queste parti. Ebbene, adesso vi spiego ogni cosa. Quando sull'isola di Tasmina sono venuto a sapere chi erano i miei genitori, automaticamente ho appreso chi era il padre di mia madre, ossia il leggendario Nurdok. La qual cosa, visto anche che la Berieskania si trovava vicina, mi ha spinto ad andare a trovare il mio nonno materno, raccontandogli i brutti fatti che nel frattempo erano accaduti nell'Edelcadia. Allora lui non ha esitato ad armare un grande esercito, a capo del quale ha messo me, come comandante supremo, e Leruob, in qualità di mio vice. Ora l'esercito beriesko e sul punto di giungere nell'Edelcadia e suo primo compito sarà quello di liberare Actina dagli eserciti alleati che l'assediano. Oltre a suo nipote Leruob, mia madre avrà anche il piacere di incontrare suo fratello Allemb.»

Dopo quelle spiegazioni date ai suoi genitori sul cugino e sullo zio, Iveonte si era affrettato a congedarsi da loro due e dalla sorella, che erano presenti; ma prima li aveva abbracciati di nuovo, dimostrandogli il suo caloroso affetto. Più tardi, però, era stata la volta degli amici Francide ed Astoride, esprimendo ad entrambi i suoi affettuosi saluti. In pari tempo, aveva provato un immenso piacere nell'apprendere che l'amico fraterno ora aveva una sorella, che era andata in sposa ad Astoride. A proposito del quale, lui e Francide a torto avevano sempre pensato che sarebbe stata difficile una sua integrazione nella società.

A quel punto, ad Iveonte restavano da fare i restanti due incontri, quello con Lucebio e quello con la sua amata Lerinda. Perciò era dovuto trasferirsi nella reggia di Dorinda, dove aveva avuto l'opportunità di incontrarsi con l'uno e con l'altra, ma separatamente. Anche con loro due si erano avuti abbracci intensi e si erano vissute forti emozioni. Dopo però aveva dovuto spiegare al saggio uomo e alla sua fidanzata l'indispensabilità della nuova missione, la quale gli era stata affidata dalle divinità benefiche. Quando infine si stava congedando da loro, non erano mancate lacrime di commozione, poiché la sua separazione li aveva rattristati tantissimo. Ma dopo quegli ultimi due incontri, il giovane stava per lasciare la reggia di Dorinda, allorquando il dio Iveon aveva fatto la sua apparizione improvvisa e gli aveva detto:

«Iveonte, se hai terminato di salutare i tuoi parenti, i tuoi amici e la tua amata, possiamo anche intraprendere il nostro viaggio verso Potenzior. L'eccelso Kron sta aspettando il mio segnale per inglobarci in un suo sguardo e spedirci in un attimo sull'asteroide Tibos.»

«Divino Iveon, allora puoi inviarglielo, poiché sono pronto per partire insieme con te. Adesso che mi ricordo, non mi sono ancora procurato una nuova spada, visto che con quella di Kronel non mi sarà consentito di entrare in Potenzior.»

«Di quella non ti devi preoccupare, Iveonte, perché ho pensato io a reperirla nel posto giusto. Vedrai che essa ti risulterà la più degna di essere maneggiata da te.»

«Perché, divino Iveon, tale spada dovrebbe essere come hai detto? Mi dici anche dove l'hai presa?»

«Iveonte, la spada è quella del defunto tuo nonno Kodrun. L'ho presa nel suo sarcofago. Adesso sai anche perché essa, più di tutte le altre, merita di stare in mano tua.»

Iveonte stava per ringraziare il dio, allorquando qualcosa, simile ad un soffio di vento, era intervenuto a rapirli insieme e a farli trovare in una spirale temporale. La quale si andava immergendo nei gorghi del tempo con una velocità impressionante. Quel fenomeno c'era stato, non appena il divino eroe aveva inviato all'eccelso Kron il segnale con cui lo avvertiva che poteva operare il suo intervento su di loro.

Nel momento stesso che essi avevano posto piede su Tibos, ci ritroviamo a seguire il nostro eroe ancora nel presente della nostra storia. Perciò troviamo l'eroe divino e l'eroe umano davanti all'Antro dell'Accesso a Potenzior, poiché Iveonte vi doveva entrare. Allora, prima che ciò avvenisse, il dio Iveon invitò il protetto della diva Kronel a restituirgli l'anello degli eccelsi gemelli, altrimenti non gli sarebbe stato permesso di accedere nel Regno del Potere Cosmico. Inoltre, vi sarebbe dovuto entrare con la sola spada, quella che un tempo era stata del nonno paterno Kodrun. Una volta che Iveonte si fu sfilato il prodigioso talismano dal dito, il divino Iveon, prendendolo in consegna, gli fece presente:

«Adesso, per avere libero accesso a Potenzior, dovrai gridare forte: "Potere Cosmico, fammi entrare nel tuo regno, visto che il mio desiderio è conforme al bene, il quale è protetto da tutte le divinità benefiche!"»

Dopo che Iveonte l'ebbe ripetuto ad alta voce, sulla parete si aprì una grossa crepa, la quale gli permise di entrare. Mentre poi vi accedeva, il dio gli urlò alle spalle: "Umano eroe, che la buona sorte ti accompagni e il destino ti sia molto propizio!” Da parte sua, lo squarcio, che prima si era aperto sulla parete rocciosa, si diede a richiudersi per intero.

CAPITOLO 452



IVEONTE INCONTRA TUPOK, IL SIGNORE DEL POTERE COSMICO



Prima che gli venisse consentito l'accesso a Potenzior, Iveonte aveva temuto che, se vi fosse entrato senza l'anello, dopo avrebbe avuto nel nuovo spazio qualche problema con la respirazione. Invece, una volta avvenuto il trapasso dall'una all'altra realtà, egli non si ritrovò a volteggiare nell'azzurro del cielo, ma ebbe la sorpresa di stare a muoversi sopra una superficie solida, che aveva tutte le caratteristiche di quella di un comune pianeta. Il qual fatto gli risultò alquanto gradito, poiché quella zona, presentandosi prevalentemente pianeggiante e prativa, adesso gli permetteva di spostarsi a piedi. Andando poi avanti in quella regione, la cui vegetazione sembrava quella di una primavera avanzata, il giovane, ad un certo momento, si vide sperduto, non sapendo quale direzione prendere per incontrare i cinque Guardiani del Potere Cosmico. A suo parere, ogni direzione, come poteva condurlo fino a loro, così poteva allontanarlo dagli stessi. Perciò, non sapendo decidersi in alcun modo, preferì continuare il suo cammino per il sentiero già intrapreso. Infatti, gli era risultato spontaneo imboccarlo, come se qualcosa di istintivo gli avesse fatto avere una preferenza per tale percorso. Mentre vi transitava, Iveonte si rese conto che in quel luogo non si avvertivano stimoli di alcun tipo, neppure quello di bere e di mangiare, poiché la sete e la fame gli apparivano due esigenze, che per adesso il suo corpo non sentiva per niente. Inoltre, il suo stesso procedere a piedi non veniva ad imporgli alcuna fatica; anzi, esso gli dava l'impressione che non compisse alcuno sforzo. Invece le gambe alternavano il loro movimento, intanto che seguivano il tragitto a cui egli si era dato, incamminandosi per esso con qualche esitazione.

Dopo un buon tratto di cammino, il giovane prese anche coscienza che in quel posto era del tutto privo della presenza di ogni specie animale, fossero essi terrestri o volatili. In compenso, vi si viveva una serenità, la quale rendeva l'animo circonfuso di una beatitudine inesprimibile e lo arricchiva di una gioia soprannaturale, facendogli perdere la concezione del tempo. La qual cosa lo distraeva da ogni avversità della vita e dalle contrarietà, che da essa potevano derivargli per cause differenti, come quelle dovute a delusioni e a disinganni oppure provocate da un torto subito e da amarezze dello spirito. Comunque, non mancavano fiori di ogni genere, i quali si distinguevano per grandezza e per forma, soprattutto per la loro ingente varietà di colori e per la loro dovizia di aromi acuti e penetranti. Procedendo per quel luogo, Iveonte si domandava chi fosse stato a tracciare il sentiero che stava percorrendo, visto che da solo non poteva essersi formato. Inoltre, si chiedeva quando esso sarebbe terminato e se gli sarebbe risultato amico, guidandolo verso coloro che andava a sfidare per carpirgli la loro parte di Potere Cosmico. Egli non poteva avere la risposta da chi era in grado di farlo, essendo assente; al massimo, gli era consentito di tirare a indovinare, sperando di essere fortunato e di imbroccare quella giusta. Altrimenti, non potendo sperare di pervenire ad essa, era costretto a rinunciarci.

A un certo punto, sotto la spinta di vari fenomeni, il cielo iniziò ad avere dei cambiamenti. Si dava in continuazione ad un passaggio graduale fra diverse gradazioni dei vari colori. Anche quest'ultimo, però, non restava sempre il medesimo, poiché alla massa d'aria venivano conferite varie coloriture, fra le più vistose. Esse corrispondevano ai sette colori dell'arcobaleno, poiché rappresentavano il rosso, l'arancione, il giallo, il verde, il blu, il violetto e l'indaco. I quali, nella loro alternanza, componevano un mosaico celeste capace di esercitare sull'osservatore alcune forti suggestioni di tipo diverso. Quando infine tutti quei fenomeni suggestivi smisero di rendere il cielo davvero impressionante, facendolo ritornare ad essere color celeste pallido, ad una certa altezza, Iveonte vi avvistò un canuto vegliardo. Egli vi restava seduto sopra una scranna d'avorio. Quando l'eroe umano ebbe finito di squadrare l'essere sospeso nel cielo, costui, rimanendo sempre nella stessa posizione da sedentario, si diede a spostarsi verso il basso, finché non atterrò davanti a lui.

Scorgendolo davanti a sé, a quasi un metro di distanza, Iveonte notò che egli aveva un aspetto smagrito, per cui presentava rade ciocche di capelli color cenere, degli zigomi che sporgevano da due guance solcate da rugose asperità, che ne manifestavano l'età avanzata. Invece i suoi occhi apparivano cerulei e di una brillantezza stupenda, nei quali sembravano riflettersi i suoi arcani pensieri, siccome essi vi turbinavano come desideri avidi di conoscenza. Comunque, solo dopo che si furono guardati a vicenda in profondità, fu il vecchio ad esprimersi per primo, rivolgendosi ad Iveonte con le seguenti parole:

«Considerato che so chi sono io, vorrei sapere anche chi sei tu e perché ti trovi nel mio regno, dove il permesso di starci ce l'hanno soltanto i cinque Materiadi da me selezionati.»

«In verità anch'io ho la conoscenza di me stesso, ma non di quella tua. Allora vogliamo darci il mutuo consenso, perché ciascuno di noi conosca anche il proprio interlocutore, come si vorrebbe da entrambi?»

«Giovanotto, il tuo ragionamento non fa una grinza. Inoltre, ti trovo molto perspicace. Allora, visto che sono stato il primo a rivolgermi a te, spetta anche a me precederti nel presentarmi, facendoti apprendere su di me quelle cose che devi conoscere. Ebbene, io sono Tupok, colui che signoreggia sul Potere Cosmico, in qualità di sovrano di Potenzior. Se ti ho dato libero accesso al mio regno, è perché me lo hai chiesto nel nome del bene. A dire il vero, avresti dovuto chiederlo a me, anziché al mio potere. Non ti sembra che è come ti ho detto?»

«Certo che è come dici, nobile Tupok, non potendo essere altrimenti! Ma io come facevo a saperlo, se ignoravo che il Potere Cosmico avesse un padrone che lo assoggettasse a sé? È già troppo che sono riuscito ad arrivare fino a questo luogo da te dominato! Intanto mi affretto a riferirti che il mio nome è Iveonte e provengo dal remoto pianeta Geo, che orbita intorno alla stella Elios, situata nella galassia di Lactica. Quanto alle ragioni che mi hanno condotto fin qui, te le dico subito. Ad ogni costo, devo impadronirmi del tuo Potere Cosmico, per una questione di vita o di morte. Ecco: ora sai chi sono e perché mi trovo in Potenzior!»

«Ma sai che sei un bel tipo, se sei venuto nel mio regno con questa pretesa? Anche se sono a conoscenza che il tuo nome significa "il destinato a trionfare", non pretenderai mica ottenere sul serio da me ciò che ti sei prefisso! A proposito, come essere umano, come hai fatto a giungere fino a me dal pianeta che mi hai menzionato, siccome, per coprire una simile distanza, non ti sarebbero bastati neppure mille anni? Inoltre, i Materiadi non possono attraversare lo spazio cosmico, dove c'è l'assenza assoluta di ossigeno. Allora, Iveonte, me lo spieghi come ci sei riuscito? Soltanto se stimerò la tua risposta razionalmente accettabile, continuerò il discorso che noi due abbiamo appena intrapreso; diversamente, sarai ributtato sull'asteroide Tibos, da dove ti è stato concesso di accedere a Potenzior!»

«Hai mai sentito parlare degli eccelsi gemelli di Luxan, nobile Tupok? Ma sono portato a credere che un signore come te, dotato di un potere così immenso in Kosmos, debba conoscerli senza meno. Anche loro due hanno un potere straordinario sull'universo!»

«Come non potrei conoscerli, Iveonte! Si tratta di due illustri divinità, aventi il potere assoluto l'una sul tempo e l'altra sullo spazio. Non stiamo forse parlando di Kron, il dio del tempo, e di Locus, il dio dello spazio? Non potrebbe essere in modo diverso! Anche se poi ambedue non possono trasferirsi nel regno su cui essi imperano. Ad ogni modo, se vogliamo essere obiettivi, sono loro due a poter fare nello spazio cosmico tutto quanto decidono di fare. A me invece è concesso solo riportare allo stato originario quanto è stato privato della sua integrità. Posso perfino richiamare in vita e riportarlo nel suo tempo chi è deceduto da un sacco di tempo oppure ridare l'esistenza a due astri che si sono impattati e sgretolati in infiniti frammenti. Ma perché, giovanotto, mi stai facendo dire queste cose, che sono estranee al nostro discorso? Hai cercato forse di distrarmi per evitare di dare le risposte alle mie due domande? Forse perché esse, dato che ci entravano come i cavoli a merenda, ti avrebbero fatto condannare da me, obbligandomi a scacciarti dal mio regno!»

«Possibile, nobile Tupok, che tu sia convinto delle cose che hai affermato nei miei confronti? La mia vita è risultata sempre ricca di atti umanitari e di eroismi dediti a difendere il mio prossimo da chi cercava di sopprimerlo oppure di asservirlo ai propri disegni malvagi. Anche la mia venuta in questo luogo non esula da filantropiche intenzioni, come tra poco verrai a conoscenza. Ma ora, perché tu cambi opinione su di me, ti faccio presente che, se sono qui, è perché me lo hanno chiesto gli eccelsi gemelli, al di sopra dei quali ci sta soltanto Splendor, il creatore di Kosmos. Esso ha dato anche ad altre realtà, come Potenzior, la possibilità di cominciare ad esistere in forma autonoma. Per tale motivo, se egli decidesse di non farlo essere più, trascinerebbe pure il tuo regno nella non-esistenza, insieme alle altre due realtà che si furono autocreate nell'universo, come Animur e Landipur. A questo punto, come ti ho appena rivelato, non hai difficoltà a renderti conto che la mia presenza in Potenzior c'è potuta stare, unicamente grazie alla compiacenza del dio del tempo. Egli mi ha fatto viaggiare all'interno di un suo sguardo temporale. Il quale è capace di coprire in un istante la totale estensione di Kosmos. Egli mi ha perfino istruito su come accedere al tuo regno, mettendomi al corrente della frase che ci voleva per convincerti a facilitarmi l'accesso. Con questo avrei finito, mio nobile Tupok.»

«Dopo quanto mi hai detto, Iveonte, posso solo crederti e scusarmi di avere dubitato di te, che godi il favore delle più potenti divinità esistenti, le quali, pur restandosene nel Regno della Luce, hanno l'incontestabile dominio di Kosmos. Inoltre, esse soltanto potevano essere a conoscenza di Potenzior e del mio Potere Cosmico. Anzi, le medesime sapranno anche che quest'ultimo adesso si trova nelle mani di cinque personaggi straordinari, da me denominati Guardiani del Potere Cosmico. Essi si erano dimostrati degli eccezionali eroi invincibili presso i loro popoli, i quali sono costituiti da Materiadi appartenenti a razze diverse.»

«Come potevano non saperlo, nobile Tupok, essendo le divinità più prestigiose di tutto il creato? Infatti, sono stati il dio Kron e il dio Locus a riferirmi quanto da te appreso un momento fa, già prima che mi affidassero l'incarico di presentarmi in questo posto.»

«A proposito del tuo incarico, Iveonte, intendo conoscere le ragioni che hanno spinto il dio del tempo e il dio dello spazio ad inviarti in Potenzior. Se devo esserti sincero, non riesco a comprendere tale loro decisione. Nelle loro mani c'è il potere assoluto, perché niente in Kosmos vada contro i voleri di Splendor. Forse adesso essi si ritrovano a gestire una situazione, che è divenuta problematica anche per loro due? Ma anche un fatto del genere mi è difficile capire, considerato il loro incontestabile dominio su Kosmos. Allora vuoi essere tu a delucidarmi questo particolare, che non so come interpretare?»

«Nobile Tupok, ti sembrerà assurdo, ma un problema è sorto da poco nelle sconfinate regioni dello spazio cosmico. Si tratta di una mostruosa creatura, da loro denominata Kosmivora, la quale non si lascia affrontare e sconfiggere neppure dai divini Kron e Locus, per un motivo molto semplice. Essa, che proviene dall'universo parallelo di Kosmos, non rappresenta un essere materiale; invece la sua natura risulta immateriale ed inattaccabile da essenze spirituali. Anzi, sono queste a subire la sua azione, fino a diventarne prigioniere, dopo il suo sconvolgente arrivo. Per ottenere tale risultato, l'aliena trasforma in proprio pasto la loro essenza psichica, la quale ne potenzia la crescita e l'attività. Nel contempo, ci vanno di mezzo le galassie che subiscono la sua azione devastatrice, intanto che disintegra le stelle, i pianeti e i satelliti che vi circolano.»

«Se non sbaglio, Iveonte, gli esimi gemelli divini ebbero già un problema simile da risolvere. Per quanto io ne sappia, essi riuscirono ad arrestare la responsabile. Allora, dal momento che alla fine trovarono la soluzione giusta, sai dirmi come giunsero ad essa?»

«A quel tempo, nobile Tupok, la creatura aliena fu la Deivora, che si era formata nel Parakosm da un Simbios. Perciò, grazie all'avveduto dio Iveon e ai poteri di cui lo dotarono gli eccelsi gemelli, anche se con difficoltà, alla fine si riuscì a debellare la sua natura immateriale, disintegrandola in una miriade di frammenti cosmici.»

«Adesso invece, Iveonte, cosa ha la Kosmivora di particolare dalla Deivora? Mi pare di aver compreso che essa ha le sue medesime caratteristiche, per cui si comporta alla sua stessa maniera. Quindi, i divini Kron e Locus, anziché ricorrere a te, potevano prendere gli identici provvedimenti di allora per ottenere l'uguale risultato. Ne convieni, Materiade appartenente al ceppo umano?»

«Niente affatto, nobile Tupok! Adesso la situazione è sostanzialmente mutata, rispetto a quel tempo, siccome non è stato un Simbios a dare origine alla nuova Deivora, che gli eccelsi gemelli hanno voluto battezzare Kosmivora. Il nuovo nome è derivato dal fatto che, se la prima mostruosa creatura aliena era interessata alla sola psiche delle divinità positive e negative, l'interesse della seconda invece coinvolge anche tutti i vari elementi concreti di Kosmos, dandosi a distruggere i vari astri che incontra sul suo cammino. Inoltre, essa è intenta ad inglobare l'essenza psichica delle sole divinità positive, senza intervenire contro quelle negative per sottoporle allo stesso trattamento. Il suo nuovo tipo di inglobamento ci spiega anche perché essa si presenta inattaccabile dai divini gemelli, a maggior ragione dalle altre divinità positive.»

«Siccome non riesco ad arrivarci da me, Iveonte, dovrai essere tu a spiegarmi come mai la Kosmivora non può essere attaccata da loro e cosa ha di diverso che le consente di neutralizzare ogni intervento offensivo delle due eccelse divinità ad essa avverso. Ma anche vorrei sapere perché il suo attacco è rivolto soltanto contro le divinità benefiche.»

«Avendo le due cose il medesimo denominatore comune, nobile Tupok, passo subito a renderti note l'una e l'altra. In primo luogo, ti faccio presente che, a seguire la strada della vecchia Deivora, non è stato un altro Simbios, ma una divinità malefica, addirittura la più autorevole di loro. Mi sto riferendo al dio Buziur, che è l'Imperatore delle Tenebre, il quale è una divinità somma dotata di iperpoteri secondari. Perciò la Kosmivora risulta costituita, oltre che di una natura immateriale, anche di una natura spirituale. Non bastando ciò, a gestirle entrambe, è l'intraprendente ed inossidabile dio della superbia. Per questo motivo, risulterebbe vano ogni tentativo delle due illustri divinità di Luxan di mettere fuori gioco quella che al momento in Kosmos rappresenta la mostruosità più raccapricciante ed efferata. Né può esistere in Kosmos una divinità che possa competere con essa e ridurla all'impotenza, pur venendo investita di speciali poteri dai due eccelsi gemelli.»

«Adesso comprendo, Iveonte, la preoccupazione degli eccelsi gemelli e il loro ripiego di fare intervenire il Potere Cosmico contro la Kosmivora, poiché esso, come giustamente hanno pensato, è l'unica forza capace di aver ragione sulla sua azione distruttiva. Inoltre, essendo essi a conoscenza che solo ad un Materiade poteva essere consentito l'accesso a Potenzior per tentare di impossessarsene, si sono rivolti alla tua persona con somma fiducia. Mi compiaccio con te, per l'ammirazione che tutti e due nutrono nei tuoi confronti, poiché essa sta ad indicare che entrambi vedono nel tuo essere colui che in Kosmos si dimostra il più in gamba di tutti i Materiadi. Anch'io non ho ragione di dubitarne, se sono i due eccelsi gemelli ad avere sul tuo conto tale considerazione. Ma almeno sai a cosa dovrai andare incontro per riuscire a possedere il mio intero Potere Cosmico? Comunque, sono sicuro che i tuoi illustri divini protettori te ne hanno già parlato, non vedendo la cosa in modo differente!»

«Non ti sbagli, nobile Tupok. In merito, so anche che il Potere Cosmico non si trova più nelle tue mani, poiché hai voluto affidarlo ai cinque eroi che, a tuo giudizio, in Kosmos risultavano i più meritevoli, per l'alto valore eroico da loro dimostrato presso i rispettivi popoli, consegnandone a ciascuno di loro la quinta parte. Per questo, se desidero averlo nella sua interezza, mi toccherà prima affrontare e battere ogni Guardiano del Potere Cosmico. A tale riguardo, voglio chiederti perché sei ricorso a tale provvedimento e cosa attualmente ti resta di esso.»

«Per la verità, Iveonte, non lo avrei mai fatto, se non ci fosse stato un giustificato motivo. Sono stato costretto a comportarmi così, poiché ho scorto la mia esistenza, fin dal suo primo apparire in questa parte di Kosmos, molto instabile. Nel senso che a volte la vedevo venirmi meno, altre volte ritornava ad essere mia, lasciando in quegli squarci temporali il mio Potere Cosmico in balia di sé stesso. Allora il timore che, in quei momenti per me critici, qualche Materiade potesse impossessarsene e farne uso a suo uso e consumo, senza che io fossi in grado di oppormi a tale suo intento, mi fece risolvere a prendere una decisione del genere. Pensai che, se lo avessi suddiviso in cinque parti ed avessi poi affidato ciascuna di esse ad un Materiade che si fosse dimostrato di un eccezionale eroismo, raccomandandogli di non farsela carpire da nessuno, in quel modo avrei scongiurato il paventato pericolo. Mi avevi anche domandato, protetto delle eccelse divinità, stando le cose come hai appreso, quanto del Potere Cosmico mi resta e se la mia gestione del medesimo rimane ancora totale. Ma prima di darti la risposta a simile quesito, vuoi rivelarmi perché ti interessa saperlo, dal momento che adesso esso, nella sua interezza, è nelle mani dei suoi cinque guardiani?»

«Volevo rendermi conto, nobile Tupok, del grado di aiuto che tu avresti potuto darmi, nel caso che ti avessi trovato favorevole alla mia missione. Comunque, non comprenderei una tua condotta avversa nei miei confronti, anche se in te ci fosse un minimo di logica!»

«Non capisco questo particolare, Iveonte, secondo il quale la logica dovrebbe spingermi a stare dalla tua parte, nella lotta che stai per condurre contro i Guardiani del Potere Cosmico. Vuoi specificarmene le ragioni, perché io intenda meglio il tuo pensiero?»

«Si vede, nobile Tupok, che ti è sfuggita la cosa più importante, in merito ad un mio eventuale insuccesso. In questo caso, tali guardiani non risulterebbero i veri vincitori, poiché, insieme con me, sarebbero destinati a perire pure loro, trascinando nel nulla anche il tuo regno e te stesso. Ti stai chiedendo come? Devi sapere che la mia sconfitta gioverebbe soltanto a Buziur, l'Imperatore delle Tenebre. Infatti, egli continuerebbe in Kosmos la sua avanzata distruttiva e la sua caccia spietata alle divinità benefiche. Allora Splendor sarebbe capace di porvi rimedio, soltanto con la distruzione totale del suo favoloso creato, il quale ha per cardini la materia e il tempo. Con la fine di Kosmos, però, verrebbero meno anche le creazioni che si sono create da sé, quali sono Potenzior, Landipur ed Animur. Questa è la realtà che non si può cambiare.»

«Ciò è pur vero, Iveonte. Se Splendor sarà costretto a prendere un drastico provvedimento del genere, per non darla vinta al dio della superbia e per ricacciarlo in Tenebrun, ogni cosa e ogni essere che risultassero legati a Kosmos, anche se in forma autonoma, sparirebbero con esso. Forse si vedrebbe annientare perfino Parakosm, che è la sua copia perfetta, per essersi autocreato sulla scia di esso, all'insaputa dello stesso Splendor. A questo punto, però, devo rispondere al tuo quesito che mi riguarda più direttamente, ossia quello con cui mi hai chiesto quanto Potere Cosmico attualmente sono in grado di gestire, ammesso che me ne sia rimasto un poco. Ebbene, in merito ad esso, posso solo deluderti, poiché non lo gestisco più io, non essendo più nelle mie mani. Comunque, ti deve consolare il fatto che anche i Guardiani del Potere Cosmico sono impotenti ad amministrarlo, suddiviso com'è in cinque parti e tutte affidate a mani diverse. L'unico inconveniente per te sarà rappresentato dal fatto che, a tenerselo stretto e decisi a non mollarlo, ci saranno dall'altra parte degli eroi intrepidi ed audaci del massimo valore. Essi, ognuno per conto proprio, faranno l'impossibile, pur di non vedersi portar via da nessuno la parte di Potere Cosmico che si ritrovano nelle mani. Anche se poi non possono gestirla in qualche modo, non costituendo essa la totalità del potere che un tempo era mio.»

«Quindi, nobile Tupok, per il Potere Cosmico tu non rappresenti più nessuno. Ciò significa che, anche in questa occasione che dovresti darmi una mano per il bene di tutti, ti sarà impossibile farlo, unicamente perché ti ritrovi privo del potere che sono venuto a cercare in Potenzior. Ma non ti devi avvilire, se non puoi fare nulla per salvare Kosmos e tutti gli esseri viventi che sono disseminati sui pianeti e sui satelliti. Tra poco mi adopererò per far sì che il Potere Cosmico ritorni ad essere intero nelle mani di una sola persona, la quale sarei io. Una volta che me ne sarò impadronito, partirò da qui ed andrò a dare battaglia alla Kosmivora, perché arresti la sua insaziabile fame distruttiva e costringa chi le ha dato una esistenza a rientrare in Tenebrun con una fuga precipitosa.»

«Mi fa piacere, Iveonte, sentirti esprimere come stai facendo. L'immensa fiducia, che dimostri di avere in te, mi aiuta a convincermi che nella tua persona c'è una possibilità immensa di averla vinta contro gli attuali Guardiani del Potere Cosmico. Per cui sono certo che uscirai vincitore dall'ardua impresa che stai per intraprendere contro di loro, anche senza che io ti dia il mio aiuto, il quale al momento vale meno di nulla. Comunque, potrò sempre fare qualcosa per te, che sarà in grado di darti una mano nella tua lotta. Ossia, ogni volta, prima che tu affronti uno dei cinque guardiani, ti parlerò della sua storia, perché tu ne apprenda il carattere e qualche debolezza, ammesso che egli ne abbia avuto durante la sua esistenza da vivo. Inoltre, ti indicherò il posto giusto di Potenzior in cui di solito egli trascorre la propria esistenza, di modo che tu lo raggiunga senza perdere tempo. Allora ti sta bene, eroico Iveonte?»

«Sarà sempre meglio di niente, nobile Tupok. Secondo il mio parere, quanto più notizie si hanno del proprio avversario, tanto più lo si può combattere con minori rischi di venirne battuto. Anzi, esse spesso decidono della sorte della vittoria, la quale è abituata ad accompagnarsi con il combattente che ne possiede di più.»

«Visto che anche tu sei d'accordo, Iveonte, inizierò a parlarti della vita del Guardiano del Potere Cosmico che dovrai affrontare per primo, il quale è il feciano Arkust.»



CAPITOLO 453



FECIANI E MIDOSIANI IN LOTTA SUL PIANETA OLUOZ



Oluoz si trovava ad orbitare intorno alla stella Teluas, che apparteneva alla galassia di Seven, insieme con altri tre pianeti, i cui nomi erano Boust, Carost e Demut. Su di esso vivevano i seguenti due popoli: i Feciani, che abitavano nella città di Fecian, e i Midosiani, che abitavano nella città di Midosia. Gli Oluozidi costituivano una razza simile a quella umana ed avevano le seguenti caratteristiche fisiche: statura media intorno ai due metri, pelle grigiastra, orecchie pendule, naso camuso, cute della volta cranica calva e bitorzoluta. Il loro corpo si presentava ben strutturato, per cui era da considerarsi atletico. Comunque, non mancavano casi in cui esso accusava delle carenze morfologiche assai vistose. Le quali erano dovute ad anomalie congenite, come di rado succedeva anche nella razza umana, nella quale le medesime prendevano il nome di malformazioni fetali.

La regione, sulla quale si erano stanziati i Feciani, era la Berap; mentre la Daven era quella in cui si erano stabiliti i Midosiani. In precedenza, durante la generazione che aveva visto nascere Arkust, tra i due popoli c'erano stati degli ottimi rapporti. Essi erano stati permessi dai loro sovrani, che coltivavano un'atavica amicizia sincera e disinteressata. Tali sovrani erano stati Fugen, che regnava nella città di Fecian, e Morbes, che sedeva sul trono di Midosia. Fra i loro sudditi avvenivano anche degli scambi commerciali riguardanti sia il settore alimentare che quello artigianale. Inoltre, imitando i loro magnanimi re, non erano poche le famiglie appartenenti al popolo feciano che avevano stretto legami di amicizia con altrettante famiglie midosiane. Per questo le esistenze delle due popolazioni oluozine procedevano d'amore e d'accordo, senza che ci fosse tra di loro il più piccolo screzio. In seguito, dopo un trentennio di pace e di distensione, fra le due città amiche le cose erano precipitate; ma solo perché in esse avevano smesso di vivere i loro sovrani, i quali erano morti di vecchiaia, alla distanza di un anno l'uno dall'altro. Allora in Fecian era succeduto al re Fugen il figlio Tolep; invece il re Morbes aveva avuto come suo successore il figlio Sourg.

Dopo la morte del proprio genitore, il sovrano feciano, seguendo le orme paterne, aveva continuato a propugnare una politica onesta e liberista. Al contrario, il sovrano midosiano, in modo larvato, si era dato a tenere vive nel proprio animo solo mire espansionistiche. Per cui la sua visione politica tendeva a contrastare quella del suo omologo di Fecian. Così, già nel loro primo incontro, che si era avuto a Midosia, presso la corte del re Sourg, costui aveva voluto raffreddare l'entusiasmo con cui gli si era rivolto il re Tolep. Il quale aveva voluto assicurargli:

«Da parte mia, mio nobile collega, non ci sono problemi a seguitare a mantenere fra noi due gli stessi sinceri rapporti amichevoli che coltivavano i nostri genitori. In questo modo permetteremo pure ai nostri popoli di conservare la loro amicizia e i loro scambi commerciali.»

«Quanto a me, re Tolep, per il momento non posso garantirti le medesime cose, siccome non ho ancora deciso quali dovranno essere i miei futuri progetti, sia quelli a breve che quelli a lunga scadenza. Perciò è anche probabile che esse possano cambiare direzione, dalla sera alla mattina! Lo sai anche tu che tutto è mutevole ed effimero in questa nostra esistenza e non si può mai essere certi di niente, intanto che viviamo all'insegna della precarietà.»

«Re Sourg, non ho compreso bene il tuo ragionamento, il quale mi è parso alquanto sibillino. In verità, il tuo pensiero mi è risultato enigmatico, come ambigue mi sono suonate le tue parole. Allora vuoi chiarirmi meglio dove hai intenzione di collocare la tua posizione, a proposito della nostra secolare amicizia? Te ne sarei grato, se tu me lo chiarissi!»

«Per il momento, re Tolep, non mi va di collocarla in qualche parte; ossia non intendo metterla ancora sulla bilancia per dare ad essa il giusto peso. Non appena lo avrò fatto, ne verrai senz'altro a conoscenza: te lo prometto! Ma adesso, avendo altri impegni più importanti da soddisfare, mi vedo costretto a congedarti in gran fretta.»

Il re di Fecian non aveva gradito il maltrattamento subito da parte del sovrano Sourg e, una volta che se ne era ritornato nella sua città ed aveva raggiunto la sua corte, si era preparato a ricevere notizie tutt'altro che belle da lui. Lo aveva fatto sospettare e prevedere l'atteggiamento che egli aveva assunto durante il breve colloquio che c'era stato fra loro due a Midosia. Perciò, se da un canto, si mostrava preoccupato per i futuri sviluppi che ne sarebbero derivati; dall'altro, di fronte al suo popolo, si sentiva di avere la coscienza pulita. A suo avviso, non sarebbe stata colpa sua, se i rapporti amichevoli esistenti tra i Feciani e i Midosiani un giorno si fossero incrinati o addirittura rotti per sempre. Ad ogni modo, la sua preoccupazione non aveva avuto ad attendere molto, poiché, in capo ad un mese, il re Sourg gli aveva fatto pervenire una sua ambasceria. I tre legati, che la costituivano, dopo essersi fatti ricevere da lui, senza mezzi termini, gli avevano riferito quanto il loro sovrano gli ordinava. Del gruppo, era stato uno solo a parlargli in questo modo:

«Re Tolep, ci presentiamo a te, come ambasciatori dell'eccellentissimo nostro sovrano Sourg, poiché siamo latori di una sua ambasciata. Perciò attendiamo di ricevere da te il permesso di rendertela nota.»

«Come potrei negarvi, inviati plenipotenziari di Midosia, di parlarmi a nome del vostro re ed ascoltare quanto desidera parteciparmi? Orsù, datevi a riferirmi ciò che egli vi manda a dirmi tramite voi!»

«Ebbene, re Tolep, forse il contenuto della nostra ambasciata non ti risulterà per niente gradito; ma noi non ne abbiamo alcuna colpa, essendo soltanto portatori del suo messaggio. Spero che comprenderai il nostro ruolo in questa missione e che tu voglia tenerlo in grande considerazione, anche dopo averla ascoltata!»

«Certo che mi metterò nei vostri panni in questa circostanza, legati del mio omologo midosiano! Non è forse risaputo che ambasciator non porta pena? Quindi, riportatemi ogni cosa che il vostro re Sourg vi manda a comunicarmi e facciamola finita, senza troppi preamboli!»

«Secondo il nostro sovrano, il popolo feciano risulta intellettualmente inferiore, se viene paragonato a quello nostro. Per il quale motivo, i Feciani devono portare riverenza verso i Midosiani, preoccupandosi, con parte del loro lavoro, di provvedere pure al loro fabbisogno. Nel caso poi che dovesse esserci un secco rifiuto da parte vostra alla sua legittima imposizione, i Midosiani si vedrebbero costretti a difendere questo loro diritto con il ricorso alle armi.»

«Ambasciatori di un monarca, che ha perduto del tutto il senno, andate a riferirgli che il popolo feciano giammai si piegherà ad una tale sua pretesa, la quale può essere uscita soltanto da una mente contorta e malata. Visto che ci minaccia anche di farci guerra, nel caso che oseremo opporci a quanto egli insanamente pretende da noi, fategli presente che i Feciani, sebbene siano numericamente la metà, non temono un'aggressione armata da parte dei Midosiani, poiché essi sapranno ben difendere la loro città. Dopo avervi dato questa mia risposta giusta e ragionevole, potete pure lasciare la mia reggia, la mia città e il mio regno, perché la facciate avere al più presto al vostro impudente sovrano. Sono certo che egli la starà aspettando senza un briciolo di ritegno!»

Appresa dalla terna dei suoi ambasciatori la risposta che il re Tolep gli aveva fatta pervenire, il sovrano di Midosia prima aveva dato in escandescenze. Subito dopo era passato a lanciare minacce di ritorsione contro il popolo feciano e di vendetta contro il suo sovrano. Quando infine lo sdegno si era alquanto sbollito nel suo animo, era andata maturando in lui l'idea che era tempo che il suo esercito cominciasse ad affilare le armi. Così si sarebbe data una lezione coi fiocchi a colui che aveva osato offenderlo in quella maniera, nonché si era rifiutato di accettare le sue condizioni. A tale scopo, aveva convocato presso di sé Kazon, il quale era il comandante in capo del suo esercito. A proposito di costui, vanno chiarite alcune cose sulla sua persona, che adesso ci diamo ad apprendere senza indugio, prima del suo colloquio con il proprio re.

Riferendoci a lui, bisognava ammettere che non si era di fronte ad un uomo d'armi comune, poiché egli possedeva tutte quelle doti positive che lo avevano portato a ricoprire una così prestigiosa carica nell'esercito midosiano. Nell'autorevole personaggio, di cui ora ci stiamo occupando, primeggiavano l'astuzia della volpe, un carattere indomabile, una eccellente esperienza militare e delle disposizioni naturali in fatti di strategia. Quanto alla sua perizia d'armi, essa si dimostrava la migliore esistente nella propria città e in quella feciana. Per le quali sue note distintive, l'eccezionale Kazon era salito alla ribalta presso la corte di Midosia, fino ad ottenere in passato dal re Morbes la nomina a comandante supremo dell'esercito. Ma l'anno dopo era stato lo stesso sovrano a destituirlo da tale carica per indegnità, per una ragione che aveva considerata della massima gravità. Difatti l'autorevole comandante gli aveva proposto di dichiarare guerra ai Feciani, facendo occupare la loro città dal suo esercito e assoggettandoli al proprio potere, come se fossero dei veri schiavi. A tale proposta, da lui ritenuta indecente e priva di buonsenso, il sovrano midosiano lo aveva esautorato ipso facto; inoltre, lo aveva esiliato dall'intera Daven, la quale era la regione dei Midosiani. Ma alla morte del padre, il re Sourg, dopo essergli succeduto, come suo primo atto regale, aveva richiamato in patria il comandante Kazon e lo aveva reintegrato nella sua ex carica di capo supremo dell'esercito midosiano. Subito dopo gli aveva fatto presenti le sue mire espansionistiche, le quali coincidevano perfettamente con quelle dell'alto ufficiale. Allora entrambi si erano dati da fare, affinché avvenisse quanto prima la conquista della regione Berap, la quale era la terra dei Feciani, e si costringesse alla capitolazione la loro città, che era Fecian. Così, essendo ormai certi di avere allestito un esercito pronto ad invadere e a sottomettere i territori berapini senza la minima difficoltà, il monarca midosiano aveva avuto l'ardire di inviare al re Tolep i suoi legati con l'ambasciata, che abbiamo appena conosciuta. Esposti i fatti che c'erano stati prima dell'invio degli ambasciatori da parte del re Sourg, riportiamoci a quelli che si stavano avendo nel presente.

Ebbene, non appena il capo supremo del suo esercito era stato in sua presenza, il sovrano di Midosia si era dato a dirgli:

«Comandante Kazon, la risposta del re Tolep è stata quella che ci attendavamo. Egli, non solo si è rifiutato di accettare la mia proposta, ma anche mi ha offeso, dichiarando che soltanto ad un mentecatto poteva venire una idea simile. Perciò, senza perdere altro tempo, bisogna iniziare l'invasione della Berap. Tu mi assicuri che il nostro esercito è già nelle condizioni ottimali di poterla portare avanti a gonfie vele?»

«Non ci sono dubbi, re Sourg, che esso è già all'altezza della situazione per intraprendere una simile impresa, anche perché possiamo fare affidamento su una fanteria e una cavalleria abbastanza solide, avendo a nostra disposizione centomila fanti e cinquantamila cavalieri. Invece le forze dei nostri nemici potranno mettere in campo al massimo la metà dei nostri contingenti armati. Inoltre, non dimenticare che i nostri soldati saranno comandati da uno stratega, il quale non potrà avere rivali sia nella Berap che nella Daven. Ad ogni modo, attenderei ancora qualche mese, prima di lanciarci in grande stile nell'azione militare, che ci sta tanto a cuore. Ciò, non senza un motivo!»

«Perché mai, Kazon, vuoi allungare i tempi nella nostra invasione della Berap? Non hai detto che il nostro esercito è già nelle migliori condizioni di rendimento per cominciarla e concluderla vittoriosamente?»

«Certo che lo è, sire! Io, però, intendo prima stancheggiare i nostri nemici con varie incursioni ostili sul loro territorio, facendo strage di quanti ci capiteranno tra le mani. Così agendo, costringeremo il loro sovrano ad inviarci contro l'esercito di cui dispongono, allo scopo di far cessare le nostre scorrerie assassine e predatrici. A quel punto, faremo intervenire anche il nostro esercito e lo costringeremo ad uno scontro armato in campo aperto, evitandoci un lungo assedio. Il quale non ci risulterebbe facile nel condurlo contro Fecian, la quale è una città così bene fortificata, da presentarsi quasi imprendibile dalle nostre schiere.»

«Forse hai ragione tu, mio valente comandante. Perciò le nostre azioni militari contro i Feciani prendano la piega che mi hai suggerita. Che la fortuna, quindi, sia con noi!»

Nel frattempo il re Tolep non se ne era restato ad attendere gli eventi con rassegnazione fatalistica, mostrandosi inoperoso verso l'incerto futuro. Al contrario, essendo convinto che il cervellotico sovrano di Midosia faceva sul serio, per cui ben presto fra i Feciani e i Midosiani ci sarebbe stata senz'altro una guerra, anch'egli aveva convocato a corte il capo supremo del suo esercito, al quale si era espresso in questi termini:

«Comandante Etros, per come si sono messe le cose, ben presto il nostro popolo si ritroverà ad affrontare una guerra contro i Midosiani, pur non essendo noi a volerla.»

«Come mai, sire, tutto ad un tratto, i rapporti fra i nostri due popoli si sono aggravati a tal punto, da vederci addirittura coinvolti in un imminente conflitto armato?»

«Ciò non è avvento per mia colpa, Etros. Invece è stato quello scriteriato del re Sourg a volere che la nostra amicizia andasse in frantumi e nascesse in lui il desiderio di guerreggiare con noi. Stamani mi è giunta una sua ambasceria, la quale mi ha recato un suo folle messaggio. Secondo il quale, essendo il nostro popolo intellettualmente inferiore rispetto a quello loro, i Feciani devono assoggettarsi ai Midosiani e fornirgli la metà dei prodotti ricavati dal loro lavoro dei campi. In caso contrario, ricorreranno alle armi nei nostri confronti.»

«L'atteggiamento del sovrano midosiano è inammissibile, re Tolep. Perciò non ci resta che ricorrere ai ripari con urgenza, preparandoci ad una guerra assurda, che non ci si permetterà di evitare. Ma bisognerà affrontarla nella maniera a noi più favorevole, se non vogliamo andare incontro ad una terribile sconfitta. Ciò significa che a qualunque costo occorrerà ovviare ad uno scontro in campo aperto fra il nostro e il loro esercito, disponendo noi la metà dei contingenti midosiani, per cui ci troviamo di fronte ad un rapporto uno a due. Difatti i nostri nemici hanno il doppio dei nostri fanti, che sono cinquantamila, e dei nostri cavalieri, che sono venticinquemila. Per la quale ragione, ci toccherà arroccarci nella nostra città, che considero inespugnabile, e difenderci da un loro assedio con tutte le nostre forze. Se esso ci sarà, vedrai, mio sovrano, a molti soldati nemici faremo fare una brutta fine, poiché li accoglieremo con abbondante acqua, olio e pece alla massima ebollizione. Né mancheranno massi di ogni peso, che gli catapulteremo addosso.»

«Allora, mio egregio comandante, mi affido alla tua bravura e alla tua sagacia. Da oggi stesso, quindi, inizierai a preparare un'ottima difesa della nostra città, fortificandola anche in quei punti che, a tuo parere, dovrebbero presentarsi i più nevralgici.»

«Lo farò senza meno, mio nobile re. Nello stesso tempo, però, invierò nelle nostre terre delle truppe perché vi facciano il massimo rifornimento di viveri e di acqua, ad evitare che i nemici possano costringerci ad arrenderci per fame e per sete. Se ci sarà una tua ordinanza in materia, esse requisiranno tutte le scorte alimentari che troveranno in quelle case coloniche, i cui residenti si rifiuteranno di rifugiarsi nella nostra Fecian.»

«Certo che tali truppe saranno autorizzate da me per la loro requisizione, Etros! Perciò adesso puoi congedarti da me e correre a mettere mano all'una e all'altra tua operazione.»

Trascorsi una quindicina di giorni da quel colloquio, l'esercito feciano aveva portato a termine entrambe le operazioni, per cui ora, quando Kazon aveva deciso di dare inizio alle incursioni nei territori berapini, i Feciani si sentivano pronti a far fronte all'assedio nemico. Ma nei giorni che seguirono, anziché esserci l'attesa invasione della Berap da parte dell'esercito midosiano, erano cominciate ad aversi sul suo territorio varie scorrerie. Con le quali le schiere dei nemici miravano a mettere a ferro e a fuoco quelle zone che non erano state abbandonate dai coloni residenti. Esse, oltre a bruciarne le fattorie, facevano strage di coloro che, non avendo tenuto conto delle raccomandazioni del loro sovrano, erano rimasti ad abitarle. In verità, c'erano anche delle case coloniche che, trovandosi nelle remote terre di confine, non erano state neppure avvertite ed allertate a causa del nuovo stato di cose, che molto presto si sarebbe avuto sulle loro terre. Perciò esse erano state le prime a subire le incursioni dei soldati midosiani e le uccisioni dei loro abitanti, che ne erano derivate molte e crudeli. Così, in brevissimo tempo, si erano avute sui territori della regione berapina numerosi stermini di quei coloni, i quali non avevano voluto abbandonare le loro fattorie oppure avevano tardato a rifugiarsi in Fecian, dove ci sarebbe potuta essere per loro la salvezza. Da quei pochi che erano riusciti a scampare al pericolo rappresentato dai Midosiani, in città si era venuto a sapere che questi commettevano delle atrocità inaudite contro quanti sorprendevano nelle loro fattorie oppure durante la loro fuga verso Fecian. Essi ammazzavano senza pietà anche i vecchi, i bambini e le donne, riservando a queste ultime un trattamento che faceva ribrezzo. Dopo averle stuprate, sottoponendole a violenze carnali di gruppo, le legavano al tronco di un albero e le facevano diventare bersagli delle loro frecce. Anzi, non smettevano di scagliarle loro addosso, fino a quando la morte non sopraggiungeva nelle sventurate.

A quelle notizie terribili ed ignominiose, il re Tolep e il comandante in capo dell'esercito feciano avevano avvertito la necessità di incontrarsi di nuovo a corte per discutere su quanto stava succedendo sui loro territori. Nell'incontro, era stato il sovrano a parlare per primo, dicendo:

«È davvero inumano, Etros, ciò che alcuni nostri coloni scampati al pericolo hanno riferito sulle azioni indegne di un essere umano compiute da alcuni manipoli di combattenti nemici. I quali, percorrendo in lungo e in largo varie parti dei nostri territori, vanno uccidendo vigliaccamente alcuni nostri connazionali e le loro famiglie indifese. Mi dici tu cosa possiamo fare per arrestare i loro massacri e permetterci di vendicare i nostri inermi compatrioti?»

«Anch'io, re Tolep, mi mostro inorridito, di fronte agli ignominiosi fatti di sangue, dei quali si stanno rendendo responsabili i nostri nemici, che non mi sarei mai aspettato da loro! In una circostanza del genere, però, non ci è consentito di inviare contro di loro il nostro esercito. Se prendessimo un simile provvedimento, facendo uscire dalla nostra città le nostre truppe, in quel caso faremmo il gioco dei Midosiani. Essi, a mio giudizio, attendono proprio che da noi si commetta un errore di questo tipo, per attaccarle subito dopo con le loro falangi e sbaragliarle. Per il momento, secondo me, i nostri nemici le tengono nascoste in qualche parte; ma sono pronti a farle intervenire contro il nostro esercito, non appena si avventurerà in campo aperto. Dopo essi cercheranno innanzitutto di tagliargli la ritirata in Fecian.»

«Con quanto mi hai detto, capo supremo del mio esercito, hai voluto asserirmi che abbiamo le mani legate in questa vicenda. Per questo non possiamo far niente in soccorso di quei coloni, che sono impotenti a difendersi, per cui dobbiamo abbandonarli al loro destino.»

«In un certo senso, è così, mio sovrano. Comunque, c'è una remota possibilità di poter essere in qualche modo di aiuto a quanti non sono stati ancora travolti dalla mannaia falciatrice dei nostri nemici. Ma anch'essa comporterebbe per noi dei rischi molto seri.»

«Etros, quale sarebbe questa possibilità? E perché mai hai fatto menzione di un'azione pericolosa, nel caso che la si tentasse da parte nostra? Naturalmente, ti sarai riferito solamente ad un gruppo dei nostri soldati, i quali dovrebbero essere mandati a compierla fuori città.»

«Esatto, nobile re Tolep! Stavo pensando appunto ad un drappello bene armato, formato dai nostri uomini più combattivi ed audaci, i quali dovrebbero uscire da Fecian nottetempo e scovare quei nemici che vanno alla ricerca dei nostri coloni per sopprimerli. Ne basterebbero un centinaio, perché la loro missione avesse l'esito sperato.»

«Come anche tu hai fatto presente, Etros, ci sarebbe sempre il pericolo che i nostri pochi soldati che dovrebbero farne parte, potrebbero imbattersi in un battaglione nemico e venirne annientato. Quindi, cosa consiglieresti loro per evitare tale contrattempo?»

«Il nostro drappello, sire, dovrebbe agire esclusivamente di notte; mentre di giorno si darebbe a dormire, tenendosi nascosto all'interno di qualche macchia. Ma la sua attività dovrebbe iniziare già al crepuscolo, per cercare di individuare delle volute di fumo che si innalzassero nell'aria, poiché esse potrebbero segnalare la presenza di nemici prossimi a darsi al bivacco notturno. In quel caso, attenderebbero la notte per intervenire contro di loro e sorprenderli durante il sonno, facendoli fuori tutti senza venire scoperti, ossia sgozzandoli mentre dormono.»

«Sono d'accordo con il tuo piano, Etros. Perciò la missione del nostro drappello, considerata sotto tale aspetto, potrà avere inizio già da stanotte. Dunque, puoi incominciare a prepararla durante la giornata a stretto rigore, perché abbia il successo da noi auspicato.»

Era tato così che il drappello feciano si era dato ad operare nelle ore notturne, mentre in quelle diurne se ne restava nascosto all'interno di una boscaglia, dove si dava a riposare e a farsi anche una bella dormita. Ma una volta giunto il tramonto, un paio di loro partiva in perlustrazione per avvistare, senza esserne scorti, uno dei sanguinari gruppi di soldati nemici che operavano sui loro territori. Quando lo avvistava, lo tallonava, finché esso non si accampava in qualche luogo per ristorarvisi, per riposarvi e per prendervi sonno. Allora, dopo averne messo a conoscenza i restanti commilitoni del drappello, nel cuore della notte intervenivano in massa nel loro accampamento con il massimo silenzio e li trucidavano senza pietà, squarciando a tutti la gola. Agendo in quel modo, essi vendicavano i coloni feciani da loro sterminati, senza che il nemico potesse accorgersi dei loro ammazzamenti notturni.

La missione del drappello feciano, però, non aveva potuto agire a lungo nell'ombra. Dopo che esso aveva eliminato un quarto gruppo di soldati nemici che erano intenti ad uccidere i loro conterranei, l'astuto Kazon, che ne era stato l'artefice, alla fine si era reso conto che qualcosa non quadrava. Infatti, aveva compreso ciò che stava succedendo ai soldati, a cui aveva affidato il compito di darsi alle mattanze dei coloni feciani e alla distruzione delle loro fattorie. Allora, con l'intento di dare la caccia a quelli che lo stavano fregando, per avergli già fatto fuori un gran numero di uomini, aveva stabilito di cambiare tattica. Così avrebbe sorpreso ed annientato i nemici, che erano stati posti sulle tracce dei gruppi da lui formati. Per prima cosa, servendosi di staffette, aveva richiamato presso di sé quanti ne restavano ancora in azione. Dopo aveva formato due nuovi gruppi di armati, composto ciascuno da mille soldati, entrambi con il compito di dare la caccia a quei nemici che avevano fatto grandi stragi dei suoi uomini razziatori. Ma questa volta essi si sarebbero dovuti alternare nel tempo. Ossia, nelle loro ricerche sul territorio nemico, mentre l'uno avrebbe agito nelle ore di luce, l'altro avrebbe operato nelle ore di buio.

Alcuni giorni dopo, la fortuna aveva arriso ai ricercatori diurni, i quali per caso si erano trovati a transitare dalle parti dove i cento soldati feciani se la dormivano tranquillamente, ai margini di una piccola radura boschiva. Allora, sorprendendoli nel sonno, li avevano attaccati e massacrati senza pietà. Infine, come da ordine ricevuto dal loro comandante in capo, li avevano decapitati. Non bastando ciò, cento di loro avevano fissato le teste dei medesimi in cima alle loro lance. Al termine della coppia di azioni da loro eseguite, essi avevano marciato alla volta di Fecian. Giunti poi davanti alle sue porte, ad un centinaio di metri da esse, avevano infisso nel terreno le lance, le cui punte erano conficcate nelle teste dei cento Feciani da loro brutalizzati. Infine essi se ne erano allontanati ed avevano raggiunto il loro capo supremo. Al tremendo spettacolo messo in mostra da coloro che avevano ucciso e decapitato i loro cento conterranei, gli abitanti di Fecian non avevano potuto fare altro che assistere impotenti ad esso e piangersi nello stesso tempo la malasorte toccata ai poveretti. Da quel giorno, per la verità, erano terminate anche le incursioni dei Midosiani nella Berap, non essendoci più coloni feciani da sottoporre alle loro sevizie. Allora il comandante Kazon, avendo avuto anche l'autorizzazione a procedere da parte del suo sovrano, si era proposto di assediare la città nemica con un massiccio intervento, mettendo in campo molte falangi armate di tutto punto.

L'assedio condotto dai suoi soldati, però, già alle sue prime battute, si era rivelato un vero disastro, poiché erano stati tantissimi quelli che, per varie cause, erano caduti morti sotto le solide mura della città. Per difendersi, gli assediati ricorrevano al lancio di frecce, di macigni; né mancavano getti di acqua, di olio e di pece bollente. Le quali cose mietevano fra gli assedianti un gran numero di vittime, fino a decimarli. Ma anche ne neutralizzavano le scalate. Quanto ai tentativi di aggancio fatti dalle loro funi arpionate, anch'essi fallivano, siccome le mura, oltre ad essere del tutto prive di merli di varia foggia, terminavano con una liscia superficie convessa, che non permetteva agli arpioni alcuna presa. Insomma, alla fine della giornata, l'esercito midosiano aveva subito un calo di cinquemila unità, la quale perdita aveva dissuaso il suo comandante dal riprendere l'assedio la mattina dopo e negli altri giorni successivi. A suo parere, era meglio far capitolare Fecian per fame e per sete, poiché prima o poi essa si sarebbe arresa per penuria di cibo e di acqua. Invece dei problemi del genere si erano avuti prima nell'esercito midosiano. Il qual fatto lo aveva costretto ad ordinare ai suoi soldati di levare l'accampamento e di marciare verso la loro Midosia, dove si sarebbero potuti sfamare e dissetare a sufficienza.

Da quel momento in poi, la situazione si era evoluta in maniera diversa. Siccome era stato tolto intorno a Fecian l'accerchiamento da parte delle soldatesche midosiane, non potendo esso durare per un tempo indeterminato, la vita in quella città era andata incontro a minori restrizioni. Per cui, protetti da drappelli di soldati, i coloni che vi si erano rifugiati erano ritornati a coltivare la loro terra; ma sovente capitava di essere intercettati da un contingente di truppe nemiche. Allora risultava immancabile uno scontro armato fra gli uni e le altre, il quale si concludeva con la vittoria a volte dei primi altre volte delle seconde. Ma il nuovo fatto interessante, che si aveva in quei duri conflitti occasionali, era il seguente. Quando risultavano vincitori i soldati midosiani, questi non si davano più ad uccidere i coloni, come in passato, poiché erano queste le ultime disposizioni impartite dal loro comandante in capo. Comunque, quella nuova sua politica non era dovuta a motivi riconciliativi, ma a scopi che ne larvavano gli obiettivi.

Oltre a questi cambiamenti meno vistosi nei rapporti tra i Feciani e i Midosiani, era cominciata ad invalere fra di loro una certa consuetudine, che veniva accettata da entrambi i popoli con interesse. Ogni dieci giorni, si presentavano sotto le mura feciane sette campioni di Midosia e sfidavano altrettanti campioni di Fecian. Essi, ad ogni modo, venivano accompagnati da un centinaio dei loro commilitoni per assistere agli scontri che ci sarebbero stati. Ebbene, quasi sempre c'erano i sette Feciani che raccoglievano il guanto da loro gettato. Allora, davanti alle porte della città, avvenivano i sette scontri all'arma bianca, nei quali si affrontavano due campioni appartenenti all'uno e all'altro popolo. La città, la quale risultava con più campioni sopravvissuti a tali combattimenti individuali, veniva dichiarata vincitrice.

In seguito, siccome le vittorie dei Feciani superavano di molto quelle dei Midosiani, il capo di questi ultimi, il quale era il famoso Kazon, aveva stabilito che gli scontri andavano effettuati collettivamente e che la palma della vittoria venisse assegnata al gruppo dei campioni, il quale alla fine si ritrovasse ad avere vivo almeno uno dei combattenti. La sua proposta non aveva trovato discordi i Feciani, visto che il nuovo criterio era piaciuto pure a loro, senza avvedersi che il secondo criterio di lotta andava totalmente contro i loro interessi. Infatti, prendendovi sempre parte l'inossidabile Kazon, ogni volta la vittoria dello scontro era risultata a favore dei Midosiani, almeno fino a quando i Feciani non si erano resi conto dell'errore commesso. Allora avevano iniziato a rifiutare la sfida dei nemici, ponendo così fine anche al massacro dei loro guerrieri che si sarebbero dovuti proporre come campioni propensi ad accettarla.

Naturalmente, il clima era continuato a restare molto teso tra i due popoli, i quali, da grandi amici che erano stati un tempo, adesso si ritrovavano ad essere degli acerrimi nemici. Per cui l'uno e l'altro avevano seguitato a vivere giorni di massima allerta, che risultava causa di mattanze cruente ora di soldati feciani ora di quelli midosiani. Ma questi ultimi quasi sempre riuscivano ad avere la meglio, specialmente quando essi erano capitanati dal loro imbattibile Kazon. Difatti costui, anche da solo, era in grado di fare una enorme ecatombe dei suoi nemici.

CAPITOLO 454



LA VITA DI ARKUST, IL LEGGENDARIO EROE FECIANO



Quando le brigate midosiane si erano date per la prima volta a fare terra bruciata dei territori della Berap, ammazzando quei coloni che non li avevano ancora abbandonati, essi non avevano risparmiato neppure la fattoria di Arkust. I suoi genitori erano proprietari di un podere, il quale veniva coltivato a grano e ad altri prodotti cerealicoli. La loro prole non poteva considerarsi abbastanza numerosa, poiché era composta da soli cinque figli, dei quali il futuro eroe di Fecian, avendo tre anni, risultava l'ultimogenito. A quei tempi, per chi volesse saperlo, in una famiglia si era soliti superare anche la decina di figli. Quanto al nome del capofamiglia, esso era Lofus; invece quello della moglie era Margia.

In un giorno di inizio autunno, la famigliola aveva smesso di pranzare da circa un'ora. Intanto che i due coniugi erano intenti a spaccare la legna da ardere, i loro cinque bambini trascorrevano il loro primo pomeriggio a giocare a rimpiattino. Ad un certo punto, era toccato al fratello maggiore di otto anni cercare i suoi fratellini, i quali si tenevano ben nascosti nei loro nascondigli. Ebbene, egli aveva trovato già i tre più grandicelli, per cui gli restava da scovare il più piccolo, ossia Arkust, allorché c'era stata in mezzo a loro un'invasione da parte di un centinaio di uomini armati, creandovi un gran trambusto. Gli intrusi portaguai, senza presentarsi e senza fare domande, immediatamente avevano assalito i due pacifici consorti con le loro armi assassine e li avevano fulminati sul colpo. Dopo erano passati ad inveire anche contro i quattro bambini terrorizzati che erano presenti, infilzandoli con le loro spade ed uccidendoli all'istante. L'unico a sopravvivere a quel massacro era stato Arkust. Il piccolo, mentre si attuava la strage dei suoi familiari, si trovava acquattato all'interno di una bica, che aveva usato per nascondersi. Il poveretto, attraverso i covoni di spighe che la componevano, aveva assistito, con il fiato sospeso e con il cuore tremante, ai fatti di sangue che si compivano a danno degli altri sei componenti della sua famiglia. Solo quando gli uccisori dei suoi parenti stretti avevano lasciato la fattoria, alla quale avevano dato fuoco prima di andarsene, egli era venuto fuori dal suo rifugio. Ma per come si erano messe le cose, per lui non si intravedeva alcun roseo futuro, siccome si ritrovava letteralmente solo, senza nessuno che potesse prendersi cura di lui. Allora si era dato ad un pianto dirotto, non riuscendo a comprendere la malvagità degli uomini. La quale, tutti in una volta, gli aveva ammazzato i genitori e i quattro fratelli. Inoltre, si era sentito perfino l'animo ridotto a frantumi di patemi e di angosce, siccome egli non reggeva al truce spettacolo, che adesso era costretto a vedersi davanti con le lacrime agli occhi.

Arkust non aveva avuto neppure il coraggio di avvicinarsi a loro, di scuoterli e di richiamarli in vita per non restare unica persona in quella zona deserta, dove era rara la presenza di qualche passante. Così si era messo a sedere sopra un ciocco di quercia ed aveva continuato a struggersi in pianto fino al tramonto. Per sua fortuna, era stato a quell'ora del giorno che si era trovato a passare da quelle parti un percus. I Feciani indicavano con tale nome un essere prodigioso, il quale racchiudeva in sé delle doti straordinarie e le metteva in mostra in ogni campo della sfera conoscitiva. Per cui egli riusciva a cavarsela brillantemente in qualsiasi azione che si proponeva di compiere. Inoltre, prediligeva una vita solitaria e si mostrava schivo di ogni mondanità, le quali cose gli facevano preferire una vita appartata nella fitta boscaglia, all'interno di una spelonca che in passato era stata una lupaia. Di lui, si diceva pure che, una volta scoccata una freccia con il proprio arco, riusciva poi a guidarla con la mente contro il bersaglio, anche se esso non si trovava sulla stessa linea retta del dardo. Difatti egli era capace di imporgli tutte le deviazioni possibili, fino a farla giungere alla destinazione prescelta.

Quando il percus per caso si era fatto vivo in quel luogo, che gli era subito apparso un vero mattatoio, il piccolo Arkust non aveva ancora abbandonato la sua posizione e seguitava a consumarsi con il dolore e con il pianto. Allora era stata sua premura avvicinare l'addolorato bambino e cercare di consolarlo alla meglio. Per prima cosa, però, aveva voluto privarlo di quella scena crudele, che si presentava inguardabile anche per una persona adulta. Perciò lo aveva preso in braccio e lo aveva portato via con sé, lontano dalla fattoria che bruciava, essendo avvolta interamente dalle fiamme. Oramai l'uomo si era reso conto che, da quel giorno, si sarebbe dovuto prendere cura di quell'orfana creatura fisicamente fragile, la quale era rimasta senza nessuno che l'accudisse. Così, dopo aver fatto un centinaio di metri, egli, lasciato il bambino da parte, era ritornato sui suoi passi, poiché aveva deciso di far bruciare dalle fiamme i sei corpi senza vita dei suoi familiari, perché non venissero divorati da animali famelici in cerca di carogne. Ripreso infine il cammino alla volta della sua dimora insieme con il piccolo Arkust, che si teneva sulle braccia, il percus, il cui nome era Festun, si era diretto verso quella parte dell'orizzonte dove il rosseggiante sole cominciava a calarsi dietro una fila di colline dal profilo seghettato. Ma prima che esse venissero raggiunte, si incontrava sul cammino un bosco, all'interno del quale si trovava l'abitazione di colui che aveva deciso di dedicarsi al bambino, che da poco era diventato orfano dei genitori. Quando infine l'uomo l'aveva raggiunta, in giro non era rimasto neppure un frammento di tramonto. Difatti esso aveva ceduto il posto all'imbrunire, che ora si andava impregnando del buio della notte più nero.

Una volta giunto nella sua ampia caverna, che poteva essere profonda una decina di metri e presentava sui lati alcune rientranze di pochi metri, innanzitutto il percus aveva badato a rifocillare il piccolo ospite, prima di metterlo a dormire sul proprio giaciglio. Mentre poi il bambino era immerso nel suo sonno, egli si era dato a cenare e a fare progetti su di lui, avendo stabilito di crescerlo sano e forte, ottenendo nel suo organismo la massima potenza psicofisica, oltre che un acuto e fervido ingegno. Soprattutto lo avrebbe fatto diventare un combattente straordinario sotto tutti i punti di vista, in particolar modo nelle armi e nelle arti marziali. In quel modo, al termine della sua eccellente preparazione fisica, psichica, intellettuale, ma soprattutto quella dell'uso delle armi e del combattimento corpo a corpo, nessun guerriero del pianeta sarebbe stato in grado di competere con lui e di superarlo. Così, con il passare degli anni, gli impegni di Festun non erano stati disattesi. Via via che il figlio adottivo era andato crescendo, attraverso una ferrea disciplina e duri allenamenti costanti, egli era riuscito a conseguire nel corpo, nella psiche e nella mente del suo allievo tutti gli obiettivi che si era prefissato. Perciò Arkust, al compimento dei suoi venti anni, ossia nel fior fiore della sua gioventù, si presentava preparato in tutto ed appariva quasi un miracolo vivente, grazie alle sue doti formidabili, che lo avrebbero fatto spiccare sugli altri giovani esistenti al mondo. Si rinvenivano in lui un'acuta intelligenza ed una potenza del fisico fuori del comune.

Non bastando ciò, il suo egregio maestro aveva voluto fare di lui un modesto percus. Ma in effetti, nelle vesti di un essere del genere, quali prerogative provenivano ad Arkust, le quali lo facevano distinguere dagli altri guerrieri, che non lo erano? Ebbene, in qualità di percus, egli era investito di speciali poteri, che non si rivelavano effettivi ma soltanto apparenti, quando li metteva in pratica contro la parte avversa, fosse essa rappresentata da un suo simile oppure da una belva feroce. Essi erano di due tipi: quelli che, mediante la fonazione, gli facevano emettere suoni di ogni genere, a seconda della circostanza; quelli che gli facevano assumere l'aspetto che voleva, perfino quello di un mostro, conferendo ad esso, quando lo desiderava, anche un'apparenza multipla. In passato Festun se ne era servito per indurre i lupi a sfrattare dalla loro tana e l'aveva fatta divenire la propria dimora. Magari si era fatto scorgere da loro come una molteplicità di leoni e ne aveva imitato perfino i ruggiti. Per questo tali feroci canidi non avevano esitato ad abbandonare quella che era stata la loro abitazione fino a quel momento.

In relazione al volo, esso non era possibile ad un percus, non essendo in grado di vincere la forza di gravità. Gli uccelli, a parte quelli grandi, ci riuscivano, solo grazie al loro continuo battito d'ali, che gli permetteva di sostenersi nell'aria con una modesta fatica. Perciò nemmeno Arkust, per merito di qualche sua dote speciale, aveva conseguito l'abilità a volare. Invece l'aveva ottenuta, solo dopo che era diventato uno dei Guardiani del Potere Cosmico e si era ritrovato a vivere in Potenzior, dove non esisteva la forza di gravità. Infatti, qualsiasi essere poteva vivere in esso, indipendentemente dalle varie esigenze del proprio organismo.



Quando aveva compiuto il suo venticinquesimo anno di età, il genitore adottivo, che era il percus Festun, aveva voluto parlare al suo formidabile allievo nel modo seguente:

«Arkust, come già sai, tu non sei mio figlio naturale; ma ti ho solo allevato, da quando avevi tre anni. Se non te ne ricordi, fu a quel tempo che ti incontrai, mentre piangevi la morte dei tuoi genitori e dei tuoi fratelli, i quali erano stati appena ammazzati dai soldati midosiani. Devi sapere che ho voluto che tu diventassi quello che adesso sei, per due motivi: primo, per vendicare i tuoi sei familiari; secondo, per riscattare l'onta e la sopraffazione che sta subendo il tuo popolo, da parte dei protervi Midosiani. Perciò, da oggi in avanti, combatterai i suoi nemici e li farai pentire del loro atteggiamento oltraggioso verso la tua gente.»

«Ma io non so neppure da dove cominciare, padre Festun, essendo all'oscuro di ogni cosa che possa interessarmi, allo scopo di compiere la mia vendetta. Ignoro perfino qual è il mio popolo e dove esso si trova. Allora mi aiuti a chiarirmi tutto quanto lo riguarda e a mettermi sulla strada giusta, che mi permetta di raggiungerlo e di essergli di aiuto?»

«Anche se tu non me lo avessi chiesto, figlio mio, lo avrei fatto di mia iniziativa, non potendo essere altrimenti. Senza le mie notizie esplicative su questa importante vicenda, non sapresti che pesci pigliare nella missione che ti attende. Per questo adesso mi affretto a riferirti ogni cosa su di essa, affinché tu dopo sappia regolarti sul da farsi e possa prendere le necessarie iniziative per condurla a termine con pieno successo.»

«Allora, padre, sbrìgati a rapportarmi ogni cosa sul mio popolo e sui Midosiani, i quali, come ti sento dire, di continuo cercano di strapazzarlo e lo svillaneggiano come meglio possono.»

«Arkust, la nostra regione, ossia quella del popolo feciano, è la Berap; mentre la regione del popolo midosiano è la Daven. I Feciani vivono nella loro città di Fecian; invece i Midosiani vivono nella città di Midosia. Un tempo tra i due popoli c'erano ottime relazioni amichevoli e fiorenti scambi commerciali. Ciò si ebbe, fino a quando restarono in vita i loro sovrani Fugen, re dei Feciani, e Morbes, re dei Midosiani. Alla loro morte, però, le cose cambiarono, poiché così volle Sourg, il nuovo re di Midosia, succeduto al padre Morbes. Egli, di punto in bianco, decise di troncare ogni amicizia esistente tra i Feciani e i Midosiani; ma prima lo aveva fatto intuire chiaramente al re Tolep, che era succeduto al padre Fugen. Infatti, quando quest'ultimo gli fece la sua prima visita in qualità di sovrano, il re Sourg lo aveva ricevuto presso la sua reggia, ostentando una sfrontata noncuranza e un arrogante disprezzo nei suoi confronti. Così gli aveva fatto intendere che le cose sarebbero cambiate fra i loro due popoli. Anzi, essendoci già in lui il chiaro intento di mandare in frantumi la loro amicizia, presto avrebbe approfittato della superiorità numerica dei suoi soldati su quelli feciani per attaccarli in campo aperto oppure per assediare la loro città.»

«Quindi, padre mio, in seguito il re Sourg si diede ad attuare i suoi perfidi propositi. Magari oggi continua a mettere sotto pressione il popolo feciano, che è quello nostro. Non è forse vero che egli non desiste dall'ambizione di volerlo assoggettare al proprio dominio?»

«Certo che è così, Arkust! L'iniquo sovrano prima mandò dei suoi ambasciatori a Fecian, perché facessero presente al re Tolep che i Midosiani erano un popolo intellettualmente superiore rispetto ai Feciani, per cui questi ultimi, se non avessero voluto la guerra, con le buone avrebbero dovuto lavorare a vantaggio dei primi. Ma avendo ricevuto dal re feciano una risposta negativa, oltre che offensiva, facendo assegnamento sul proprio esercito, che contava il doppio dei soldati nemici, diede ordine al suo validissimo comandante in capo, che era Kazon, di assediare Fecian. Ma costui, prima di assediarla, preferì stancare i Feciani in modo diverso. Così ordinò ad alcuni manipoli dei suoi soldati di percorrere in lungo e in largo i territori berapini per fare strage di quei coloni che avrebbero sorpreso nelle loro fattorie. Ricorrendo a simile strategia, Kazon intendeva fare intervenire in loro soccorso l'esercito feciano per dargli battaglia e sconfiggerlo. Fu proprio uno di tali drappelli che, essendo capitato anche presso la fattoria dei tuoi genitori, li uccise insieme con i tuoi quattro fratelli, i quali erano tutti più grandi di te.»

«Padre, ti prometto che i Midosiani me la pagheranno cara, per aver massacrato i miei genitori naturali e i miei fratelli. Perciò non vedo l'ora di vendicare i miei conterranei, primi fra tutti i miei familiari! Ma ora vai avanti con il tuo resoconto sul popolo che si è dichiarato nemico giurato della nostra gente e continua ad affliggerla come gli è consentito.»

«Ebbene, figlio mio, quando nella Berap non ci furono più coloni da trucidare, Kazon vi fece cessare le incursioni da parte dei suoi soldati. Subito dopo ordinò al suo esercito di mettere sotto assedio la nostra città. Avendo poi constatato che esso causava soltanto la morte di molti suoi combattenti, senza ottenere dei risultati concreti, alla fine egli si rese conto del fatto che la città nemica era inespugnabile. Perciò pensò di cambiare strategia, ossia l'avrebbe costretta a capitolare per fame e per sete. Invece furono prima le sue truppe ad andare incontro all'una e all'altra. La qual cosa l'obbligò a levare gli accampamenti che circondavano da ogni lato Fecian e a riportare il suo esercito a Midosia per farlo sfamare e dissetare. A quel punto, il capo supremo dell'esercito midosiano escogitò un piano, unicamente per umiliare i nostri soldati; ma poi dovette correggerlo per essere rimasto insoddisfatto.»

«Di preciso, padre, Kazon a quale espediente ricorse per screditare i nostri soldati e perché poi esso, contrariamente a quanto si prefiggeva, disattese le sue aspettative? Ci tengo a conoscere queste cose.»

«Arkust, egli ebbe l'idea di far prendere piede fra i due popoli una interessante consuetudine. Ogni decade, sette campioni midosiani, accompagnati da cento soldati, si presentavano sotto le mura di Fecian, dove sfidavano altrettanti campioni nemici ad affrontarsi in scontri individuali. Il gruppo, che risultava con meno combattenti uccisi, conseguiva la palma della vittoria, a tutto beneficio simbolico della propria città. Invece, contro le sue previsioni, la maggioranza delle vittorie veniva ottenuta dai Feciani, con un rapporto due a uno. Allora, arrovellandosi per tali risultati vantaggiosi per gli avversari, propose a costoro non più sette tenzoni individuali, ma una sola collettiva, ossia tutti contro tutti. Con tale nuovo modo di affrontarsi, egli, che sarebbe stato tra i sette campioni midosiani in qualità di guerriero imbattibile, era sicuro di permettere al suo gruppo di vincere ogni scontro che ci sarebbe stato, facendo aggiudicare la vittoria alla loro città.»

«Mi fai comprendere, padre mio, in che modo il suo gruppo avrebbe sempre vinto nei nuovi scontri da lui proposti?»

«Con tale criterio di tenzonare, Arkust, alla fine di ogni combattimento collettivo, Kazon era sempre il solo a sopravvivere, essendo egli un guerriero di raro valore. Perciò ogni volta, pur essendo l'unico a scampare alla morte, lo stesso faceva conseguire la vittoria al suo gruppo, dopo aver azzerato quello feciano di tutti i suoi componenti. Ad un certo punto, però, stanchi di vedersi ammazzare dai nemici ogni decade sette dei suoi validi combattenti, il re Tolep proibì ai suoi soldati di accettare la sfida dei Midosiani, sebbene nello scontro morissero ammazzati pure sei nemici. Così, da un anno a questa parte, è stata posta fine ai massacri dei campioni feciani. Allora l'intrepido guerriero Kazon smise di divertirsi a compierli, davanti alle sbigottite folle di Feciani, che assistevano ad essi dalle mura con un animo abbattuto.»

«Padre mio, dopo che mi hai raccontato ogni cosa sul rapporto ostile esistente tra la nostra gente e i Midosiani, ti garantisco che ho compreso benissimo ciò che mi toccherà fare, una volta che ti avrò lasciato per andare a compiere la mia missione. Perciò domani stesso partirò per Fecian per presentarmi al re Tolep e proporgli quanto ho intenzione di fare. Mi dispiace soltanto che dovrò lasciarti privo della mia compagnia, la quale smetterà di renderti le giornate serene e per niente tediose.»



L'indomani Arkust, tenendo fede alla parola data al padre putativo, che aveva voluto prima abbracciare affettuosamente, era montato a cavallo e si era diretto alla volta di Fecian, dove aveva chiesto udienza al suo sovrano. Il quale, dopo averlo ricevuto a corte, gli aveva chiesto:

«Mi dici chi sei e qual è la ragione che ti ha spinto a presentarti al mio cospetto? Spero che essa sia davvero giustificata da parte tua, non avendo tempo da perdere, specialmente in questi giorni brutti per noi!»

«Anche il mio tempo è prezioso, re Tolep, poiché non vedo l'ora di vendicare la mia famiglia, la quale fu massacrata dai soldati midosiani. Ma intendo anche vendicare il popolo feciano, di cui faccio parte.»

«Come vorresti compiere la tua vendetta, giovane presuntuoso, che non mi hai detto ancora neppure il tuo nome? Comunque, non credo che tu possa portare a termine i tuoi propositi vendicativi. Se li hai giurati a te stesso, dovrai tornare sui tuoi passi, poiché non ti sarà possibile attuare l'impresa che tanti miei impavidi guerrieri non sono riusciti a compiere, rimettendoci perfino la vita. Per questo, se non hai altro da riferirmi, puoi anche congedarti da me, poiché, ti ripeto, non ho tempo da perdere dietro proposte che considero irrealizzabili.»

«Sire, mi chiamo Arkust. Ventidue anni fa, i soldati midosiani mi resero orfano di padre e di madre, i cui nomi erano Lofus e Margia. Nella stessa circostanza, uccisero anche i miei quattro fratelli. Io la scampai per puro miracolo, poiché mi trovavo nascosto. Per fortuna, poco dopo si trovò a passare dalle parti della nostra fattoria l'attuale mio padre adottivo, il cui nome è Festun. Egli, in tutti questi anni, mi ha cresciuto in modo da farmi diventare un guerriero eccezionale, che mai nessun uomo potrà sfidare a singolar tenzone ed uscirne vincitore.»

«Pur ammettendo che nella tua vita trascorsa le cose sono andate come mi hai raccontato, Arkust, adesso mi dici quale richiesta sei venuto a farmi? Parla, quindi, perché ti ascolto.»

«Re di Fecian, devi mettere a mia disposizione cento soldati. Così, insieme con essi, andrò sotto le mura di Midosia a lancerò la sfida al campione midosiano Kazon, il quale è anche il comandante in capo dell'esercito dei nostri nemici. Sono sicuro che egli non la rifiuterà, per cui soccomberà sotto i miei colpi implacabili. Eliminato lui, alla guida del nostro esercito, affronterò quello nemico in campo aperto e lo sbaraglierò senza nessuna difficoltà.»

«Arkust, non credo che tu sia in grado di fare quanto hai asserito. Comunque, voglio metterti alla prova. Se riuscirai a battere e ad uccidere lo stratega Kazon, dopo ti nominerò anche capo supremo del mio esercito, affinché lo porti alla vittoria su quello midosiano.»

Il giorno dopo, alla testa dei suoi cento soldati, Arkust si era presentato sotto le mura di Midosia, dove a gran voce aveva invitato Kazon a raccogliere il guanto che egli gli aveva gettato. Allora lo sfidato non si era fatto attendere molto, poiché poco dopo si erano viste le porte della città aprirsi e lasciarlo uscire sul suo splendido cavallo nero, sicuro di far mangiare la polvere al suo sfidante e di eliminarlo in brevissimo tempo. Invece il risultato dello scontro aveva preso una piega del tutto diversa, ossia decisamente avversa a lui. Infatti, fin dal suo inizio, il combattimento si era svolto tutto a favore del giovane feciano, il quale, mettendo in mostra delle tecniche di offesa e di difesa che lo sfidato non si aspettava, non aveva avuto difficoltà ad avere ragione di lui e ad infilzarlo con un magistrale colpo di spada. Dopo lo aveva perfino decapitato, infilando la punta della sua lancia nella testa di lui. Alla fine, lasciando la lunga arma conficcata nel terreno, Arkust aveva ricondotto i suoi uomini nella loro città. Pervenuti a Fecian, egli aveva annunciato al suo sovrano l'uccisione di Kazon e la sua decapitazione. Entrambe le cose erano avvenute ad opera sua davanti agli spettatori midosiani, i quali, mostrandosi attoniti dalle alte mura, avevano assistito alla sua miserabile fine.

A quella splendida notizia, seduta stante, il felice re Tolep lo aveva investito della carica di comandante supremo del suo esercito, la quale fino allora era stata di Etros. Costui non se l'era presa a male, poiché aveva considerato giusta la propria surrogazione, da parte del giovane successore, avendola egli ampiamente meritata; inoltre, aveva accettato di fargli da secondo. Nello stesso tempo, il sovrano aveva incaricato il figlio naturale del fattore Lofus di condurre il loro esercito nei territori davenini per portare la guerra al popolo midosiano ed infliggere una disastrosa sconfitta al suo esercito. In quel modo, avrebbe fatto abbassare la cresta al superbo re Sourg. Allora Arkust non si era tirato indietro, poiché lo desiderava tantissimo pure lui. Anzi, gli aveva promesso perfino che avrebbe ridotto l'esercito midosiano ad un quarto del suo effettivo. Ma erano occorsi un paio di mesi, prima che Arkust riuscisse ad avere a disposizione il tipo di esercito da lui desiderato, nel quale i soldati si sarebbero dovuti preoccupare esclusivamente di infierire contro i nemici, dandosi ad ucciderli senza pietà. Anche perché da costoro essi non avrebbero avuto nulla da temere, siccome il conflitto avrebbe avuto uno svolgimento in cui sarebbero stati i soli Feciani a far subire la propria aggressione alla loro controparte.

Era mai possibile che i soldati midosiani non avrebbero reagito all'attacco dei loro nemici e sarebbero rimasti inoffensivi sul campo di battaglia, senza darsi ad una reazione qualsiasi a coloro che gli recavano la morte? Secondo il parere di Arkust, le cose sarebbero andate esattamente in quella maniera. Allora ci toccherà attendere il punto cruciale dello scontro fra i due eserciti e valutarne gli effetti, che possiamo già immaginare davvero devastanti.

Quando era giunto il giorno dell'inizio delle ostilità, l'esercito feciano, che Arkust aveva voluto che fosse composto dalla sola cavalleria, era uscito dalla sua città e si era messo in marcia in direzione dei territori davenini. Esso stava andando a muovere battaglia all'esercito dei presuntuosi Midosiani, il cui attuale comandante in capo era Klaup. Costui, in qualità di suo secondo, era succeduto a Kazon, il quale, come abbiamo appreso, era stato sfidato ed ucciso da Arkust. Prima della loro partenza da Fecian, il giovane percus aveva fatto ai suoi venticinquemila cavalieri le seguenti raccomandazioni: 1) di tenere le loro faretre piene zeppe di frecce; 2) di non smettere mai di inseguire e di dardeggiare i loro nemici, che egli avrebbe messo in fuga; 3) di non voltarsi mai a guardare indietro per rendersi conto di quanto vi stava effettivamente accadendo.

Lo sconfinamento, da parte della cavalleria feciana, era avvenuto tre giorni dopo la sua uscita da Fecian. Essa, a quel punto, aveva puntato direttamente su Midosia, che si trovava a cinquanta miglia dal confine. Allora l'arbitrario passaggio dell'esercito nemico nei loro territori, la quale notizia non aveva tardato a pervenire a corte, aveva allarmato il re Sourg, che aveva messo subito in stato di allerta l'intera città. Egli, avendo appreso che i Feciani avanzavano con la sola cavalleria, aveva ordinato al nuovo capo supremo del suo esercito di andare incontro ai loro nemici, di affrontarli e di sbaragliarli, considerato che la loro superiorità numerica poteva ottenere facilmente un risultato del genere. All'ordine del suo sovrano, il comandante Klaup, alla testa dei suoi centomila fanti e dei suoi cinquantamila cavalieri, non aveva perso tempo e si era mosso contro i nemici in arrivo con l'intenzione di farne un enorme sterminio. Quando però i due eserciti si erano trovati l'uno di fronte all'altro, Arkust, che era in testa ai suoi cavalieri, dopo essersi staccato da loro di una ventina di metri in direzione dei nemici, si era dato a gridargli forte: "Midosiani, sono Arkust, l'uccisore del vostro ex capo supremo Kazon. Sono qui per portare anche a voi la morte. Tra poco ve lo dimostrerò. Se il vostro numero è tre volte maggiore di quello nostro, noi abbiamo degli alleati molto potenti, che tra poco verranno in nostro aiuto."

Tali parole, che in verità i suoi cavalieri non avevano compreso, in un primo momento provocarono soltanto la derisione dei soldati nemici, i quali si erano messi a dileggiarlo con parole e con gesti. Ma pochi istanti dopo, gli stessi schernitori erano stati scorti battere in ritirata con una fuga precipitosa e disordinata, mostrandosi in preda ad un folle spavento. Allora Arkust, rivòltosi alla sua cavalleria, aveva gridato ad essa: "Alla carica, miei cavalieri, e andate a farne un gran macello!". A quell'ordine imperioso del loro capo supremo, i cavalieri feciani, pur non rendendosi conto di ciò che stava terrorizzando i loro nemici e li stava facendo scappare, si erano armati dei loro archi e si erano dati ad inseguirli e a colpirli con le loro frecce micidiali. Essi avevano seguitato ad agire in quella maniera, fino a quando non avevano svuotato i loro strapieni turcassi e non avevano visto rifugiarsi in Midosia quella parte di cavalieri nemici che erano scampati alla loro orrenda carneficina. Invece tutti i fanti erano stati massacrati durante l'inseguimento.

Ma si può sapere perché l'esercito midosiano, tutto all'improvviso, incalzato da un pericolo che non si lasciava intravedere da nessuna parte, aveva intrapreso una fuga di quel tipo? Ebbene, se le cose apparivano come le vedevano i cavalieri feciani, cioè senza che niente fosse intervenuto a ridurre i loro nemici in quello stato assurdo che gli permetteva di farne una facile ecatombe, ben diversa si presentava la situazione a coloro che, sul campo di battaglia, correvano precipitosamente verso la loro città per trovarvi la salvezza. Ad un certo momento, i poveretti si erano visti assalire da un numero imprecisato di esseri mostruosi alti oltre dieci metri, i quali sembravano aver voglia di divorarseli. A farli apparire loro, era stato Arkust, il quale, mentre avanzava verso di loro, aveva preso l'aspetto di un mostro orribile, moltiplicandosi poco dopo in un centinaio di prototipi. Essi poi si erano messi ad assumere varie forme spaventose e ad agitarsi minacciosi nei loro confronti, presentandosi perfino sul punto di abbrancarli e di mangiarseli a piene ganasce. Così, al termine di tale tremendo sterminio, solo la metà dei cavalieri midosiani erano riusciti a raggiungere illesi la loro città; mentre sui restanti venticinquemila e sulla totalità dei fanti la morte aveva imperato sovrana durante la loro vergognosa fuga, poiché essa era impazzita sul campo di battaglia, senza mai stancarsi di flagellarli.

Quando infine si era trovato sotto le massicce mura della città nemica, a quanti lo stavano guardando sgomenti attraverso i loro merli Arkust aveva urlato che per il momento si riportava a Fecian i suoi cavalieri. Nel frattempo, essi potevano uscire dalla loro città ed onorare degnamente i loro soldati uccisi con il seppellimento o la cremazione dei loro corpi senza vita. Ma quanto prima egli sarebbe ritornato con tutto il suo esercito per assediare Midosia, essendo sua intenzione punire il loro indegno sovrano Sourg.

CAPITOLO 455



ARKUST CONTRO LA CITTÀ DI MIDOSIA E CONTRO IL MOSTRO TUSPUZ



Raggiunta la propria città, Arkust era stato accolto come un eroico trionfatore dall'intera cittadinanza, dalla quale, intanto che lo applaudiva osannante, si levava una ovazione unanime. Anche il re Tolep, quando lo aveva ricevuto a corte, abbracciandoselo, aveva voluto esprimergli la massima stima. Perciò, mostrandosi sommamente appagato della sua magnifica impresa, gli si era espresso con queste parole:

«Grazie, Arkust, per il miracolo da te operato a vantaggio della nostra città e del nostro popolo! Da oggi in avanti, sei considerato da me la persona più in gamba fra tutti i Feciani, compreso me. Perciò ti prometto che non oserò mai contraddirti in ogni cosa che deciderai di fare. Anzi, qualsiasi iniziativa vorrai prendere, essa avrà sempre il mio consenso. Ti ammiro, anche per il fatto che hai permesso ai Midosiani di tributare ai loro caduti in guerra delle devote onoranze funebri. Ti ringrazio per tutto ciò, mio eroico condottiero!»

«Invece, mio sovrano, non merito gli elogi e gli onori che generosamente mi si dedicano da parte di tutti, visto che sono stati i nostri cavalieri a mietere un così gran numero di morti fra le file dei nostri nemici. I quali sono stati ridotti ad un quarto del loro effettivo.»

«Ma sei stato tu, Arkust, anche se ignoro con quale diavoleria, a far trovare allo sbando l'esercito nemico, permettendo così alla nostra cavalleria di sbaragliarlo e di decimarlo. Adesso vuoi dirmi quando hai intenzione di porre sotto assedio e di espugnare la città di Midosia? Non vedo l'ora di dare la meritata punizione a quello smidollato del re Sourg.»

«Re Tolep, facciamo prima passare almeno un mese, in modo che i Midosiani smettano di occuparsi delle onoranze funebri e liberino il loro territorio dalle salme dei loro caduti in guerra. Dopo ne potremo riparlare con più calma, progettando un piano nei minimi particolari. Alla fine delle varie operazioni belliche, vedrai che riusciremo ad ottenere quanto ci saremo proposti, ossia la ricucitura dello strappo voluto a suo tempo dal monarca di Midosia tra il suo e il nostro popolo. Anche se il prezzo dell'intera nostra operazione non potrà che essere la sua eliminazione fisica, non prospettandosi per noi altra soluzione per evitarla!»

Una volta che i tempi erano maturati e il loro piano era stato determinato, predisponendo i modi della sua esecuzione, il re Tolep ed Arkust avevano deciso di mettere in stato d'assedio Midosia. Per ovvie ragioni, esso sarebbe avvenuto sotto la direzione dell'inossidabile giovane percus. Così egli si era affrettato a condurre l'esercito feciano sotto le mura della città, che per il momento risultava ancora nemica del suo popolo. Quando poi aveva dato ordine di assediarla, le migliaia di fanti, come aveva comandato il loro capo supremo, con scale e funi arpionate, immediatamente avevano iniziato ad ammassarsi ad essa sul solo lato settentrionale, evitando di assalirla lungo l'intera sua cerchia. Arkust, infatti, intendeva attuare lo stesso fenomeno di cui si era servito nella precedente battaglia campale. Ci si riferisce a quando aveva neutralizzato le schiere nemiche, facendole sopraffare e sterminare dalla cavalleria.

In quell'assedio, era stato lui stesso ad appoggiare alle mura la prima scala e a salirvi sopra per raggiungerne la sommità. Ma prima che gli assediati reagissero con i vari mezzi a loro disposizione per respingere gli assedianti, egli gli era apparso sotto le spoglie di un nuovo mostro dalle sembianze spaventevoli ed avente un'altezza che era doppia di quella delle mura. Alla sua apparizione, coloro che difendevano la città sul lato nord e si davano da fare sul cammino di ronda, erano scappati ed avevano lasciato le mura sguarnite e indifese. A quel punto, Arkust, dopo averle scavalcate senza difficoltà, era andato ad aprire le porte di Midosia, spalancandole ai suoi soldati, i quali ne avevano approfittato per riversarsi in essa trionfanti. Costoro, in verità, avevano evitato di depredare e di saccheggiare la città, essendo stati quelli gli ordini ricevuti dal loro comandante in capo. Comunque, si erano limitati a tenere sotto controllo i suoi abitanti, affinché essi non si dessero ad ingiustificate reazioni, che avrebbero potuto dare origine ad un bagno di sangue.

Avvenuta l'occupazione di Midosia, Arkust, con tutto il suo stato maggiore, si era condotto alla reggia per incontrarsi con il re Sourg e fargli presenti le condizioni che gli imponeva il re Tolep. La cui accettazione gli avrebbe reso salva la vita ed avrebbe fatto risparmiare il sacco alla sua città. Ma gli autorevoli Feciani lo avevano trovato all'esterno della reggia spalleggiato da un centinaio dei suoi soldati. I quali si erano dichiarati disposti ad immolarsi per lui, se fosse stato necessario. Allora il percus gli aveva parlato così:

«Sovrano di Midosia, la tua città oramai è in mano dei soldati feciani. Si attende la tua resa, per ufficializzare la sua espugnazione da parte del mio esercito. Comunque, il mio re, volendo mostrarsi generoso con te, ti dà la possibilità di avere salva la vita in questa circostanza, la quale è nettamente sfavorevole ai Midosiani. Perciò dovresti essergli riconoscente per la sua generosità, accettando le condizioni che egli viene ad importi tramite la mia persona.»

«Posso sapere, diabolico Arkust, esse quali sono, prima di dare il mio assenso o dissenso a quanto il re Tolep viene ad esigere da me? Si tratta di un mio diritto apprenderle!»

«Per la verità, sovrano di Midosia, tu non hai più alcun diritto, dopo che sei stato la causa di tante migliaia di morti, che ci hai fatto mietere fra i tuoi sudditi. Ad ogni modo, siccome le vuoi conoscere, sono quattro le cose che il mio sovrano pretende da te. Esse sono le seguenti: 1) la tua resa incondizionata al suo esercito, il quale di fatto ha già la tua città in pugno; 2) la tua abdicazione a favore del tuo unigenito Efur, che scorgo al tuo fianco; 3) la tua promessa di convincere tuo figlio a riallacciare con i Feciani i vecchi rapporti di amicizia, che esistevano al tempo di tuo padre Morben e di suo padre Fugen; 4) gli devi garantire che tuo figlio, una volta salito al trono, sposerà sua figlia, la principessa Ures.»

«Se queste sono le condizioni, che il tuo re intende dettarmi, Arkust, la mia risposta ti viene presto data. Sappi che oppongo un reciso diniego a tutte e quattro. Nello stesso tempo, ti metto al corrente che non temo le sue minacce. Perciò puoi andare a dirglielo!»

«Se la metti in questi termini, re Sourg, non esiste alcuna risposta da portare al mio re. Il suo ordine categorico è stato il seguente: "Al ritorno da Midosia, o verrai a dirmi che egli ha accettato tutte le mie condizioni oppure mi farai dono della sua testa!" Perciò, essendo stata negativa la tua risposta, dovrò procedere per la seconda opzione del mio sovrano. Ma prima che io passi a decapitarti, sarà una mia freccia ad arrecarti la morte.»

Pronunciate tali parole, Arkust non aveva perso tempo ad armarsi del suo arco e ad estrarre un dardo dal suo turcasso, mostrandosi pronto a far partire il colpo. Ma intanto che egli compiva quelle sue azioni, i soldati che componevano la scorta del loro sovrano non se ne erano restati a guardare. Superando il proprio re e il principe suo figlio, si erano affrettati a formare con i loro scudi una barriera impenetrabile, cercando così di essere di protezione ad entrambi. Ma la saetta del percus, una volta lanciata da lui, anziché proseguire in linea retta, aveva scavalcato l'ostacolo e superato perfino il sovrano di Midosia di tre metri circa. Dopo era ritornata indietro ed era andata a conficcarsi nella nuca della persona presa a bersaglio dall'arciere, fulminandola all'istante. Insomma, essa aveva seguito il percorso che Arkust aveva voluto che facesse, rallentandone la corsa e guidandola lungo la sua traiettoria con il pensiero.

Dopo esserci stata l'incredibile uccisione del sovrano midosiano, il capo supremo dell'esercito feciano si era rivolto al tremante figlio di lui e si era messo a parlargli in questa maniera:

«Dal momento che tuo padre è morto, principe Efur, sei diventato tu il sovrano di Midosia. Perciò dovrò chiedere a te se intendi ripristinare nella tua città l'antica amicizia esistente fra il tuo popolo e quello dei Feciani. Inoltre, dovrai riferirmi se sei disposto a sposare la figlia del re Tolep, garantendo così gli antichi rapporti amichevoli.»

«A differenza di mio padre, Arkust, sono propenso ad accettare le condizioni che mi vengono imposte dal re di Fecian, almeno quelle che mi competono. Perciò per me vanno bene la mia resa incondizionata al tuo esercito, già vincitore di fatto, il ripristino dell'amicizia fra i nostri popoli e il mio matrimonio con la principessa Ures. A patto che nella nostra città e sui nostri territori non ci sarà alcuna espoliazione, da parte dell'esercito feciano!»

«Di questo non ti dovrai preoccupare, principe Efur ed imminente re di Midosia. Ti do la mia parola d'onore che essa non avverrà né nella tua città né sui tuoi territori. Ti faccio anche presente che sarai incoronato re il giorno stesso che sposerai la principessa Ures. Inoltre, t metto a conoscenza che il mio sovrano presenzierà sia la tua incoronazione che le vostre solenni nozze.»

Il giorno dopo, Arkust aveva deciso di riportare il proprio esercito a Fecian, dove avrebbe informato il suo re di quanto aveva ottenuto in Midosia. Ma aveva lasciato di stanza in città un contingente di truppe, le quali non superavano il migliaio di soldati. Comunque, non aveva dimenticato di portare al suo sovrano il capo mozzo del re Sourg, che era stato da lui giustiziato. Nel suo incontro con il re Tolep, lo aveva messo al corrente di quanto doveva sapere; però dopo insieme avevano stabilito che le due cerimonie si sarebbero svolte a Midosia il mese successivo. Per questo ci si era preparati perché tutto fosse pronto entro la data stabilita. Così, già il mattino del quindicesimo giorno, il sovrano di Fecian, la nubenda figlia e i dignitari di corte invitati si erano messi in viaggio per Midosia, dove erano attesi per la celebrazione dei due grandi eventi. Durante la cerimonia delle nozze, il re Tolep ci aveva tenuto che i Midosiani apprendessero che esse erano state volute da lui per ripristinare i vincoli di amicizia che esistevano un tempo fra i loro due popoli. Quando poi i festeggiamenti erano terminati, era voluto ritornare alla sua città. Prima di partire, aveva ritirato da Midosia il presidio militare che Arkust vi aveva lasciato dopo l'assedio.

Erano trascorsi otto mesi, quando il sovrano di Fecian aveva inviato a Midosia tre messaggeri con l'incarico di incontrarsi con i suoi regnanti, siccome desiderava conoscere da loro la data presumibile della nascita di suo nipote. Ma in quel luogo essi si erano trovati di fronte ad una realtà che non si aspettavano, dovuta al fatto che il principe Efur, divenuto poi re, non era stato leale con Arkust e gli aveva mentito in tutto. Per questo, dopo le nozze e dopo che ogni presenza feciana era venuta meno nella sua città, in preda alla sua brama di vendetta, aveva iniziato a prendersela con la sua fresca sposa. Pur essendo contrario il capo dell'esercito Klaup, il quale era anche il suo consigliere militare, per prima cosa egli non aveva concesso la sua prima notte a colei che era appena diventata la propria consorte. Anzi, l'aveva consegnata ad una decina dei suoi soldati, affinché la deflorassero e la stuprassero in ogni modo possibile; dopo, però, avrebbero dovuto chiuderla in una cella buia e metterla a pane e acqua fino alla fine dei suoi giorni. Invece la sventurata regina Ures, pur essendo andata incontro ad otto mesi di stenti e di tribolazioni, era ugualmente sopravvissuta. Inoltre, per essere rimasta incinta durante la violenza carnale dei suoi stupratori che c'era stata nella prima notte di matrimonio, adesso si ritrovava con una gravidanza avanzata, la quale faceva prevedere un parto plurigemellare.

Quando i messaggeri feciani si erano fatti ricevere dal sovrano di Midosia e gli avevano riferito quanto il loro sovrano voleva sapere, egli, con spudoratezza, aveva risposto loro:

«Tra poco ve lo farò dire dalla stessa mia consorte a che punto è la sua gestazione. Perciò adesso mando a chiamarla. Così potrete chiedere direttamente a lei quando il nascituro verrà alla luce.»

Subito dopo, con un cenno della mano, aveva ordinato a due guardie di andare a prelevarla dalla sua cella e di condurla in loro presenza. Quando ciò era accaduto, ci si era trovati davanti ad una donna ridotta quasi pelle e ossa, con un addome ingrossato e quasi deformato, del tutto scarmigliata e disadorna, con due occhi scavati, i quali parevano scomparire all'interno delle ossute orbite. Inoltre, il suo portamento si presentava malfermo e traballante. Alla sua apparizione, il più autorevole dei messaggeri si era affrettato a domandare al sovrano midosiano, il quale non sembrava affatto né meravigliarsene né curarsene:

«Possiamo sapere, re Efur, chi è costei? E perché mai è ridotta in tale stato defedato, che non la fa neppure riconoscere?»

«È la figlia del tuo presuntuoso re, messaggero feciano. Chiedile quando partorirà i bastardi suoi figli, i quali dovrebbero essere più di uno, forse tre. Ma sono certo che essi non verranno mai alla luce, siccome nel giorno di domani la madre cesserà di vivere.»

«Re Efur, noi non comprendiamo quanto stiamo vedendo ed ascoltando. Come mai la tua regina si trova nella situazione in cui ci appare? Ma perché definisci bastardi quelli che dovrebbero essere i tuoi figli legittimi? Vuoi spiegarci ogni cosa su questa strana vicenda?»

«Dovete sapere, messaggeri feciani, che non ho mai né tollerato né dimenticato la fine che il vostro sovrano ha fatto fare a mio padre. Per cui ho deciso di vendicarmi contro sua figlia Ures. La notte delle nozze non sono stato io a sverginarla, poiché non ho voluto neppure sfiorarla con un dito. Infatti, l'ho consegnata a dieci miei soldati, perché la possedessero per l'intera nottata. Trascorsa la quale, ella è stata rinchiusa in una buia cella, dove è rimasta fino a quest'oggi e dove è stata mantenuta in vita con solo pane ed acqua. Nonostante ciò, alcuni mesi dopo è risultata gravida. Come vi rendete conto, i bastardi gemelli che porta nel suo grembo, i quali non verranno mai partoriti dalla loro madre, non sono miei; ma essi sono da considerarsi figli di padri ignoti, che non conosceranno mai la luce.»

«Re Efur, qual è il significato delle tue parole, quando dici che ai feti non verrà data la possibilità di diventare bambini e di nascere? Di grazia, vorremmo che tu ce lo spiegassi.»

«La spiegazione è molto semplice, messaggeri. La donna, che un giorno mi fu imposta come moglie con la forza, domani verrà esposta al pubblico ludibrio e sarà sottoposta alla pena capitale nella piazza principale di Midosia. Con lei periranno anche i suoi nascituri. Così dopo voi andrete a riferire al suo genitore che la mia vendetta, come è stata covata in me fin dall'inizio, domani sarà completata. Essa coinvolgerà anche tutti i miei sudditi.»

Il giorno dopo, la regina Ures era stata condotta a piedi al patibolo e giustiziata mediante impiccagione. Ma prima di giungervi, una folla imbestialita l'aveva spintonata, le aveva sputato addosso e le aveva vomitato contro gli insulti più volgari. Infine, dopo che la poveretta aveva esalato l'ultimo respiro, la sua salma era stata liberata dal capestro e tirata giù per essere decapitata, privata degli arti e data in pasto ad una muta di cani inferociti. Allora, dopo avere assistito a tanto incredibile scempio, i tre messaggeri feciani erano ritornati inorriditi nella loro città. In quel luogo si erano presentati al loro sovrano e gli avevano fatto una narrazione circostanziata di ogni atto perpetrato ai danni della figlia dal suo sposo e dal popolo midosiano, essendone stati i testimoni oculari. Al loro racconto era presente anche Arkust. Egli si era indignato più del padre della vittima, per non aver previsto quanto lo schizofrenico principe Efur si era tenuto nascosto dentro, facendolo in seguito esplodere con la massima ferocia contro una giovane che non aveva alcuna colpa. Perciò, non appena il suo sovrano aveva congedato i tre messaggeri, egli, con la rabbia negli occhi, si era dato a lamentarsi con lui e ad imprecare contro tutti i Midosiani, gridando forte:

«Che siano tutti stramaledetti gli abitanti di Midosia, a cominciare dal loro viscido sovrano! Re Tolep, fino a quando l'offesa da te subita e l'ingiusta punizione ricevuta da tua figlia non saranno lavate col sangue, non riuscirò più a trovare pace nel mio animo! Quindi, segua la nostra vendetta alle scelleratezze del tuo indegno genero, la quale dovrà accanirsi anche contro la sua città e punire l'intera popolazione midosiana!»

«La tua collera e ogni tua minaccia sono anche mie, Arkust, per avere i Midosiani umiliata e punita in maniera barbara la povera mia figliola. Per questo do a te mandato perché, nel giro di trenta giorni, Midosia venga espugnata e rasa al suolo, dopo che anche l'ultimo dei suoi abitanti sarà stato massacrato dal nostro esercito. Che si compiano, dunque, la nostra ritorsione e la nostra azione vendicativa contro quanti si sono macchiati di un delitto così atroce ai danni di mia figlia Ures, morta, in un certo senso, anche per colpa mia!»

Così, in capo ad un mese, Arkust era riuscito a ricostituire la precedente armata e a condurla di nuovo sotto le mura di Midosia, cingendola d'assedio. Ma egli, servendosi dello stesso espediente della volta scorsa, l'aveva fatta espugnare dai suoi soldati senza colpo ferire. Ad espugnazione avvenuta, con un manipolo dei suoi uomini aveva raggiunto la reggia, dove aveva fatto una grande strage delle guardie reali, le quali avevano cercato di sbarrargli il passo e di non farli avvicinare al loro sovrano. Quando poi aveva acciuffato il re Efur, Arkust prima lo aveva strozzato con le proprie mani, poi lo aveva decapitato e infine gli aveva troncato i quattro arti. Ossia, aveva operato sul suo corpo lo stesso scempio a cui lo scellerato monarca aveva voluto che sottoponessero la salma della moglie, dopo averla fatta impiccare. Soltanto dopo essersi vendicato di lui, egli aveva dato ordine ai suoi soldati di annientare l'intera popolazione di Midosia e di mettere a ferro e fuoco la loro città. Ma era convinto che il fuoco e il tempo avrebbero fatto il resto: il primo avrebbe raso al suolo ogni suo edificio, mentre il secondo l'avrebbe cancellata dalla memoria di ogni essere dotato di intelligenza.

Il ritorno di Arkust a Fecian era stato salutato dall'intera popolazione con somma gioia; anzi, essa lo aveva accolto come un vero trionfatore e gli aveva tributato elogi, lodi ed onori. Non erano mancati quelli che lo avevano considerato un grande eroe, degno della massima apoteosi ed avevano affermato che la sua memoria doveva restare per secoli indelebile nella coscienza del popolo feciano. Né il sovrano la pensava in modo diverso. Perciò, quando a corte se l'era visto davanti, gli era andato incontro e lo aveva abbracciato, dandosi a parlargli in questo modo:

«Grazie, Arkust, per aver vendicato mia figlia Ures, come noi due avevamo concordato! Da oggi ella potrà trascorrere in pace il suo tempo nel regno dei morti, poiché la sua morte orridamente bistrattata è stata vendicata con la massima durezza. Ciò, dopo che il nostro esercito ha trucidato l'intero popolo midosiano, il quale le aveva fatto patire tanti vili oltraggi, prima di sottoporla al capestro e di straziare il suo corpo nella maniera più barbara possibile.»

«Ho fatto quanto era giusto fare, mio sovrano. Non potevamo permettere al re Efur e al suo popolo di passarla liscia, dopo essersi resi colpevoli di un delitto così nefando nei confronti di tua figlia. Adesso soltanto possiamo ritenerci soddisfatti, per averle reso giustizia! I ruderi della loro città e i loro scheletri spolpati, che resteranno disseminati in ogni sua via, testimonieranno per sempre la loro malvagità e le atrocità inflitte alla tua nobile figlia.»

«Ben detto, Arkust! Adesso, però, i Feciani hanno bisogno ancora di te, dopo che hai sterminato i loro nemici. I quali avevano rifiutato di ridiventare loro amici, come lo erano stati un tempo, quando si godevano l'amicizia nella serenità e nella gioia più assolute.»

«Mi dici, mio sovrano, di cos'altro necessitano i miei concittadini? C'è forse ancora qualcosa che si oppone alla loro felicità e li fa vivere nella trepidazione? Voglio saperlo.»

«Certo che c'è, Arkust! Ma tu non puoi saperlo perché non sei vissuto in Fecian dalla nascita; anzi, non è trascorso neppure un anno da quando ci vivi. Occupato come sei stato a seguire la vicenda dei Midosiani, facendola smettere di essere un nostro problema, non c'è stato il tempo di informarti della nuova complessa questione, la quale attanaglia il nostro popolo. Sono certo che tu potresti risolvercela, se te ne incaricassi.»

«Allora, mio re, cosa aspetti a parlarmene, visto che già non vedo l'ora di privare il mio popolo di quanto da tempo continua a rendergli l'esistenza fitta di terribili pensieri?»

«Ebbene, Arkust, adesso ti metto al corrente della nuova amara realtà, la quale tiene imbrigliato il nostro popolo, che è impotente ad opporsi ad essa, non avendo i mezzi per farlo. Ma adesso, smettendo di divagare oltre, vengo subito al nocciolo della questione, che riguarda il mostro Tuspuz. Questo essere mostruoso, anche se la sua complessione potrebbe somigliare molto a quella di un drago, se ne differenzia invece per le seguenti caratteristiche: corporatura quadrupla, se paragonata a quella di tale animale; assenza di ali, per cui non vola; è tricefalo, avendo tre teste, che non emettono fuoco dalle fauci; il suo alito è pestifero, oltre che venefico, siccome riesce a soffocare e a tramortire qualunque persona od animale che gli si trova distante entro i dieci metri. Per questo lo si può uccidere, unicamente standogli oltre tale distanza.»

«Posso sapere, re Tolep, dove si trova questo mostro dal corpo spropositato e in che modo esso si dà a fare strage dei nostri concittadini? Inoltre, voglio che mi si faccia apprendere ogni quanto tempo avvengono le sue cruente scorrerie, cioè se sono giornaliere, settimanali o mensili, ammesso che le sue apparizioni non siano acicliche. Mi sarebbe anche utile conoscere se le medesime infuriano di giorno oppure di notte.»

«Arkust, da una infinità di tempo, tra i Feciani si è sempre saputo che Tuspuz trascorre i suoi giorni e le sue notti nel bosco che si trova a nord, a dieci miglia dalla nostra città. La sua dimora è costituita da una immensa spelonca, forse profonda più di trenta metri, la quale si addentra nel fianco dell'unica collina esistente in quel luogo. Quando decide di sfamarsi, la qual cosa avviene sempre nelle ore diurne, un mese dopo che c'è stata la precedente irruzione, esso esce dalla sua buia cavità e si dirige verso la nostra città. Una volta che l'ha raggiunta, abbatte un pezzo delle mura con i suoi arti anteriori, tirandolo giù dalle fondamenta e vi penetra con furia assassina. Allora ogni Feciano si mette a scappare per non trovarsi a quella distanza dal mostro che lo immobilizzerebbe, pur senza venirne preso. Comunque, quando gli capita, il mostruoso bestione abbranca tre nostri concittadini alla volta, poiché ogni sua testa deve averne uno nella propria bocca, li azzanna e li divora.»

«Se le cose stanno come mi hai raccontato, mio sovrano, domani stesso andrò a caccia del mostruoso assassino dei Feciani. Una volta che lo avrò scovato, non gli permetterò più di fare strage di loro. Ti prometto che presto avrai le sue tre teste, siccome gliele amputerò l'una dopo l'altra, dopo che avrò finito di privarlo dell'esistenza.»



L'indomani, come promesso al proprio re, Arkust, montato in groppa al suo cavallo, si era dato a cavalcare alla volta del bosco, dove, secondo quanto gli era stato assicurato, avrebbe avuto modo di imbattersi nell'enorme e temibile creatura mostruosa. Così vi era arrivato, dopo una celere corsa, la quale era durata un quarto d'ora. Giunto nella zona boschiva, egli si era messo alla ricerca del modesto rilievo, poiché la caverna di Tuspuz, il divoratore di uomini, si trovava alla sua base, precisamente sul suo fianco che era esposto a mezzogiorno. Pervenuto davanti al suo ingresso, Arkust innanzitutto aveva cercato di concertare un programma d'azione, il quale avrebbe dovuto fargli affrontare il mostro all'aperto, prevedendo che nel buio della sua spelonca per lui sarebbe stato molto duro impegnarsi con esso in un'ardua lotta. Al suo interno, infatti, non avrebbe potuto difendersi neppure dalle sue insidie esiziali. Allora aveva stabilito di farlo uscire allo scoperto, prima di ingaggiare l'aspro combattimento contro il suo avversario. Ma era stato il suo odore graveolente e nauseabondo a fargli rilevare la sua presenza all'interno di essa, visto che ne veniva fuori e si espandeva in ogni direzione.

Poco dopo Arkust si andava chiedendo quale marchingegno escogitare per costringerlo ad uscire dal suo covo e per affrontarlo alla luce del sole. Allora aveva pensato che sarebbe bastato del fumo al suo interno per allarmare chi vi stava trascorrendo le sue ore di riposo. Difatti non aveva avuto torto a ragionare in quel modo. Dopo avere acceso del fuoco all'imbocco dell'ampia caverna, servendosi di legna secca, dopo vi aveva gettato sopra dei rami verdi per produrre abbondante fumo. Così una parte di esso era penetrata pure dentro la profonda cavità. Per cui il suo abitatore, non appena ne aveva avvertito l'odore, immediatamente si era risolto ad abbandonare la sua dimora ed aveva iniziato a rinculare per uscirne. La sua gigantesca mole, infatti, non poteva permettergli di rigirarsi dentro la caverna per uscirne con le tre teste in avanti.

Il suo rinculo era durato all'incirca due minuti, ossia finché il suo corpo non si era ritrovato ad essere per intero all'esterno dell'antro, dove il mostro si era fatto conoscere con le sue reali caratteristiche. Oltre a quelle già apprese dal re Tolep, Arkust aveva potuto constatare che altre, da considerarsi pure significative, adesso potevano essere visionate da lui di persona. Perciò aveva appurato che i colli delle sue teste erano massicci e potenti, ma non molto lunghi; mentre la sua lunghezza poteva aggirarsi intorno ai trenta metri, compresi i cinque metri di coda. Dei quattro arti, di cui il mostro era fornito, quelli posteriori gli servivano per appoggiarsi sopra, quando assumeva la posizione eretta. Invece usava quelli anteriori, poco più piccoli, per abbrancare le sue prede o per agire su cose, quando si prefiggeva di rovinarle e di abbatterle. In quel caso, prima le tirava verso di sé e poi le scagliava assai lontano. Nella posizione indicata, essi venivano a trovarsi a venti metri di altezza.

Il confronto fra Arkust e Tuspuz era cominciato, subito dopo che il mostro aveva scorto sul suo cavallo colui che considerava un intruso, per aver egli violato il suo territorio. Alla vista del quadrupede equino e del cavaliere che lo montava, il mostro aveva assunto la posizione eretta. Dopo, intanto che gli arti superiori si agitavano frenetici, le sue teste avevano iniziato ad emettere dalle loro fauci il loro fiato tossico. Il quale aveva la funzione di far perdere i sensi agli esseri animali e alle persone che si trovavano nel suo raggio d'azione, per poi passare a divorarseli. Invece Arkust stava molto attento perché non vi capitasse, volendo evitare di fare da suo pasto prelibato. Ma oltre a non distrarsi, il percus si era armato del suo arco e con esso si diede a lanciare sei saette. Allora esse, l'una dopo l'altra, penetrate nelle cavità orbitarie, erano andate a colpire le tre coppie di pupille. Egli era riuscito a centrare i bersagli, nonostante l'agitato movimento delle teste, perché aveva potuto dirigerle con la mente e farle arrivare a destinazione senza alcun problema.

Essendo rimasto cieco, il mostruoso Tuspuz, a causa del suo grave stato fisico che gli evitava di concentrarsi, aveva fatto cessare l'uscita dalle sue fauci il tossico che privava della coscienza gli altri esseri animali. Oramai la cecità rendeva il mostro sprovvisto di un'azione capace di offendere e di difendersi. Da parte sua, Arkust ne aveva approfittato per infilzarlo più volte con la sua spada ed ucciderlo, troncandogli infine le tre teste dal busto. Al termine di tale triplice decapitazione, servendosi di tre ceste legate al basto di un mulo, egli le aveva portate in città e le aveva consegnate al suo sovrano. Prima di raggiungerlo, molti suoi concittadini le avevano scorte e se ne erano spaventati. In pari tempo, avevano gioito dell'uccisione del mostro Tuspuz ed avevano inneggiato al loro eroico campione suo uccisore, fino a quando egli non era pervenuto alla reggia. Ma a corte, il re Tolep non aveva voluto essere da meno dei suoi sudditi nel ringraziare e nell'elogiare colui che oramai era diventato l'eroe decantato di Fecian. Non appena se lo era trovato davanti, gli occhi gli si erano riempiti di sommo giubilo. Un istante dopo, si era dato ad abbracciarselo fraternamente e ad esprimerglisi con queste parole:

«Sbagliai ogni cosa, Arkust, quando decisi di far sposare mia figlia Ures con il perfido re Efur. Invece avrei dovuto darla in moglie a te, che la meritavi più di ogni altro mio suddito. Nessuno più di te l'avrebbe resa molto felice. Inoltre, non avendo io un erede maschio, mi saresti succeduto sul trono di Fecian, la qual cosa avrebbe allietato l'intero popolo feciano. Tra poco darò ordine al tesoriere di corte di mettere a tua disposizione tutte le monete d'oro che vorrai.»

Arkust, oltre a commuoversi alle parole del suo sovrano, anziché rispondergli in qualche modo, aveva preferito non pronunciare alcuna parola, per cui si era congedato da lui nel più pieno silenzio. In seguito, venuto in possesso delle monete d'oro, che il re Tolep gli aveva messo a disposizione in gran quantità, egli generosamente aveva voluto distribuirle alle famiglie feciane che risultavano in quel momento le più indigenti della sua città. Ma il destino aveva evitato di essergli grato, come egli lo era stato con i suoi concittadini. Durante un temporale, mentre si riparava dalla pioggia sotto un albero, essendo stato raggiunto da una folgore, ne era rimasto fulminato. Allora tutti quanti i Feciani avevano pianto la sua morte e ne avevano onorato la salma con un solenne rito funebre. Infine avevano preso la decisione di erigergli un grandioso monumento commemorativo nella piazza principale, affinché la sua memoria giammai tramontasse nella loro città e nelle loro menti.

CAPITOLO 456



IVEONTE CONQUISTA LA PARTE DI POTERE COSMICO DI ARKUST



Quando ebbe terminato di raccontare la storia dell'eroico Feciano, Tupok, che era stato il Signore del Potere Cosmico, domandò all'umano proveniente dal remotissimo pianeta Geo:

«Iveonte, dopo quanto hai ascoltato da me su Alkust, adesso te la senti di competere con chi dovrà esserti il primo rivale nella tua temeraria impresa? Oppure egli ti ha infuso qualche timore, per cui saresti quasi disposto a tirarti indietro per non affrontarla più?»

«Di sicuro starai scherzando, Tupok, se mi parli in questo modo! Allora sappi che neppure la morte mi farebbe recedere da quanto mi sono proposto di fare, pur di impadronirmi del Potere Cosmico! Anche perché tutti i Materiadi, compresa la razza umana, sparirebbero da Kosmos, se io non portassi a termine la missione che mi è stata affidata dalle due divinità più prestigiose esistenti nel Regno della Materia e del Tempo. Esse, come sai, nutrono verso di me quella fiducia che giammai concederebbero a qualche altro Materiade dell'universo. Del resto, anch'io pongo una illimitata ed assoluta fiducia nella mia buona stella, circa l'esito di questa mia nuova impresa, che sto per affrontare. La mia riuscita nella quale avvantaggerà anche te, Ullioz di Animur e le undici Sortici di Landipur, come già ti ho fatto presente.»

«Ti comprendo, Iveonte. Perciò scusami, se poco fa ho osato mettere in dubbio quelle che sono le tue straordinarie doti. Comunque, prima che tu ti dia ad affrontare i cinque Guardiani del Potere Cosmico, desidero chiarirti cinque cose, le quali riguardano il mio regno.»

«Allora affréttati a parlarmene, Tupok, in modo che io abbia anche la conoscenza di quelle notizie, che non mi hai ancora date su Potenzior. Suppongo che esse debbano essere di una certa importanza, se è tuo desiderio parteciparmele. Non è forse questa la verità?»

«Siccome non ti sbagli, Iveonte, eccomi a fartele conoscere. Sono varie le informazioni relative a Potenzior, di cui devo ancora metterti al corrente. In primo luogo, sappi che qui, non essendoci la forza di gravità, puoi muoverti in esso anche attraverso lo spazio. Ossia ti è consentito di volarvi, pur non essendo tu provvisto di un paio d'ali. Ovviamente, ti occorrerà parecchia pratica, prima di assuefarti al volo e di familiarizzare con esso. In merito al quale, ti rendo noto che tutti i tuoi prossimi rivali possiedono già molta dimestichezza nella pratica del volo. Spesso essi vi si applicano e gareggiano a chi di loro sa esibirsi in acrobazie migliori. Perciò, essendo tu del tutto digiuno di tale pratica, sono sicuro che ti troverai in grande difficoltà nel rivaleggiare con loro cinque.»

«Questo è da vedersi, Tupok! Al posto tuo, non ne sarei così convinto. Comunque, dovrai abituarti ad attenderti da me ogni tipo di sorpresa, inclusa quella che non immagineresti mai! Perciò adesso lo sai!»

«Allora, se mi esorti a non preoccuparmi di questo problema, buon per te, Iveonte! Intanto vado avanti a riferirti le restanti cose, che hai bisogno di apprendere. Una delle quali riguarda il modo di raggiungere il luogo dove i Guardiani del Potere Cosmico, ognuno per proprio conto, trascorrono la loro esistenza. A tale riguardo, ti annuncio che in seguito sarà il cavallo alato Russet, dopo che lo avrai montato, a condurti da ciascuno di loro, perché tu lo affronti, lo sconfigga e lo privi della parte di Potere Cosmico in suo possesso. Tra poco esso si presenterà a te e tu lo inviterai a condurti presso Arkust. Costui, come già sai, è il guardiano che affronterai per primo. Un'altra cosa che devi sapere è la seguente: dopo ogni guardiano che riuscirai a debellare, dovrai farti riportare da Russet in mia presenza. Difatti mi toccherà parlarti della vita del successivo guardiano che dovrai sfidare. In riferimento alla quarta cosa, ti rendo noto che, sebbene tutti e sei appartenete a mondi differenti, in Potenzior, quando vi parlate, non avete difficoltà a comprendervi, come se parlaste la stessa lingua. Con l'ultima cosa, invece, ti metto al corrente che ogni volta, per impadronirti della parte di Potere Cosmico in sua custodia, dovrai uccidere il guardiano da te sfidato. In relazione a ciò, ti rammento che egli, risultando immortale nel mio regno, dopo la sua uccisione, non morirà, poiché la sua morte apparente avrà la durata di appena tre minuti. Al suo ritorno alla vita, però, il guardiano sarà all'oscuro del fatto che non possiede più la sua parte di Potere Cosmico. A questo punto, avendoti detto ogni cosa, ti lascio al tuo destino.»

Il Signore di Potenzior ebbe appena finito di parlare, allorquando giunse dall'alto Russet, il bianco cavallo alato annunciato da Tupok. Alla sua apparizione, Iveonte all'istante gli saltò in groppa e gli ordinò: “Conducimi da Arkust!” La bestia, senza farselo ripetere una seconda volta, in un attimo si sollevò da terra con il suo cavaliere e si inabissò nello spazio. Il quale si espandeva sopra di loro immenso e profondo; ma nello stesso tempo infondeva in chi lo attraversava un senso di serenità e di pace. Il cavallo si diede a correre ad una velocità inverosimile, quella che mai ci si sarebbe aspettata dal quadrupede, benché avesse le ali. Ma Iveonte non ne veniva impressionato, essendo abituato a sfrecciare in Kosmos perlomeno dieci volte più celermente. Quando infine la corsa spaziale di Russet ebbe termine, il giovane terrestre si ritrovò davanti ad un essere umano, le cui caratteristiche somatiche lo facevano differenziare alquanto da lui. Colui che gli stava di fronte, aveva una statura che superava di poco i due metri, mentre la sua pelle tendeva al grigio scuro. La sua testa si mostrava con due orecchie, che gli pendevano fino a metà collo e presentava un naso quasi schiacciato. In riferimento alla sua volta cranica, oltre ad essere calva, era cosparsa qua e là di bitorzoli, i quali erano sgradevoli alla vista. Comunque, il suo corpo appariva ben strutturato, per cui era da considerarsi abbastanza robusto e atletico.

La presenza dello sconosciuto, che per lui era un intruso, all'istante rese Arkust sospettoso. Perciò, mentre Iveonte scendeva dal cavallo alato, egli si mise sulla difensiva, senza mai allontanare i propri occhi da lui. Il motivo? Il suo nuovo visitatore, non essendo uno dei Guardiani del Potere Cosmico, gli faceva chiedere perché mai vi fosse giunto e quali fossero le ragioni che ve lo avevano spinto. Da parte sua, l'eroe terrestre, dopo essersi trovato dritto davanti a lui, prima gli diede una rapida sbirciata e poi pacatamente gli si rivolse con queste parole:

«Se Russet ha posto fine alla sua corsa qui davanti a te, sono sicuro che puoi essere soltanto Arkust, uno dei Guardiani del Potere Cosmico. Invece il mio nome è Iveonte e provengo dal pianeta Geo. Esso orbita intorno alla stella Elios, nella remota galassia di Lactica.»

«Mi dici, Geone, a che devo l'onore della tua presenza nella porzione di Potenzior, che viene da me controllata? Mi interessa saperlo subito, ossia prima di intavolare con te una discussione, sperando che sia utile.»

«Innanzitutto, Arkust, avendoti già reso noto il mio nome, esigo da te che usi quello, quando mi parli, come io già adopero il tuo nel rivolgermi a te. Non mi dire che preferiresti che io ti chiamassi Oluozide! Perciò, considerato che abbiamo dei nomi, usiamoli, quando ci parliamo e discutiamo insieme. Sarebbe da sciocchi non farlo, da parte nostra!»

«Il tuo messaggio è stato abbastanza chiaro, Iveonte. In seguito cercherò di rammentarmene. Ma ora vuoi rispondere alla mia precedente domanda, dicendomi il motivo della tua venuta presso di me?»

«In verità, Arkust, la mia risposta non ti risulterà gradita; però non posso fare a meno di dartela, poiché essa ti rivelerà il motivo che mi ha condotto nel regno di Tupok! Per cui vengo subito al dunque. Sono in Potenzior per impossessarmi dell'intero Potere Cosmico, il quale mi occorre per porre termine ad una grande calamità che minaccia Kosmos nella sua totalità. Se essa continuasse ad averla vinta, come sta succedendo fino ad oggi, non esisterebbero più perfino Potenzior, il mio pianeta e il tuo. Solamente il Potere Cosmico, se viene a trovarsi nelle mani di un solo Materiade, può sconfiggerla e riportare al precedente stato le parti di Kosmos, che ora vengono danneggiate o distrutte dalla calamità a cui mi sono riferito. Perciò fattene una ragione, se vuoi ascoltare il mio consiglio, non potendo tu farci niente!»

«Ti hanno messo al corrente, Iveonte, che noi Guardiani del Potere Cosmico ci troviamo qui per far sì che tale potere resti sempre frazionato e che mai nessun Materiade ne venga in possesso nella sua totalità? Per questo motivo, ciascuno di noi non cederà mai la propria parte a nessuno con facilità, poiché è nostro dovere difenderla con tutte le nostre forze, a costo di ritornarcene a fare i non-viventi nella tomba, dalla quale siamo stati richiamati alla vita. Adesso che lo sai, datti tu una regolata!»

«Certo che sono a conoscenza della vostra missione, Arkust! Io, però, ho il dovere di compiere quella mia, la quale mi obbliga ad impadronirmi dell'intero Potere Cosmico. Anche se per farlo dovrò lottare contro coloro che lo custodiscono, affrontandoli l'uno dopo l'altro a singolar tenzone. Perciò dovrò fare in modo che ciascuno di voi fallisca nella propria missione. Ecco come stanno le cose! Quindi, cosa mi dici, a tale proposito?»

«Adesso che ho appreso le ragioni della tua venuta in Potenzior, Iveonte, mi viene solo da compatirti, siccome pretendi di pigliare la luna nel pozzo! Ma sei a conoscenza che, per riuscirci, dovrai ucciderci tutti e cinque, che rappresentiamo i più grandi eroi di Kosmos? Tupok ci ha scelti per questo motivo; anzi, è venuto perfino a resuscitarci nella tomba, visto che eravamo già morti e sepolti da secoli o da millenni. Allora credi di potercela fare con le sole tue forze? Probabilmente ti passerebbe la voglia di provarci, se tu conoscessi la storia di ognuno di noi!»

«Per il momento, ho conosciuto la tua, Arkust, che sei il primo guardiano che devo sfidare ed affrontare. Ma non credo che esso mi abbia spaventato così tanto, da farmi riconsiderare quanto mi sono proposto di attuare in questo regno, inducendomi così a rinunciarvi. Pure tu ora lo hai compreso, poiché mi vedi qui intenzionato ad estorcerti la parte di Potere Cosmico, che il Signore di Potenzior ha posto nelle tue mani.»

«Staremo a vedere, Iveonte, se alle chiacchiere saprai far seguire i fatti; ma ne dubito. Anche se mi sembri un giovane in gamba che sa il fatto suo, lo stesso non avrò difficoltà ad eliminarti con il solo mio arco e a sopprimerti con un dardo. Per il momento, però, preferisco divertirmi con te, ricorrendo ad altri mezzi, con i quali sono sicuro che ti metterò in grande difficoltà. A proposito, perché non ci facciamo una bella volata nello spazio, considerato che in Potenzior essa ci è permessa? Suvvia, fammi vedere come te la caverai a volare nel cielo di questo luogo!»

Fatto il suo invito a chi già considerava un rivale, all'istante Arkust sfrecciò verso l'alto del cielo e scomparve nel suo spazio infinito. Subito dopo, però, ne ritornò esultante. Poi, restando immobile ad una decina di metri di altezza, si diede a pizzicarlo con queste frasi:

«Come! Sei ancora lì, senza aver fatto ancora neppure un saltello? Avrei dovuto immaginarmelo che il volo non era roba per te, non avendo tu mai volato in vita tua. Invece io e gli altri quattro guardiani abbiamo molta dimestichezza con esso, per cui siamo in grado di fare nello spazio tutte le diavolerie di moto che vogliamo. Perciò adesso riparto e vado a farmi la mia nuova passeggiata da esperto volatile. Quando io sarò di ritorno, non te ne accorgerai nemmeno. Allora, approfittando di quel momento, potrei farti ogni cosa che sarebbe di mio gradimento. Invece, con grande generosità, mi limiterò a darti soltanto uno schiaffetto sul volto, per non avere ancora stabilito di eliminarti.»

Pronunciate quelle parole, con le quali aveva esternato di avere molta fiducia in sé, Arkust si rialzò in volo per scomparire nell'immensità del cielo. Mentre vi era lanciato a tutta corsa, volendo far passare un po' di tempo, ad un certo punto, egli si sentì prendere per i piedi e trascinare via in una direzione diversa. In quell'istante, venendo tirato in senso contrario, rispetto alla sua visione anteriore, i suoi occhi non riuscivano a scorgere colui che se lo stava tirando dietro. Soltanto quando il trascinatore del suo corpo stoppò il proprio volo e gli permise di guardarlo in faccia, egli, con grande stupore, vide davanti a sé Iveonte. A quella visione inaspettata, non si astenne dal fare il seguente commento:

«Ah, sei stato tu, Iveonte, a dirottare la mia volata! Ed io che ti ritenevo inesperto del volo! Invece, a quanto pare, nel volare superi me e gli altri Guardiani del Potere Cosmico, se sei riuscito ad agire nei miei confronti, come hai fatto poco fa. Allora possiamo anche ritornarcene sulla terraferma e confrontarci sulla sua superficie in altri agoni. Ma non illuderti di primeggiare anche in essi, come ti è riuscito benissimo nell'arte del volo, facendomi restare di stucco!»

«Perché dovrei illudermi di fare una cosa, Arkust, quando invece ho la matematica certezza che essa è nelle mie possibilità, avendo la piena padronanza per ottenerla con la massima facilità? Presto ne prenderai atto. Allora ti accorgerai che neppure le tue doti di percus non ti serviranno, quando cercherai di mettermi fuori combattimento.»

«Questo lo appureremo tra poco, Iveonte. Come vedo, il Signore del Potere Cosmico ti ha messo anche al corrente che sono un percus, dicendoti ogni cosa sul mio personaggio. Adesso, però, cerchiamo di atterrare dove ci siamo incontrati, perché è lì che ci batteremo.»

Così, in poco tempo, essi, mediante un planamento finale, raggiunsero il suolo. Ma vi posero piede con la consapevolezza che li attendeva una durissima lotta, che avrebbe avuto come obiettivo il possesso della prima delle cinque parti in cui risultava diviso il Potere Cosmico. La quale adesso si trovava nelle mani di uno dei cinque Materiadi più eroici di Kosmos, siccome gli era stata assegnata da Tupok, il Signore di Potenzior. Si trattava appunto dell'Oluozide Arkust, il guardiano numero uno che Iveonte si accingeva ad affrontare nella nuova realtà.



Una volta avvenuto l'atterraggio sul solido terreno, i due esperti volatori ritornarono a stare l'uno di fronte all'altro. A quel punto, fu l'eroe feciano a mettere mano alla favella. Perciò disse al suo interlocutore:

«Ora vediamo, Iveonte, se sei bravo anche a dimostrare che le tue affermazioni non sono vanti dell'immodestia e di un diritto fasullo, ossia campato in aria. Al contrario, esse poggiano su basi solide e sicure, senza crogiolarsi in meriti infondati ed insussistenti.»

«Sono qui, Arkust, proprio per convincerti con i fatti che non parlo a casaccio. Per questo, per tua disgrazia, sarai il primo guardiano ad assaggiare la mia valentia e a soccombere sotto il peso delle mie azioni devastatrici. La qual cosa ci sarà, anche nel caso che tu intenda far uso dei poteri che ti provengono dall'essere un percus. So benissimo che avrò contro un guerriero formidabile del tuo calibro, per cui godi la mia stima e il mio elogio. La tua preparazione, però, anche se è stata ottenuta in te dal tuo maestro in modo inappuntabile, non ti permetterà di essere vincente nei miei confronti. Chi ti parla sa ciò che dice e presto te ne darà la più ampia dimostrazione.»

Alla risposta del suo rivale, Arkust, avendo deciso di attaccarlo, evitò di ribattere e di protrarre oltre il loro combattimento. Anche perché in quel momento fremeva per la fortissima ansia di scontrarsi con lui e di rintuzzare così la sua superbia e la sua improntitudine, che, considerandole senza pari, mal tollerava. Allora, astenendosi da ogni preambolo di manifesta minaccia, si armò della spada e lo assalì, tentando di farlo con tempestosa irruenza. Ma Iveonte non lo lasciò agire, standosene inerme e senza far niente. Come reazione, egli, essendo intenzionato a neutralizzarla, dovette assecondarlo all'istante, opponendo ad essa una barriera schermistica di alto livello. Di conseguenza, l'impetuoso e tumultuoso scontro che ne derivò risultò all'altezza della situazione, siccome i due contendenti ebbero modo di dare già il primo assaggio della loro preparazione stabile ed irreprensibile sotto ogni punto di vista. Entrambi, infatti, volevano dare il meglio di sé stessi, pur di non andare incontro ad un insuccesso clamoroso. Il quale avrebbe tradito la loro immagine, bistrattandola nella maniera che non meritavano. Ecco perché quel loro obiettivo andava tutelato con tutte le loro forze, senza farlo cadere nel crepaccio della disfatta. Altrimenti, con essa, sarebbe perito pure il loro onore, che non era stato mai violato da nessuna sconfitta. Per questo intendevano continuare a farlo restare tale sino alla fine naturale della loro esistenza, come avevano sempre stabilito che fosse.

Quindi, dopo il loro iniziale muro contro muro, il quale aveva avuto una durata lampo, Iveonte ed Arkust, tenuto conto della loro scherma indefettibile, stabilirono di darsi ad uno studio reciproco e valutare le possibilità dell'avversario in campo schermistico. Solo così avrebbero appurato fin dove potevano esagerare ed assicurarsi la vittoria, magari correndo qualche rischio. Ma non era facile calcolare la giusta valutazione del loro avversario e fare affidamento su di essa per batterlo con minori probabilità di insuccesso, considerata l'evidente sua bravura. La quale non lasciava spazi a dubbi e faceva solamente temere qualche sorpresa spiacevole da parte sua. Per cui era meglio rinunciare ad essa e iniziare a percorrere altre strade, le quali li rendessero consapevoli di quanto andava fatto per vincere.

A quel punto, la competizione fra i due mostri della scherma professionistica si diede a svolgersi ai massimi livelli, senza astenersi da virtuosismi schermistici che facevano attribuire ai loro esecutori meriti incredibili. Per la quale ragione, sia l'uno che l'altro furono costretti a rivedere le loro previsioni circa l'anticipata stima di una loro indubbia vittoria sull'avversario, trovandolo di una energia e di una valenza combattentistica insospettate. Nel frattempo, ciascuno di loro seguitava a combattere, confidando nelle proprie infinite possibilità e nelle proprie inesauribili energie, senza rinunciare a credere di essere il migliore fra i due e il vincitore finale di quel duello. Per il momento, esso gli imponeva grandi sacrifici e un'applicazione fuori del comune, siccome la preparazione nella scherma del rivale eccelleva quanto quella propria, fino ad equivalersi. La tecnica dell'avversario, anche se ottenuta seguendo strategie diverse, si presentava altrettanto efficace ed insuperabile quanto la propria. Perciò non gli faceva sperare in uno spiraglio di concreta inefficienza da parte sua, almeno in qualche circostanza a lui sfavorevole. Per il quale motivo, una meticolosa difesa gli era indispensabile, specialmente quando l'agguerrito nemico cercava di stringerlo alle corde, con l'intento di sopraffarlo con la potenza dei suoi colpi formidabili.

Se Arkust veniva osservato per bene in quella tenzone, lo si poteva scorgere dare il meglio e il massimo di sé stesso, esprimendosi con costante impegno. Inoltre, appariva come una scatenata forza della natura tutta rivolta a provocare lo scompiglio e lo schianto più rovinosi su piante e su cose senza dargli tregua, privando le une e le altre di quella calma che erano abituate a godersi. Perciò la sua scherma si manifestava qualcosa di indiscutibilmente prodigioso, intanto che dava stoccate pericolose ed affondi eseguiti con eccezionale bravura. Questi ultimi tendevano a scompigliare la difesa preventiva dell'avversario per crearsi in un secondo momento un varco, attraverso cui colpire con grande determinazione. Nel seguito del combattimento, invece, egli continuò ad aggredire, quasi fosse un ciclone sconvolgente, chi gli si opponeva con una insolita maestria e non gli permetteva di farla da padrone in quel singolare scontro. Il quale, per adesso, negava all'uno e all'altro il padroneggiamento assoluto, a scapito dello schermidore avversario. Analogamente si comportava Iveonte, che poteva contare a proprio vantaggio su tutti quei pregi peculiari, i quali gli consentivano di dimostrarsi l'egregio campione che era, ossia il guerriero affidabile in ogni sua azione, in quanto sempre efficiente e giammai deludente. Per la quale ragione, la sua scherma, se da una parte si rivelava qualcosa di incontrastabile e di insuperabile; dall'altra, essa metteva in mostra una tecnica qualitativamente suprema e quantitativamente annientatrice di ostacoli e di nemici, poiché riusciva sempre a farne una strage ingente. Adesso, grazie alla medesima, le sue doti di combattente intrepido ed audace gli consentivano di compiere prodigi inverosimili, rendendo il suo combattimento singolare oltre ogni aspettativa. Difatti, in quel trambusto di colpi e di assalti inusitati, il giovane terrestre veniva scorto, mentre era intento a battagliare contro il suo difficile avversario con la massima cautela e con una furia impetuosa non facilmente controllabile da chi la subiva.

Si faceva dunque della bella scherma da entrambe le parti in lizza, allorquando avvenne un fenomeno strano. Mentre Iveonte ed Arkust combattevano alacremente, senza mai avvertire alcuna stanchezza, ad un certo punto, in seguito ad un legamento del primo e ad una cavazione del secondo, i codoli delle due spade se ne uscirono dalle rispettive impugnature, facendo finire per terra l'una e l'altra lama. Così lasciarono i due schermidori in possesso dei soli manici, i quali prima avevano fatto parte delle armi che ora si trovavano al suolo. In seguito a quell'avvenimento insolito, Arkust volle dargli una spiegazione, dicendo al rivale:

«Iveonte, il Signore di Potenzior, vedendo che il nostro scontro con le spade andava per le lunghe, ha voluto interromperlo, privandoci delle loro lame. Per cui siamo costretti a confrontarci in un diverso modo, se vogliamo continuare la nostra lotta per il possesso di una parte del Potere Cosmico, ossia di quella che in effetti si trova già nelle mie mani. Ma prima, Terrestre, voglio che tu soddisfi una mia curiosità. Non è forse vero che, ad un certo momento, hai avuto la possibilità di colpirmi con la tua arma, ma hai evitato di uccidermi? Perché non ne hai approfittato, ponendo così fine alla nostra lotta?»

«Arkust, non me la sono sentita di inveire contro di te in una circostanza, la quale mi è apparsa abbastanza favorevole. Riguardo poi alla tua considerazione su Tupok, probabilmente sarà stato come hai detto. Quindi, suggerisco di cimentarci nella lotta, nella quale saranno i nostri arti superiori ed inferiori le sole armi che ci daranno modo di attaccare e di contrattaccare. Se tu sei d'accordo, possiamo cominciare.»

«Sono d'accordo con te, Iveonte. Perciò, se mi dici che sei pronto ad affrontarmi, possiamo anche dare inizio al nostro combattimento corpo a corpo, poiché lo sono anch'io, da questo momento.»

«Allora, Arkust, che esso inizi subito, senza che ci ripensiamo neppure un poco, considerato che voglio evitare che si perda altro tempo in questa nostra singolar tenzone.»

Alle nuove parole di Iveonte, il percus feciano non perse tempo ad assumere l'atteggiamento di chi sta per muovere il suo attacco. Ma tese a sferrarlo secondo un piano strategico, che gli avrebbe permesso di atterrare l'avversario con poche rapide mosse. Ma Iveonte, avendone avvertito le intenzioni, si preparò a riceverlo, prendendo misure appropriate, che avevano lo scopo sia di neutralizzarlo sia di trasformarlo in modo da farlo risultare incastrato in una propria contromossa, allo scopo di vincolarne ogni ulteriore movimento. Tale azione, invece, poiché si esaurì in breve tempo nella mossa dell'uno e nella contromossa dell'altro, non approdò ad alcun risultato concreto, siccome entrambi alla fine si ritrovarono liberi da ogni poderosa stretta dell'avversario. A quel punto, però, da entrambe le parti, ci si diede a cercare diversi espedienti, che gli permettessero di aver ragione del suo forte antagonista. Ma non avendoli trovati come desideravano, in quella competizione i due invincibili guerrieri badarono a conquistarsi il primato della lotta e la conseguente vittoria con strategie studiate al momento. Anche perché le arti marziali, che presso i Feciani corrispondevano all'atletica volante, gliene avrebbero proposte in quantità innumerevole e con differenti estrinsecazioni. Essendo quella la reale situazione del momento, Iveonte ed Arkust si prepararono a dare il meglio di sé stessi nella loro lotta corpo a corpo già in atto. In quel modo, senza meno avrebbero espresso in essa il massimo della loro preparazione, la quale era quella che avevano ricevuto il primo dal suo maestro Tio e il secondo dal suo maestro Festun.

A quel punto, una furia scatenata, sprezzante di ogni pericolo, si diede a volteggiare in quella loro schermaglia di mosse e contromosse, di gomitate e ginocchiate, di voli radenti e di abbrancamenti reciproci, di scatti improvvisi. Questi ultimi alcune volte tendevano a sfuggirsi l'un l'altro, altre volte erano voluti a bella posta, con la chiara intenzione di frantumare le difese dell'avversario. Ma pur impegnandosi con un'accuratezza e con una scaltrezza che erano da considerarsi il non plus ultra delle loro possibilità, alla fine ciascuno di loro veniva costretto a fallire nell'intento che ci si proponeva, a causa dell'ostinata difesa che gli contrapponeva l'agguerrita controparte. Arkust soltanto adesso si rendeva conto che il giovane terrestre gli stava sfatando la convinzione, secondo la quale non potevano esserci rivali capaci di uguagliarlo, se non proprio di superarlo, nei vari tipi di lotta, fossero essi a braccio armato oppure a mani nude. Perciò cominciava a disperare di una propria netta supremazia sull'avversario che aveva di fronte. Il quale dimostrava attitudini senza pari nei diversi combattimenti che gli stavano permettendo di misurarsi con lui. Ad ogni modo, anche Iveonte, in un certo senso, di fronte ad un rivale dal valore eccezionale del percus, si vedeva ridimensionare quella certezza che non gli era mai venuta meno contro tutti coloro che si era trovato ad affrontare nel passato.

Dei due ineguagliabili campioni, ad un certo momento, fu l'allievo del trapassato Festun a comprendere per primo che la loro lotta non avrebbe avuto alcun vincitore, anche se fosse andata avanti all'infinito. Allora, smettendo di lottare, volle chiarire a colui che non gli stava dando modo di neutralizzare le sue difese e di sconfiggerlo:

«Iveonte, contro le nostre previsioni, nessuno di noi riesce a battere l'altro, qualunque combattimento intraprendiamo. Quindi, sono costretto a ricorrere al mio infallibile arco, se voglio scorgerti mangiare la polvere e sbarazzarmi di te, una buona volta per sempre. Mi dispiace vedermi sopraffarti nella maniera che non avrei mai voluto, siccome ti sei dimostrato un eccelso campione, che non avrei mai immaginato che potesse esserci nell'universo intero.»

«Invece non ti devi preoccupare per me, Arkust, poiché sono sicuro che riuscirò a cavarmela anche contro il tuo arco, sebbene esso si presenti molto particolare. Non è forse vero che, una volta che lo avrai scoccato, dopo sarai tu a dirigere il dardo, perché colpisca il bersaglio da te voluto, seguendo la traiettoria omnidirezionale che gli andrai tracciando con la forza del pensiero?»

«Come vedo, Iveonte, il Signore di Potenzior anche di questo ti ha messo al corrente. Quasi volesse darti una mano a farmi fuori e a procacciarti una prima parte del Potere Cosmico! Ma fino a poco tempo fa, egli non era di parere contrario al fatto che una sola persona si impadronisse di esso? A quanto pare, avrà cambiato opinione in merito, per qualche sua ragione. Invece tu, Terrestre, non illuderti che tale conoscenza ti servirà a qualcosa. Essa non ti metterà nella situazione di scansare la mia freccia micidiale, poiché il mio tiro non potrà fallire il bersaglio. Peccato che questa volta esso sarà il tuo corpo, facendolo stramazzare al suolo. In verità, non sarei mai voluto arrivare a tanto!»

«Questo è da vedersi, Arkust. Sul mio pianeta si suol dire che non bisogna fare i conti senza l'oste, se non si vuole andare incontro ad amare sorprese. Oggi lo dico a te, che ti mostri tanto sicuro di riuscire con il tiro dell'arco a risolvere il problema che hai con me.»

Dopo la seconda risposta di Iveonte, il percus feciano evitò di replicare al suo interlocutore, che si sentiva sicuro di sé; ma badò ad armarsi del suo arco e ad estrarre dalla faretra una delle frecce in esso contenute. Quando infine la ebbe incoccata sulla corda, prendendo di mira il suo rivale, gliela scoccò contro, facendo seguire al dardo una traiettoria per il momento rettilinea. Per Iveonte, però, esso non comportò alcun rischio e non richiese alcuna fatica per schivarlo. Ciò, perché egli aveva appreso dal suo maestro Babbomeo come riuscire ad intercettarla prima con gli occhi e a bloccarla poi in volo, come appunto avvenne anche in quella circostanza, facendo stupire chi gliel'aveva scagliata contro.

A quel prodigio concretizzato dal rivale, Arkust si affrettò ad aggiustare una seconda freccia sul proprio arco. Questa volta aveva intenzione di farle eseguire una vera gincana, prima che essa andasse a colpire il suo bersaglio, che era costituito dalla persona di Iveonte. Ma costui, anziché restare immobile, con un rapido salto l'arrestò e la spezzò in due parti, che buttò poi via a terra. Tale nuovo prodigio operato dall'avversario strabiliò ulteriormente il Feciano. Il quale, vedendo che sarebbe stato inutile continuare a lanciare i suoi dardi contro di lui, decise di non effettuare più lanci di quel genere contro chi riusciva egregiamente a privarli di efficacia. Inoltre, rivolgendosi all'avversario con sicurezza, si diede a dirgli:

«Devo ammettere, Iveonte, che contro di te pure le mie frecce non hanno avuto fortuna, siccome sei stato capace di immobilizzarle e di spezzarle, prima che ti colpissero. Adesso, però, voglio vedere come te la caverai tu con l'arco; ma sono certo che farai altrettanto cilecca, quando cercherai di rendermi tuo bersaglio. Ti sfido a dimostrami che mi sbaglio e che il tuo tiro non avrà difficoltà a colpirmi, come se stessi mirando ad una zucca!»

All'invito di sfida del percus, Iveonte non esitò ad armarsi del suo arco, essendo desideroso di renderlo pronto per il lancio, poiché esso avrebbe dovuto mandare a effetto il suo tiro. Ma quando alzò gli occhi per prenderlo di mira, Arkust non era più solo. Le sue immagini adesso erano diventate una ventina, tutte perfettamente identiche ed allineate, che non facevano comprendere quale fosse quella reale e rappresentasse in concreto il suo rivale. Esse, inoltre, si erano date a fargli vari sberleffi e a parlargli insieme in questo modo:

«Allora, Iveonte, mi vedi? Riesci a renderti conto in quale di queste immagini io esisto effettivamente? Se sei capace di scovarmi, allora non esitare e colpiscimi nel mezzo della fronte, essendo certo che sei anche un provetto arciere. Su, provaci, per favore!»

Le parole di Arkust non lo distrassero, mentre Iveonte andava studiando la situazione, la quale gli si presentava come un vero rompicapo. In seguito il giovane, essendo convinto che nessuna cosa irreale poteva produrre al suolo la propria ombra, si adoperò per cercare l'immagine che in qualche maniera disegnasse sé stessa sopra il sottostante tappeto verde. Così, analizzandole una ad una da sinistra a destra, sempre tenendo il suo arco in posizione di tiro, si avvide che la diciassettesima della fila si accompagnava con la sua ombra, la quale era proiettata verso sinistra. A tale scoperta, dopo aver invitato l'avversario a guardare in alto con l'intento di distrarlo, all'istante Iveonte fece partire il suo dardo. Esso allora scattò improvviso ed andò a conficcarsi sulla fronte di Arkust, il quale, dopo aver accusato il colpo mortale, stramazzò a terra esanime, in una gran pozza di sangue. Comunque, dopo circa tre minuti di morte cruenta, il percus si rialzò da terra, mostrandosi nelle medesime condizioni di prima, come se non gli fosse successo niente. Anzi, egli non rammentava affatto quanto gli era accaduto e neppure era consapevole che la parte di Potere Cosmico che gli aveva affidata Tupok era sparita dal suo corpo e si era insediata in quello di Iveonte. Costui, però, senza dar peso alla resurrezione di Arkust, chiamò presso di sé il cavallo alato Russet, gli saltò in groppa e gli ordinò di riportarlo dal suo padrone.

L'arrivo di Iveonte in sua presenza, fece meravigliare non più di tanto Tupok. Egli, infatti, aveva iniziato a nutrire dentro di sé molta fiducia nel giovane terrestre, visto che risultava il preferito degli eccelsi gemelli Locus e Kron. Così, quando se lo vide davanti, il Signore di Potenzior, mostrando una certa soddisfazione, lo accolse con le seguenti parole:

«Bravo, Iveonte, sei riuscito ad impossessarti della prima parte del mio Potere Cosmico! Adesso ti tocca conquistare la sua seconda parte, la quale è posseduta dall'eroe Furiek. Ma prima di cimentarti con il suo secondo guardiano, dovrò metterti a conoscenza di ogni cosa che lo riguarda: il suo luogo di origine, il suo popolo, le speciali doti che lo caratterizzano e tanto altro ancora. Perciò tu ora mi ascolterai con la massima attenzione, poiché dovrai fissarti nella mente tutte le notizie che ti darò sul tuo nuovo avversario, potendo ciascuna di loro risultarti utile, al momento del tuo scontro con lui.»

«Non preoccuparti, generoso e nobile Tupok, poiché starò molto attento, intanto che mi farai la cronistoria di Furiek, che già bramo di affrontare, essendo ansioso di privarlo della sua parte di Potere Cosmico. Dunque, quando sei pronto a parlarmi di lui, puoi farlo senza darti pensiero che mi possa sfuggire qualcosa, poiché ti prometto che neppure ad una virgola permetterò di uscire dalla mia testa. Puoi esserne certo!»

Fu così che il Signore del Potere Cosmico si diede a mettere al corrente Iveonte di quanto gli occorreva per sfidare il suo nuovo campione, senza che ci fossero sorprese da parte di lui.



CAPITOLO 457



IL PIANETA PEARUN E IL SUO EROE FURIEK



Furiek era nativo del pianeta Pearun, che orbitava intorno alla stella Nuber, la quale era situata nella galassia di Abrep. Nel sistema nuberiano, si trovava anche l'asteroide Tibos, su cui era ubicato l'Antro dell'Accesso a Potenzior, dove si trovavano i Guardiani del Potere Cosmico. Sul suolo pearunino si era sviluppato il popolo dei Pices. I Pearunidi costituivano una razza con le seguenti caratteristiche fisiche: altezza media intorno ai centonovanta centimetri, pelle rossastra, orecchie atrofizzate, naso alquanto sporgente, capigliatura lunga e fitta, tronco tarchiato e possente. Pearun, che era il terzo pianeta per vicinanza alla stella, non era il solo ad orbitare intorno alla stella Nuber, poiché ve ne erano altri quattro ad accompagnarlo nel suo periplo astrale. Essi erano: Olvus, che era il più piccolo e il più vicino alla stella; Raprot, che era il più grande e il più lontano dalla stella; Soluk, che era il secondo per vicinanza alla stella; Zillep, che era il quarto per vicinanza alla stella.

La popolazione picesina era distribuita soltanto sulla quarta parte della superficie del pianeta, poiché gli altri tre quarti risultavano inabitabili per le cause che vengono appresso fatte presenti. Le terre, che ne facevano parte, si presentavano costituite per la maggior parte da deserti, che non permettevano alcuna forma di vita; mentre le rimanenti, le quali erano di costituzione geologica non desertica, abbondavano di paludi, che pure sconsigliavano l'uomo dall'abitarle. Perciò i Pices si erano insediati in una fascia dell'emisfero boreale. Essa era da considerarsi quella che offriva di più alla specie animale e all'uomo una esistenza per niente difficile in ogni senso, poiché metteva a disposizione di chi vi viveva cibo e acqua in abbondanza. Dal punto di vista etnico e sociale, il popolo picesino era suddiviso in cinque tribù, dette suske, ciascuna delle quali aveva un suo capo, chiamato limiur, il cui potere su di essa non era pieno. Nelle rispettive suske, infatti, essi dovevano rendere conto del proprio operato a colui che, con il nome di posust, era al di sopra di loro ed aveva la facoltà di legiferare come un vero monarca.

Le suske esistevano da tempo immemorabile, per cui i Pices non avrebbero potuto risalire alle origini della loro formazione, pur sforzandosi al massimo con la memoria, poiché i loro antenati non se lo erano mai tramandato di generazione in generazione. Perciò noi le conosceremo per come esse si presentavano, al tempo di colui che la maggioranza dei loro abitanti considerava un eroe celebrato. Delle cinque suske, quattro si erano estese ai quattro angoli di un quadrato immaginario, i cui spigoli erano rivolti verso i quattro punti cardinali; mentre la quinta si trovava al centro di tale figura geometrica piana. Per questo esse prendevano il nome di suska orientale, suska occidentale, suska meridionale, suska settentrionale e suska centrale. Comunque, non poteva esserci fra i cinque villaggi una distanza minore di tre miglia, per cui l'habitat delle quattro suske situate agli angoli doveva espandersi in direzione del rispettivo punto cardinale. Invece quello della suska centrale poteva andare oltre l'intera sua fascia perimetrale, visto che la sua distanza dalle altre superava le dieci miglia. Va aggiunto che a quel tempo la popolazione di ogni tribù si aggirava sui cinquantamila abitanti.

A capo di ogni suska, c'era un limiur, una specie di capotribù che vigilava sulla condotta morale, civile e religiosa di quanti vi risiedevano. Invece il capo supremo del popolo picesino prendeva il nome di posust, il quale corrispondeva all'attuale titolo di re o di imperatore. La sua sede stava nella suska centrale. Egli aveva cinque collaboratori, i quali, con funzioni ispettive, erano dislocati tre per ogni villaggio ed avevano il compito di vigilare sull'operato dei cinque limiur. Perciò i tre ispettori di una suska andavano a riferirlo al posust, ogni volta che il loro limiur risultava autoritario oppure, al contrario, tollerante nei confronti dei suoi sudditi. Allora il posust, dopo avere accertato la fondatezza delle accuse a lui mosse collegialmente dai tre ispettori che lo avevano giudicato, passava a sostituirlo. All'interno di una suska, se un abitante si rendeva colpevole di un reato veniale, spettava al limiur infliggergli la punizione, la quale andava sempre considerata emendativa e poteva essere anche pecuniaria. Nel caso di un delitto grave, il colpevole veniva trasferito alla suska centrale per essere sottoposto al giudizio del posust, poiché solo a lui spettava punirlo con la pena capitale. Ad ogni modo, dopo che c'era stata la sua sentenza di morte, il condannato veniva rinviato al suo villaggio di residenza, poiché era lì che la sua condanna andava eseguita. Essa avveniva, tra i numerosi insulti di una folla infuriata ed inferocita, siccome era quella la consuetudine del popolo picesino.

Considerato nella sua competenza giurisdizionale, il posust aveva il potere di vita e di morte sui propri sudditi. Anche se la giustizia veniva amministrata da persone da lui delegate, quando un Pices si rendeva colpevole di orrendi crimini ed esse lo condannavano alla pena capitale, dopo era lui ad autorizzarne la concreta attuazione. In merito alla quale, la condanna a morte si diversificava secondo il delitto commesso, dal momento che ne erano previsti cinque tipi, come l'impiccagione, la decapitazione, l'impalamento, l'annegamento e la crocefissione. Ma qui si evita di precisare quale reato si abbinava a ciascuna delle pene capitali riportate, visto che una simile conoscenza non ci servirebbe a niente.

Furiek, che era il secondo possessore di una parte del Potere Cosmico, era nato dallo stregone Pursop e dalla sua consorte Racen, i quali risiedevano nella suska settentrionale. Tutti i Pices riconoscevano a tale personaggio dei poteri straordinari, che in nessun altro abitante delle cinque suske si potevano rinvenire, uno dei quali era l'invisibilità. Infatti, ogni volta che lo desiderava, egli era capace di rendere invisibili sia il proprio corpo sia qualunque cosa che fosse con esso collegata, come l'indumento che lo copriva oppure l'arma che brandiva. Per questo i Pices, nella loro totalità, gli mostravano un grande rispetto, quello che non esprimevano neppure al loro posust Sozen. Costui, in verità, al pari degli altri, assumeva anch'egli nei suoi confronti un atteggiamento rispettoso. Anzi, aveva voluto pure stringere amicizia con lui con l'intento di permettere alle loro famiglie di frequentarsi più spesso. Essendo coetanei, la loro frequentazione era iniziata poco prima che si sposassero con le loro rispettive fidanzate, che erano Tanges e Racen; ma essa era diventata più assidua, dopo che, abbandonato il celibato, si erano ammogliati. La sorte aveva voluto che Sozen e Pursop avessero nello stesso giorno dalle rispettive mogli i loro primogeniti, chiamati Pluez, quello del posust, e Furiek, quello dello stregone. Nell'ambito delle due famiglie, era stato stabilito che la secondogenita di Sozen, che era nata tre anni dopo il fratello ed era stata chiamata Sevian, da grande si sarebbe maritata con Furiek. Va fatto presente che secondo i Pices per una donna l'età giusta per prendere marito era quella che partiva dai trent'anni in su, poiché soltanto allora ella diventava pronta per il matrimonio.

Indipendentemente dal loro rapporto di cognato che era stato deciso dai rispettivi genitori fin dalla loro fanciullezza, tra Furiek e Pluez si era andato instaurando un profondo legame di amicizia. Perciò, già all'età di dodici anni, essi avevano voluto consolidarlo con la procedura del patto di sangue. Così essa, conferendogli un autentico valore di fratellanza, lo avrebbe fatto durare fino alla loro morte. Ma nonostante fra loro due fosse nata un'amicizia così sviscerata, la loro formazione fisica e spirituale era avvenuta separatamente, cioè in seno alle rispettive famiglie, ed aveva provveduto ad essa ciascun genitore. Comunque, qui verrà fatta conoscere solamente quella che riguarderà l'eroe picesino, dal momento che Iveonte dovrà affrontare lui e non l'amico Pluez per conquistare la sua seconda parte del Potere Cosmico.

Già da quando Furiek aveva cinque anni, mentre la madre Racen si era data a coccolarlo e a riservargli tutte le sue cure amorevoli, il padre Pursop aveva badato a farlo crescere in modo diverso. Gli imponeva una rigida disciplina, incurante che essa non era adatta ad un bambino della sua età, come anche la moglie era solita fargli osservare. Ad ogni modo, stranamente il ragazzo non se ne mostrava insofferente; al contrario, pur di non contrariare il genitore, faceva l'impossibile per assimilare i suoi insegnamenti. I quali spaziavano in diversi settori dello scibile e miravano a dotarlo di un magnifico fisico atletico, di un carattere adamantino, di una volontà ferrea e di una psicomotricità eccellente. Infatti, dell'imberbe allievo, quando era appena entrato nell'età adolescenziale, già si poteva affermare che egli aveva raggiunto la perfezione nel tiro con l'arco, nel lancio del giavellotto e nell'uso del pugnale. Lo stregone della suska nordica, però, aveva dovuto attendere ancora un quinquennio, prima che Furiek imparasse la perfetta tecnica della scherma, nella quale egli stesso era da considerarsi un insuperabile campione. Invece, quando il suo unigenito era diventato un giovane ventenne, egli aveva appreso dalle lezioni paterne tutte quelle cose di cui a quell'epoca era possibile venire a conoscenza. Esse così lo avevano formato nelle varie branche del sapere, inteso quest'ultimo come perfezionamento dell'uomo completo. Forse nell'uso delle varie armi e nella lotta libera, nella quale si mettevano in pratica mosse di assoluta originalità, il discepolo aveva raggiunto una perfezione superiore a quella del suo egregio maestro. Ciò, sebbene il padre avesse raggiunto in entrambe le cose una ineguagliabile perizia e non avesse rivali che potessero reggere al suo confronto oppure competere con lui, senza venirne sconfitti.

Oltre a simili conoscenze ed abilità tecniche, alle quali ci siamo riferiti, Pursop padroneggiava così bene la sua sfera psichica, da riuscire ad ottenere da essa alcune trasformazioni del proprio corpo, tra le quali anche l'invisibilità. In questo caso, era in grado di rendere invisibili perfino gli indumenti che lo privavano della nudità e l'arma che maneggiava nel combattere. Allora, in una situazione del genere, non gli era difficile falcidiare eventuali avversari, nonostante essi lo assalissero in massa. In verità, Pursop non aveva bisogno di ricorrere alla sua invisibilità, quando si dava a pugnare contro di loro, potendo già la sua valentia di prode ed invincibile combattente mietere fra i suoi nemici una infinità di morti. In merito a tale sua peculiarità, lo stimato stregone dei Pices, perché essa si avesse in sé, doveva impegnarsi in uno sforzo della mente quasi sovrumano, che avrebbe retto, soltanto se non fosse stato sottoposto ad un'altra fatica equipollente o superiore ad esso. Ma se ci fosse stato costretto a compierlo per un motivo qualsiasi, il suo essere invisibile sarebbe cessato, per cui egli sarebbe di nuovo apparso alla realtà circostante. In verità, neppure a lui era noto questo particolare, poiché non gli era mai successo un fatto del genere durante l'intero arco della sua vita. Perciò si ignorava perfino il tipo si sforzo a cui bisognava sottoporlo, se lo si voleva privare dell'invisibilità, nell'istante stesso che la metteva in atto nella propria persona per raggiungere un determinato obiettivo.

Pursop aveva voluto dotare il proprio figlio anche di una prerogativa del genere, siccome essa gli avrebbe rafforzato le altre sue doti singolari, che dimostrava di possedere nell'ambito della conoscenza, della psiche e dello spirito. Soprattutto lo aveva reso un asso nella sua preparazione concernente qualsiasi tipo di combattimento. Comunque, anch'egli, come il genitore, non sarebbe mai ricorso all'invisibilità per perseguire un obiettivo, che era in grado di raggiungere senza farne uso. Allo stesso modo, non se ne sarebbe mai servito nel lottare contro i suoi simili, se non in casi eccezionali. Uno dei quali sarebbe potuto essere l'eccessivo numero di nemici, specialmente se essi avessero tentato di eliminarlo da veri vigliacchi.

Era consuetudine dei Pices delle cinque suske organizzare dei tornei secondo precisi cerimoniali, durante i quali si avevano combattimenti sia individuali che a squadre. Essi si svolgevano nell'ampio spiazzo che si trovava nelle vicinanze della suska centrale e vi partecipavano tutti coloro che si consideravano degli ottimi combattenti nell'uso almeno di una di esse, se non proprio in tutte le armi. Per questo cercavano di mettersi in mostra agli occhi di quanti assistevano dagli spalti di legno allestiti per la particolare occasione. La quale ogni volta suscitava entusiasmo e brio in quanti avevano la fortuna di poter essere presenti a tali tornei.

Logicamente, chi, se non Furiek, riusciva a primeggiare su tutti gli altri combattenti picesini? Difatti era proprio a lui che la folla osannava sulle gradinate poste tutt'intorno allo spiazzo dove avvenivano i combattimenti. Essa appariva in pieno delirio, mentre si agitava e acclamava il meritato vincitore di ogni gara, il quale risultava sempre l'eroico figlio dello stregone Pursop. Più di tutti ne erano felici il suo amico fraterno Pluez e la sua promessa sposa Sevian, i quali sedevano in mezzo ai rispettivi genitori, mentre gioivano e se la gongolavano per le sue gloriose vittorie, che andava ottenendo nell'arena, senza mai smentirsi. Per la verità, pure il padre e il suo futuro suocero si beavano della sua indiscutibile bravura, intanto che ne ammiravano le ineguagliabili doti di insuperabile guerriero. Anche perché egli le metteva in mostra in maniera stupenda, mentre gareggiava contro gli altri contendenti e li umiliava.



Un giorno Furiek e il suo amico, usciti dalla loro suska centrale, si erano diretti verso la palude, poiché intendevano trascorrervi una intera giornata, dandosi alla caccia degli animali che vi vivevano. La loro galoppata era durata circa un'ora, prima di raggiungere il luogo prescelto come loro meta. Quando vi erano giunti, innanzitutto avevano lasciato in libertà i loro cavalli, essendosi in una zona dove le palustri acque stagnanti non facevano registrare la loro presenza. Così facendo, gli avevano permesso di pascolare e di dissetarsi a sufficienza, prima di legarli ad un albero per non farli scappare. Mentre poi le bestie badavano a nutrirsi e a soddisfare la loro sete, essi si erano trovati un posto tranquillo dove poter scambiare quattro chiacchiere. Era stato Pluez ad aprire bocca per primo, rivolgendo all'amico la seguente domanda:

«Mi sai dire, Furiek, se in questa palude ci sono animali feroci, i quali potrebbero risultarci pericolosi? Comunque, non ho mai sentito mio padre fare qualche accenno ad essi.»

«Neppure il mio genitore me ne ha mai parlato, amico mio, se rammento bene. Ciò dovrebbe voler significare che davvero qui non ce ne sono, al fine di procurarci qualche preoccupazione. Ma se proprio ce ne dovessero essere, stanne certo che sapremmo come cavarcela!»

«Già, Furiek, avevo dimenticato che ho con me un guerriero formidabile, il quale non si farebbe di certo spaventare da una belva con intenzioni ostili nei nostri confronti! Non è forse vero che non mi sbaglio?»

«Non hai torto, Pluez. Nessuna bestia feroce sarebbe capace di intimorirmi. Se ce ne fosse qualcuna da queste parti e decidesse di assalirci, saprei io come accoglierla e conciarla per le feste!»

«Mi dici, amico mio fraterno, quale accoglienza gli riserveresti, se putacaso ce ne apparisse qualcuna davanti proprio adesso e si preparasse ad aggredirci con i suoi intenti malvagi?»

«Prima di tutto, fratello della mia adorabile Sevian, ti farei salire sopra questo piccolo albero che si trova sulla nostra sinistra; subito dopo scomparirei alla sua vista. Allora essa, non vedendomi più, penserebbe di raggiungere te e renderti il suo pasto del momento. Mentre poi tu cercheresti di tenerla lontano da te con il tuo giavellotto, io l'avvicinerei e la trafiggerei più volte con la mia spada, fino a farla cadere morta per terra. Ecco tutto!»

«In questo modo, Furiek, ce ne libereremmo senza la minima fatica. Lo sai che avevo dimenticato che, quando lo desideri, puoi renderti anche invisibile? Ma sono sicuro che, anche senza essere dotato dell'invisibilità, avresti trovato il modo di farla fuori senza sforzi!»

«Ci puoi contare, Pluez! Adesso, però, è giunta l'ora di darci a cacciare quegli animali, che possono procurarci delle carni prelibate e delle ottime pellicce. Di queste ultime, voglio regalarne una a tua sorella Sevian, poiché spesso ella mi ha espresso tale desiderio.»

«La tua è una splendida pensata, Furiek! Sono certo che la farai immensamente felice, quando le regalerai la più bella delle pellicce che tra poco ci procureremo con la nostra caccia!»

Poco dopo, i due amici stavano per alzarsi da terra, dove si erano tenuti distesi sopra un tappeto di erba verde, allorché avevano visto un enorme bestione dirigersi verso di loro, emettendo un verso che comprendeva il ruggito del leone e il barrito dell'elefante. Quanto alla sua grandezza e alla sua somiglianza, la prima appariva quadrupla di quella di una tigre; mentre la seconda faceva pensare ad un essere avente la testa di un leone, ma con un accentuato prognatismo. Il resto del corpo si presentava lungo il doppio del medesimo animale, anche se la sua pelle era uguale a quella di un elefante, però con zampe e coda leonine.

Avanzando con balzi veloci, che riuscivano a coprire anche sei metri di lunghezza, esso puntava direttamente sui due amici, i quali non avevano mai visto una bestia di tal genere. Allora Furiek, prima che quella specie di mostro si avvicinasse troppo a loro due, aveva invitato l'amico a rifugiarsi sul vicino albero, mentre lui lo avrebbe affrontato da solo con le armi a sua disposizione, restando calmo e saldo di nervi. Quando poi esso gli era stato distante una ventina di metri, servendosi dell'arco, gli aveva scagliato contro dieci frecce. Esse, pur senza sbagliare il bersaglio, avevano dato ad intendere che non lo avevano nuociuto minimamente, per cui il colpito aveva seguitato ad avanzare con ostinazione. A quel punto, non volendo rischiare un po' troppo, il figlio dello stregone era ricorso all'invisibilità, ad evitare di subire la sua schiacciante strapotenza fisica. Essa oramai fermentava a pochi passi da lui e manifestava una grande voglia di rovinargli l'esistenza, poiché era intenzionato a procacciarsi con il suo corpo un pasto prelibato. Invece aveva dovuto rivedere le sue mire voraci, in seguito alla sparizione della sua preda. La quale gli era sfuggita di mano appena in tempo, rendendola destinataria di una scottante delusione. Allora l'improvvisa scomparsa di chi stava per diventare la sua vittima non era stata gradita dall'enorme belva. Essa, fino a quel giorno, non aveva mai fatto parlare di sé per la sua ferocia e per il suo alto rischio di temibilità. In passato, però, c'erano stati parecchi Pices che si erano avventurati nella palude, senza farne più ritorno.

Rimasta senza preda, la bestia era stata costretta a cambiare direzione, la quale questa volta la indirizzava verso l'albero su cui aveva trovato riparo Pluez. Quando lo aveva raggiunto, non riuscendo ad agguantarlo con i suoi artigli mortali, essa si era data a scuotere l'arboreo fusto per farlo cadere giù. Il giovane, dal canto suo, mentre l'inferocita bestia si adoperava in tal senso, tenendosi aggrappato fortemente ad un ramo, non mollava, sebbene tremasse come una foglia. Anzi, si chiedeva quando sarebbe intervenuto il suo amico a liberarlo da quel pericolo incombente. Naturalmente Furiek non aveva intenzione di lasciarlo per lungo tempo a macerarsi in quella sua terribile situazione, la quale non prometteva nulla di buono. Perciò, dopo essersi armato della propria spada ed aver raggiunto il tormentatore dell'amico, standogli a distanza ravvicinata, gli aveva infilzato il corpo più volte con la sua arma. Ma era stato il suo sesto colpo, che gli aveva inferto con molto sdegno, a spegnergli l'esistenza e a farlo stramazzare per terra.

Non appena si era consumata l'uccisione della mostruosa creatura, il figlio del posust si era affrettato a venir giù dall'albero. Subito dopo si era rivolto all'amico fraterno, che nel frattempo si era privato della sua invisibilità, e gli aveva parlato in questo modo:

«Ti ringrazio, Furiek, per avermi salvato la vita! Ma tu avevi mai sentito parlare di tale belva dalle caratteristiche sui generis, indubbiamente spaventose, le quali lo predisponevano ad essere l'animale più feroce del nostro pianeta? Io lo ignoravo nel modo più assoluto!»

«Invece io, Pluez, ne avevo avuto qualche vaga notizia da mio padre. Ma egli, quando si era riferito a tale essere, era convinto che si trattava di una mera leggenda, siccome non c'era stata mai alcuna persona ad affermare di averlo visto con i propri occhi, convalidandone così la reale esistenza. In verità, il mio genitore, in parole spicciole, mi accennò ad un certo leggendario Taluz. Il quale veniva citato come una belva dalla strana figura e sanguinaria, ma senza che gli venissero assegnati degli attributi che potessero descriverlo.»

«Allora, Furiek, oggi abbiamo scoperto che questo Taluz non era un piccolo mostro immaginario e che esso ci fa pensare anche che il mancato ritorno alle loro famiglie di tanti Pices scomparsi nei pressi della palude fu dovuto alla sua presenza in questi luoghi.»

«Concordo con te, Pluez, circa le saltuarie scomparse dei nostri conterranei avvenute nella palude in tempi diversi. La fiera da me uccisa, che ci ritroviamo tra i piedi, avrebbe potuto benissimo assalirli, stritolarli e divorarli senza alcuna difficoltà, presentandosi essa perlomeno dieci volte più feroce di una tigre. Ma per merito mio, da quest'oggi, essa ha smesso di fare strage di altri esseri umani in giro per questi luoghi acquitrinosi, per cui dobbiamo esserne felici. Al nostro ritorno alla tua casa, inviteremo tuo padre a far venire qui degli uomini con un carro, perché lo prelevino e lo portino in giro per tutte e cinque le suske, in modo che i loro abitanti lo conoscano e se ne facciano un'idea.»

I due amici non erano ritornati subito alla suska centrale, poiché essi avevano voluto dedicarsi alla caccia, fino a quando Furiek non era riuscito a mettere le mani sull'animale da cui aveva potuto ottenere la splendida pelliccia che aveva promesso alla sua ragazza.



CAPITOLO 458



MATRUS DIVENTA UN GIGANTE DALL'ENORME COSTITUZIONE



Nella suska del nord, dove il limiur era Nartos, conduceva la sua tranquilla esistenza l'artigiano Matrus, il cui unico cespite gli proveniva dal suo mestiere di vasaio, che egli esercitava con molta perizia. Tutti i Pices del suo villaggio lo stimavano un provetto esecutore dei suoi lavori artigianali, i quali venivano rappresentati dai suoi magnifici vasi. Essi assumevano dimensioni e fogge diverse nelle sue abili mani creatrici. A quell'epoca, egli aveva trentasei anni e dedicava il suo tempo unicamente al suo lavoro. Pur essendo ancora scapolo, non ci pensava ad ammogliarsi, per cui alcuni suoi conterranei a torto lo tacciavano di misoginia. Invece, in effetti, non era questo il motivo che lo teneva lontano dall'avere rapporti con una donna e, di conseguenza, anche dal contrarre matrimonio. Scavando nel passato della sua famiglia, infatti, ci troviamo di fronte ad episodi poco edificanti. I quali, a mano a mano che il tempo era trascorso, avevano contribuito a rendere il solitario Matrus refrattario sia all'amore verso una donna sia alla vita di coppia. Quest'ultima, specialmente, era la cosa che osteggiava di più, per le ragioni che ora conosceremo.

In un certo senso, la solitudine gli era stata procurata dalla perdita dei suoi genitori, già quando aveva cinque anni. Per questo in seguito era vissuto nella capanna dello zio paterno, il quale non era riuscito ad avere dalla moglie i figli che aveva sempre desiderato. Per tale ragione la rimproverava in continuazione per la sua sterilità, dando così luogo alle solite liti quotidiane, che non di rado si trasformavano in vere e proprie baruffe. Dai cinque anni in poi, quindi, il poveretto ogni giorno si era dovuto sorbire le litigate tra lo zio e la sua consorte. In verità, esse scoppiavano in famiglia soprattutto per motivi di gelosia, da parte del parente stretto nei confronti della zia acquisita. Riferendoci più in particolare agli zii, i quali, dopo la morte del padre e della madre, erano divenuti suoi genitori adottivi, l'uomo si chiamava Nares, mentre il nome della donna era Obel. La professione dello zio, che faceva il vasaio, gli aveva permesso di apprenderla in modo così egregio, che già a quindici anni nella sua suska Matrus poteva considerarsi il migliore in tale campo.

Quando il ragazzo aveva sedici anni, lo zio, accusandola di infedeltà per averlo tradito con l'erbivendolo suo dirimpettaio, l'aveva assalita con un coltello da cucina. Con esso l'aveva trafitta più volte all'addome, finché ella non era caduta morta per terra. L'adolescente, che in quella occasione si trovava in casa, aveva assistito impotente al delitto e ne era rimasto scombussolato in maniera traumatica. Il giorno stesso che aveva assassinato la moglie, lo zio era stato arrestato e trasferito alla suska centrale, per essere processato dall'apposita commissione. Allora essa, dopo averlo giudicato colpevole di omicidio, lo aveva inviato dal posust, perché emettesse la sua sentenza a carico dell'uxoricida. Così il capo dei Pices lo aveva condannato alla pena di morte, la quale era avvenuta tramite la decapitazione. In merito alla sua condanna, la gente del luogo non si era trovata tutta d'accordo, poiché essa si era divisa in innocentisti e colpevolisti, raggiungendo quasi la parità nel giudicarlo.

Matrus, lungi dall'esprimere il proprio giudizio sul delitto commesso dal fratello del padre, non aveva voluto sentire parlare né della sua colpevolezza né della sua innocenza. Invece aveva cercato di dimenticare prima possibile quella scioccante esperienza. Inoltre, rilevata l'attività dello zio ed applicandosi in essa con il massimo impegno, aveva badato a cancellare dalla memoria ogni strascico di quel terribile episodio, il quale era accaduto nella sua nuova famiglia. Dopo quel fatto di sangue, che c'era stato da parte dello zio sulla consorte, per Matrus gli anni erano trascorsi sereni, poiché la sua professione di competente vasaio gli fruttava parecchio. Ma nonostante le sue consistenti entrate, le quali facevano invidia a qualcuno, egli non aveva mai pensato di farsi una propria famiglia, sposando una donna del luogo. Eppure ce ne stavano alcune che lo avrebbero sposato volentieri! Perciò, col tempo, la sua vita da misantropo lo aveva messo in cattiva luce agli occhi dei suoi conterranei. Secondo loro, con le sue ricchezze, egli poteva rendere felice qualche ragazza bisognosa della zona, unendosi con lei in matrimonio e fondando insieme un nucleo familiare allietato da tanti piccoli paffutelli.

Quando l'apprezzato vasaio aveva compiuto trentasei anni, si era ritrovato ad affrontare un inatteso grattacapo. Ciò gli era capitato in estate, durante la quale stagione l'artigiano preferiva lavorare all'aperto, ossia davanti alla sua capanna, dove portava i suoi attrezzi, l'acqua a l'argilla da modellare. Per cui a volte capitava che qualche passante si soffermasse a guardarlo, mentre egli dava vita e forma alle sue preziose opere di terracotta. Nel frattempo, però, c'era anche chi, a sua insaputa, covava un'annosa invidia verso di lui. Egli aveva perfino deciso di giocargli uno scherzo di pessimo gusto. Si trattava di un altro artigiano, che esercitava, ad una ventina di metri dalla sua capanna, lo stesso mestiere, ma con scarsa stima da parte dei suoi conterranei. Con il suo scherzo pervaso di indubbia malignità, il suo concorrente di professione, il cui nome era Popon, si proponeva di macchinare la sua rovina e procurare a sé il benessere che gli sarebbe derivato da essa. Se vogliamo dirla tutta, l'invidioso vasaio, oltre che rovinare la persona che i Pices preferivano a lui come artigiano, aveva un altro problema da risolvere. Ecco perché, con quel suo diabolico e delittuoso stratagemma, intendeva liberarsi di due piccioni con una fava, come si soleva dire. Egli, che era ammogliato con tre figli a carico, aveva preso una cotta per un'altra donna della sua suska; ma non poteva unirsi con lei, finché fosse rimasta in vita la sua consorte. Allora, nello stesso tempo, aveva stabilito di conseguire l'uno e l'altro obiettivo, come adesso viene raccontato.

Un mattino, quando il canto del gallo tardava ancora a farsi sentire, Popon, che era ancora a letto, visto che anche la moglie già aveva aperto gli occhi, prendendola per mano, le aveva detto:

«Secondo te, Ramal, ti sembra giusto che il vasaio Matrus, che vive da solo e non ha né una moglie né dei figli da sfamare, venga pure baciato dalla fortuna, la quale ogni giorno gli fa guadagnare il quadruplo di quello che racimolo io con il mio lavoro? Moglie mia, dimmi se questa per te non è una ingiustizia, da parte del cieco destino!»

«Come potrei pensarla diversamente da te, mio Popon? Ma anche se il mio pensiero concorda con il tuo, ciò riesce forse a mutare in questa vita le cose storte, facendole diventare dritte? Certo che no!»

«Hai ragione, mia cara consorte, a porre il problema in questi termini. Ma non ti sei mai chiesta se esiste una scappatoia che possa raggirare l'ingiusto destino, rendendo noi ricchi e lui povero?»

«Avrei forse dovuto domandarmelo, amore mio? Se lo avessi fatto, non mi dire che sarebbero cambiate le cose per noi e per i nostri bambini! Di certo, lo sai anche tu credi che sarebbe stato possibile!»

«Invece, mia cara, potremmo dare noi una spintarella e capovolgere la situazione, la quale al momento non è proprio a nostro favore.»

«Mi dici in che modo, amore mio? In verità, non riesco a seguirti, siccome noi non siamo né maghi provetti né prestigiatori!»

«Ora te lo spiego io, Ramal. Mentre Matras è intento a lavorare fuori della sua capanna, noi potremmo introdurci in essa e sottrargli tutto il denaro da lui accumulato per anni. Naturalmente, ci entreremmo dalla parte di dietro, dopo averci aperto un varco sulla sua superficie posteriore. Adopereremmo il nostro coltellaccio da cucina per praticarvi una fessura sufficiente per farci entrare. Allora, mia cara, mi daresti una mano a portare in porto questo mio disegno, che ho appena sfornato dal mio geniale cervello? Sappi che lo faresti pure per i nostri figli!»

«Come potrei rifiutarmi, Popon, se c'è di mezzo il benessere dei nostri tre gioielli? Perciò stamattina stessa realizzeremo il tuo bel progetto, a dispetto del ricco sfondato Matrus, che non ha nessuno da sfamare!»

Così, a metà mattinata, i due consorti erano già pronti per intraprendere la loro sporca missione, per cui avevano raggiunto l'abitazione del vasaio dalla parte di dietro. Approfittando poi che in quel momento egli veniva distratto da un passante che gli chiedeva informazioni sui prezzi dei suoi prodotti artigianali esposti, si erano affrettati a praticarvi la giusta apertura che gli aveva consentito l'accesso. Una volta all'interno della capanna di Matrus, l'uomo, anziché badare a cercare insieme con la moglie il denaro nascosto dell'artigiano, appunto come si era convenuto nel loro alloggio, ad un tratto, aggredendola alle spalle, aveva preferito colpire la donna in testa con un vaso, stordendola. Vibrandole subito dopo diversi colpi all'addome col coltellaccio portato da casa, l'aveva uccisa ed era scappato via, lasciando per terra l'arma del delitto.

Un'ora più tardi, volendo mostrare ad un suo virtuale acquirente l'intera sua collezione di vasi, Matrus lo aveva accompagnato nella sua capanna. Ma lì avevano trovato la povera Ramal che giaceva morta sul pavimento, essendo stata accoltellata poco prima dal marito. Allora entrambi erano inorriditi; però era stato il solo vasaio a precipitarsi ad avvertire i tutori dell'ordine del cruento misfatto, il quale era stato consumato nella propria dimora a sua insaputa. I soldati, dopo aver eseguito i rilievi necessari per inquadrare il fatto di sangue in un'ottica che risultasse più attendibile, avevano dedotto che soltanto il padrone di casa poteva essere stato a macchiarsi di un delitto così orrendo, anche se si ignorava il movente preciso. Perciò, dichiarandolo in arresto, lo avevano condotto dal loro limiur. Allora il loro capo Nartos, visto che si trattava di un omicidio premeditato, di cui Matrus risultava gravemente indiziato, e considerati pure i precedenti dello zio adottivo, aveva invitato le stesse guardie che lo avevano arrestato a condurlo direttamente alla suska centrale, affinché venisse processato dalla competente commissione che giudicava i gravi reati. Inoltre, non si era astenuto dal consegnare alla guardia più anziana una pergamena, sulla quale era stato riportato che in passato, alla presenza dello stesso nipote sospetto di un raptus omicida, lo zio paterno aveva commesso un feroce assassinio congenere.

Tale commissione, da parte sua, pur ritenendo probabile che in Matrus fosse congenita una natura che lo predisponeva a delitti così efferati, come appunto si era comportato anche lo zio paterno, non lo aveva ritenuto un assassino con formula piena, non essendoci elementi probanti a suo carico. Ma nonostante il vasaio avesse continuato a dichiararsi innocente, ugualmente lo aveva dichiarato come possibile assassino. Allora il posust, dopo avergli bollato a fuoco la fronte con il marchio dell'infamia, lo aveva condannato all'esilio perpetuo, che egli avrebbe dovuto scontare nella palude, la quale era situata a settentrione della suska nordica. Nel caso poi che il reo l'avesse abbandonata e fosse ritornato in una delle cinque suske, dopo averlo scoperto, il popolo avrebbe dovuto lapidarlo. Così la condanna di Matrus all'esilio aveva reso felice e soddisfatto il vasaio Popon. Essa, oltre ad aumentargli la clientela, aveva allontanato da sé ogni sospetto che avrebbe potuto indurre gli inquirenti a farlo trovare sul banco degli imputati. Oltre a ciò, gli aveva favorito il matrimonio con la sua bella amante nascosta, il cui nome era Stelia, con la quale aveva una relazione amorosa nascosta, che oramai durava da quasi un quinquennio.



Una volta che si era ritrovato tutto solo nella zona paludosa, Matrus, potendo disporre di arco e di frecce, da quel giorno si era dato a cacciare e a procurarsi il cibo necessario per sopravvivere. Inoltre, nel posto che aveva considerato più adatto, si era costruito un alloggio con materiali di fortuna, poiché esso avrebbe dovuto difenderlo dall'umidità della notte quando dormiva. Comunque, egli non si nutriva solo di cacciagione, ma si alimentava anche con funghi mangerecci e con prodotti vegetali eduli, per averli trovati graditi al palato.

Era trascorso circa un mese, da quando l'ex vasaio viveva nella palude, dandosi a frequentare quei luoghi che gli rendevano l'esistenza più sopportabile. Ma un mattino, quando ricorreva il trentesimo giorno della sua permanenza nelle vicinanze della palude, lontano da ogni consorzio umano, egli si era svegliato. Allora aveva deciso di procurarsi la colazione con le tenere carni di un uccello acquatico. Perciò, dopo essersi munito di arco e di frecce, Matrus si era dato a cercarne qualcuno sulle verdastre acque stagnanti della palude. Nella sua ricerca mattutina, però, si era imbattuto in uno strano animale, la cui grandezza non superava quella di uno scoiattolo. Se ne differenziava per il suo orrido aspetto, il quale lo faceva somigliare del tutto ad una piccola iguana.

L'uomo, quindi, vedendo che esso restava immobile davanti a lui e continuava a guardarlo fisso, anziché sfuggirgli, aveva pensato di colpirlo con una sua freccia. Invece, poco prima che prendesse la mira, la bestiolina gli era saltata addosso e gli si era attaccata al petto; ma non vi era rimasta a lungo. Infatti, dopo averlo morsicato nella parte del corpo indicata, se ne era staccata all'istante ed era scappata via, rifugiandosi tra la fitta vegetazione. Al morso dello strano animale, Matrus aveva provato un lancinante dolore nella parte del corpo azzannata, dove gli erano apparsi anche tre piccoli fori, i quali facevano venir fuori del liquido bluastro. Ad ogni modo, la sua fuoruscita aveva avuto termine dopo una ventina di secondi, cioè quando in lui era cessata anche la sensazione dolorosa. Se però il morso della bestiola aveva smesso di arrecargli l'iniziale sofferenza, a un tratto lo sventurato si era sentito perdere le forze, intanto che gli si annebbiava la vista. La qual cosa lo aveva fatto precipitare verso la sua capanna, dove aveva avuto appena il tempo di distendersi sul suo giaciglio, allorché un sonno profondo si era impadronito di lui.

Il risveglio, comunque, non sarebbe risultato come quello delle altre mattine, quale appunto egli lo attendeva. Quando si era ridestato dalla sua dormita notturna, avvertiva che la sua mente era in preda ad una grande confusione, che non lo faceva più connettere. Al contrario, lo induceva più a sragionare che a darsi ad una pacata riflessione. Ma se a livello psichico quello era il suo atteggiamento nei confronti della realtà; nel suo fisico, si sentiva trascinare in una incomprensibile situazione. Essa gli andava infondendo infinite sensazioni, le quali non gli lasciavano comprendere da cosa venissero originate e verso cosa si protendessero. Perciò le viveva nella loro amara incomprensione e nel loro evolversi senza un futuro certo. A quel punto, da parte sua, era stato obbligatorio cercare di affidarsi ad una realtà, la quale si mostrasse più comprensiva nei suoi confronti, senza emarginarlo in un qualcosa dagli obiettivi macabri e senza trattarlo con la massima indifferenza. Quanto a quest'ultima, essa avrebbe fatto penare maggiormente colui che già era stracolmo di sofferenza, per la qual cosa annegava in un'ambascia mortificante. Comunque, quale realtà del presente avrebbe potuto ricondurlo al suo essere precedente, cioè quello che gli avrebbe permesso di rivivere il suo normale stato neurovegetativo e lo avrebbe riportato così ad una esistenza meno problematica? Per la verità, in quel momento per lui non poteva essercene nessuna. Infatti, l'unica novità era stata quella di vedersi, all'improvviso, cadere in deliquio.

Quando si era riavuto dal suo svenimento transitorio, Matrus aveva cominciato ad avvertire nel proprio corpo una strana sensazione, la quale, in un primo momento, gli era apparsa assurda ed inconcepibile. Volendo precisare meglio la situazione di quegli attimi incredibili, gli era parso che esso si fosse dato a gonfiarsi e a prendere più spazio, rispetto a quello che fino allora era stato concesso alla sua corporatura. Anzi, insieme con lo spazio che si andava espandendo, pareva che l'intera sua stazza gli si aggiustasse all'interno, crescendo parimenti alla sua espansione. La quale era in continua evoluzione fisica nella dimensione spaziale che lo circondava e gli garantiva la massima capienza possibile. Ma se per adesso la fisicità del suo essere si esprimeva in pure sensazioni espansive, senza accusare alcun disturbo nella sua sfera dolorifica, la psiche dell'esiliato Pices andava reagendo in maniera diversa. Egli avvertiva che dentro di sé si stava verificando la disfunzione totale della sua parte intellettiva, poiché nella sua mente iniziava a spegnersi ogni ricordo del passato. Inoltre, il fraintendimento di qualsiasi pensiero diveniva un fenomeno normale, in quanto parte integrante di una esistenza che ormai andava alla deriva. Invece gli effetti patologici più vistosi, che azzannavano l'intera sua funzione psichica, si rivelavano ben altri. Egli vi avvertiva una specie di frattura multipla della personalità, che si dava ad insidiarla in tutte le sue componenti, fossero essere spaziali o temporali. Così le dissestava e vi provocava vari blocchi psicologici, i quali ne peggioravano le condizioni. Soprattutto vi promuovevano ansiti esistenziali, simili a quelli del mare, nel momento stesso che si gonfia e diviene turbolento, pronto a sfidare ogni forza della natura.

Quando alla fine aveva avuto inizio la crescita esponenziale del suo corpo, come se una forza interiore si fosse messa a soffiare e ad enfiarlo a dismisura, per cui a breve lo avrebbe fatto scoppiare, però senza che mai lo scoppio si avesse nel suo corpo, allora in lui il dolore divenne immane ed indicibilmente insopportabile. Più le sue dimensioni aumentavano, maggiormente esso si acuiva e lo andava rendendo vittima di una sofferenza sempre più atroce. Per questo ogni suo organo, insieme con i suoi vasi e le sue fibre afferenti, non cessavano di manifestare algie di una certa rilevanza. Ma esse potevano soltanto arrecargli il massimo tormento, senza che lo sventurato, pur volendolo, vi potesse porre fine in qualche modo. Nel frattempo, la stazza di Matrus si incrementava e le varie parti del suo corpo raggiungevano proporzioni sempre più spropositate. La sua massa corporea aumentava a un ritmo abbastanza veloce, poiché al trascorrere di ogni ora si accresceva di una quantità uguale a quella di un gorilla di grosse dimensioni. La qual cosa gli permetteva anche di protendersi sempre più in alto, poiché, a suo confronto, erano diventate basse prima le pianticelle, poi le piante di media grandezza e infine gli alberi che vantavano la massima altezza nel regno vegetale. A ogni modo, tanto la sua crescita nel suo insieme, quanto ogni sensazione dolorosa ad essa connessa, erano cessate, solo quando la sua altezza da gigante insuperabile era divenuta doppia di quella dell'albero più alto esistente sul pianeta.

Venuto in possesso di una corporatura simile, l'ex vasaio adesso trovava difficoltà a prendere qualche decisione, come pure esitava a muovere i suoi primi passi. Infatti, non sapeva come districarsi nei nuovi movimenti e si sentiva impacciato nel dare ad essi l'avvio iniziale. Ma poi era stato un insaziabile appetito a smuoverlo da quel posto, poiché non vedeva l'ora di darsi a mangiare, nel suo caso a trangugiare, qualcosa che lo sfamasse. Perciò aveva deciso di superare la sua momentanea inazione e di darsi ad una esistenza più risoluta ed energica. La quale avrebbe dovuto fargli compiere quegli sforzi atti a soddisfare i naturali bisogni che l'attuale vita esigeva, primo fra tutti quello di mettere a tacere i morsi della fame. In verità, nella palude tutti gli esseri animali, perlopiù acquatici, gli apparivano di una minutezza tale, che trovava difficoltà ad abbrancarli, al fine di introdurseli nella bocca e divorarseli famelicamente. Dandogli però fastidio il mangiarseli vivi, prima di ingollarli, Matrus aveva cominciato ad ucciderli, schiacciandoli nel proprio pugno. I suoi mammiferi preferiti erano le volpi, le donnole e i toporagni; in riferimento ai rettili, invece, si dava alla ricerca di bisce, di biacchi e di luscengole. Quanto agli anfibi, la sua preferenza era soltanto per le raganelle. Egli andava ghiotto anche per i pesci, poiché la fauna paludicola comprendeva anguille, carpe, spigole, gambusie, noni, muggini dorati e pesci aghi; mentre evitava di divorare gli uccelli, a causa del loro piumaggio, che mal tollerava nell'ingurgitarlo.

Una volta conosciuta in parte la sua attuale esistenza, la quale per forza di cose si svolgeva in base a criteri di comportamento del tutto differenti, giustamente ci si poneva qualche domanda. Il nuovo essere, che era diventato l'ex vasaio, ragionava come un uomo, per non aver perduto l'intera sua essenza umana e la fitta rete dei ricordi del suo tempo trascorso? Oppure, avendo acquisito una indole prettamente di natura bestiale, viveva adesso soltanto in base ad essa e privo totalmente di una memoria radicata nel passato? Stando dietro a certi particolari del suo comportamento, di cui siamo venuti a conoscenza, si era propensi a credere che l'umanità in lui fosse rimasta. Altrimenti il mangiare le sue prede vive non avrebbe generato in lui alcun disgusto, come avveniva. La qual cosa portava anche a pensare che pure la sua memoria fosse rimasta intatta, per cui essa fosse in grado di rammentargli la ruggine che aveva con la sua gente e di invogliarlo perfino a vendicarsi di quanti lo avevano punito ingiustamente. Attenendoci ad un fatto del genere, allora bisognava attendersi da lui propositi di vendetta, facendo magari delle incursioni punitive contro la sua gente. Perciò ci si doveva aspettare il peggio da lui, a tale proposito.

Intanto che trascorrevano le sue giornate non più traumatiche, siccome la crescita corporea si era stabilizzata nella grandezza appresa, la sua vita era continuata a svolgersi come le varie esigenze gli imponevano, ossia dandosi a procurarsi il pasto notturno e a riposarsi con un bel sonno, il quale durava l'intera giornata. Infatti, dopo la sua metamorfosi, Matrus si era ritrovato ad essere affetto da una rara forma di albinismo, che gli indeboliva la vista di giorno e gliela rafforzava di notte. Ecco perché lo si vedeva in azione nelle ore notturne; mentre in quelle diurne si dava a dormire dall'alba all'imbrunire. Ad ogni modo, andava puntualizzato che Matrus, anche dopo avere assunto le sembianze di un gigantesco uomo, non aveva smarrito la memoria. Perciò le infondate accuse intentate contro di lui si erano date a frullargli per il capo; come pure i propositi di vendetta si erano ravvivati nella sua mente, fino a cominciare a diventare concreti ed improcrastinabili.



CAPITOLO 459



IL GIGANTE MATRUS SI VENDICA DEI PICES, MA NE VIENE UCCISO



Adesso occorre parlare dello stato pietoso in cui era venuto a versare il popolo picesino per la durata di un mese. Durante tale periodo di tempo, i Pices per malasorte erano stati costretti a sottostare alle più incredibili disavventure. Le quali, dalla sera alla mattina, avevano trasformato la loro esistenza tranquilla e dignitosa in un baratro di atroci sofferenze. A causa di tale cambiamento che gli era stato imposto, essi avevano preferito perfino che la vita non ci fosse mai stata per loro, se erano obbligati a trascorrerla come non avrebbero mai desiderato. Essa, infatti, si svolgeva nell'impotenza assoluta nei confronti di chi non cessava di torturarli con il massimo tormento e senza alcuna compassione. Naturalmente, ci si starà chiedendo chi o cosa infieriva contro i Pices, senza che i poveretti potessero fare qualcosa per ribellarsi e lottare con tutte le proprie forze per liberarsene e riacquistare la serenità di prima. Ebbene, tra poco apprenderemo ciò che è giusto sapere da parte nostra.

Una notte illune gli abitanti delle cinque suske erano immersi nel loro sonno profondo. Ma in quella che si trovava a nord del territorio, qualcuno, che non poteva essere scorto a causa della cecità imposta dal buio pesto imperante ovunque, si era dato a distruzioni di capanne e ad ammazzamenti di persone. In tali ore notturne, quando la mezzanotte era appena trascorsa, tra quelli che erano svegli, nessuno riusciva a rendersi conto di quanto stava accadendo nel proprio villaggio. Ovviamente, ci si riferisce a coloro che non ne venivano coinvolti, soltanto per un caso fortuito. Ebbene, in quella suska una forza immane, avanzando invisibile, schiacciava tutte le capanne che si trovavano sul suo percorso. Insieme con esse, risultavano spiaccicate al suolo come scarafaggi le persone che stavano dormendo nel loro interno. A quel fenomeno di ignota indole, i fortunati sopravvissuti, scappando terrorizzati in ogni parte senza sapere dove, potevano soltanto creare ovunque una confusione caotica ed una bolgia infernale. Nel frattempo vi si andavano spargendo i pianti dei bambini, le urla delle donne e le imprecazioni degli adulti. Ma anche si udivano i numerosi latrati dei cani e i miagolii dei gatti, i quali animali domestici manifestavano in quella maniera il grande terrore che li aveva assaliti. Quando era giunta l'alba, quella misteriosa forza, dopo essere sparita nel nulla, aveva già abbandonato il villaggio. Prima, però, lo aveva lasciato in uno stato talmente miserevole, che neppure la fine del mondo lo avrebbe reso come essa aveva fatto in alcune sue strade.

Il mattino dopo quella nottataccia, quando le luci del giorno erano apparse ad oriente, gli abitanti della suska del nord, ovviamente ci si riferisce a quelli che erano riusciti a salvarsi dall'inferno notturno, erano già svegli e si mostravano inorriditi, poiché si rendevano conto di quanto era accaduto nella notte appena trascorsa. Perciò andavano contando le capanne rovinate e i cadaveri delle persone che vi erano rimaste schiacciate, alcune delle quali si presentavano irriconoscibili. Al termine della conta, le capanne distrutte in quella maniera orrenda erano risultate un centinaio; mentre i morti superavano il numero di cinquecento, siccome i vari nuclei familiari erano composti da non meno di tre persone. Tra le capanne sottoposte al brutale abbattimento, c'era anche quella di Furiek, il quale risultava l'idolo delle masse in tutte e cinque le suske. Ma se i suoi genitori vi erano stati trovati spiaccicati e morti, il corpo del loro eroe non vi era stato rinvenuto, per cui lo si era considerato senz'altro salvo altrove. La buona sorte, infatti, aveva voluto che il campione picesino, a quell'ora della notte, non stesse dormendo nella propria capanna insieme con i propri genitori; invece egli si trovava nella suska centrale, dove aveva pernottato presso la dimora dell'amico Pluez. Costui, che era il primogenito di Sozen, il posust dei Pices, il giorno prima lo aveva invitato a trascorrere una giornata insieme con lui. Ma poi, essendosi fatto molto tardi, lo aveva pregato di trascorrere la nottata presso la sua famiglia, la qual cosa gli aveva giovato moltissimo, salvandogli la vita.

La notizia dell'assalto alla suska settentrionale da parte di una forza oscura non era tardata a giungere anche alla dimora del posust Sozen. Allora costui, insieme con l'amico e con il figlio, si erano messi subito in viaggio per raggiungere il villaggio interessato. Di loro tre, però, il più ansioso di pervenirvi era stato Furiek, siccome si mostrava assai preoccupato per i suoi genitori e non vedeva l'ora di raggiungerli e di assicurarsi che a loro due non era successo niente. Invece, una volta sul posto, aveva fatto la macabra scoperta della distruzione della sua capanna e della morte violenta a cui erano andati incontro il padre e la madre. Essa li aveva resi per niente ravvisabili, a causa dello spappolamento subito specialmente dai loro crani. In verità, l'intera devastazione, che era stata provocata dall'ignoto essere senza volto nella suska nordica, li aveva impressionati tutti e tre tantissimo, essendo convinti che neppure un terremoto sarebbe stato capace di essere più distruttivo e sanguinario. Per cui avevano cercato di comprendere in un modo qualsiasi quale creatura immane e terribile era riuscita a produrvela, provocandovi in pari tempo una vera ecatombe di persone e di animali. Riuscendogli però difficile farsene almeno una idea approssimativa, si erano augurati che essa non si avesse a ripetersi né in quel luogo, che era stato già tremendamente flagellato, né in nessun'altra suska picesina.

Dopo che si erano riavuti da quell'apocalittico scenario, il quale li aveva distrutti psichicamente, tanto il posust quanto suo figlio e Furiek si erano attivati con gli abitanti del luogo con uno scopo ben preciso. Essi intendevano recuperare e cremare al più presto le vittime di quella incredibile tragedia, sottraendoli agli ammassi arborei, che fino al giorno precedente avevano avuto la funzione di capanne. Quando nel villaggio c'era stata la fine delle operazioni di recupero e di cremazione dei cadaveri, si era proceduto a valutare la sua situazione. Avvenuta tale valutazione, Sozen, avendo avuto anche il parere favorevole di Furiek, che considerava abbastanza autorevole, aveva deliberato di non fare attivare ancora gli abitanti sopravvissuti per lo sgombero del materiale reso inservibile dal disastroso evento. Ma aveva disposto la loro evacuazione temporanea da quel luogo, allo scopo di evitare che una nuova strage venisse compiuta nella notte successiva da chi era stato il responsabile di quella precedente. Per questo la notte seguente l'intera popolazione rimasta indenne, ammesso che ci fosse riuscita, era stata costretta a dormire all'addiaccio, in una zona distante due miglia dalla suska settentrionale e situata dal lato di quella centrale. Quanto a loro tre, che erano i due familiari e Furiek, essi erano rimasti nei pressi della suska nordica, dove, tenendo gli occhi bene aperti, intendevano sorvegliare da vicino il fenomeno catastrofico, nel caso che esso vi si fosse ripetuto.

Così, non appena i minuti dopo la mezzanotte erano cominciati a trascorrere lentamente, il posust, il figlio Pluez e il campione loro amico si erano visti porre la massima attenzione a ciò che prima o poi sarebbe successo nel villaggio. Ma era dovuta arrivare la seconda ora piccola, perché essi incominciassero ad avvertirvi qualcosa di strano, che non era da riferirsi ad un evento notturno normale. All'improvviso, rimbombi di colpi ripetitivi, uno dopo l'altro, si erano dati a farsi udire simili a dei passi enormi. Il cui avanzare andava causando intorno a sé sia frastuono che sfacelo, facendo perfino tremare il suolo. Comunque, l'oscurità notturna non aveva permesso ai tre sorveglianti di scoprire lo scompigliatore dello sventurato villaggio. Il quale ancora una volta aveva avuto un ulteriore centinaio di capanne abbattute e ridotte a mucchi di rami, di frasche e di paglia. Per fortuna, quella notte esse non ospitavano persone. Per l'intero tempo della sua terribile incursione, che si dava a rimbombare forte, essi erano rimasti quasi allibiti; però si erano ripromessi di approfondire lo strano fenomeno il mattino seguente.

L'indomani, infatti, alla luce di un sole sfolgorante, il capo del popolo picesino, suo figlio e Furiek, senza perdere un minuto di tempo, avevano intrapreso le ricerche, perlustrando palmo per palmo la zona interna del villaggio e quella circostante. Ma era stato Pluez a rendersi conto per primo della presenza in alcune sue vie di alcune impronte gigantesche. Esse, che erano profonde circa quindici centimetri, riproducevano i due piedi di un essere umano; ma la loro grandezza si presentava enorme e approssimativamente faceva stimare che fosse non meno di cento volte più grande di quella normale. Di conseguenza, ne derivava che una persona gigantesca, la quale non abitava neppure tanto lontano dal loro territorio, esisteva ed aveva intenzioni tutt'altro che pacifiche nei confronti del popolo picesino. A quella scoperta poco rassicurante, tutti e tre i Pices avevano fatto ritorno fra la loro gente, la quale bivaccava all'aperto. Una volta che avevano riferito a quanti vi si trattenevano che il fenomeno si era ripetuto nel loro villaggio, li avevano messi anche al corrente di quanto erano riusciti a scoprire in merito ad esso. Infine si erano congedati da loro, promettendogli che sarebbero andati nella suska centrale per studiarsi meglio quel gigantesco essere, del quale per ora non si sapeva nulla. Comunque, il mostro, pur essendo della stessa natura di ognuno di loro, non dimostrava di volerli trattare con amicizia, se si dava ad infierirglisi contro e a distruggere il villaggio da loro abitato.

Giunti alla loro meta, la quale era stata la capanna del posust, in essa avevano avuto modo di rifocillarsi con una sostanziosa colazione. Consumata la quale, essi avevano intavolato una conversazione a tre su ciò che era iniziato ad esserci nella suska settentrionale. Il primo ad esprimersi sull'argomento era stato l'autorevole Sozen. Egli, dopo avere invitato gli altri due interlocutori nel cavedio adiacente alla capanna, dove si erano poi accomodati, si era dato a dire al suo ospite:

«Secondo me, Furiek, ci troviamo di fronte ad un caso non facilmente risolvibile. Inoltre, chi ci si è messo contro può esserci soltanto estremamente pericoloso, grazie alla sua mole gigantesca. A proposito, glorioso campione, sapresti dirmi quali potrebbero essere le sue dimensioni, tenendo conto delle impronte dei suoi piedi? Hai visto anche tu che esse erano due metri di larghezza alle calcagna e venticinque metri di lunghezza dal tallone all'alluce! Un fenomeno incredibilmente strano!»

«A mio parere, Sozen, se i suoi piedi sono direttamente proporzionali alle restanti parti del corpo, come avviene in quello nostro, aspettiamoci di trovarci di fronte ad un omaccione avente una stazza smisurata. Perciò, stando dietro ad un calcolo eseguito anche per approssimazione, la sua altezza dovrebbe essere non meno di cento metri. Invece la sua testa dovrebbe avere le seguenti dimensioni: larga settantacinque centimetri, alta centoventicinque centimetri e spessa sessantacinque centimetri. In riferimento al suo peso, la sua immensa mole potrebbe farlo pesare addirittura oltre duecentocinquanta tonnellate. Ciò vorrebbe dire che esso sarebbe venticinque volte maggiore del peso di un elefante avente la massima grandezza. Lo dimostra il fatto che, quando il gigantesco uomo cammina, le sue pedate riescono perfino ad affondare nel suolo e ad arrecare ad esso piccole scosse, simili a quelle telluriche.»

«Dunque, Furiek, sarà la sua colossale ed imponente corporatura» aveva osservato il figlio del posust «a dare origine dove avanza a quello stato catastrofico e distruttore, provocando rovinio di cose e massacri di esseri umani ed animali. Secondo me, non può essere altrimenti!»

«Certo che è come tu affermi, Pluez! La sua pesantezza, la quale di sicuro supera un sacco di volte quella del pachiderma più grande del nostro pianeta, lo fa procedere nella maniera da te fatta presente.»

«Ma se ci troviamo di fronte ad un essere che supera ogni misura che possiamo immaginare,» aveva commentato il posust «mi dici, Furiek, come faremo a sbarazzarcene? Anzi, sarà lui ad eliminare tutti i Pices, anche se non riesco a prevedere il tempo che ci impiegherà per farlo!»

«Per il momento, Sozen, questo non te lo so dire. Se prima non lo avrò osservato di persona, mi sarà difficile esprimere su di lui pareri di qualsiasi tipo. Piuttosto adesso mi preoccupa la sua nuova incursione della notte ventura. Ci sarà essa ancora nella suska del nord, sebbene l'abbia trovata priva di popolazione? Oppure questa volta egli vorrà cambiarla, essendo sua intenzione di fare una gran quantità di vittime tra i nostri conterranei, ovunque essi si trovino? Se fosse così, allora sarei portato a credere che abbiamo a che fare con un essere che ragiona e medita su quanto intende attuare. In tal caso, auguriamoci che egli abbia il suo punto debole, che possa permetterci di ammazzarlo, prima che ne veniamo uccisi tutti! Quindi, dopo la prossima nottata, dovrò occuparmi di lui, per averne una conoscenza diretta e per studiare il modo di sottrarre le nostre cinque suske da una bestia simile.»

Anche il posust dei Pices e suo figlio erano stati d'accordo con Furiek e avevano atteso che quest'ultimo si desse alla ricerca dell'ignoto essere con cui stavano avendo a che fare e ne conoscesse quanto era necessario apprendere su di lui, se volevano sopravvivere alla sua reale minaccia. Ma sarebbe riuscito il loro insuperabile campione a condurre in porto ciò che si era prefisso e a trovare dopo qualche stratagemma per mettere fuori gioco l'essere che al momento rappresentava per tutti i Pices un indubbio pericolo mortale? Staremo a vedere.

Intanto che la successiva notte non si presentava, bisognava prendere una decisione e stabilire se anche le restanti quattro suske andavano evacuate oppure conveniva attendere nuovi sviluppi, prima di allontanare da esse la numerosa gente che le abitava. La scelta era stata fatta dal posust Sozen, il quale non aveva ritenuto opportuno prendere un così drastico provvedimento, considerato che si ignorava ancora il tipo di reazione che ci sarebbe stato da parte del pericoloso intruso, dopo aver trovato il villaggio disabitato. Invece questa volta l'abominevole essere, che non si era ancora riusciti a ravvisare, essendo andato incontro ad una scottante delusione, aveva pensato di rivalersi sulla suska di ponente, apportandovi gli stessi danni ed un numero di uccisioni identico al precedente. Allora, in seguito a quest'ultima incursione del ciclopico essere umano, che non era stata meno distruttiva ed assassina delle due precedenti, il posust era ricorso all'evacuazione notturna delle altre suske in pericolo, onde prevenirlo nei suoi progetti brutali. Essa, però, non aveva risolto il problema dei Pices, i quali, durante le notti che erano seguite, lo stesso avevano subito le aggressioni di chi aveva deciso di non farli dormire in pace e di farne delle orrende stragi. A differenza di quelli iniziali, però, i nuovi assalti avevano permesso alle persone aggredite di rendersi conto delle caratteristiche del loro aggressore, anche se non nitidamente. Allora tutti avevano preso coscienza che il loro nemico, il quale seguitava ad investirli sempre nelle ore notturne, ossia in quelle che precedevano l'alba, altro non era che un essere simile a loro, ma avente delle proporzioni smisurate. Inoltre, essi erano stati in grado di stimare il loro rapporto con lui e lo avevano valutato uguale a quello esistente tra ciascuno di loro e un topo.

A quel punto, quando si era al venticinquesimo massacro compiuto dal mostruoso uomo, Sozen, vista la gravità della situazione, aveva invitato di nuovo Furiek nella propria casa, volendo consultarsi con lui e chiedergli quale concrete possibilità ci fossero per sopprimerlo. Alla sua domanda, l'eroe del popolo, non potendo rassicurarlo in qualche modo sicuro, gli aveva dato la seguente risposta:

«Mio insigne posust, ho bisogno di studiarlo da vicino, prima di emettere sul nostro rivale malfattore un giudizio, del quale poi io non abbia a pentirmene. Adesso finalmente sappiamo che la volta scorsa non ci siamo sbagliati sia nell'attribuirgli un aspetto simile al nostro sia nell'avanzare ipotesi sulla sua immane corpulenza. Inoltre, mi sono fatto di lui una certa idea, la quale potrebbe anche essere azzeccata.»

«Mi dici, Furiek, essa quale sarebbe e se un domani potremo usarla a nostro vantaggio, allo scopo di salvarci da lui?»

«Secondo me, Sozen, colui che oggi, approfittando della sua enorme costituzione fisica, ci combatte e ci decima, se preferisce agire di notte, ciò vuol dire che di giorno egli avrà la vista corta. Ma siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, potremmo anche immaginare che durante le ore notturne essa si presenti molto acuta. Quindi, se un giorno faremo pensiero di combatterlo e di metterlo fuori gioco, dovremo approfittare della luce del sole per liquidarlo secondo le nostre intenzioni. Non sei anche tu d'accordo?»

«Certo che lo sono, Furiek! A tale riguardo, vuoi farmi anche presente come intendi studiare da vicino il mastodontico uomo nostro nemico? Ma vorrei sapere quando avrà inizio il suo studio da parte tua. Spero che esso avvenga al più presto, perché non vedo l'ora che si ponga fine alle sue notturne carneficine dei nostri conterranei, fra i quali un giorno non lontano potremmo esserci anche noi!»

«Allora ti annuncio, Sozen, che nel pomeriggio andrò alla ricerca del luogo dove egli riposa e si dà a dormire, per rifarsi delle fatiche notturne. Sono certo che non avrò difficoltà a trovarlo. Mi basterà seguire le sue enormi impronte, le quali mi condurranno dritto alla sua montagna di carne. Dopo aver acquisito tutte le notizie che lo riguardano e mi occorrono per batterlo, verrò a riferirtele, senza perdere un attimo di tempo.»

Furiek, come promesso al suo posust, subito dopo pranzo, saltato in groppa al proprio destriero e seguendo le tracce da lui lasciate nelle sue varie incursioni, si era messo alla ricerca dell'essere, che non smetteva di avvelenare l'esistenza agli abitanti delle cinque suske. Dopo aver percorso cinque miglia in direzione nord, all'improvviso esse si erano perse ai margini di una palude. La loro sparizione gli aveva fatto intendere che il gigantesco uomo l'avesse attraversata per raggiungere il suo luogo di destinazione. Perciò gli era toccato fare la stessa cosa, poiché era certo che, dopo averla superata e si fosse trovato sull'altra sponda, esse gli sarebbero apparse di nuovo. Egli non si era sbagliato. Infatti, all'uscita dall'acqua stagnante, si era trovato davanti agli occhi le medesime pedate che stava seguendo e che erano scomparse ai margini della palude. Allora si era ridato a stargli dietro, fino a quando tali impronte non lo avevano fatto trovare al cospetto di chi ve le aveva lasciate.

L'eroe picesino adesso si trovava alla base di una delle due cosce del gigantesco omone dalle sembianze umane, la quale non gli consentiva di scorgere la sua parte anteriore. Allora si era condotto alla sua caviglia, dove la sua minore altezza gli aveva permesso di salire sopra la gamba. Da quel punto, egli aveva incominciato a dirigersi verso la testa, superando lo scoglio rappresentato dal ginocchio e il rilievo formato dalla pancia. Da lassù aveva potuto osservare il suo volto, l'unica parte del corpo non ricoperta dalla folta peluria, e constatare così che i suoi occhi erano chiusi, essendo intenti a godersi il dolce sonno, del quale non aveva usufruito durante la notte appena trascorsa. In verità, per muoversi sul suo tronco che era in posizione supina, il quale si distendeva per oltre cinquanta metri e presentava un'ampiezza di circa trenta metri, Furiek aveva dovuto faticare non poco, poiché il suo corpo era invaso da una fitta ed ispida massa di peli. Essi formavano una specie di miniforesta pilifera, che non superava i centocinquanta centimetri di altezza. Ad ogni modo, lo aveva stupito molto il suo viso, poiché esso gli ricordava una persona a lui nota, naturalmente in miniatura, di cui l'anno precedente si era interessata la cronaca nera del suo villaggio, perché si era fatta punire con l'esilio perpetuo nella palude. Si trattava di Matrus, il quale prima vi esercitava il mestiere del vasaio, dimostrandosi abbastanza bravo nella fabbricazione di pregevoli vasi di terracotta.

Con quella sorpresa in suo possesso, Furiek non vedeva l'ora di relazionare il suo posust sullo smisurato uomo, che aveva studiato da poco, percorrendone metro dopo metro la parte di corpo risultata transitabile. Perciò, dopo qualche ora, egli si trovava già presso il suo capo per riportargli ogni dettaglio appreso sul loro persecutore umano. L'incontro era avvenuto ancora nella capanna dell'autorevole persona e alla presenza anche dell'amico Pluez. Comunque, il suocero Sozen lo stava aspettando con ansia, per cui, non appena se lo era visto davanti, si era affrettato a fargli un sacco di domande, una dopo l'altra, senza neppure attendere dal suo interlocutore la risposta ad ognuna di loro. Solo quando il posust aveva terminato di assalirlo con esse, Furiek gli aveva parlato così:

«Comprendo, suocero mio, che la questione di chi ha deciso di sterminarci tutti ti interessa particolarmente, per cui vorresti subito ogni informazione a lui inerente. Ma almeno dammi prima il tempo di salutare te e tuo figlio, di mettermi comodo e di iniziare a raccontarti ciò che ho appreso su colui che ha deciso di vendicarsi di noi, poiché di vendetta si tratta da parte di qualcuno, poiché questa è la mia convinzione.»

«Perché mai mi parli di vendetta da parte del mostruoso uomo, genero mio? In che maniera lo avremmo noi offeso, per costringerlo ad agire contro il nostro popolo? Non credi di esagerare nell'avanzare una ipotesi del genere? Mica è stato lui a rivelarti che ha stabilito di vendicarsi per avere subito da noi qualche torto! Perciò da dove ti è uscita fuori questa idea, che non condivido affatto, perché la trovo bislacca?»

«Certo che non è stato lui a parlarmi della sua vendetta contro di noi, Sozen! Tra breve, però, dopo che ti avrò messo a conoscenza di un particolare, ti renderai conto pure tu che è proprio come ho pensato.»

«Allora sbrìgati a riferirmelo, perché io mi convinca che hai ragione in ciò che mi hai affermato con tanta sicurezza! Nel frattempo, continuo a dubitare che la tua affermazione possa essere condivisa da me.»

«Ti ricordi, padre della mia ragazza, del vasaio Matrus, il quale, dopo essere stato accusato di omicidio, sebbene egli si dichiarasse innocente, fu condannato all'esilio perpetuo? Conosci anche il luogo dove egli fu confinato, perché giammai lo lasciasse, pena la morte?»

«Come potrei non rammentarmi di lui, Furiek, e non sapere dove lo esiliai? Dal momento che non avevo la piena convinzione che l'artigiano fosse colpevole, preferii evitargli la pena capitale. Ma cosa c'entra egli nel nostro attuale discorso: me lo vuoi dire?»

«Sozen, non so per quale prodigio lo straordinario fenomeno sia avvenuto, però ti assicuro che sono la medesima persona il vasaio Matrus e l'omone, il quale ha cominciato a darci filo da torcere. Egli è ritornato per vendicarsi del torto da noi ricevuto. Né sappiamo per quanto tempo ha deciso di far durare la sua vendetta nei nostri confronti! Se desideri apprendere in che modo sono venuto a saperlo, te lo spiego subito. Per guardarlo in faccia, mentre dormiva supino, ho dovuto percorrere l'intero suo arto inferiore destro, il suo addome e il suo petto, attraverso la sua peluria alta un metro e mezzo, la quale si presentava come un campo seminato a segale. Ma già quando mi sono trovato alla sommità del suo rilievo panciuto, sono stato in grado di scorgere il suo volto, nel quale all'istante mi sono risultati familiari i tratti fisionomici del vasaio. A tale scoperta, che mi ha fatto rendere conto di tutta la verità su quell'essere che intendevo studiare da vicino, ho ritenuto opportuno fare subito ritorno presso di te e fartela conoscere.»

«Pur volendo crederti sulla parola, Furiek, nella difficile situazione in cui ci troviamo, vuoi dirmi come faremo a venirne fuori? Hai tu un piano appropriato che possa permetterci di liberarcene? Voglia il cielo che la tua intelligenza te ne abbia già suggerito qualcuno!»

«Uno ce lo avrei, posust dei Pices. Probabilmente, esso ci consentirà di distruggere il nostro nemico; ma non posso quantificare il numero dei nostri conterranei che soccomberanno, durante la messa in opera del mio piano. Comunque, potrà anche succedere che non ce ne sarà nemmeno uno nel nostro tentativo di farlo fuori con i mezzi che proporrò. Tutto dipende da come saranno disposte ed attuate le nostre singole azioni, le quali dovranno essere messe in campo con un certo tempismo e con impeccabile sinergismo.»

«Allora attendo che tu mi faccia conoscere il tuo piano, figlio del grande defunto Pursop, poiché non vedo l'ora di apprenderlo dalle tue labbra. Da un tipo come te, posso soltanto aspettarmi qualcosa di lodevole capace di dare degli eccellenti risultati, quando si cercherà di metterlo in pratica. Perciò inizia a parlarmene, spiegandomi ogni dettaglio relativo alla sua parte logistica. Dopo ti darò anche il mio parere in proposito.»

«Sozen, poiché solo di giorno lo possiamo sorprendere mentre dorme e sono certo che ogni volta chi ha giurato a sé stesso di sterminarci tutti si abbandona ad un sonno pesante, occorrerà muoverci contro di lui nelle ore diurne, di preciso un'ora dopo che egli è ritornato da una delle sue incursioni vendicative contro il nostro popolo. Ma anche se sospetto che la luce solare gli crei qualche problema di vista, lo stesso consiglio di arrecargli la piena cecità, quando le nostre azioni a lui avverse non avranno ancora iniziato ad azzannarlo. Comunque, prima di accecarlo, dovremo effettuare altri lavori, in attesa di dargli applicazione in un secondo momento contro il suo sterminato corpo. Esso, come sappiamo, non si presterebbe ad una facile distruzione, anche se fossimo in mille oppure di numero superiore ad aggredirlo con armi di ogni sorta. Le quali risulterebbero inefficaci contro la sua stazza gigantesca.»

«Allora, Furiek, mi dici in che modo intenderesti renderlo cieco, prima di cominciare ad agire contro il mostruoso vasaio con azioni aggressive e distruttive, che dovrai ancora farmi conoscere? Sto qui ad ascoltarti con la massima attenzione e a prenderne nota.»

«Per condurre a termine una operazione simile, mio posust, occorreranno due persone coraggiose e determinate. Se fosse vivo mio padre, io e lui saremmo le persone ideali per mandarla ad effetto con successo, grazie pure alla nostra invisibilità. Ma considerato che il mio defunto genitore non potrà essere presente per aiutarmi nell'impresa, avrò bisogno di un altro valido guerriero che mi affianchi e collabori con me nel nostro momento cruciale. Anche se egli non potrà fruire della prerogativa di rendersi invisibile, mentre agiamo.»

«Ti chiedo ancora, Furiek, come intenderesti rendere orbo da entrambi gli occhi l'implacabile vendicatore. Per ora non me lo hai detto.»

«Io e il mio partner, muniti ciascuno di una spada più lunga del solito, alla quale in precedenza abbiamo fatto subire un bagno di curaro, mediante una scala, raggiungeremo le palpebre dei suoi occhi. Una volta lassù, le solleticheremo in modo da farle aprire anche minimamente. A quel punto, nella stretta fessura che esse avranno formato, assesteremo i nostri due colpi di spada, facendo affondare le due lame nei suoi globi oculari, possibilmente nelle due iridi. Ti garantisco che, dopo la loro profonda penetrazione, i suoi occhi non riusciranno a vedere più niente, poiché essi verranno colti da un forte bruciore e da un dolore tremendo. Anzi, l'uno e l'altro saranno di disturbo ad ogni loro tentativo di scorgere chi gli ha provocato il grave danno.»

«Se per te va bene, amico mio,» era intervenuto a dire il figlio del posust «sono disposto a farti io da partner nell'impresa. Vedrai che sarò all'altezza del compito che mi attende!»

«Certo che per me va bene, Pluez. Allora è deciso: sarai tu ad affiancarmi nell'operazione di accecamento del nostro nemico. Sono certo che in quell'istante avrai i nervi di acciaio.»

«Sono orgoglioso di mio figlio, Furiek,» il posust aveva voluto far presente all'ospite «per essersi proposto di farti da partner nella rischiosa operazione che sei intenzionato ad attuare. Ma vorrei sapere da te come fai ad essere così sicuro che l'enorme gigante non si sveglierà, prima che voi possiate accecarlo. Te lo chiedo per stare più tranquillo, quando tu e Pluez lo affronterete, poiché mi dispiacerebbe, se mio figlio ne venisse ammazzato!»

«Devi sapere, Sozen, che il nostro transito su di lui sarà simile a quello di una mosca sul nostro corpo. Se esso ci fosse, quando siamo immersi nel nostro sonno profondo, ce ne accorgeremmo forse? Non direi! Dunque, ci potrebbe derivare del danno, solo se, dopo avergli infilzato entrambi gli occhi con le nostre spade avvelenate, non riuscissimo a privarlo della vista. Invece, una volta che ci sarà stato il suo accecamento, egli non potrà più reagire contro di noi e procurarci del male, se non per puro caso.»

«Se me lo garantisci tu, Furiek, non posso che persuadermi che avverrà quanto mi hai fatto presente! Ma adesso mi riferisci sulle altre operazioni che i Pices dovranno far precedere l'impresa diretta a rendere cieco il vasaio Matrus? Sto aspettando la tua risposta.»

«Dovremo disporre di un migliaio di otri pieni di olio, portarli presso il suo sterminato corpo e versare il suo liquido su tutta la sua superficie scoperta. Per raggiungere tale obiettivo, occorrono trenta gruppi formati da tre persone, ciascuno dei quali avrà a disposizione una scala di legno. Il primo della terna salirà sulla parte alta delle diverse parti del corpo; il secondo si terrà a metà scala e il terzo resterà a terra. Quando quest'ultimo riceverà da uno dei tanti fornitori un otre di olio, egli, avanzando sui suoi pioli, lo porgerà a chi si trova a metà scala. Il quale, dal canto suo, si affretterà a fare quei passi necessari che gli consentiranno di consegnarlo al compagno che si trova sopra il corpo, perché egli lo versi su di esso. Naturalmente, il liquido non se ne resterà fermo sulla sua pelle, per ristagnarvi; ma si darà a colare lungo i suoi fianchi, fino ad estendersi per intero su ogni suo centimetro quadrato. Per il compimento di un simile lavoro, secondo me, ci vorrà al massimo un'ora. Dopo che esso è stato terminato, verranno rimossi da quel luogo tutti i carri presenti, dopo avervi aggiustato sopra gli otri vuoti e le scale. In pari tempo, mille arcieri picesini dovranno tenersi pronti ad intervenire con le loro frecce incendiarie. Essi, al mio ordine, si daranno a scagliarle contro il bestione umano, non appena io e tuo figlio avremo terminato la nostra opera di accecamento ed avremo anche abbandonato il suo corpo. Vedrai che, a causa della sua massiccia peluria attraversata dall'olio, esso brucerà come una torcia.»

«Allora, Furiek, si potrebbe fare anche a meno di accecarlo, dal momento che le fiamme se lo divoreranno ugualmente e lo faranno morire bruciato. Non sembra anche a te?»

«Invece non mi pare affatto, Sozen! In possesso della sua vista, anche se non al meglio delle sue facoltà, il vasaio baderà a raggiungere le acque paludose, le quali non si trovano ad una distanza considerevole. Invece, trovandosi ad essere vittima della cecità e in preda ad un dolore non indifferente, egli avrà difficoltà a pervenire ad esse, al fine di servirsene per spegnere le fiamme, le quali sono intente a divorarselo e a consumare il suo corpo.»

«Come mi avvedo, Furiek, hai ponderato ogni minimo particolare nel tuo strategico piano contro chi ci sta portando via molti nostri conterranei con la prepotenza. Perciò, avendomi esso convinto che le nostre azioni sinergiche prevarranno su di lui, lo applaudo ed esprimo il massimo compiacimento per come lo hai elaborato.»

Nei successivi cinque giorni, ci si era dati ad ultimare i vari lavori che occorrevano per fare avere al piano operativo di Furiek un grande successo, quello che si era augurato il suo autore. Così esso non aveva disatteso le sue aspettative e quelle del posust Sozen. Per cui il mostruoso essere umano era stato ucciso, essendoselo meritato.



CAPITOLO 460



IVEONTE CONQUISTA LA PARTE DI POTERE COSMICO DI FURIEK



Dopo avergli narrato del popolo picesino e del suo eroe impersonato da Furiek, colui che aveva messo il Potere Cosmico nelle mani dei cinque guardiani, però senza potere servirsene, si rivolse al suo interlocutore terrestre e gli fece la sua domanda di rito, che fu la seguente:

«Adesso che hai appreso ogni cosa dell'eroe dei Pices, Iveonte, ti senti in grado di competere con il tuo nuovo avversario e di mettere una ipoteca sullo scontro che stai per affrontare? Oppure egli ti risulta più ostico di Arkust, per avere qualcosa di diverso che potrebbe crearti qualche problema nello scontrarti con lui? Vorrei conoscere la tua risposta.»

«Tupok, non dovresti farmi la medesima domanda dell'altra volta, per gli stessi motivi che già conosci, i quali sono: primo, io non sono abituato ad arretrare di fronte a nessun Materiade di Kosmos; secondo, la mia presenza in Potenzior ha un solo obiettivo, ossia quello di sconfiggere tutti e cinque gli eroici guardiani e prendere possesso della parte di Potere Cosmico che si trova nelle mani di ciascuno di loro. Per questo sono pronto ad entrare in lizza e a scontrarmi anche con Furiek, sebbene pure lui si presenti un osso duro da abbattere.»

«Allora mi dici, Iveonte, come farai a proteggerti dalla sua invisibilità, che costituirà un serio pericolo per la tua persona? Essa potrebbe consentirgli di infilzarti, senza che tu possa difenderti dai suoi mortali colpi di spada. La tua risposta mi intriga molto, se ci tieni a saperlo!»

«Senza meno, Tupok, la sua facoltà di rendersi invisibile a suo piacimento rappresenterà per me un problema rilevante, però non tale da essere irrisolvibile ed insormontabile. Comunque, ti garantisco che, come avviene ogni volta, in un modo o in un altro, riuscirò a giungere alla soluzione anche in questo caso. Perciò troverò una via di uscita per neutralizzarla e fare così pendere la bilancia dalla mia parte.»

«Se ne sei convinto tu, Iveonte, non so come pensarla. Ad ogni modo, sentitamente ti faccio gli auguri che tu possa anche stavolta aver ragione di colui che stai per affrontare. Quindi, essendo tu già a conoscenza di quanto avevi da sapere su Potenzior, per avertene già parlato, puoi avviarti verso la meta, che ti farà conoscere Furiek. Come è già avvenuto una volta, sarà il mio cavallo alato Russet a condurti da lui. Tra poco esso sarà qui per mettersi al tuo servizio. Ti basterà ordinargli di farlo e il bianco quadrupede si metterà a disposizione di ogni tuo comando, essendo esso ligio al suo dovere. Buona fortuna, eroe del pianeta Geo!»

In verità, Russet si fece vivo, senza che Iveonte lo chiamasse, non appena il Signore di Potenzior smise di parlare al proprio interlocutore. Allora Iveonte si sbrigò a saltargli sulla groppa e ad ordinargli di condurlo da Furiek, che sarebbe stato il suo nuovo avversario. L'alato animale, che aveva un mantello bianco luminoso, ubbidì all'istante al suo ordine. Perciò, mettendosi a battere le ali, si sollevò dal suolo con un rapidissimo volo, per intraprendere poco dopo il suo viaggio nell'azzurro infinito del cielo. Mentre lo attraversava, Iveonte non avvertiva affatto l'ebbrezza della sua celere volata, essendo avvezzo a volare ad una velocità molto superiore. In lui c'era solo l'ansia di raggiungere il campione da sfidare per debellarlo e per privarlo della sua fetta di Potere Cosmico in sua custodia. Quando infine il quadrupede equino pervenne nel luogo dove soggiornava Furiek, effettuando la solita planata, si abbassò verticalmente, fino a trovarglisi di fronte a sei metri di distanza. Così permise al suo cavalcatore di appiedare, dovendo egli presentarsi all'uomo a cui aveva da lanciare la sfida, con l'obiettivo di sconfiggerlo e di impossessarsi della sua fetta di Potere Cosmico. Una volta in presenza di Furiek, Iveonte, dopo averlo scrutarlo da capo a piedi, si rese conto di talune sue caratteristiche fisiche, che erano le seguenti: tronco tarchiato, altezza che raggiungeva i due metri, pelle rossiccia, orecchie quasi atrofizzate, naso sporgente e capigliatura lunga e fitta.

Quando i due si trovarono l'uno di fronte all'altro, fu Furiek ad aprire bocca per primo. Egli, che già lo aveva seguito sospettoso, intanto che saltava giù dal suo cavallo, gli domandò:

«Tu da dove spunti fuori, essere ignoto? Come mai sei venuto da me, montando Russet, che è il cavallo alato del Signore di Potenzior? Non essendo uno di noi, ossia un Guardiano del Potere Cosmico, mi chiedo perché mai ti trovi nel suo regno. Non riuscendo a darmi una risposta da me, vorrei che fossi tu a fornirmela, senza sottacermi alcunché.»

«Innanzitutto, ti faccio presente che so che ti chiami Furiek e che una parte del Potere Cosmico viene posseduta anche da te. Ma prima di andare avanti nella nostra conversazione, mi sento obbligato a farti conoscere il mio nome, il quale è Iveonte. Per fortuna, Potenzior ci consente di comprenderci benissimo, sebbene abbiamo idiomi diversi. Fra di noi avviene, come se parlassimo la stessa lingua. Ciò, perché nel suo regno il plurilinguismo esistente fra i vari popoli di Kosmos viene trasformato in un unico linguaggio universale. Esso è quello che stiamo appunto adoperando, facendoci intendere a meraviglia. Dopo questo chiarimento linguistico, grande eroe del pianeta Pearun, devo darti una notizia, la quale non ti giungerà gradita. Per cui la osteggerai con tutte le tue forze.»

«Mi dici, Iveonte, essa a cosa si riferisce? Non credo che tu sia venuto ad annunciarmi la mia morte! Dovresti poi essere tu ad uccidermi? Da parte mia, però, non lo credo affatto possibile, se ci tieni a saperlo!»

«In un certo senso, Furiek, non ti sei sbagliato, nell'anticipare la mia risposta. Ma voglio che tu l'apprenda interamente, rendendoti anche conto del perché della tua prossima uccisione da parte mia.»

«A parte il fatto che dubito che tu possa arrecarmi una tale sfortunata evenienza, Iveonte, vorrei sapere qual è la ragione per cui hai stabilito di privarmi della vita, se neppure ci conosciamo. Allora me lo dici?»

«La mia venuta in Potenzior ha lo scopo di impadronirmi del Potere Cosmico nella sua interezza. Ma siccome esso è stato distribuito fra voi guardiani, per cui ora ne custodite una parte ciascuno, mi tocca battermi con ciascuno di voi ed uccidervi, naturalmente uno alla volta. Infatti, solo con la morte di ognuno, la sua parte del prodigioso potere entra a far parte di me. A questo punto, avendoti detto ogni cosa riguardante la mia venuta presso di te, mi devo solo dare da fare perché la mia nuova prova si compia anche questa volta, come da mio desiderio.»

«Una bella faccia tosta hai, Iveonte, a parlarmi così! Vedo che ti sei fatto i conti senza l'oste. Ma ti hanno messo al corrente che noi guardiani abbiamo rappresentato l'élite degli eroi che sono esistiti in Kosmos fino ai nostri tempi? Perciò come pensi di sconfiggerci e di procurarci la morte, a quanto pare pure con una certa facilità? Ci tengo ad apprenderlo. A proposito, dalle tue parole mi è parso di capire che già avresti tentato una prova di questo genere e che l'avresti anche superata. Vorrei sapere chi degli altri quattro guardiani è stato da te sconfitto.»

«Siccome ci tieni a saperlo, come mi hai appena rivelato, egli è stato il feciano Arkust, il quale la pensava allo stesso modo tuo, fino a quando non l'ho obbligato a ricredersi e ad avere un differente concetto di me. Perciò, se sei convinto che la mia è soltanto presunzione, molto presto cambierai opinione su di me, poiché ti costringerò a mangiare la polvere. Lo sai che voi guardiani siete fortunati, per il fatto che, dopo che vi ho uccisi, vi ritrovate ancora vivi, solo perché in Potenzior non è ammesso morire? Come sai, avete la facoltà di resuscitare, subito dopo che la morte vi ha presi come suoi ospiti, congedandovi dopo poco tempo.»

«Così è stato Arkust il tuo primo guardiano, con cui ti sei voluto misurare per il motivo che mi hai svelato. Prendo atto che sei anche riuscito a sopravvivere a lui! Ma ti faccio notare che, sebbene egli mi risultasse un eccellente campione, con ciò non ti autorizzo a considerarti anche più in gamba di me. Sappi che ciascuno di noi può riservarti una sgradita sorpresa, grazie ad una sua celata prerogativa vincente, che è in grado di procurargli la vittoria. Oppure non hai pensato a questo particolare?»

«Se questo è un modo per darti coraggio, Furiek, sei libero di farlo; ma non illuderti che esso poi ti permetterà di cavartela in maniera egregia, quando ci affronteremo! Comunque, lo so che ti riferivi alla tua possibilità di renderti invisibile.»

Alle nuove parole del suo interlocutore, le quali lo avevano indisposto verso chi le aveva pronunciate, quasi gli fossero risultate delle frecciate, l'eroe picesino prima si impermalì e poi cercò con i fatti di mandargli in frantumi l'arroganza. Così, mostrandosi adirato, si diede a dirgli:

«Tra qualche istante, Iveonte, ti farò comprendere con chi hai a che fare. Allora maledirai il giorno che sei venuto a stuzzicarmi, mentre trascorrevo pacatamente la mia esistenza in questo luogo beato. Quindi, prepàrati a subire i danni che la mia furia da te provocata ha deciso di scaricarti addosso, i quali di certo non ti risulteranno carezze. In questo modo, ogni tua spacconata sarà sepolta per sempre in questo luogo!»

Dopo l'ultima parola da lui pronunciata, Furiek brandì la sua arma e si scagliò contro il suo visitatore, con il chiaro intento di ridurlo davvero male. Ma Iveonte non gli permise di perseguire il suo scopo, il quale in quel momento, oltre che fondarsi sulle minacce, intendeva a qualunque costo renderle di fatto. Una volta poi che ebbe frenato la sua violenta carica, neutralizzandola con degli espedienti tattici, fece seguire la propria reazione. La quale risultò all'avversario tempestiva e capace di districarsi anche in mezzo alle mosse più temibili del rivale. Non bastando quanto riportato, egli, con una mossa a sorpresa, indusse l'eroe dei Pices ad arretrare e a trovare riparo dietro la barriera di alcune sue fortuite contromosse. Ma esse gli erano venute all'ultimo momento, ossia quando aveva perfino temuto di crollare sotto i colpi possenti di colui che si era vantato non a torto. Anzi, si stava dimostrando con le azioni di valere quanto aveva affermato, probabilmente anche molto di più. Accertata dunque la sua solida preparazione in fatti d'armi e di combattimenti, Furiek fu dell'idea che la lotta contro il suo fortissimo avversario andava condotta con la massima prudenza, se non voleva venirne sopraffatto oppure essere squartato da un suo fendente profondo. Adesso era persuaso che anche la minima distrazione poteva risultargli fatale. Dal canto suo, Iveonte, pur badando anche lui a non distrarsi, era convinto che alla fine la vittoria gli avrebbe arriso, avendo valutato fin dall'inizio il suo antagonista. Perciò il suo combattimento non accusava alcuna incertezza sul suo esito finale. Ora egli lo portava avanti all'insegna della convinzione che, dei due, era lui il destinato alla vittoria finale.

Esaurite le schermaglie iniziali, le quali avevano permesso a ciascun combattente di conoscere le reali potenzialità della controparte, lo scontro fra i due contendenti si andò effettuando con assalti ben studiati e con la massima cautela, essendo entrambi coscienti della pericolosità del proprio avversario. Si cercava pure di prevedere quelle che sarebbero potute essere le successive mosse e contromosse di chi aveva di fronte. Con il quale si era dato ad ingaggiare una lotta che poteva riservare brutte sorprese, da un momento all'altro. Per questo ogni proprio assalto, prima di muoverlo all'avversario o di rintuzzare quello che gli poteva provenire da lui, andava ponderato nei minimi dettagli. Magari escogitando in pari tempo qualche trovata per neutralizzare un possibile suo contraccolpo! Ad ogni modo, l'aspra contesa proseguiva senza sosta fra i due duellanti, i quali venivano sfibrati dalla durezza dei colpi, i quali non smettevano di assestarsi reciprocamente. Per la qual cosa, erano costretti a pararli con uno sforzo fisico snervante e defatigante. Ognuno di loro non perdeva la speranza che alla fine sarebbe stato lui il vincitore del duello, imponendo al rivale la propria superiorità e la sconfitta finale, che lo avrebbe umiliato e fatto perire. Invece si trattava soltanto di un pensiero speranzoso, senza avere il crisma della certezza.

A detta di Iveonte, mentre si misurava con lui, Furiek si era ben meritato l'appellativo di eroe dalla sua gente, poiché dimostrava di possedere tutte quelle caratteristiche, che ne facevano un guerriero singolare. Perciò concludeva che, se egli non fosse stato di tempra adamantina, come dimostrava di essere, il Signore di Potenzior non gli avrebbe affidato una parte del Potere Cosmico. La quale doveva essere difesa da lui a spada tratta contro tutti coloro che avrebbero tentato di carpirgliela in un prossimo o remoto futuro. Comunque, non si sfiduciava, al pensiero che l'eroico Pices gli avrebbe dato molto filo da torcere, prima di sconfiggerlo e di venire in possesso della parte del prezioso potere che era stata posta nelle sue mani. Sempre riferendosi al suo rivale, Iveonte dubitava che egli, pur di condurre la lotta a suo favore, sarebbe ricorso all'invisibilità; però non avrebbe scommesso che ciò non sarebbe successo. A suo parere, se il Pices ci fosse stato obbligato a farlo, non avendo una diversa alternativa per evitarlo, non avrebbe esitato a rendersi invisibile, visto che lo avrebbe fatto non per la sua incolumità, ma per difendere il Potere Cosmico. Difatti egli aveva promesso a Tupok che mai a nessuno lo avrebbe ceduto, se prima non ne fosse stato ucciso.

Riprendendo a parlare del combattimento, con il quale Iveonte e Furiek si disputavano la supremazia dell'uno sull'altro, i colpi di spada infuriavano da entrambe le parti. Essi non erano intenzionati a cessare in breve tempo, a meno che uno dei contendenti non avesse commesso l'errore fatale che lo avrebbe fatto stramazzare al suolo, facendo ottenere la vittoria all'avversario. Per il momento, però, un fatto del genere tardava a verificarsi, siccome nessuno di loro due intendeva regalare la palma a chi gli si stava contrapponendo con furore ed alterigia, pur di vederlo sconfitto ed uscire vincitore dallo scontro. Anzi, se si volevano considerare bene le cose, il loro conflitto si andava accendendo di un fuoco sempre più ardente, il quale li aizzava ad intensificare gli assalti, a rafforzare i colpi e a rinvigorire le forze. Ciò, mentre in loro si acuivano lo sdegno e un prorompente desiderio di porre l'avversario alle corde, facendolo sentire un essere insignificante e privo di ogni considerazione.

Mentre procedeva in quel modo la lotta fra i due campioni, ognuno dei quali voleva prevalere sull'altro ed imporgli la propria superiorità, Furiek accusò un leggero calo di vigore e di tenuta stabile. La qual cosa gli fece prevedere che una sua disfatta ingloriosa era imminente, per cui doveva affrettarsi a trovare un ripiego che gli consentisse di scansarla. Ma per come si erano messe le cose, egli avrebbe potuto trovarlo unicamente nella sua invisibilità. Allora, benché fosse contrario ad un suo ricorso ad essa, decise di servirsene e di vincere così lo scontro. Il quale, ad un certo punto aveva stabilito di voltargli le spalle e di farlo trovare sull'orlo dell'abisso, che per lui significava abiezione e sconfitta.

Anche Iveonte, avendo preso atto del miserabile stato del suo avvilito rivale e prevedendone un celere ricorso all'invisibilità, si mobilitò perché non ne venisse sopraffatto. Allora, pur di avere più disponibilità per riflettere sulla nuova situazione che si sarebbe avuta a momenti e sul modo di tenerla sotto controllo, egli allentò il suo ritmo di combattimento e concesse a Furiek una più ampia libertà di azione. Così lo avrebbe indotto a tardare quella decisione, che gli sarebbe risultata antipatica e pericolosa. Il celebre Pices, da parte sua, non tese ad ostacolargli il suo obiettivo di disporre di un tempo maggiore, allo scopo di trovare una soluzione al problema che quanto prima avrebbe dovuto risolvere di riffa o di raffa. Intanto che lo teneva occupato nella loro lotta all'ultimo sangue, che questa volta però voleva che si presentasse piuttosto blanda, Iveonte permetteva alla sua mente di darsi a pensare come neutralizzare la sua invisibilità, se in seguito ci fosse stata sul serio. Alla fine addivenne ad un ragionamento di questo tipo. Se egli avesse impegnato Furiek in un ulteriore grande sforzo fisico mentre era invisibile, probabilmente quello che gli procurava l'invisibilità avrebbe ceduto e sarebbe divenuto nulla, facendo ritornare al suo stato di visibilità tanto il suo corpo quanto ogni cosa che era a lui unita, come gli abiti che lo vestivano e le armi che lo armavano. Ma in che modo lo si poteva stressare e sforzargli la mente, intanto che egli esisteva da essere invisibile? A parere di Iveonte, solamente costringendolo ad una pazza volata nello spazio, la quale ci sarebbe stata da parte di Furiek al fine di inseguirlo, di raggiungerlo e di trafiggerlo con la sua spada. Anche perché era certo che avrebbe volato meglio di lui. Allora, essendo convinto che la sua idea non era una supposizione verosimile, ma un dato di fatto basato sulla logica, cominciò a non temere più un eventuale stato di invisibilità, che sarebbe stato messo in atto dall'avversario. Anzi, desiderando che esso ci fosse al più presto, si ridiede a battagliare con lui con lo stesso ritmo che aveva dimostrato in precedenza, fino a sfiancarlo anche più di prima. A suo parere, così lo avrebbe fatto sentire di nuovo talmente a disagio, da spingerlo a ricorrere a ciò che considerava la sua àncora di salvezza.

Al nuovo atteggiamento di Iveonte, che era ritornato ad essere irrompente ed oppressivo, Furiek, trovandosi alle strette, optò questa volta per l'invisibilità. Con essa intendeva porre termine a quel combattimento che aveva preso una brutta piega nei propri confronti, ossia con la morte del rivale, che si stava rivelando più in gamba di lui. Ma non appena egli scomparve dal luogo del combattimento, Iveonte, prima che ne venisse colpito mortalmente, all'istante volò verso il cielo con una rapidità incredibile. Quella sua mossa inattesa trovò impreparato il Pices, il quale già si era sentito sicuro della vittoria. Perciò egli, anche se essa lo stizzì abbastanza, dovette ammettere che l'avversario era riuscito a spiazzarlo all'ultimo momento, in una maniera che non si sarebbe mai aspettata da lui. Allora, avendo avuto il loro confronto quello sbocco imprevisto, che aveva agevolato il rivale nel sottrarglisi appena in tempo per non essere ucciso, Furiek, pur di non lasciarselo sfuggire, prese l'unica decisione possibile per rintracciarlo e farlo fuori. Essa fu quella di inseguirlo nello spazio infinito, di raggiungerlo e di infilzarlo mentre volava, senza che egli potesse vederlo.

Iveonte, invece, in attesa di scorgere l'avversario che si dava al volo, seguitava a compiere cabrate e a discendere in picchiata nel limpido cielo azzurro. Inoltre, si dava ad altre diavolerie acrobatiche, perché il suo inseguitore non gli fosse così vicino da poterlo colpire a tradimento. Così chi cercava di avvicinarlo faceva fatica anche a controllarlo, mentre tentava di stargli dietro per averlo a portata di mano ed ammazzarlo con un colpo reciso. Egli aveva perfino stabilito di troncargli il capo e farlo precipitare giù nel vuoto, se non gli fosse mancata l'occasione propizia per porre in atto tale sua azione. Dunque, si andava avanti nel modo riportato, per cui Furiek continuava ad inseguire colui al quale intendeva far passare un brutto quarto d'ora, una volta che lo avesse raggiunto; ma per il momento si trattava solo di tentativi che andavano a vuoto.

Poco dopo, però, quasi per prodigio, iniziò ad aversi in Furiek un fenomeno strano. Il suo corpo, che prima non era visibile per niente, ad un certo momento, si andò trasformando in una figura sbiadita. Anzi, essa diventava sempre più focalizzata ed appariscente, fino a trasformarsi in una sagoma dai contorni netti e ben delineati. Insomma, senza che il Pices se ne avvedesse, alla fine egli rimase privo della patina che lo rendeva invisibile e ritornò ad essere esistente anche per tutti gli altri esseri viventi, come già lo era per sé. Infatti, ogni volta che assumeva lo stato invisibile, egli continuava a scorgersi allo stesso modo di quando non lo era. Probabilmente, soltanto davanti ad uno specchio avrebbe smesso di vedersi, al contrario di quanto avveniva con le altre persone. A quel ritorno alla normalità del suo avversario, Iveonte preferì tenerlo all'oscuro del fatto che adesso egli era in grado di avvistarlo. Inoltre, pensò di sostituire il tiro mancino che il medesimo avrebbe voluto giocargli con un proprio marchingegno. Tramite il quale, lo avrebbe fatto trovare in un guaio molto serio, ossia nella sua completa rovina. In verità, egli non intendeva neppure recargli la morte con un colpo di spada, ma si sarebbe servito delle sue mani nude per farlo. Così Furiek l'avrebbe avvertita, mentre la morte si impadroniva del suo corpo con un avanzamento inarrestabile, senza dargli alcuna possibilità di resistere ad essa.

Quando Iveonte intravide il suo avversario che era ritornato ad essere visibile, era distante da lui qualche miglio. Allora, facendo finta che il suo sguardo si perdeva nella vuotaggine spaziale, senza riuscire ad avvistarvi alcuna persona, si ridiede alla sua volata precipitosa, intanto che il rivale non cessava di tallonarlo, essendo intenzionato a colpirlo di sorpresa. Ad un certo punto, però, l'eroe terrestre eseguì di botto un rapido dietrofront e gli si trovò davanti ad un centinaio di metri. Restando poi a quella distanza con lo sguardo a lui rivolto, fingeva di non vederlo e di non accorgersi della sua presenza nel tratto di cielo in cui si trovavano entrambi. La qual cosa incoraggiò l'eroico Pices ad assalirlo e a finirlo con un fendente della sua spada. Invece Iveonte, non appena l'avversario gli fu distante una decina di metri, effettuò una piroetta con la velocità del fulmine. Essa gli consentì di trovarsi alle sue spalle e di agganciarlo dalla parte di dietro, facendogli trovare il collo nella possente stretta del suo nerboruto braccio destro. Essa allora iniziò a comprimerglielo sempre di più, rendendo vani i suoi sforzi di liberarsene per non restarne soffocato. Invece, dopo alcuni minuti di fremiti reattivi da parte di chi subiva la compressione e palesava di non volere rinunciare all'esistenza, il corpo di Furiek si ritrovò senza vita. Ma Iveonte non lo lasciò cadere nel vuoto per evitare che si andasse a sfracellare al suolo. Al contrario, reggendolo sulle braccia, lo riportò a terra, dove poco dopo lo vide pure riprendersi e ritornare di nuovo alla vita.

Quando si fu rialzato da terra, l'eroe picesino non ricordava più niente dello scontro avuto con Iveonte e non sapeva come reagire di fronte a chi gli stava davanti, del quale aveva dimenticato ogni cosa. Ignorava perfino che la sua parte di Potere Cosmico lo aveva abbandonato ed era finita nella persona che adesso lo guardava, dispiaciuto di averlo sconfitto ed umiliato, pur non meritandolo. Essendo quello il quadro della situazione, l'eroe terrestre, che non aveva altro da fare, montò su Russet e gli ordinò di riportarlo da Tupok. Al suo arrivo presso di lui, il Signore del Potere Cosmico, il quale già lo attendeva per non aver alcun dubbio sul suo ritorno, lo accolse compiaciuto. Ma poi si diede a dirgli:

«Mi congratulo con te, formidabile Iveonte, che anche questa volta hai dato prova di essere un invincibile guerriero. Adesso in te si trova anche la seconda parte del Potere Cosmico, per averla conquistata con coraggio ed eroismo. A questo punto ti aspetta la conquista della sua terza parte, la quale è posseduta dall'eroe Serpul, che è originario del pianeta Koser. Anche del terzo guardiano mi toccherà riferirti ogni cosa a lui inerente. Così apprenderai qual è stato il suo popolo, i privilegi di cui è dotato ed altre notizie che te lo faranno conoscere, quasi tu fossi stato il suo migliore amico. Ti raccomando di imprimerti bene nella memoria ciò che ti racconterò di lui, perché tu ne abbia il migliore giovamento, quando sarai costretto ad affrontarlo per il motivo che conosci.»

«Puoi stare tranquillo, Signore di Potenzior, che mi ficcherò in mente tutto quanto tra poco mi dirai sulla vita di Serpul. Lo memorizzerò in modo che non mi sfuggirà mai più, almeno fino a quando non avrò più bisogno di rammentarlo a beneficio della mia nobile missione. Tu, però, da ora in avanti, cerca di essere meno prolisso e verboso nel darti a raccontare di lui, ricorrendo ad un linguaggio più conciso. Così, nell'ascoltarti meno a lungo, mi farai perdere meno tempo, dal momento che ho bisogno di sbrigarmi, se voglio salvare in tempo il mio pianeta con tutte le persone a me più care, che abitano sulla sua superficie.»

«A quanto pare, Iveonte, non ti sei ancora reso conto dell'infinita potenza che il Potere Cosmico potrà dimostrare di possedere in Kosmos. Se i due eccelsi gemelli ti hanno inviato in Potenzior per fartene impossessare, è perché esso soltanto sarà in grado di risolvere tutti i problemi che attualmente vanno nascendo nell'universo, a causa del dio Buziur, l'Imperatore delle Tenebre. Costui sta dando scaccomatto perfino a loro due, dopo essersi trasformato nella nuova Deivora, alla quale hanno dato il nome di Kosmivora.»

«Dici davvero, Tupok, che il Potere Cosmico mi permetterà di risolvere tutti i problemi che sta creando la mostruosa creatura, nella quale si è trasformato il dio Buziur? Ma cosa potrò fare contro quei danni materiali che, quando rientrerò in Kosmos, essa avrà già combinato? Magari in mezzo a loro saranno pure comprese la distruzione del pianeta Geo, con la scomparsa della mia famiglia e delle altre persone altrettanto a me care? Me lo riferisci?»

«Iveonte, il Potere Cosmico, quando ne verrai in possesso, se proprio non potrà farti creare un universo di sana pianta, poiché una simile creazione è possibile solo a Splendor, di certo potrà consentirti di riportare allo stato originario la parte di Kosmos che è stata distrutta dalla Kosmivora, riportando alla vita tutti gli esseri viventi che prima vi esistevano. Ciò significa che non devi temere di arrivare in ritardo per salvare le persone che ti stanno a cuore. Esse, se nel frattempo malauguratamente saranno già perite, al tuo ritorno nell'universo disastrato, risorgeranno alla vita e te le troverai ancora accanto. Ti basterà ordinare al Potere Cosmico il ritorno di Kosmos allo stato originario ed esso ridiventerà quello di prima, come se non avesse mai subito catastrofi di qualunque tipo in qualche sua parte.»

«Grazie, Tupok, per avermi messo al corrente di questo prezioso particolare, il quale mi ha rinfrancato. Perciò adesso puoi anche riprendere il discorso su Serpul, senza essere necessario che tu sia stringato, per farlo essere più breve, visto che non ce n'è più bisogno.»





CAPITOLO 461



KOSER, IL PIANETA DEI BELLIGERANTI NUCESTI E CURUNDI



Il pianeta, su cui duecento anni prima l'eroe Serpul aveva trascorso la sua esistenza, era Koser, il quale orbitava intorno alla stella Murel, che si situava nella galassia di Geltes. Il sistema murelino ospitava altri due pianeti, che erano Laspus, il più vicino alla stella, e Prutoz, il più lontano da essa. Perciò Koser era il secondo per vicinanza alla propria stella. I Koseridi costituivano una razza con le seguenti caratteristiche fisiche: statura media intorno ai centosettanta centimetri, pelle olivastra, orecchie triangolari, naso all'insù, testa appiattita, corporatura longilinea. Il pianeta koserino poteva considerarsi grande quanto il nostro Venere, per cui non aveva una superficie planetaria molto estesa. Su di essa si erano sviluppati due popoli, ciascuno dei quali si era stanziato sopra un proprio territorio. I due conglomerati etnici erano rappresentati dai Nucesti, che si erano stabiliti nella regione del sud, e dai Curundi, che si erano insediati nelle vaste praterie del nord. Entrambi vi risultavano trapiantati da tempo immemorabile; ma il loro luogo di provenienza poteva trovarsi soltanto sopra il pianeta Koser, poiché non era possibile ipotizzare che fossero giunti da un astro spento diverso.

Molti secoli prima che Serpul nascesse, i due popoli appartenenti allo stesso pianeta si facevano guerra, senza dare una valida giustificazione al loro perenne ricorso alle armi. Così mettevano solamente in forte apprensione le madri, le mogli e le sorelle dei soldati, che erano costretti ad affrontarsi sul campo di battaglia per uccidere o per essere uccisi. Come era stato da sempre, la città dei Nucesti era Cuset, mentre quella dei Curundi era Geruz. Il numero dei loro abitanti era andato variando via via nel tempo. Comunque, non sempre esso era aumentato col trascorrere del tempo, come sarebbe stato normale prevedere; invece a volte c'era stato un suo decremento, a causa della denatalità che nei due popoli belligeranti era seguita alle massacranti guerre. Le quali avevano lasciato sul campo di battaglia migliaia e migliaia di morti.

Al tempo dell'eroico Serpul, essendoci stato in precedenza un lungo periodo di inattività bellica, sia nell'una che nell'altra città, tale numero si aggirava intorno ai trecentomila abitanti, dei quali la metà erano uomini e l'altra metà erano donne. Tale incremento demografico si era avuto, grazie al precedente periodo di pace che c'era stato fra le due città, la cui durata cinquantennale aveva arrecato un poco di respiro ai due popoli che si consideravano nemici. Ma il cinquantennio di non belligeranza, che c'era stato tra le due etnie, era stato voluto dai due sovrani che in quel periodo regnavano su di loro. Essi erano stati il cusetino Terok e il geruzino Pakus, essendo prevalso eccezionalmente in entrambi il buonsenso. Invece, dopo che gli erano subentrati i giovani figli, le cose erano mutate dalla sera alla mattina, per cui lo spettro di nuovi conflitti era ritornato ad incombere sulle famiglie dei due popoli koserini.

Quando Serpul era appena un adolescente, il re Ungov regnava sulla città di Cuset e sui suoi territori; invece sulla città di Geruz e sui relativi territori regnava il re Zurep. I due nuovi sovrani, lungi dal prendere esempio dai loro saggi genitori, avevano voluto ripristinare fra i loro due popoli l'attrito e il rancore di una volta, quelli che i loro genitori erano riusciti a sopire per l'intera durata del loro regno. Anzi, con il loro avvento sui troni delle due città, tali negativi sentimenti, oltre ad esplodere di nuovo, si erano incrudeliti in maniera spietata. Allora cerchiamo di comprendere perché l'uno e l'altro sentimento avevano ripreso il sopravvento sulle due città e se c'era stato un colpevole che aveva promosso la loro rinascita, calpestando ciò che di buono il re Terok e il re Pakus erano riusciti a far germogliare.

In verità, soltanto Zurep, che era il re di Geruz, era colui che doveva prendersi l'intera responsabilità del riaccendersi fra i due popoli degli aspri dissidi dei secoli precedenti. Egli, infatti, subito dopo che era succeduto al padre Pakus, morto all'età di ottant'anni, aveva stabilito di non stare più al gioco voluto dal suo genitore e di cambiare politica durante la gestione del suo regno. Essa avrebbe dovuto avere come obiettivo l'esistenza di un unico popolo sul loro pianeta, ossia quello dei Curundi. Ma per ottenere ciò, si potevano seguire due sole strade: la prima prevedeva la distruzione dell'intero popolo cusetino; invece la seconda prevedeva la sottomissione dei Nucesti al popolo geruzino, che avrebbe dovuto rinunciare alla propria sovranità. In questo caso, però, i sottomessi, rinunciando alla loro dignità di persone libere e considerandosi subordinati ai Curundi, dovevano mettersi al loro servizio, quasi fossero degli autentici schiavi. In un certo senso, la prima strada andava seguita in alternativa alla seconda, nella eventualità che quest'ultima non avesse avuto successo, per esserci stata da parte della gente cusetina un'acerrima ostilità alla sua proposta.

Tutto aveva avuto inizio, dopo che il re Zurep aveva inviato al re Ungov i suoi ambasciatori, affinché gli recapitassero il proprio papiro, sul quale aveva stilato quanto viene riportato qui appresso: “Ungov, con questo proclama ti faccio presenti le quattro notifiche che seguono. Anzi, da oggi in avanti, dovrai tenerle bene a mente, se vogliamo andare d'accordo, senza che né il tuo popolo né la tua città vengano annientati dal mio esercito. Con la prima, ti disconosco quale sovrano di Cuset, visto che sarò io l'unico re tanto dei Curundi quanto dei Nucesti, i quali dovranno diventare un solo popolo, ossia quello dei Koseridi. Invece con la seconda, ti metto al corrente che, pure ammettendo che il popolo cusetino si sottometterà al mio volontariamente, noi avremo la sovranità assoluta su di voi, per cui dovrete fornirci tutto ciò di cui necessiteremo per alimentarci e per sopravvivere. Ne deriva che saranno i soli abitanti di Cuset a dedicarsi ai lavori dei campi, siccome i loro raccolti dovranno soddisfare anche le esigenze alimentari dei Curundi. Con la terza, intimo a tutti i Nucesti il disarmo totale; ma sarà loro consentito il possesso dei soli arnesi agricoli, che gli occorreranno per coltivare la terra. Invece, per procurarsi la selvaggina, essi dovranno ricorrere unicamente alle trappole. Con la quarta, vi rendo noto che se le mie disposizioni saranno disattese dal popolo cusetino, esso mi obbligherà a ricorrere alla forza. Così farò in modo che ogni mia notifica da parte sua venga accettata con la massima lealtà, come fa il cane al servizio del proprio padrone!”

Una volta letto il contenuto del papiro, il sovrano cusetino si era adirato a non dirsi. Poco dopo lo aveva ridotto in tanti pezzi ed aveva obbligato i tre legati geruzini ad ingoiarseli. Infine li aveva rimandati alla loro città con il seguente messaggio di risposta al loro sovrano:

«Adesso andate a dire al vostro re Zurep, il quale sarà sicuramente uscito di senno, che giammai il mio popolo si piegherà ai suoi insulsi voleri. Inoltre, siccome egli ha deciso di rompere la tregua, che durava fra i nostri due popoli da cinquant'anni, ebbene, guerra sia! Vedremo se il suo esercito sarà capace di sopraffare il nostro ed indurci all'obbedienza dei Curundi, com'è nelle sue mire espansionistiche partorite da una mente malata e folle!»

Con quella sua risposta ferma e decisa, il re Ungov aveva decretato di fatto lo stato di guerra contro i nemici di un tempo, che erano i Curundi, senza attendere che lo facessero essi per primi. Allora in entrambi i popoli si era ricominciato ad affilare le armi, dal momento che presto la guerra sarebbe divampata di nuovo, senza esclusione di colpi. I conflitti così si erano riaccesi violenti e cruenti sull'uno e sull'altro territorio, provocando massive uccisioni di soldati da ambedue le parti e conseguenti perdite ingenti di vite umane. Ovunque la lotta aveva ripreso ad infuriare tremenda ed inesorabile, tenendo lungi da sé la pietà e l'umanità, visto che si preferiva ricorrere alle maniere forti, le quali prediligevano la crudeltà e la disumanità.

Quando la guerra era ripresa fra i Nucesti e i Curundi, Serpul aveva appena tredici anni e viveva con la sua famiglia. Essa abitava in una zona montagnosa lontana parecchie miglia da Cuset, che era la loro città. In verità, il suo nucleo familiare era da considerarsi abbastanza esiguo, poiché comprendeva lui e i suoi due genitori, che erano il padre Sorom e la madre Venel. Costoro erano molto giovani, quando avevano abbandonato la loro città natia e se ne erano andati a vivere in quel luogo solitario, dove tre anni dopo era nato il loro Serpul. Ma siccome a lui non erano seguite altre nascite in famiglia, il piccolo era rimasto per sempre unigenito. Quanto ai suoi genitori, essi si erano più sentiti portati ad una vita agreste, anziché vedersi coinvolgere nel quotidiano tran tran, che gli poteva offrire la vita cittadina. Adesso tutti e due si ritrovavano ad avere trentacinque anni sulle spalle, essendo coetanei. Perciò, grazie alla loro giovane età, essi riuscivano benissimo a lavorare sodo nel portare avanti il duro lavoro dei campi, il quale si presentava differente durante l'anno, poiché variava secondo il ciclo delle stagioni.

Soffermandoci a parlare più dettagliatamente del padre di Serpul, va subito chiarito che egli non era una persona comune. Oltre che essere a quel tempo un esperto conoscitore dei vari lavori richiesti dalla coltivazione dei prodotti della terra, poteva considerarsi un eccellente maestro d'armi e di arti marziali. Difatti in passato aveva frequentato una brillante scuola, dove si apprendevano tali discipline dagli illustri maestri che le insegnavano. Si trattava della rinomata Scuola dei Puzzud, nella quale Sorom era stato insignito della massima onorificenza esistente, l'Onorificenza del Sommo Valore, di cui solo lui era riuscito a fregiarsi in tanti secoli della storia della scuola. Per questo egli vi era stato stimato non il campione insuperabile del momento, ma il campione anche di quelli che si erano distinti nel passato e si sarebbero distinti nel futuro. Ciò, perché egli aveva raggiuto nelle armi e nelle arti marziali il non plus ultra della perfezione, superando ovviamente perfino i suoi maestri.

Una caratteristica particolare dell'eccezionale Sorom, che lo contraddistingueva da tutti gli altri esseri della sua razza, era la smaterializzazione. Ossia era sua prerogativa spersonalizzarsi, però non tutte le volte che lo desiderava; diventava invece un autentico spettro, solo in caso di necessità. Ma quando lo diventava, non poteva essere colpito da nessuna arma e da nessun corpo materiale, che era sul punto di rappresentare un pericolo per lui. Difatti, divenendo egli una immagine incorporea, le armi che gli venivano scagliate contro dai nemici lo attraversavano senza colpirlo, proprio come se si trovassero a sfrecciare attraverso l'aria. All'inizio, Sorom ignorava di possedere una simile prerogativa e che essa si attuava esclusivamente in caso di necessità, cioè quando un imminente pericolo era in procinto di minacciare la sua vita. In quel caso, era la sua ansia di sopravvivenza a procurargli la smaterializzazione, sottraendolo a ciò che in quel momento costituiva per lui una minaccia. La prima volta, che gli era capitato di scoprirlo, era stato in seguito ad uno strano fenomeno, a cui aveva assistito per caso. Ora lo conosceremo pure noi, dal momento che avvertiamo la curiosità di sentirne parlare.

Subito dopo essere stato insignito della prestigiosa Onorificenza del Sommo Valore, l'imbattibile giovane, nonostante gli fosse stata offerta la possibilità di restarvi come insigne maestro, aveva deciso di lasciare per sempre la Scuola dei Puzzud. Egli sentiva la necessità di ritornarsene nella sua città natale e di formarsi lì una propria famiglia. A metà percorso, però, all'improvviso aveva scorto nel cielo qualcosa che precipitava giù. Si trattava di una vera palla di fuoco, la quale, dopo aver raggiunto il suolo, era diventata un blocco di materia bruciante, la cui natura si presentava sconosciuta. Allora egli, volendo rendersi conto di cosa si trattasse, aveva voluto raggiungerlo. Ma aveva avuto appena il tempo di avvicinarglisi, allorché da esso si era sprigionato del fumo acre, il quale lo aveva avvolto interamente, fino a fargli perdere i sensi. Quando poi si era riavuto dallo svenimento, il blocco di materia incandescente si era già spento e trasformato in una minutissima cenere. A quel punto, Sorom si era rimesso di nuovo in cammino verso la sua remota città.

Raggiunta Cuset ed entrato in essa, il decorato guerriero Sorom cavalcava verso la sua casa, allorquando nella via da lui percorsa un intero palazzo fatiscente era crollato, abbattendosi rovinosamente sulla strada e travolgendolo insieme con il suo cavallo. Quelle poche persone, le quali avevano assistito all'evento catastrofico, giustamente avevano temuto per lui e per la sua bestia, essendo certe che da sotto quel cumulo di macerie né l'uno né l'altra se l'erano cavata. Invece, pochi attimi dopo, esse avevano visto uscirne illeso il solo cavaliere, senza aver riportato neppure un graffio; ma non si erano rese conto che si trattava della sua immagine immateriale. La quale solo alcuni attimi più tardi si era reimpossessata del proprio corpo. Per la verità, Sorom si era salvato, unicamente perché era riuscito a scorgere in tempo il palazzo che gli crollava addosso e non gli era stato possibile evitarne le macerie che stavano per investirlo. Allora il solo timore di ciò che a momenti sarebbe accaduto a danno suo e del cavallo lo aveva indotto involontariamente a smaterializzarsi. La qual cosa gli aveva evitato lo schiacciamento del corpo, come era accaduto alla bestia, e gli aveva consentito di uscire illeso dal voluminoso macereto, che si era formato sulla strada con i vari detriti.

A quell'evento, che era da considerarsi un verace prodigio, le persone, le quali si erano trovate poco distanti ad assistere al crollo, si erano meravigliate moltissimo e non sapevano spiegarselo in nessun modo. Comunque, neppure il malcapitato era stato in grado di dare all'episodio una spiegazione logica. Ma col passare del tempo, egli aveva constatato che quel fenomeno inspiegabile si verificava, ogni volta che prendeva coscienza di un pericolo imminente. In seguito, invece, avrebbe anche scoperto che quel suo potere di smaterializzarsi, per una strana coincidenza, era stato ereditato anche dal suo unigenito figlio, che era Serpul.

In riferimento ai Puzzud, venivano così chiamati tutti coloro che frequentavano quella rarità di fucina, i cui maestri riuscivano a foggiare la loro mente e il loro corpo, secondo i canoni combattentistici previsti dagli obiettivi della palestra puzzudica. I quali erano: il pieno autocontrollo, la saldezza di nervi, la refrattarietà al dolore fisico, l'impassibilità di fronte ad ogni tipo di emozioni o di pericoli, l'illimitata concentrazione durante il combattimento e la silenziosità per niente percepibile nei movimenti e negli assalti di sorpresa. Da tale chiarimento sui Puzzud e sulla loro egregia scuola, possiamo immaginarci come il padre di Serpul avesse tirato su il proprio unico figlio, il quale era nato pure maschio, come aveva sempre desiderato. Infatti, egli aveva fatto in modo che la sua crescita avvenisse all'insegna di una ferrea disciplina, permettendogli di conseguire il grado più alto della perfezione che si potesse avere sia nel campo dell'uso delle armi che in quello delle arti marziali. Ciò, attraverso allenamenti che gli facevano ottenere anche l'impossibile, con il chiaro intento di fargli superare pure sé stesso, che era il suo insuperabile maestro. Così alla fine il giovane Serpul, quando aveva solo venticinque anni, si poteva definire un miracolo vivente nell'uso delle armi e nelle arti marziali, poiché le metteva in pratica in maniera straordinaria contro coloro che si cimentavano con lui oppure lo assalivano a tradimento. Di lui era orgoglioso soprattutto il padre, che era stato l'artefice della sua eccellente formazione fisica, psichica e spirituale, fino a fargli superare il suo maestro, anche se solo per un pelo.

Serpul aveva ventisette anni, quando si era visto privare dall'avversa natura di entrambi i suoi genitori. Mentre il figlio era a caccia, essi cercavano di rilassarsi nella loro fattoria con un rapporto intimo. Poco dopo, però, si era abbattuto sulla zona un terribile temporale con lampi accecanti e tuoni rimbombanti. Ma i due coniugi, non lasciandosi intimorire da esso, avevano continuato ad amoreggiare tranquillamente e con il massimo godimento. Era stato a quel punto che un gigantesco platano, situato a dieci metri, si era visto sradicare da un fulmine ed era rovinato al suolo. La sua caduta, però, era avvenuta proprio sulla loro dimora, la quale ne era rimasta schiacciata con quelli che vi si stavano amando. Entrambi, avendo avuto i crani massacrati, erano morti sul colpo. Se invece Sorom avesse assistito all'albero che gli cadeva addosso, si poteva essere certi che almeno lui si sarebbe salvato.

Quando Serpul era ritornato a casa, si era addolorato tantissimo. A loro beneficio, egli aveva potuto solamente dargli una degna sepoltura. Ma qualche giorno dopo aveva stabilito di andare a vivere nella città dei genitori, la quale, come in precedenza aveva appreso dal padre, era Cuset ed era abitata dai Nucesti. Costoro formavano il popolo, a cui egli stesso apparteneva.



CAPITOLO 462



LA VITA DI SERPUL SUL SUO PIANETA



Siccome Serpul aveva quattordici anni, quando la guerra era scoppiata fra i Nucesti e i Curundi, adesso egli ne aveva ventisette. Perciò ci conviene apprendere cosa era accaduto in tanti anni e come procedevano le cose fra i due popoli, mentre il giovane era diretto a Cuset.

Ebbene, dopo la ripresa delle ostilità tra i due popoli, le azioni belliche si erano susseguite una dopo l'altra, impegnando i due eserciti rivali in sanguinose battaglie, le quali erano avvenute almeno una ogni anno. Fra ciascun conflitto e quello successivo, c'era stato appena il tempo di recuperare le forze e di armare un nuovo esercito. Subito dopo ci si era buttati a capofitto in un ulteriore scontro cruento, il quale non aveva mai risparmiato ingenti vite umane. Alla fine del decimo anno di belligeranza, ossia quando c'erano state già una decina di battaglie fra i due popoli bellicosi, era stato l'esercito cusetino ad accusare per primo i disagi provenienti dal clima bellico, che non si decideva ad arrestarsi. Perciò erano cominciate ad aversi fra i Nucesti alcune serie difficoltà di vettovagliamento e di arruolamento di soldati. Quest'ultimo, a causa di una denatalità sempre crescente, in Cuset non aveva potuto più far fronte alle necessità del momento, poiché veniva reclutato un numero di soldati sempre più insufficiente da impegnare in battaglia. Di conseguenza, i Nucesti avevano a disposizione un esercito sempre più debole ed inidoneo a fronteggiare quello nemico. Alla fine essi avevano smesso di guerreggiare contro l'esercito geruzino in campo aperto, ma si erano rifugiati nella loro città e si erano dati a difendersi da dietro le sue alte mura, mentre i Curundi seguitavano ad assediarla con massicce forze.

Come mai la città di Geruz non era andata incontro alla stessa denatalità che aveva colpito Cuset, per la quale ragione il suo esercito non aveva risentito degli inconvenienti provenienti da uno scarso arruolamento di soldati? Non c'erano state forse anche fra i loro combattenti continue stragi dovute alle numerose battaglie campali? Certo che esse si erano avute e continuavano ad esserci anche fra i Curundi, che ne risultavano decimati dopo ogni conflitto semestrale. Allora dove stava il trucco, per cui il loro esercito non veniva a soffrire della mancanza di nuove leve pronte a prendere il posto dei soldati caduti nella precedente battaglia? Tra poco lo scopriremo.

Il re Zurep, prima di intraprendere le azioni belliche contro i Nucesti, aveva emanato un editto con il quale imponeva ai mariti e ai fidanzati di ingravidare le proprie donne; mentre quelle che non avevano un uomo con cui rimanere incinte avrebbero dovuto trovarselo. Inoltre, dopo ogni battaglia, i soldati superstiti, una volta rientrati in città, avrebbero dovuto ingravidare di nuovo, nel caso che non lo fossero, sia le proprie donne che quelle dei loro commilitoni caduti in guerra. Così facendo, il sovrano di Geruz aveva evitato che nella propria città ci fosse una denatalità e che il suo esercito si ritrovasse a fare i conti con un arruolamento sempre meno sufficiente, come era avvenuto nella città di Cuset.

Quando Serpul era giunto nei dintorni della città cusetina, di preciso era l'ora di pranzo. Allora si era reso conto che essa veniva assediata dall'esercito dei Curundi; ma non immaginava che l'assedio durasse da un biennio. Comunque, aveva deciso di attraversare l'accampamento nemico nel cuore della notte, poiché durante l'attraversamento era intenzionato a mietere fra i soldati che vi dormivano il maggior numero possibile di vittime. Il giovane si era mosso a notte fonda; però, prima che si desse ad avanzare fra le truppe nemiche, aveva voluto uccidere un soldato geruzino e indossarne le armi, ad evitare di essere scoperto. Dopo, intanto che la nottata trascorreva, si era infilato con il massimo silenzio in ogni tenda e vi aveva sgozzato quelli che erano in preda al sonno. Così, quando l'alba era iniziata ad apparire ad oriente, la sua spada era già riuscita a tagliare la gola ad un migliaio di Curundi.

Effettuate tali uccisioni, che erano da considerarsi un numero per niente esiguo, Serpul aveva tentato di entrare in città attraverso le sue porte, che potevano soltanto essere sprangate dall'interno. Perciò vi si era diretto sollecitamente a piedi. Quando poi si trovava a trenta metri da esse, un drappello di soldati nemici lo aveva raggiunto e circondato, intimandogli di seguirlo. Invece egli, anziché arrendersi ai suoi nemici, con uno scatto incredibile, era saltato sulla groppa di uno dei quadrupedi e ne aveva ammazzato il cavaliere con il pugnale. A quel punto, venuto in possesso anche lui di un cavallo, Serpul aveva impugnato la spada e si era dato a fronteggiare con essa i suoi nemici, combattendo contro di loro con grande animosità. A quel punto, prima che il martellio delle armi richiamasse sul luogo altri soldati geruzini, egli era riuscito a liberarsene, arrecando a tutti i cinquanta suoi avversari una fine miseranda.

Qualche istante dopo, si era visto ancora accerchiare da un altro centinaio di cavalieri nemici, che erano appena sopraggiunti ed intendevano fare del suo corpo carne da macello, nonostante egli fosse contrario. Questa volta i nuovi cavalieri erano armati di archi con le frecce già accoccate e si preparavano a foracchiarlo con esse. Quando infine avevano deciso di ridurlo in un colabrodo, non avevano esitato a scagliargli contro i loro dardi. Le loro punte acuminate, però, non avevano trovato alcun corpo da penetrare, poiché ora esso rappresentava uno spettro, che non poteva essere colpito da nessuna arma. Ma la grande stupefazione dei cavalieri geruzini non doveva esaurirsi davanti a quel prodigio. Infatti, Serpul, approfittando di quella sua trasformazione, si era dato a volare senza la bestia ed aveva raggiunto la sommità delle mura, dove poco dopo era ritornato ad essere nuovamente in carne ed ossa. Quel suo portento aveva strabiliato non solo i Curundi, ma anche i Nucesti che si trovavano a fare la guardia sulle mura, i quali non si rendevano conto di come ciò fosse potuto succedere. Ma una volta sul cammino di ronda, Serpul aveva chiesto ad un soldato cusetino di accompagnarlo dal suo re, poiché aveva da fargli delle interessanti proposte. Quando poi egli si era trovato presso il sovrano di Cuset, costui gli si era rivolto, dicendo:

«Chi sei, sconosciuto, e cosa intendi propormi? Il soldato, che ti ha accompagnato alla reggia, prima di condurti in mia presenza, mi ha riferito strane cose su di te. Mi confermi che esse ci sono state realmente oppure devo dedurre che egli e i suoi commilitoni erano ubriachi fradici ed hanno preso lucciole per lanterne? Per questo voglio apprendere la verità soltanto da te!»

«Re Ungov, ti assicuro che i tuoi soldati in servizio sulle mura erano sobri, quando mi hanno visto agire nel modo che il mio accompagnatore ti ha riferito. Inoltre, aggiungo che durante la nottata almeno un migliaio di soldati nemici hanno trovato la morte per mano mia nelle loro tende, essendo rimasti sgozzati dal mio pugnale. Visto poi che mi hai domandato chi sono, ti faccio presente che sono un Nucesto non diversamente da tutti gli altri abitanti di Cuset. Comunque, se ignori me, di certo avrai conosciuto mio padre, il quale è morto da poco insieme con mia madre, rimasti entrambi schiacciati sotto il peso di una quercia abbattuta da un fulmine durante un temporale. Io sono Serpul, il figlio di Sorom, colui che non aveva rivale nella nostra città nell'uso di ogni tipo di arma e nelle arti marziali. Prima di morire, egli era già riuscito a ricavare da me un altro sé stesso, con le stesse sue caratteristiche e con il medesimo suo valore di guerriero eccezionale ed imbattibile.»

«Serpul, come potrei non ricordarmi di tuo padre, il quale nell'arena della nostra città è sempre rimasto il guerriero imbattuto dalle mille risorse. Un tempo ho voluto riceverlo perfino a corte ed offrirgli la mia amicizia. Ma poi egli lasciò la città e scomparve, senza dare più notizie di sé. Quindi, tu saresti il rampollo di quell'uomo fenomenale? Adesso che ci penso, allora era vero ciò che si diceva di lui, ossia che era capace di smaterializzarsi, la quale prerogativa gli aveva salvato pure la vita, dopo il crollo di un palazzo fatiscente! A quanto pare, avrai ereditato da lui la facoltà di ottenere la smaterializzazione, quando lo desideri. Non potrebbe essere altrimenti!»

«Senz'altro l'avrò ereditata dal mio genitore, sovrano di Cuset. Ma è errato asserire che tale fenomeno può essere ottenuto da me ogni volta che lo voglio. Invece esso si verifica in me a mia insaputa, ossia nel momento stesso che mi sento minacciato da un pericolo incombente. Anzi, se io mi trovassi nella situazione di non poterlo avvertire, esso non si presenterebbe in me e mi lascerebbe morire con il mio corpo materiale. Infatti, mio padre, essendosi trovato in una tale evenienza, è rimasto schiacciato ed ucciso dal gigantesco albero.»

«Probabilmente, sarà così, Serpul. Ma almeno sai dirmi se anche il genitore di tuo padre era dotato della smaterializzazione, per cui il figlio Sorom l'avrebbe ereditata da lui?»

«Invece mio nonno ne era privo, re Ungov. Anzi, mio padre non nacque con una dote del genere, come ebbe a svelarmi un giorno. Invece se la trovò nel proprio corredo cromosomico, dopo aver assistito alla caduta dal cielo di un oggetto di fuoco. Poco dopo che si era avvicinato ad esso, quel materiale incandescente emise una certa quantità di fumo, che lo avvolse e lo fece svenire. Da allora in poi, egli si ritrovò in possesso di tale prerogativa, scoprendo in seguito che essa si aveva, solo quando avvertiva un pericolo imminente.»

«Visto però che tu hai ereditato la smaterializzazione, Serpul, ciò ci fa pensare che anche i tuoi discendenti la erediteranno, anche se non si sa fino a quale generazione essa continuerà a manifestarsi come una dote innata familiare. A questo punto, figlio di Sorom, che ti consideri un guerriero uguale a tuo padre, vuoi dirmi quali sono le proposte che sei venuto a farmi? Spero che esse siano ottime e capaci di risollevarci dallo stremo delle forze e della resistenza in cui ci troviamo nel difenderci contro i nostri nemici geruzini.»

«Per prima cosa, sire, voglio avere il comando dell'esercito cusetino. Dopo dovrai darmi carta bianca in tutte le mie decisioni. Infine dovrai avere cieca fiducia in me e nel mio operato, anche quando esso potrà apparirti assai strano. Allora sei disposto ad accondiscendere a queste mie pretese, le quali hanno come scopo la salvezza della nostra città?»

«Ebbene sia, Serpul! Per come si sono messe le cose per il nostro esercito e per il nostro popolo, non ho una diversa alternativa; mentre tu rappresenti la nostra àncora di salvezza. Perciò ti do il comando supremo del mio esercito, insieme alla facoltà di prendere tutte le iniziative che vorrai. Così te ne servirai come riterrai più opportuno, senza che da parte mia dopo ci saranno divieti o restrizioni a bloccartele!»



Divenuto comandante in capo dell'esercito cusetino, Serpul si era dato a potenziarne l'organico con l'arruolamento di donne, che non erano puerpere ed avevano una età dai quindici ai sessant'anni. Quanto ai maschi, erano stati arruolarli anche gli adolescenti. Ma pur essendoci stata la protesta degli uomini anziani e vecchi, che non avevano visto di buon occhio quel tipo di reclutamento mai avvenuto nella loro città, alla fine tali persone avevano dovuto rinunciare ai loro mugugni ed allinearsi con la presa di posizione del nuovo capo supremo del loro esercito. Il quale aveva il beneplacito del loro sovrano, che gli aveva perfino dato carta bianca in ogni disposizione di cui avesse voluto avvalersi, allo scopo di togliere i Nucesti dalla grave crisi che stavano attraversando. Quanto alle nuove reclute maschie e femmine, Serpul, consapevole che in un mese di duro allenamento giammai avrebbe potuto ottenere da loro dei soldati in grado di competere con le veterane soldatesche nemiche, aveva escluso che esse venissero allenate nell'uso della spada e del giavellotto, nonché nel combattimento corpo a corpo. Invece, coadiuvato anche dai soldati di vecchio stampo, egli si era dato ad esercitarle esclusivamente nell'uso dell'arco, riuscendo ad ottenere da loro degli ottimi arcieri. Perciò esse, al termine delle loro esercitazioni serrate, erano da considerarsi pronte a prendere parte alla difficile impresa. La quale si sarebbe svolta in piena notte, durante il novilunio che ci sarebbe stato tre giorni dopo.

A parere di Serpul, nell'imminente rappresaglia notturna che si sarebbe avuta nell'accampamento nemico, tenuto anche conto che avrebbe lasciato completamente sguarnite le mura della loro città, egli avrebbe avuto a disposizione non meno di ventimila soldati armati di arco e di frecce. Invece i soldati nemici, i quali erano distribuiti nei vari attendamenti e si presentavano stremati dai molteplici assedi, sarebbero risultati di numero non inferiore alle sessantamila unità. Inoltre, anch'essi sarebbero stati affaticati ed affamati, allo stesso modo di quelli assediati. Comunque, alla fine dell'addestramento delle reclute, egli aveva voluto fare alle sue milizie il seguente discorso:

“Soldati di entrambi i sessi, tra pochi giorni giungerà quella che dovrà essere la notte fatale per i nostri nemici. Da illune che sarà per tutti, essa dovrà spegnere intorno a loro anche ogni chiarore di esistenza, poiché li faremo trovare nel luogo dove la vita sensitiva smette di essere e ci si ritrova nel buio totale della mente, senza più godere del sapore degli affetti e dell'amicizia. Naturalmente, i soldati geruzini non vorranno intraprendere di propria iniziativa il viaggio che conduce alla dimora della morte. Allora sarà vostro preciso compito spingerceli con la forza, senza dargli la possibilità di reagire e di salvarsi in qualche modo. Considerato che voi non siete in grado di affrontarli ad armi pari, in una battaglia in campo aperto e alla luce del sole, siamo stati costretti a ricorrere al tipo di lotta che, se i pronostici non mi ingannano, sarà tutto a nostro vantaggio, anche se non rifulgeremo di eroismo e di valore militare. Ma noi non abbiamo avuto altra alternativa nell'affrontare i nostri nemici, che hanno voluto ad ogni costo questa assurda guerra, la quale ha decimato il nostro e il loro popolo. Perciò saremo compresi e scusati dai nostri posteri, per aver scelto questo tipo di lotta per giungere alla vittoria, andando contro ogni regola della cavalleria e dell'onore.

Dunque, non mi resta che incitarvi a dimostrarvi fermi e decisi nella rappresaglia che effettueremo nella prossima battaglia di novilunio contro i nostri nemici, che sono accampati intorno alle nostre mura, standosene immersi nel sonno. Sarete duri ed inflessibili, quando ve li troverete davanti disorientati e mezzo addormentati, colpendoli con i vostri archi senza pietà e facendone una strage che il popolo dei Curundi dovrà ricordare per secoli. Nel vostro assalto notturno, che avverrà nottetempo, vi mostrerete fieri, crudeli e spietati allo stesso tempo; anzi, senza perdere la calma, sarete intenti esclusivamente a colpire e ad uccidere!

A causa della cecità dell'ora, non ci si vedrà quasi niente nel luogo dove vi muoverete ed avrete di fronte i vostri nemici. Perciò, nella vostra cauta avanzata, vi preoccuperete innanzitutto di bruciare le loro tende con frecce incendiare, per poterli scorgere alla luce delle fiamme e renderli bersagli delle vostre saette implacabili. Ovviamente, non potrete uscire dalla città con le frecce già accese, altrimenti sarete subito scoperti dalle scolte nemiche. Allora un centinaio di voi porteranno con loro dei bracieri di terracotta colmi di brace ardente, in cui potrete appiccare le loro punte al momento opportuno. Essi saranno trasportati all'esterno, dopo che vi sono stati apposti sopra dei coperchi di materiale ignifugo, ad evitare che la brace ardente venga scorta da lontano da quanti in quella notte avranno funzione di sorveglianti, ai margini dell'accampamento nemico. Avendovi riferito ogni cosa circa la prossima incursione che vi attende, potete iniziare a prepararvi per il suo buon esito, senza commettere errori di alcun genere.”

Nei pochi giorni che erano seguiti, essendo stata approntata ogni cosa prima della notte stabilita, i Nucesti avevano atteso che essa giungesse per farla risultare ai Curundi sgradita al massimo. Quando poi la notte di novilunio si era presentata, avvolgendo ogni cosa dentro e fuori Cuset nella tenebra più assoluta, le schiere cusetine si erano date ad uscire dalla loro città e a posizionarsi come gli era stato ordinato dal loro capo supremo. L'attuale schieramento le rendeva pronte ad avanzare verso l'accampamento nemico lungo l'intera sua linea per prenderlo alla sprovvista da ogni parte. In mezzo a loro, c'erano varie staffette a cavallo, le quali avrebbero dovuto metterle al corrente del momento giusto in cui dovevano entrare in azione. Intanto, però, esse, muovendosi nel massimo silenzio, avevano l'obbligo di avvicinarsi alle tende dei nemici fino alla distanza che era stata stabilita. Una volta giunto il momento cruciale, per prima cosa i soldati di Cuset, dopo aver scoperchiato i bracieri con i tizzoni ardenti, avevano incominciato a dare accensione alle loro frecce e a scagliarle contro le tende nemiche. Esse allora all'istante avevano preso fuoco, mettendosi ad illuminare le zone circostanti, facendo scorgere chiaramente quanti ne uscivano terrorizzati ed andavano in cerca di una via di scampo. Ciò non poteva che facilitare il compito agli arcieri cusetini di prenderli a bersaglio e di stecchirli sul posto.

In quella notte di terrore e di replicate mattanze, i Curundi non avevano avuto il tempo di riprendersi dalla brutta sorpresa e di riorganizzarsi in modo adeguato, appunto per opporre alle forze avversarie una valida difesa. Invece essi si erano visti sbaragliare ed annientare dal primo all'ultimo, senza che un solo soldato o una sola soldatessa appartenente all'esercito nemico venisse ucciso o ferito da loro. Per cui, quando le prime luci dell'alba si erano cosparse ovunque, nell'accampamento geruzino non restava una sola tenda in piedi, per essere state tutte bruciate. In ogni parte di esso, regnavano la desolazione e la morte, siccome si scorgevano dappertutto i resti fumiganti di tende o di altra roba avventizia, oltre ad una ingente moltitudine di cadaveri bruciacchiati e privati della loro esistenza per sempre. Allora era stato dato l'ordine ai soldati vincitori di rientrare nella loro città, dove essi si sarebbero dovuti prima riposare con una bella dormita e poi mettersi a disposizione del loro comandante supremo. Serpul, da parte sua, si era condotto dal suo sovrano per fargli il resoconto della situazione, dopo che c'era stata l'incursione notturna nell'accampamento nemico. Una volta in sua presenza, in preda ad una grande euforia, aveva iniziato a dirgli:

«Re Ungov, l'esercito nemico è stato interamente distrutto, senza che neppure un nostro soldato sia rimasto ucciso. È stato un vero trionfo, grazie al piano da me preparato e messo in azione. Perciò puoi esserne molto soddisfatto e gioire per molto tempo!»

A quella stupenda notizia, il sovrano cusetino, dandosi alla massima allegria, si era lanciato ad abbracciarlo e a fargli presente:

«Serpul, grande eroe e degno figlio di tuo padre, solo tu potevi operare un miracolo simile e te ne sono immensamente grato. Ti ringrazio, a nome mio e del mio amato popolo, per averci tolti dai gravi disagi che stavamo vivendo, prima che tu ti presentassi nella nostra città. Ma ora cosa si fa con tutte quelle salme che, se lasciate insepolte, molto presto potrebbero diventare putrescenti ed ammorbare l'aria, dando così origine ad una pericolosa epidemia? Hai dato l'ordine di provvedere al più presto, perché ciò non accada fra la nostra gente?»

«Per il momento, sire, ho mandato i nostri soldati a godersi il meritato riposo; ma li ho pure avvertiti che dopo dovranno tenersi a mia disposizione, essendoci molto altro lavoro da farsi, prima che essi possano considerarsi liberi a tempo indeterminato. Ad ogni modo, insieme allo sgombero delle salme dei nemici dal nostro territorio, il quale dovrà ritornare ad essere netto come prima, nella mia mente sta balenando un nuovo progetto, il quale dovrà integrare l'opera già da noi iniziata.»

«Per favore, Serpul, mi chiarisci cos'altro vorresti fare contro i Curundi? Non abbiamo forse già ottenuto più di quanto era nelle nostre aspettative? Io credo proprio di sì!»

«Invece io non sono del tuo stesso parere, sovrano di Cuset. È mia intenzione occupare la città di Geruz, senza colpo ferire, uccidendo il solo re dei Curundi, che è Zurep, il quale è il vero responsabile delle numerose guerre che ci sono state tra il nostro popolo e il suo.»

«Mi dici in che modo, geniale figlio di Sorom, faresti avverare un prodigio del genere? Non hai messo in conto anche il fatto che le nostre truppe non sono in grado di sferrare alcun assedio contro Geruz, che ha delle mura direi più inespugnabili delle nostre?»

«Ti ho detto forse, re Ungov, che intendo prendere Geruz, assediandola? Certo che no! Invece il nostro esercito entrerà nella città geruzina senza alcuna difficoltà, poiché saranno i Curundi stessi a spalancarci le sue porte e a favorirci l'ingresso in essa.»

«Allora sentiamo, Serpul, come farai a compiere un portento del genere, siccome non vedo l'ora di venirne a conoscenza e, nel medesimo tempo, di deliziarmi con esso!»

«Mio nobile sovrano, domani, durante lo sgombero dei cadaveri dei soldati nemici, prima di farli dare alle fiamme, inviterò gli addetti a tale lavoro a privarli delle loro armature e delle loro vesti; inoltre, farò raccogliere dagli stessi le loro varie insegne, come gli stendardi e i vessilli. Così, al termine della cremazione delle salme geruzine, i nostri soldati e le nostre soldatesse vestiranno le loro casacche ed indosseranno le loro armature. Infine, tenendo bene in vista le varie insegne che appartenevano ai singoli reparti, si partirà alla volta di Geruz. Sono convinto che le nostre truppe, quando si presenteranno davanti alle porte della città, dall'alto delle mura saranno scambiate per loro milizie di ritorno dalla guerra. Allora non esiteranno ad aprirci le porte e a farci entrare, ignari di essersi messi a disposizione del nemico e di aver consegnato nelle sue mani la loro città. Una volta all'interno delle mura, mentre la maggioranza dei nostri soldati si daranno al saccheggio di Geruz, con un pugno di uomini io mi condurrò alla reggia, dove farò subire al re Zurep lo scacco. Il quale nel nostro caso significherà morte all'istante da parte della mia spada. Allora, sire, ti piace il mio piano?»

«Esso, Serpul, è veramente geniale. Perciò sono sicuro che esso avrà pieno successo. Ma ritengo l'eliminazione fisica del re Zurep una mossa marginale, poiché egli, non disponendo più di un esercito né forte né debole, smetterebbe di rappresentare una spina nel fianco per la nostra città e per il nostro popolo.»

«Non ne dubito, re Ungov, ma sarà meglio non correre rischi, quando si ha a che fare con vermi schifosi come lui. I quali conoscono solamente la via che conduce alla guerra e alle immani ecatombi di soldati, come se questi ultimi fossero esseri senza alcuna dignità.»

Nei giorni che erano seguiti, le cose si erano svolte esattamente come Serpul aveva pronosticato, per cui egli, al ritorno da Geruz, era stato accolto nella sua città da glorioso trionfatore. Inoltre, non c'era stato neppure un suo concittadino che non lo avesse stimato un eroe senza pari, per aver salvato dai nemici la sua gente. Essa, dopo un sacco di anni di aspra lotta, durante la quale si era ritrovata con l'acqua alla gola e c'era mancato poco che non affogasse, finalmente ritornava a godersi quella serenità di cui era stata privata in tanti anni di guerra.



CAPITOLO 463



IVEONTE CONQUISTA LA PARTE DI POTERE COSMICO DI SERPUL



Anche questa volta, dopo avergli parlato del terzo Guardiano del Potere Cosmico, Tupok non poté fare a meno di domandare a colui che aveva intenzione di sfidarlo:

«Adesso che sei venuto a conoscenza di ogni cosa sull'eroe del pianeta Koser, lo stesso intendi sfidarlo, Iveonte, senza lasciarti impressionare dal suo indiscusso valore e dalla sua smaterializzazione, la quale potrebbe renderti impossibile trafiggerlo con un'arma?»

«Signore di Potenzior, vedo che non desisti e continui a farmi la medesima domanda, dopo avermi raccontato la storia di ciascun guardiano. Allora sono costretto a darti la stessa risposta, con la quale non posso che insistere a dirti che non vedo l'ora di affrontare Serpul e di sconfiggerlo. La sua morte, anche se per lui sarà di breve durata, mi consentirà di impossessarmi di un'altra parte del Potere Cosmico.»

«Come è tuo costume, Iveonte, il tuo linguaggio è stato molto eloquente. Perciò non avresti potuto esprimerti più chiaramente. Ma mi spieghi come farai a neutralizzare la prerogativa che permette all'eroe koserino di smaterializzarsi, quando cercherai di colpirlo?»

«Per il momento, Tupok, siccome non conosco neppure io la risposta, non posso dartela. Ma ti garantisco che saprò essere all'altezza anche della lotta che mi appresto a condurre contro Serpul. Vedrai che, al momento opportuno, riuscirò a controbatterla nella maniera giusta.»

«Allora, eroe terrestre, non mi resta che farti i miei auguri e formularti il mio “In bocca al lupo!”, affinché anche questa volta l'impresa ti vada liscia come l'olio. In riferimento a come raggiungere Serpul nella sua ubicazione, ormai sei in grado di vedertela da solo.»

«Certo che so come fare, Tupok! Mi rivolgerò ancora a Russet e gli ordinerò di condurmi da Serpul, dopo che lo avrò montato e gli avrò fatto una gradevole carezza lungo il collo!»

Poco dopo, il bianco quadrupede, con il suo leggero battito d'ali, si presentò ancora al suo solito cavalcatore per permettergli di raggiungere il luogo dove l'eroe koserino trascorreva il suo tempo. Al suo arrivo, Iveonte gli saltò sulla groppa ed intrapresero il loro volo verso il Guardiano del Potere Cosmico, che gli era stato proposto come terzo rivale. Alla fine del lungo percorso, compiendo una planata piuttosto morbida, il bianco cavallo atterrò e permise al suo cavaliere di smontare e di trovarsi con i piedi che poggiavano sul suolo, poco distante da Serpul. Il quale, non ravvisando in lui nessuno degli altri Guardiani del Potere Cosmico, prima si stupì e poi cominciò a farsi con la mente varie domande sullo sconosciuto, che il cavallo Russet gli aveva condotto davanti. Quanto alle caratteristiche fisiche del Koseride, esse potevano riassumersi con queste poche parole: era alto circa centosettantacinque centimetri, aveva la pelle olivastra, era un tipo longilineo con una testa appiattita, sul volto si notavano due orecchie triangolari ed un naso all'insù.

Ad Iveonte non sfuggì la meraviglia del nuovo personaggio che aveva di fronte, come pure ne lesse i pensieri, i quali adesso erano intenti a farsi alcune domande. Allora, con l'intento di sciogliere quel clima di gelo iniziale fra loro due, egli intervenne a fargli presente:

«Serpul, visto che ti stai facendo varie domande su di me, ma senza venire a capo di nulla, ti do io una mano, chiarendoti ogni cosa sulla mia persona. Comincio col dirti che, se conosco il tuo nome, è perché me lo ha riferito il Signore di Potenzior. Invece io sono il terrestre Iveonte e il motivo della visita che sono venuto a farti non è di cortesia. Al contrario, essa ha come obiettivo la tua morte transitoria, durante la quale la parte di Potere Cosmico che è in te passerà in me, come è già avvenuto pure con Arkust e Furiek. A questo punto, penso di non doverti far sapere nient'altro su di me e sulla mia presenza in questo posto.»

«Bravo, Iveonte! Nessuno ti ha mai detto che sei un gran presuntuoso e che i tuoi bei sogni possono solo tramutarsi in una acerba delusione? Se neppure una persona te lo ha mai fatto notare, adesso ho pensato io a renderti cosciente di una verità simile!»

«Al contrario, Serpul, ci hanno già provato a farlo i due Guardiani del Potere Cosmico, dei quali ti ho riferito anche i nomi. Ebbene, in seguito essi si sono dovuti ricredere delle loro affermazioni a me avverse. Così, dopo che li ho sconfitti, hanno dovuto rinunciare alla loro parte di Potere Cosmico. Perciò l'una e l'altra in questo momento si trovano dentro di me, come tra poco ci sarà anche la tua.»

«Questo è tutto da vedersi, Iveonte! Comunque, non capisco l'atteggiamento di Tupok, il quale prima ci ha fatto giurare che non avremmo mai ceduto a nessuno la parte di Potere Cosmico che ci ha data in consegna e poi si mette dalla parte di chi si è presentato in Potenzior per privarcene. Lo dimostra anche la presenza del cavallo alato Russet che egli ha preso a cuore la tua causa! Vuoi giustificarmi, Terrestre, il suo nuovo atteggiamento, che non riesco a comprendere?»

«Innanzitutto, Serpul, ti chiarisco che Tupok non è dalla parte di nessuno dei due: né dalla mia né dalla tua. Invece ha lasciato al caso, ovvero al più forte di noi due, la soluzione del problema, la quale implicherà la mia o la tua vittoria. Perciò egli si attende da te il massimo impegno, perché non ti lasci portar via quanto ha posto nelle tue mani ed ha permesso a me di essere libero di cimentarmi con te con l'obiettivo di impossessarmi della parte di Potere Cosmico che tu detieni e ti batti perché giammai nessuno riesca a portarti via.»

«Stanne certo, Iveonte, che farò del mio meglio perché tale potere parziale continui a restare in me, senza che tu sia in grado di carpirmelo e di scalfire minimamente il mio prestigio. Ma prima di darci a tenzonare, una cosa vorrei sapere da te. Perché Tupok si è messo a caldeggiare la tua missione, poiché così è, se ti ha accettato nel suo regno e ti ha agevolato le ricerche che dovevano condurti da noi, perché tu ci sfidassi? Eppure egli ha sempre voluto evitare che un Materiade entrasse in possesso dell'intero Potere Cosmico! Allora sai darmi una risposta valida, a tale riguardo, se ti è consentito rispondermi in tal senso?»

«Devi sapere, Serpul, che tutti gli astri di Kosmos, e con essi tutti gli esseri viventi che li abitano, sono in grave pericolo. Una forza malefica sta facendo tabula rasa delle stelle, dei pianeti e dei satelliti che incontra sul suo percorso. Neppure le più potenti divinità sono riuscite a distruggerla e ad arrestarne l'avanzata. Esse, essendo a conoscenza che solo il Potere Cosmico può fermarla e distruggerla, hanno inviato me in Potenzior, affinché me ne impossessi e me ne serva a tale scopo. Come vedi, si tratta di una missione filantropica quella da me intrapresa e Tupok non ha voluto opporsi ad essa; però l'ha fatta dipendere esclusivamente dalla mia bravura, senza dotarmi di alcun vantaggio su di voi guardiani.»

«Allora, Iveonte, per rendere più fulmineo un proficuo intervento avverso alla mostruosa creatura di Kosmos, anziché lasciare te a perdere tempo con noi in Potenzior, Tupok poteva intervenire personalmente contro di essa ed evitare che ci andassero di mezzo un maggior numero di astri sparsi per l'universo! Perciò mi domando perché non lo ha fatto.»

«Il motivo è molto semplice, Serpul. In Kosmos, il Potere Cosmico funziona, soltanto se è posseduto totalmente da un Materiade; altrimenti fa cilecca e nessuna utilità può provenire da esso. Di ciò è a conoscenza anche Tupok. Ecco perché egli spera che io riesca a debellare tutti i Guardiani del Potere Cosmico e corra a porre riparo a quanto di catastrofico sta succedendo in Kosmos. È così che stanno realmente le cose, eroico Koseride! Ora sei soddisfatto della mia risposta?»

«Certo che lo sono, Iveonte! Su di me il Signore di Potenzior ti ha messo a conoscenza che sono soggetto alla smaterializzazione, quando vengo a correre un imminente pericolo? Sul suo conto, devi sapere che non sarò io a volerla, quando eviterò un tuo colpo mortale; ma essa si presenterà a mia insaputa, unicamente per proteggermi da esso. Con questa precisazione, ho voluto evitare che mi si consideri un vigliacco che non sa perdere, per cui si sottrae al nemico che sta per colpirlo. Adesso, però, è ora di darci al combattimento, che sei venuto a pretendere da me, visto che non hai tempo da perdere in Potenzior. Perciò diamoci da fare e dimostrami, Geoide, che sei davvero un asso nell'uso delle armi e nelle arti marziali, come hai fatto con i due guardiani che hai già affrontati e battuti. Ti faccio sapere che ora troverai in me un campione straordinario nel mettere in mostra tali tecniche, avendo avuto come maestro il mio genitore. Egli aveva raggiunto una tale perfezione, da fargli superare i suoi maestri, che lo avevano insignito dell'Onorificenza del Sommo Valore, titolo che mai nessuno aveva conquistato nella storia della sua scuola, che era quella dei Puzzud.»

Iveonte non replicò alle precisazioni del suo rivale. Invece si preparò a sostenere il suo primo assalto. Esso, secondo un suo studio accelerato di lui, sarebbe seguito abbastanza presto. A suo parere, esso ci sarebbe stato con l'intento di chiudere la partita già con quel suo intervento iniziale. Comunque, sempre secondo l'eroe terrestre, Serpul aveva fatto male i conti, se aveva creduto di riuscirci con facilità, senza tener conto che dalla parte avversa ci sarebbe potuta essere una risposta altrettanto di merito e capace di neutralizzare il suo imminente attacco, pur dimostrandosi di altissimo valore. Infatti, come arguito e presentito da Iveonte, l'eroico Koseride, appena un attimo dopo aver posto fine al proprio parlare esplicativo, non esitò ad armarsi di spada e a scagliarsi contro chi era venuto a sfidarlo, con l'intento di aver la meglio su di lui, sicuro di prevalere sull'avversario. Il suo assalto, ad ogni modo, si dimostrò qualcosa di eccezionale. Esso parve quasi sommergere il suo avversario con una procella di colpi possenti e magistrali. I quali avevano cercato di coglierlo in quei suoi punti nevralgici, che mostravano una difesa scadente oppure una resistenza fiacca. Invece tali punti non furono trovati nella persona del suo antagonista. Egli, al contrario, oltre a pararli in modo singolare, come reazione, gli contrappose degli assalti di indubbia professionalità. Perciò essi lo fecero ricredere della sua pretesa di poter imporre al rivale la sua netta superiorità.

Quando infine si fu consumato quel loro primo scontro in parità, seguì fra i due validissimi combattenti un attento studio reciproco, con il quale ciascuno intendeva assicurarsi la vittoria sull'altro. Ma entrambi prevedevano che non sarebbe stato facile conseguirla contro l'avversario che ora si trovavano ad affrontare. Difatti ognuno scorgeva nell'altro quelle potenzialità e quelle abilità tecniche da lui possedute. Le quali difficilmente si sarebbero fatte smontare oppure avrebbero ceduto davanti alla tracotanza di un rivale ostico, quale ciascuno di loro risultava all'altro, non potendo essere altrimenti, grazie alla loro magnifica preparazione.

Il combattimento fra i due eroici campioni fu ripreso, dopo che si fu conclusa la fase di studio reciproco. Per cui ad essa ebbe sèguito il grande duello che ci aspettava, con tutti i crismi della prodezza, dell'eroismo, della tecnica combattentistica, della perizia d'armi, della competenza nelle arti marziali e del migliore acume nella difesa. Quest'ultimo avrebbe fatto schivare ad ognuno di loro anche quei colpi che gli sarebbero provenuti da parte dell'avversario insidiosi e del tutto imprevisti.

A quel punto, non ci si poteva aspettare uno scontro senza precedenti da entrambi i combattenti, ossia da chi aveva lanciato la sfida e da chi l'aveva accettata, poiché coloro che lo portavano avanti erano stati preparati dai loro maestri, che meglio non si sarebbe potuto. L'uno e l'altro avevano appreso da loro tutto ciò che avevano da imparare, mettendoci alla fine anche qualcosa di proprio, che gli era valso a farli superare, anche se di poco. Lo dimostravano i loro assalti e le loro parate, le loro mosse e le loro contromosse, le loro iniziative improvvise e le loro azioni simultanee che tendevano a neutralizzarle, ricorrendo anche ad un controllo rigoroso, affinché la controparte non avesse ragione di lui. In un certo senso, ci si meravigliava l'uno dell'altro. Perciò ci si stupiva della ferrea preparazione che si riscontrava nel proprio avversario, riferita tanto alla destrezza che manifestava nell'uso delle armi quanto alla perfezione che aveva raggiunta nelle arti marziali. In realtà, dopo che il Signore di Potenzior gli aveva parlato di lui, Iveonte si era fatta una certa idea del campione koserino. Costui, invece, non immaginando minimamente l'inappuntabile valentia che avrebbe rilevata nel suo antagonista, adesso se ne rendeva conto con grande stupefazione. Nello stesso tempo, si andava anche capacitando perché i formidabili Arkust e Furiek non avevano potuto fare a meno di soccombere nel loro confronto con lui.

Iveonte, quindi, era costretto a mettercela tutta nel suo combattimento contro Serpul, siccome lo trovava un avversario degno di lui, che gli dava pochi spazi nell'attaccarlo e nel farlo trovare in serie difficoltà. Inoltre, non erano rare le volte che dallo stesso gli provenivano reazioni temibili, da cui era costretto a difendersi con la massima cura, se voleva evitare di trovarsi in un mare di guai. C'erano poi i suoi colpi che andavano a vuoto, i quali probabilmente avrebbero potuto risolvere lo scontro, se si fossero abbattuti su un corpo fisico atto a riceverli, anziché privarsi di potenza sopra una larva umana smaterializzata. Perciò, in effetti, egli era impegnato solo a contrapporre una valida difesa a colui che non temeva di accusare concretamente quei suoi colpi che sarebbero potuti essere mortali e, di conseguenza, risolutori dell'aspro cimento.

Da parte sua, Serpul lottava invece, senza badare troppo alla difesa, non temendo quei colpi dell'avversario che avrebbero potuto nuocergli in modo grave, fino a troncargli l'esistenza. Egli era consapevole che, ogni volta che essi ci fossero stati, sarebbe stato lo stesso suo corpo a renderli impotenti, smaterializzandosi e vanificando ogni loro intento. Comunque, pure avendo tale vantaggio che la sua natura gli riservava, ugualmente restava nell'impossibilità di aver ragione di Iveonte. Il quale si dimostrava un avversario alla sua altezza e non si lasciava prendere in castagna. Per il qual motivo, era costretto ad andare incontro a continui fallimenti nei suoi vari tentativi di coglierlo in fallo e di arrecargli nello stesso tempo qualche ferita mortale.

Così, dopo un'ora che si combatteva a pieno ritmo, l'aspra lotta veniva affrontata da entrambi i contendenti con tali sfaccettature, dando ognuno tutto sé stesso nell'offendere e nel difendersi, nell'attaccare e nel subire gli assalti. Ad un certo momento, però, l'impavido Koseride, interrompendola all'improvviso, si allontanò dal suo rivale di una ventina di metri. Restando poi a quella distanza, prima si armò del suo arco e poi si rivolse a lui, esprimendosi con queste parole:

«Iveonte, non avrei mai immaginato che ci potesse essere un guerriero forte quanto lo sono io e capace di stare alla pari con me. Tu me lo hai dimostrato, Terrestre. Anzi, sei riuscito a far nascere in me un dubbio, cioè che alla fine avresti potuto superarmi, se non fossero intervenute nel mio corpo le continue smaterializzazioni per difendersi dai tuoi colpi mortali. Perciò non posso dichiararti con certezza che essi sarebbero andati a segno oppure li avrei parati, nel caso che la mia natura fosse risultata normale in quegli istanti. Allora, siccome la verità non la si potrà mai conoscere, ti chiedo venia, se ho deliberato di risolvere diversamente la nostra questione, anche se la cosa non mi fa onore. Ma c'è il fatto che un tempo giurai a Tupok che giammai mi sarei lasciato portar via la parte di Potere Cosmico che mi aveva affidata, difendendola con ogni mezzo a mia disposizione. Quindi, prepàrati a ricevere il colpo fatale dal mio infallibile arco, che ha sempre scoccato le sue frecce senza mai mancare il bersaglio, fosse esso una bestia oppure un mio simile. Ti garantisco, intrepido ed insuperabile campione dalla tempra adamantina, che è giunta l'ora della tua fine!»

«Fai pure come vuoi, Serpul, se credi di riuscire a risolvere in questo modo la nostra contesa. Ma ti avverto che farai un buco nell'acqua, dopo che avrai scagliato la tua freccia contro il mio corpo. Anzi, il tuo tentativo di uccidermi nel modo che hai detto ti renderà noto che tuo padre era inferiore al mio maestro, per non averti insegnato delle cose che solo il mio poteva conoscere. Esse, dopo che avrai fatto partire il tuo dardo micidiale contro la mia persona, ti stupiranno!»

Le parole di Iveonte resero perplesso l'eroe koserino, il quale, non avendone compreso il significato, si domandava a cosa egli si fosse voluto riferire. Ma poi lo vide deporre la spada, armarsi di arco con freccia già incoccata e mettersi a parlargli in questo modo:

«Avanti, Serpul, scaglia pure la tua saetta contro di me! Così ti farò assistere a qualcosa che avresti giurato che non sarebbe mai stato possibile ottenere da nessuno!»

All'incitamento di Iveonte, l'arciere koserino non perdette tempo ad ubbidirgli, anche perché era già sua intenzione colpirlo mortalmente con il suo arco. Ma il suo avversario non se ne stette a guardare che la freccia lo colpisse, poiché, un attimo dopo che ci fu lo scocco della freccia avversaria, egli fece altrettanto con il suo arco; però non con l'intenzione di fare del rivale il suo bersaglio. Allora vediamo cosa aveva avuto in mente di attuare, in quel decimo di secondo, di cui si era servito dopo per portarla a termine. Ebbene, Iveonte era riuscito a fare scontrare le punte delle due frecce lanciate da entrambi, per cui si era interrotta la loro corsa, cadendo al suolo con le punte completamente rovinate.

Scorgendo le due saette cadere giù a terra e ridotte in quel modo, ossia con le punte smussate, Serpul rimase basito. Ma poi si rivolse al suo avversario pieno di diffidenza e gli disse:

«Non dirmi, Iveonte, che sei stato tu a fare accadere il prodigio, a cui abbiamo assistito. Anche perché, se tu assentissi, non ti crederei, non potendo essere facoltà di un Materiade compierlo con tale precisione! Secondo me, si è trattato di un puro caso.»

«Se la pensi così, Serpul, sei libero di non crederci. Forse potrò convincerti con un altro fenomeno avente più o meno la medesima percentuale di rischio, che tra breve compirò. A tale riguardo, ti faccio presente che, mentre mi disfo del mio arco, tu prepàrati ad incoccare una nuova freccia sul tuo, poiché con esso dovrai ancora puntarmi e cercare di colpirmi. Ti raccomando di non sbagliare bersaglio, adesso che non ci sarà nulla a fermare il tuo dardo!»

Iveonte, dopo essersi espresso con tali parole, ebbe appena il tempo di deporre l'arco, allorquando il suo contendente gli scagliò contro la seconda freccia. Ora egli era convinto che essa gli avrebbe attraversato il corpo nella regione precordiale, essendo umanamente impossibile arrestarla nella sua rapida corsa aerea. Invece avvenne proprio ciò che il Koseride aveva escluso che potesse accadere, ossia che il rivale intercettasse e fermasse con le proprie mani l'asticella fornita di punta aguzza e di cocca. La qual cosa, oltre a disorientarlo per un breve istante, lo strabiliò e lo fece intervenire sull'episodio ancora caldo.

«Mi dici, Iveonte, come hai fatto ad operare un simile miracolo? Se te lo ha insegnato il tuo maestro, ammetto che egli era più in gamba del mio forte genitore, che ho sempre considerato un maestro d'armi e di arti marziali insuperabile. Invece adesso mi avvedo che non era così, se su un altro pianeta c'era o era esistito quello tuo.»

«Certo che fu lui, Serpul! Chi, altrimenti, avrebbe potuto insegnarmi i portenti, ai quali hai appena assistito? Il mio maestro Tio era davvero universalmente ineguagliabile! Ma non pensare che io abbia finito di stupirti con le mie prove tendenti a comprovarti la mia superiorità su di te. Ce n'è invece ancora una, la quale, intanto che ti farà meravigliare, ti priverà dell'esistenza, ponendo fine a questo nostro duello, che è durato fin troppo, mentre io non ho tempo da perdere!»

«Davvero dici, Iveonte? Ne sei proprio persuaso? Voglio proprio vedere come riuscirai ad evitare la mia smaterializzazione, che sopravviene, ogni volta che un pericolo mi minaccia ed io ne prendo coscienza. Allora dimostrami che affermi cose davvero indiscutibili!»

Ebbene, se il lettore non lo ha ancora compreso, l'eroe di Geo intendeva ricorrere alla trottola, siccome essa, facendo diventare invisibili lui e la sua spada, non avrebbe consentito al suo avversario di sentirsi in pericolo, mentre era sul punto di falciarlo con la sua arma e di eliminarlo fisicamente. Infatti, non appena quello ebbe terminato di invitarlo a dare dimostrazione di quanto aveva attestato, assunse la posizione che lo avrebbe fatto prillare su sé stesso così rapidamente, da farlo sparire agli occhi di chi l'osservava. Così, pochi attimi dopo, Iveonte, infondendo una grande stupefazione nel rivale koserino, sparì alla sua vista. Di lì a poco, mentre costui si andava chiedendo dove egli fosse finito, si vide tranciare il corpo in due parti dalla spada dell'invisibile suo contendente. Allora, sia l'una che l'altra, stramazzarono al suolo in uno stato che faceva rivoltare lo stomaco. Comunque, passò poco tempo, prima che il corpo sezionato dell'eroico Koseride ritornasse ad essere integro, come se non avesse mai subito il precedente trauma cruento.

Quando Serpul si ritrovò con il suo corpo intero, non ricordava più niente; invece in Iveonte era già avvenuto il travaso della parte di Potere Cosmico, che fino a poco prima era stata custodita dal rivale, in quanto suo guardiano giurato da oltre un secolo. Allora egli, dopo la sua terza impresa compiuta vittoriosamente, non gli restò che montare il cavallo Russet ed ordinargli di condurlo dal suo padrone.

Vedendolo ripresentarsi a lui soddisfatto, Tupok iniziò a dirgli:

«Dunque, Iveonte, devo ancora complimentarmi con te, per avermi dimostrato di nuovo di essere un guerriero non plus ultra. Grazie alle tue doti straordinarie, adesso in te si trova anche la terza parte del Potere Cosmico, per averla sottratta con astuzia ed animosità al tuo rivale Serpul, l'eroe del pianeta Koser. Ora, però, ti tocca conquistare la quarta parte di tale prodigioso potere, la quale è in possesso dell'eroe Pessun, il quale è nativo del pianeta Istop. Come ho fatto con gli altri tre, anche su questo quarto guardiano non mi asterrò dal farti conoscere quelle cose che ti necessiteranno per competere a singolar tenzone con lui. Ti raccomando di fissarti bene in mente ogni cosa che ti dirò sul suo conto, affinché tu te ne giovi, quando lo affronterai per le ragioni che conosci.»

«Ti garantisco, Tupok, che non dimenticherò niente di ciò che stai per raccontarmi sulla vita di Pessun. Lo terrò in mente come qualcosa di molto prezioso. In questo modo ne beneficerò nella prossima prova che dovrò affrontare contro Istop, allo scopo di impadronirmi della quarta parte del Potere Cosmico, non essendomi possibile astenermi da essa. Importante è che tu sia stringato nella narrazione dei fatti, facendo a meno di lungaggini soprattutto là dove non ce ne è bisogno. Anche perché il tedio comincia a prevalere dentro di me, dopo il mio lungo tempo di permanenza in Potenzior.»

«Non ti do torto, Iveonte, a parlarmi così. Anch'io, al posto tuo, mi sentirei come te e vorrei aver compiuto le cinque prove tutte in una volta, poiché non vedrei l'ora di raggiungere il mio pianeta per riabbracciare i miei familiari e i miei amici. Ma ti esorto ad avere ancora un po' di pazienza, visto che quanto stai facendo per tutti i Materiadi è qualcosa di molto nobile. Naturalmente, tutti loro, tranne le persone a te vicine, non verranno mai a sapere che sei stato tu a salvare i numerosi popoli che sono dispersi per Kosmos, abitando sui soli pianeti che permettono la vita e la sopravvivenza.»

«Come potrei non essere paziente, Signore di Potenzior, sapendo che dalle mie ardue prove dipende la vita di milioni di esseri animali e vegetali, nonché di quelli dotati di intelligenza. Perciò terrò duro, fino a quando non avrò superato anche la quinta prova, con la quale entrerò in possesso dell'intero Potere Cosmico.»

«Hai ragione, Iveonte, a parlare in questo modo, poiché una missione più nobile della tua non esiste in nessuna parte dell'universo. Per cui siine orgoglioso e felice! A questo punto, mi tocca mettere mano a raccontarti ciò che è inerente al quarto eroe, poiché ti sarà assai utile.»



CAPITOLO 464



I LOKRATESI ALLE PRESE CON I FEROCI KROEP



L'eroe Pessun era vissuto tre secoli prima sul pianeta Istop, che orbitava intorno alla stella Sandrel, la quale si trovava nella galassia di Anerd. Gli altri quattro corpi planetari, che orbitavano intorno alla stessa stella, in ordine di vicinanza ad essa, erano i seguenti: Ersuk, Kavul, Natruz, Oxun. Quanto a Istop, che risultava il più lontano dalla sua stella, aveva una superficie quadrupla di quella della nostra Terra e presentava una bellezza diversificata, a seconda della regione che veniva posta sotto l'osservazione e del relativo periodo stagionale. Gli Istopidi costituivano una razza con le seguenti caratteristiche fisiche: altezza media sui due metri, orecchie attorcigliate, pelle verdastra, naso dilatato, testa capelluta. In riferimento poi ai popoli che abitavano il pianeta, ce ne stava uno solo, il quale poteva vantarsi di godere di una fiorente civiltà. Esso era quello degli Urnut. Costoro vivevano nella splendida città di Lokrat, nella quale regnava il sovrano Velvut. Fino ad un quarantennio prima, si era vissuto nell'assoluta serenità. Infatti, non vi si erano riscontrati problemi di sorta, che avessero potuto turbare la tranquillità dei suoi abitanti. Perciò gli anni trascorsi prima di quel tempo avevano visto la città vivere nell'agiatezza, poiché il commercio e l'artigianato vi si erano mostrati assai prosperi e fiorenti. Da parte loro, i contadini, i mandriani e i cacciatori non avevano fatto mancare ai suoi abitanti rispettivamente i loro prodotti agricoli, le carni del loro bestiame e quelle ricavate dalla selvaggina, che si procuravano con la caccia. Queste ultime tre categorie di Lokratesi si erano stabilite nei dintorni della città, sopra una superficie che si estendeva fino a trenta chilometri dalle mura cittadine.

Si può sapere quale evento negativo c'era stato quarant'anni prima, a causa del quale gli abitanti di Lokrat avevano smesso di essere sereni ed avevano cominciato a trascorrere dei giorni maledettamente neri e in preda alla disperazione più folle, che rendeva a tutti loro le notti agitate ed insonni? Ovviamente, pure il lettore vorrà apprenderlo e, fino a quando non ne sarà venuto a conoscenza, non si darà pace. Anzi, cercherà lui stesso di darsi una risposta da solo, fantasticandovi sopra con i più astrusi ragionamenti. Allora, prima che ciò accada, conviene affrettarci a renderlo partecipe di quanto era successo agli sventurati.

Nel periodo, a cui si è accennato, c'era stato il padre del re Velvut a regnare su Lokrat, ossia il re Nicod, che era stimato da tutti un sovrano saggio, giusto e liberale. Per la qual cosa, il suo popolo lo amava e gli era molto riconoscente. A quel tempo, a dieci anni dalla morte del suo indimenticabile sovrano, la città contava duecentomila abitanti. Essi erano dediti ai più svariati mestieri e al commercio, ricavandone profitti alquanto proficui. Nessun Lokratese viveva da cittadino disoccupato, per cui non aveva il tempo di darsi all'infingardaggine; ma tutti i cittadini si dimostravano persone volitive e intraprendenti. Un giorno, però, per il popolo lokratese c'era stata una forzata inversione di rotta, per cui lo si era obbligato a porre fine al periodo di benessere che stava vivendo, essendosi sostituita ad esso una fase di esistenza grama e privata di ogni prospettiva futura. Ne erano stati la causa alcuni esseri spregevoli, i quali erano venuti fuori dal nulla e si erano dati ad angariarlo in modo feroce ed oppressivo. Allora, una volta perdute la tenace laboriosità e la gioia di un tempo, nei Lokratesi era venuta meno perfino la voglia di lottare per la sopravvivenza. La nuova esistenza, a quanto pareva, gli prospettava davanti unicamente un avvenire senza possibilità di cambiamento e di ritorno alla beata vita di un tempo.

I responsabili dei loro guai erano stati degli esseri mostruosi, i quali, anche se erano esigui di numero e non avevano gigantesche dimensioni, come ci potremmo immaginare, possedevano una forza immane ed una ferocia inverosimile. Inoltre, potevano vantarsi di un corpo inattaccabile, poiché risultava per certi aspetti invulnerabile. Si trattava dei Kroep, i quali erano una decina in tutto. La loro altezza non superava i centonovanta centimetri, ma presentavano dei bicipiti e dei tricipiti brachiali poderosi; lo stesso si poteva affermare, se ci si riferiva ai medesimi muscoli delle cosce. Riferendoci invece alla loro forza, essa permetteva a tali esseri di sollevare con facilità perfino massi dal peso di un quintale e gli permetteva pure di scagliarli ad una distanza di venti metri, provocando ingenti danni dove essi si abbattevano. Volendo descrivere più in dettaglio il resto del loro corpo, la loro testa era quella di un cinghiale; ma mostrava un paio di occhi che apparivano di fuoco, poiché a volte emettevano delle scintille. Nell'ampia bocca, che poteva avere un'apertura di trenta centimetri, si scorgevano due arcate di zanne acuminate, la cui lunghezza superava i sette centimetri. Invece la parte restante del corpo non era diversa da quella umana; però, ad eccezione delle mani che erano fornite di artigli possenti, era ricoperta da un pelo grigio variamente lungo, a seconda della zona anatomica. L'apparizione dei Kroep c'era stata, quando il sovrano Nicod era al ventesimo anno del suo regno. Gli abitanti di Lokrat non avrebbero mai immaginato che ci potessero essere sul loro pianeta degli esseri simili. Perciò invano si erano andati chiedendo da dove essi fossero venuti fuori, quando l'inizio di una splendida primavera stava infondendo in tutti loro brio e gaiezza. Ma ogni loro congettura a tale riguardo non gli aveva dato alcun risultato, per cui erano stati costretti a vivere quel tremendo e funesto evento che li coinvolgeva, senza dargli la possibilità di porvi rimedio alcuno, allo scopo di liberarsene e di ricominciare a vivere la serenità di prima.

A questo punto, conviene occuparci della prima comparsa dei Kroep sui territori circostanti a Lokrat e del loro atteggiamento nei confronti di quanti vi risiedevano, fossero essi contadini, mandriani oppure cacciatori. Riandando a tale circostanza, comprenderemo meglio il loro nuovo stato d'animo, che gli si era insediato nell'animo, dopo la loro apparizione in quelle zone lontane dalla città. Ebbene, quegli esseri terribili, che di certo non facevano una buona impressione a guardarli, in un primo momento avevano suscitato nei cacciatori incontrati per primi parecchio terrore, fino a farli scappare, con l'intento di rinchiudersi nelle loro abitazioni insieme con i loro familiari più cari. In verità, essi non erano stati inseguiti dai Kroep, che li avevano lasciati andare senza preoccuparsene, facendo meravigliare perfino coloro che fuggivano da loro a rotta di collo. Anzi, nella loro corsa frenetica, essi non si erano astenuti dal farsi domande di ogni genere su quegli esseri abominevoli. Era stato a notte inoltrata che i dieci Kroep avevano messo in mostra la loro ferocia, ma non contro le persone adulte, che per il momento avevano voluto risparmiare. Nelle dieci case coloniche in cui avevano fatto irruzione, dopo averne abbattuto le porte senza alcuna difficoltà, pur essendoci in esse buio pesto, i Kroep erano riusciti a scegliersi le loro vittime. La loro predilezione era stata per i bambini di età non superiore ai tre anni. Dopo averli abbrancati e portati alla bocca, li avevano azzannati con famelica ingordigia, a cominciare dalle teste, volendo prima ammazzarli e poi non essere disturbati mentre li stritolavano e li fagocitavano.

Ovviamente, i genitori dei piccoli e i loro fratelli più grandi, a causa dell'oscurità della notte, non avevano potuto assistere al terribile spettacolo, che aveva provocato nell'abitazione anche lo spargimento di una gran quantità di sangue. In ogni famiglia, essi se ne sarebbero resi conto al mattino, con il ritorno delle prime luci dell'alba. Allora avevano vissuto con il massimo dolore l'orrendo dramma, a cui era andato incontro il loro figlio più piccolo. Comunque, era bastato un solo bambino a soddisfare la fame di ciascun essere mostruoso. Perciò, una volta divenuti sazi, i Kroep si erano allontanati dalle abitazioni assalite ed erano scomparsi nel silenzio notturno. La loro sparizione, però, era durata, fino a quando la fame non si era rifatta sentire da loro. La qual cosa era successa puntualmente nella nottata seguente; anzi, sarebbe continuato ad accadere anche nelle successive notti, arrecando nelle varie abitazioni extraurbane incredibili tormenti e patimenti alle famiglie.

Dopo la decima notte che si erano avute le incursioni kroepiane, una decina di capifamiglia del circondario avevano deciso di mettere a conoscenza del loro sovrano quanto stava avvenendo nei loro territori. Perciò avevano raggiunto Lokrat e si erano presentati a lui. Era stato il loquace Bevuk a parlare per tutti, raccontando al re Nicod le azioni orribili che venivano commesse a danno dei loro piccoli da parte di esseri mostruosi, la cui natura era da considerarsi umana e bestiale allo stesso tempo. Quando poi l'uomo aveva terminato il suo orrendo racconto, il sovrano, che lo aveva ascoltato con grande ribrezzo, aveva rassicurato il gruppo di coloni che avrebbe inviato contro gli allogeni divoratori di bimbi una centuria bene armata dei suoi soldati migliori, con il compito di scovare e distruggere i loro dieci persecutori. A tale rassicurazione del loro sovrano, i membri della comitiva proveniente dai territori circostanti si erano congedati da lui ed avevano fatto ritorno alle loro famiglie.

Il giorno dopo, il sovrano, non venendo meno alla sua parola data alle persone che erano andate a chiedergli aiuto, aveva inviato un centinaio di soldati bene armati nei territori dove i Kroep compivano i tremendi delitti a danno esclusivamente di bambini. Si trattava di arcieri provetti, che erano in grado di colpire i loro bersagli anche a venti metri di distanza. Allora essi subito si erano messi alla ricerca dei mostruosi mangiatori dei piccoli figli dei contadini, degli allevatori e dei cacciatori della zona. Così li avevano trovati tutti insieme, mentre riposavano in una radura nei pressi di un torrente, le cui acque limpide scorrevano a velocità moderata. Ritenendosi fortunati per il fatto che non avevano impiegato molto tempo a scovarli, essi avevano iniziato a scagliare contro i loro corpi una infinità di saette, fino ad esaurire le loro faretre. Nel comportarsi in quel modo, i soldati non si erano accorti che le loro frecce andavano a colpirli invano, poiché si mostravano impotenti a conficcarsi nella loro pelle coriacea. Essa, via via che ne era rimasta colpita, le aveva fatte cadere al suolo, anziché lasciarsi trafiggere.

Una volta che si erano resi conto di quell'evento inconsueto del tutto inatteso, i soldati venuti da Lokrat avevano deciso di affrontare i Kroep con altre armi, a cominciare dal lancio dei loro giavellotti. Ma anch'essi erano andati incontro ad un pieno fallimento, non essendo riusciti a penetrare i loro corpi e ad ucciderli. Perciò avevano stabilito di caricarli e di infilzarli con le loro spade, mediante colpi sferrati con forza e saldezza. Invece, prima che ciò avvenisse, i loro cavalli, essendo stati spaventati dagli acuti e stridenti grugniti dei Kroep, si erano impennati e li avevano disarcionati. Subito dopo erano scappati via, lasciandoli per terra indolenziti e frastornati. Invece i poveretti non si erano ancora riavuti dalla brusca caduta, la quale li aveva privati della forza di rialzarsi da terra, allorché erano stati assaliti dai Kroep. I quali si erano dati a sterminarli orrendamente, decapitandoli e facendo dei loro corpi uno strazio inverosimile. Essi avevano smesso di infuriarsi contro i loro assalitori, soltanto dopo averli ridotti in uno sfacelo incredibile. Comunque, quei mostruosi esseri si erano astenuti dal divorarli per un semplice motivo. Fino a quando per loro ci fossero stati bambini di cui nutrirsi, essi avrebbero evitato di fare delle persone adulte il loro pasto notturno.

Il giorno seguente tutti i cavalli erano ritornati in città senza i loro cavalieri, la qual cosa aveva fatto stupire il sovrano Nicod, che si attendeva dai suoi soldati la bella notizia di aver sterminato definitivamente i mostruosi esseri che affliggevano le famiglie dei coloni, dei mandriani e dei cacciatori. Al contrario, era stato informato da due cacciatori della miseranda fine che era toccata ai suoi cento soldati ad opera dei feroci Kroep. A quella notizia, egli aveva allestito un esercito di mille cavalieri e li aveva inviati contro i mostruosi alieni che avevano massacrato i suoi cento soldati, rendendo i loro corpi maciullati ed irriconoscibili. Il piccolo esercito, uscito dalla città di Lokrat, si era diretto verso quei luoghi frequentati dai Kroep, allo scopo di intercettarli, di accerchiarli e di punirli con la massima severità. Quando vi erano pervenuti, quelli che avevano funzione di emissari si erano messi alla loro ricerca, servendosi delle informazioni che ricevevano dai coloni e dai cacciatori del luogo. Ma c'erano voluti tre giorni, prima che essi riuscissero a trovare le loro tracce e a scoprire il loro covo, il quale era costituito da un antro non molto profondo. Allora essi si erano astenuti dallo snidarli di persona, siccome il loro esiguo numero poteva metterli in serio pericolo. Invece avevano pensato che fosse più giusto metterne al corrente il grosso del loro esercito e farlo intervenire contro i dieci Kroep. Perciò, mentre tre di loro erano andati ad avvertire chi lo comandava, i restanti tre erano rimasti a controllare le mosse dei mostri, nel caso che essi fossero usciti dall'antro con l'intenzione di spostarsi in un altro posto.

Quando infine era arrivato il comandante Axur con il suo migliaio di soldati, egli, appreso che i Kroep non si erano mossi dal loro antro, aveva dato ordine ad alcuni suoi subalterni di appiccare del fuoco davanti al suo ingresso. Gli aveva anche raccomandato di buttarvi sopra delle foglie verdi, poiché esse, producendo molto fumo, avrebbero affumicato l'interno dell'ampia cavità, costringendo chi vi si annidava ad uscirne. Inoltre, aveva ordinato agli altri suoi soldati di tenersi pronti ad intervenire, non appena i mostruosi esseri fossero venuti fuori per ovviare alla massa fumosa che era penetrata nella loro abitazione. I soldati, però, avevano atteso invano la loro uscita dall'antro, poiché esso, avendo un altro sbocco all'interno del bosco, gli aveva permesso di sottrarsi all'inconveniente a cui erano andati incontro per volontà altrui. Nello stesso tempo, i Kroep avevano anche deciso di vendicarsi dei loro importunatori, che avevano osato disturbare il loro tranquillo sonno con il denso ed acre fumo.

Perciò, intanto che i soldati sorvegliavano l'ingresso dell'antro, volendo vederli precipitarsi fuori di esso l'uno dopo l'altro, la maggioranza di loro si teneva sparpagliata nelle sue vicinanze per mancanza di spazio. Ebbene, nei confronti di questi ultimi, era iniziato ad esserci l'imprevisto da parte dei dieci Kroep. Infatti, essi erano apparsi all'improvviso alle loro spalle; così, senza perdere tempo, si erano messi ad abbrancarli e a lanciarli in aria in varie direzioni, come se fossero dei fuscelli. Cadendo poi al suolo, i miseri soldati si ritrovavano con il corpo fracassato e con ferite multiple quasi sempre mortali. Riguardo a quelli che cercavano di reagire, assalendoli con armi di ogni tipo, essi prendevano coscienza che a nulla servivano i loro sforzi in tal senso, poiché il corpo dei mostruosi nemici era refrattario ai tagli di ogni arma. In verità, tali soldati non avevano neppure il tempo di rifletterci sopra, in quanto poco dopo si vedevano abbrancare e scagliare a molta distanza da terra, trovando poi la morte nella loro rovinosa caduta al suolo. Procedendo lo scontro in quel modo, il numero dei morti fra i soldati si era andato accrescendo di minuto in minuto, siccome essi morivano, come fatto presente. Solo pochi avevano subito il supplizio della decapitazione, da parte di quelli a cui volevano recare danno, prima di essere gettati a grande distanza. Ma l'ecatombe, che i Kroep avevano originato, alla fine si era rivelata orribile ed indicibilmente impressionante. Dappertutto si scorgevano molti corpi senza vita, i quali si presentavano storpiati e sanguinanti. Soltanto poche decine di soldati erano riuscite a fuggire, dopo aver recuperato dei cavalli ed essersi allontanati in groppa a tali quadrupedi.

Gli sventurati erano pervenuti nella loro città, apparendo in preda ad un terrore parossistico. Se ne era accorto anche il loro sovrano, quando uno di loro era stato in sua presenza per riferirgli ciò che era accaduto agli altri soldati, che avevano preso parte alla spedizione contro i Kroep. Allora il re Nicod prima aveva cercato di rincuorarlo alla meglio; subito dopo gli aveva domandato:

«Mi dici, soldato, cosa è successo a te e agli altri commilitoni, per mostrarti con una espressione del volto così atterrita e preoccupante? Cosa ne è stato di tutti gli altri, visto che non si è presentato a me il vostro comandante Axur? Se non erro, eravate un migliaio, quando siete partiti da Lokrat per vendicare gli abitanti dei dintorni.»

«Sire, a parte una trentina di noi che ci siamo salvati per miracolo, scappando e rifugiandoci nella nostra città, essi sono tutti morti, compreso chi ci comandava. Adesso te ne faccio il resoconto per metterti al corrente con chi abbiamo avuto a che fare nella nostra missione, che tutti avevamo creduta un'autentica passeggiata.»

Al termine del suo racconto, il sovrano gli aveva chiesto:

«Credi, Baguz, che adesso tali esseri mostruosi, per ritorsione, vorranno trasferirsi qui a Lokrat per continuare le loro stragi, come già stanno facendo nelle terre che circondano la nostra città?»

«Secondo me, re Nicod, sono certo che essi molto presto si faranno vivi anche qui in città, ma non per dar luogo al medesimo eccidio fra la nostra popolazione, essendo altri i loro obiettivi.»

«Soldato, perché mai essi dovrebbero risparmiarci, evitando di continuare a vendicarsi? E quali sarebbero i loro obiettivi? A mio avviso, se verranno a farci visita, di sicuro il loro scopo sarà ancora la vendetta!»

«Non è detto che io abbia sicuramente ragione, sire, poiché a loro conviene che restiamo in vita. Noi gli serviamo, perché rappresentiamo la fonte del loro nutrimento. I cacciatori e gli altri coloni, quando ti fecero la loro visita, non ti riferirono forse che a quei terribili mostri piaceva nutrirsi dei nostri teneri bambini? Perciò l'intento della loro presenza tra di noi sarà unicamente quello di cibarsi delle nostre piccole creature, procurando alle loro madri un immenso dolore. Per nostra fortuna, il loro numero non è eccessivo, per cui il nostro popolo non andrà incontro alla distruzione totale, siccome qui da noi la natalità sovrabbonda. Semmai dovesse esserci una sua deficienza, potremmo sempre invitare le coppie a fare più figli, per evitare di sparire dalla faccia del nostro pianeta.»

«Forse non ti sbagli, Baguz. Ad ogni modo, non ci asterremo dal tenere sempre chiuse le porte della nostra città per cercare di vietargli l'ingresso in Lokrat. Così vedremo se essi saranno capaci di superare le nostre mura, le quali hanno un'altezza di dieci metri! Per il momento puoi ritirarti, soldato, dovendo prepararmi a dare le giuste disposizioni agli alti ufficiali del mio esercito. Voglio avvertirli di affrontare la futura situazione con cautela, senza comportarsi da teste calde ed istigare così i mostri ad inutili spargimenti di sangue.»

Cinque giorni dopo, i Kroep si erano fatti vivi davanti alle porte di Lokrat ed avevano cominciato a studiare come entrare in città, convinti che in essa avrebbero trovato una fonte inesauribile di nutrimento per tutti e dieci. Quanto ai soldati che si trovavano sulle mura, essi, come da ordini ricevuti dai loro superiori, non avevano osato scagliare contro di loro alcun tipo di armi; ma si erano limitati ad osservarli e a spaventarsene. Nello stesso tempo, si erano augurati che essi sarebbero stati incapaci di superare le alte mura della loro città. Al contrario, loro malgrado, le cose non erano andate nel modo in cui i soldati avevano sperato. I Kroep, infatti, dopo aver ponderato bene la situazione, si erano capacitati che le porte costituivano la sola parte vulnerabile della città, visto che le mura avevano uno spessore che superava i tre metri. Così, dopo essere andati alla ricerca nelle vicinanze di enormi massi, che a volte pesavano più di un quintale, avevano iniziato a scagliarli contro le massicce porte. Con i loro tremendi lanci di pesanti macigni, i Kroep prima avevano provocato ad esse ingenti danni; in seguito le avevano perfino scardinate e fatte crollare. Soltanto con la caduta delle porte, alla fine erano potuti entrare in città. Ma una volta all'interno delle mura, essi non si erano dati ad assalire la gente; invece se ne erano andati in giro per le strade cittadine, senza subire reazione da parte di nessuno. Anche perché la popolazione era stata avvisata di assumere un simile atteggiamento, se essi fossero riusciti ad entrare in città.

Da quel giorno, le notti dei Lokratesi avevano smesso di essere serene come le precedenti, dato che essi si erano visti privare in continuazione di dieci bambini, i quali erano serviti come pasto ai mostruosi esseri. Di quei mostri non si conosceva la provenienza; però si sapeva che essi causavano un immenso dolore ad altrettante madri afflitte e disperate. Non era facile descrivere la loro afflizione e la loro disperazione, mentre i Kroep le privavano dei loro figli e li divoravano come lupi affamati. Naturalmente, neppure agli altri familiari dei piccoli risultava piacevole la raccapricciante scena che si aveva in quella circostanza drammatica, la quale li distruggeva fisicamente e psichicamente. Non erano rare le volte in cui qualche genitore cercava di reagire alla disumana azione del divoratore del proprio figlio. Ma la sua reazione faceva piovere sul bagnato, siccome il Kroep aggredito replicava con un nuovo assassinio a danno della persona che si era opposta alla sua azione famelica. Così nella famiglia veniva ad esserci un ulteriore lutto angosciante.

Nella città di Lokrat gli anni erano trascorsi all'insegna di un clima terrorizzante, che i Kroep avevano seguitato a far vivere alla gente in ogni suo angolo, arrecando ad essa una esistenza che si faceva fatica a portare avanti. Essa risultava a tutti gli abitanti della città come un pesante fardello, considerato inaccettabile sotto tutti i punti di vista. Quest'ultimo era continuato a persistere anche dopo la morte del re Nicod, quando gli era succeduto il figlio, ossia il re Velvut. Costui lo aveva ereditato dal padre, quando lo strapotere dei Kroep durava da dieci anni. Comunque, anch'egli non era stato in grado di liberarsene, al fine di restituire ai suoi sudditi la felicità e la voglia di vivere di un tempo.

Per fortuna sua e del suo popolo, quando il sovrano Velvut regnava da venti anni sulla sua città e trascorreva il ventesimo anno della prepotente presenza dei Kroep in Lokrat, stava per arrivare l'eroico personaggio che li avrebbe riscattati dal loro malvagio giogo. Egli sarebbe riuscito ad eliminarli nella maniera che apprenderemo molto presto. Si trattava di Pessun, di cui adesso ci daremo a parlare nella dovuta considerazione, allo scopo di conoscerne quelle qualità e caratteristiche che lo rendevano un eroe eccezionale.

CAPITOLO 465



CAPITOLO 465



LA VITA DI PESSUN SUL PIANETA ISTOP



Pessun era nato due anni prima della comparsa dei Kroep sul territorio dei Lokratesi. Ma la presenza dei mostruosi alieni su di esso era coincisa con la morte della madre Ceusa, che era stata uccisa dal morso di un serpente velenoso. Perciò, rimasto orfano di madre, era stato il padre Loben a prendersi cura di lui fino alla sua età adulta. Anzi, durante il suo primo anno privo delle attenzioni materne, aveva dovuto anche sottrarlo al pericolo dei Kroep, i quali si cibavano soltanto di bambini che non superavano i tre anni di età. Per riuscirci, egli lo aveva cresciuto in un pollaio in mezzo ai polli. Inoltre, durante ogni loro ispezione notturna, lo aveva ricoperto con grosse ali di gallina e gli aveva tappato la bocca con una striscia di tela, ad evitare che il piccolo si facesse scoprire con il proprio pianto. Il bambino aveva compiuto i suoi tre anni, quando il padre aveva deciso di risposarsi con una donna della zona, facendogliela risultare da quel giorno sua madre naturale.

Chi era Loben? Quale esemplare eroismo lo contraddistingueva, per essere riuscito a formare il figlio con la tempra dell'eroe? Di certo non si poteva pensare a lui come ad una persona comune, se aveva ricavato dal suo Pessun l'eroico uomo per eccellenza. Allora, per valutarlo nei suoi eccezionali valori intrinseci ed estrinseci, occorre approfondirlo almeno per quel tanto che sarà in grado di fornirci di lui quelle notizie utili per farcelo conoscere nel modo migliore. Perciò non ci asterremo dal seguire un simile suggerimento. Siccome era amante di escursioni, fin da quando aveva dodici anni, Loben era solito allontanarsi da casa ed andarsene in giro per intere giornate; però sul calar del giorno, egli era già di ritorno e trascorreva la notte in famiglia. Aveva quindici anni, quando il suo viaggio era durato tre giorni di seguito, poiché Loben si era ritrovato a vivere una esperienza nuova. La quale lo aveva incantato talmente, da fargli perfino dimenticare di avere dei genitori, a cui aveva promesso che le sue fuoriuscite non sarebbero mai durate più di un giorno intero. Invece questa volta, non preoccupandosi di impensierire la madre e il padre, aveva voluto fare una eccezione, siccome gli si permetteva di fare una fantastica esperienza fuori casa.

Quel giorno, dopo aver salutato i suoi genitori, come di consuetudine, egli aveva lasciato la sua abitazione e si era diretto verso la catena di monti. La quale si estendeva lungo tutto il lato nord per svariati chilometri. Su di essa alcuni eccelsi rilievi svettavano per solennità e splendore, al tocco dei raggi di luce provenienti dall'abbagliante sole. Questo, infatti, ai primi chiarori dell'alba, si era dato ad alzarsi ad oriente e a far propagare la sua luce e il suo tepore per vaste aree geografiche, a cominciare dalle cime dei monti. Da parte sua, Loben, mentre procedeva per un sentiero che si inerpicava per un costone roccioso, tra balze e greppi, era inciampato e si era slogato una caviglia. Allora la slogatura lo aveva costretto a fermarsi e ad interrompere la sua ascesa. Per sua fortuna, poco dopo era stato raggiunto da un uomo che cavalcava un mulo. Egli, che mostrava una barba a pizzo, doveva avere una età che non superava i cinquantacinque anni. Il nuovo arrivato, scorgendolo dolorante per l'incidente avuto, all'istante aveva arrestato la sua bestia e ne era sceso. Dopo essersi avvicinato a lui, gli aveva domandato:

«Mi dici, ragazzo, cosa ti è successo? Come vedo, hai difficoltà a muoverti. Ma nel caso che io possa esserti di aiuto, lo farò volentieri.»

«Sconosciuto, essendo io inciampato per una banale distrazione, ora questo piede mi impedisce di camminare e mi procura anche un dolore tremendo al minimo suo movimento. Inoltre, la mia casa è lontana e non saprei come raggiungere i miei genitori, visto che sono così malridotto! Se vuoi conoscere il mio nome, esso è Loben. Invece il tuo qual è? Mi farebbe piacere apprenderlo.»

«Io mi chiamo Pidus, infortunato Loben. Ad ogni modo, dal momento che mi trovo qui, mi permetti di dare una occhiata al tuo piede destro, perché mi renda conto del suo reale stato?»

«Se credi di riuscire a fare qualcosa per tale mia parte anatomica, generoso Pidus, accòmodati pure!»

Ricevuto il permesso del ragazzo, l'uomo si era avvicinato a lui. Subito dopo, con una certa delicatezza, aveva cercato di sollevargli il piede. Tale manovra all'istante aveva fatto emettere al suo occasionale assistito un grido di dolore. Allora egli gli aveva fatto presente:

«Loben, per tua buona ventura, cadendo, non ti sei prodotto una distorsione alla caviglia. Con alcuni massaggi e con i lenimenti ad hoc, potrai guarire; però ci vorranno anche un paio di giorni di riposo. Per questo sono costretto a condurti a casa mia, facendoti viaggiare sulla groppa del mio mulo. Quindi, mettiamoci subito all'opera per preparare il tuo trasferimento nella mia dimora.»

Pidus non si era sbagliato, per cui il suo assistito era ritornato perfettamente guarito dopo due giorni di convalescenza, grazie ai suoi formidabili massaggi al piede e alla miracolosa pomata ad esso applicata, che egli stesso aveva preparata con erbe officinali. Al termine della guarigione, però, Loben non se ne era ritornato subito a casa, poiché dei fatti nuovi, interessandolo, lo avevano spinto ad agire altrimenti. Così gli avevano fatto ritardare ancora di più il suo ritorno fra i suoi genitori.

Il nostro nuovo personaggio era un kusbor, ossia un maestro di altissimo pregio che insegnava ai suoi allievi una speciale dottrina, detta kusb. Essa si attuava mediante un complesso di tecniche ascetiche e con uno specifico metodo di autodisciplina. Con la sua pratica, li liberava, passo dopo passo, da ogni rapporto che avevano con la loro esistenza concreta, avendo essa una funzione prettamente spirituale. Assoggettandosi a tale disciplina, i discenti raggiungevano vari risultati, come: 1) una retta norma morale, per cui dovevano astenersi dall'offendere il proprio prossimo, rispettare la verità assoluta e rendere puri il corpo e lo spirito; 2) la preparazione fisica nell'assumere posizioni del corpo adatte alla meditazione; 3) il controllo nel respirare e nel pensare per sottrarre i propri sensi agli stimoli esterni; 4) lo svuotamento della mente, attraverso la concentrazione su oggetti e su astrazioni; 5) l'assoluto raccoglimento della persona. Quest'ultimo consentiva loro di fare tutt'uno con l'Ente Supremo, il quale gli permetteva così di diventare degli eccellenti esperti d'armi e di arti marziali, oltre che dotarlo della capacità di trasformarsi nei più svariati animali. Ma tale trasformazione poteva durare in loro non più di cinque minuti per volta e la si poteva ottenere solo dopo mezzora che si era avuta quella precedente.

Pidus aveva aperto una sua scuola, la quale era ubicata in mezzo ad un pianoro circondato completamente dalle vette dei monti, a mille metri di altitudine, e ad essa aveva dato il nome di Kusbic. Quando si era imbattuto in Loben, la sua scuola contava trenta discepoli, tutti che la frequentavano con assiduità e con il massimo impegno, facendo sentire il loro maestro orgoglioso della sua opera formativa. Egli immediatamente aveva compreso che da quel ragazzo avrebbe ricavato il più formidabile dei suoi allievi. Perciò lo aveva invitato ad unirsi agli altri per apprendere insieme con loro tutto quanto insegnava la sua dottrina. Loben, dal canto suo, pur mostrandosi entusiasta della scuola di Pidus, per cui volentieri vi avrebbe preso parte, aveva rinunciato per non lasciare soli i suoi genitori. Invece poi era accaduto che, quando aveva fatto ritorno alla sua fattoria, li aveva trovati entrambi morti, essendo stati uccisi da persone ignote. Allora, dopo averli sepolti, non aveva perso tempo ed aveva raggiunto la Kusbic per accettare il precedente invito del grande maestro. Il quale gli aveva anche offerto l'ospitalità in casa sua per tutto il tempo della sua formazione.

Da quel momento, il ragazzo, avendo preso a cuore l'intera dottrina del proprio maestro, si era impegnato ad apprenderla con grande fervore e con fermezza, fino ad ottenere il massimo rendimento da essa e a diventare il suo migliore allievo. Così Loben, dopo dieci anni di costante ed intenso impegno, era riuscito a diventare il primo in assoluto fra i discenti che si applicavano nella Kusbic. Infatti, egli era in grado di mettere in pratica qualunque cosa appresa in merito alla kusb con una perfezione, che suscitava meraviglia anche nel proprio maestro. Perciò Pidus lo elogiava immensamente e si compiaceva del fatto che in passato aveva visto giusto, quando il giovane gli aveva fatto un'ottima impressione, che il tempo non aveva smentito. Dopo si poteva ben dire che Loben, dopo essersi rigenerato nella nuova dottrina, era diventato l'uomo completo in tutti i sensi. Per cui si ritrovava ad essere fornito di doti pregevoli, quali appunto si rivelavano l'intelligenza, l'astuzia, l'intraprendenza, l'imbattibilità nel combattere con le armi e a mani nude, la saldezza d'animo e la catarsi dello spirito.

Un giorno, essendo stato invitato dal suo maestro a farlo, anche se con un nodo alla gola, Loben aveva abbandonato la Kusbic e se ne era andato per fatti suoi per dedicarsi ad una vita indipendente. Ma durante le sue peregrinazioni, si era imbattuto in una ciurma di briganti, i quali con minacce stavano per mettere nei guai una famiglia di contadini. Allora egli era intervenuto in soccorso dei poveretti, uccidendo la decina di brutti figuri che intendevano commettere dei soprusi nei loro confronti. Era stato in quella circostanza che la primogenita dei coloni, la quale era un'avvenente ragazza di venti anni e si chiamava Ceusa, subito gli aveva ispirato una grandissima simpatia, che forse celava anche un tenero amore. Per questo l'aveva presa come compagna della sua vita e se ne era andato a vivere con lei nella fattoria dei suoi defunti genitori, dove aveva dovuto prima imporre lo sfratto forzato a coloro che nel frattempo l'avevano occupata abusivamente. La loro unione era durata appena tre anni, poiché la donna, quando il loro figlio Pessun aveva due anni, era rimasta vittima di un serpente velenoso ed era morta, lasciando Loben a crescere da solo il loro bambino. L'uomo, almeno nel primo anno di vedovanza, aveva evitato di cercarsi un'altra donna per affidarle la crescita del suo unigenito. Ma dopo si era risposato, prendendo in moglie Tutes. Egli era stato un genitore esemplare per il fanciulletto, mentre trascorrevano gli anni della sua puerizia; inoltre, era stato per lui un insuperabile maestro, durante la sua adolescenza e la sua giovinezza. Infatti, mentre i suoi delicati anni si creavano il loro varco nel tempo futuro, il figlio, grazie agli insegnamenti paterni, era andato diventando un giovane con gli attributi dell'eroe.

Quando aveva compiuto i suoi venticinque anni, Pessun poteva considerarsi un guerriero perfino superiore al padre. Ma ciò era avvenuto, dopo averne acquisito le preziose caratteristiche ed aver realizzato le altre che gli erano congeniali, permettendo ad esse di uscire dal loro stato potenziale e di assumere quello effettivo. Il quale sviluppo formativo, che senz'altro aveva superato le sue aspettative, aveva reso il padre fiero dei prodigiosi progressi raggiunti dal proprio figlio. Durante tutti quegli anni di corroboramento fisico, psichico e spirituale, la coppia di familiari si era interessata anche al problema della presenza sul proprio territorio dei temibili Kroep. Per cui aveva tentato di studiare un piano in grado di fargli ottenere la distruzione dei terribili mostri, senza che mettesse a rischio quella loro. Essi erano spinti ad una tale impresa, siccome volevano evitare che tanti bambini venissero divorati dai Kroep. Invece la loro invulnerabilità gliela rendeva ardua ed impossibile; anzi, il più piccolo errore da parte di entrambi avrebbe messo a repentaglio la loro esistenza. Un giorno, purtroppo, esso era stato commesso da Loben, esattamente quando il figlio era assente da casa.

Egli si trovava solo nei pressi della sua casa colonica, quando aveva visto una coppia di Kroep dirigersi nella sua direzione. Allora, pur sapendo che le mostruose bestie non assalivano gli esseri umani di età superiore ai tre anni, lo stesso aveva deciso di non farli avvicinare troppo a lui. Per questo si sarebbe trasformato in un volatile, non appena essi gli si fossero avvicinati alla distanza di cinque metri. Non si era accorto però che alle sue spalle un terzo Kroep avanzava pure verso di lui, senza farsi notare per niente. Così, non appena aveva scorto quelli da lui sorvegliati alla distanza da lui stabilita, aveva tentato di effettuare la trasformazione. Ma prima che essa avvenisse nel suo corpo, Loben si era visto assalire all'improvviso dal Kroep che gli era sopraggiunto alle spalle. In un attimo, l'animale dalla doppia natura gli era saltato addosso e gli aveva preso il collo fra le acute zanne, stritolandoglielo orridamente, come se si fosse trattato di un ramoscello. Allora la morte era stata istantanea nello sventurato, che non aveva potuto opporgli la minima resistenza. Comunque, il suo corpo non era stato divorato dai Kroep, i quali avevano preferito lasciarlo sul suolo in quelle condizioni orribili, ossia con il collo maciullato ed insanguinato, intanto che il suo capo era riverso sul sottostante tronco, palesemente immerso nell'orrore della morte. Non bastando ciò, nella medesima circostanza, i tre Kroep gli avevano martoriata anche la moglie Tutes.

Quando il figlio Pessun aveva fatto ritorno alla sua abitazione e si era trovato davanti all'orrido spettacolo che gli offrivano il padre e la madre adottiva, aveva avvertito una pugnalata al cuore per il forte dolore. Inoltre, non si era astenuto dall'imprecare contro i Kroep, avendoli ritenuti i responsabili dell'uccisione del padre. Nello stesso tempo, aveva formulato contro di loro dei rabbiosi propositi di vendetta. Come pure, a tale riguardo, aveva iniziato a meditare un piano di azione, subito dopo aver dato ai genitori una degna sepoltura, versando su di essa calde lacrime di affetto. In seguito aveva appreso che gli uccisori del padre si erano trasferiti a Lokrat, poiché in essa avrebbero avuto a loro disposizione maggiori pasti, per il gran numero di bambini che vi si trovavano con l'età da loro preferita. Allora Pessun, per vendicarsi di loro, aveva deciso di seguirli nella città del re Velvut, dove gli avrebbe dato filo da torcere, fino a quando non avesse trovato il modo di eliminarli tutti e dieci, senza mettere a rischio la propria vita. Così era partito alla volta di Lokrat per farsi ricevere dal suo sovrano. Ma c'era voluta una intera giornata di galoppate, prima di raggiungerla. Una volta in essa, il giorno dopo aveva chiesto udienza al suo sovrano, che aveva ottenuta nella tarda mattinata. Quando se lo era visto davanti, il re Velvut gli aveva domandato:

«Mi dici chi sei e qual è il motivo che ti ha spinto a chiedermi udienza? Ma sono convinto che uno ce ne sarà senza meno. Altrimenti non ti saresti presentato a me, senza avere qualche richiesta da farmi!»

«Certo che esso c'è, mio nobile sovrano! Prima di riferirtelo, però, voglio farti sapere che mi chiamo Pessun e provengo dai territori che circondano la tua città, dove la mia attività preferita era la caccia. Il mio trasferimento a Lokrat ha un unico scopo, ossia quello di eliminare i mostruosi esseri che hanno ucciso i miei genitori. Inoltre, ammazzandoli, porrò fine alle loro stragi di tanti bambini innocenti di questa città, i quali vengono da loro divorati notte dopo notte.»

«Nobile proposito è il tuo, Pessun. Io, però, dispero che tu ci possa riuscire, siccome sappiamo che essi sono invulnerabili e nessuna nostra arma potrà mai trafiggerli e colpirli a morte. Tu invece come intenderesti neutralizzare la loro invulnerabilità ed ammazzarli?»

«A dire il vero, sire, per il momento non ho ancora nessun piano che mi permetta di riuscirci. Ma ti garantisco che qualcuno lo sto già rimuginando nella mia testa, sperando che esso mi consenta di conseguire il mio obiettivo, che adesso conosci anche tu.»

«Al posto tuo, Pessun, non ne sarei così sicuro. Tutti sappiamo che la loro mostruosità è inattaccabile, da parte di noi esseri umani. Ma oltre al fatto che hai voluto mettermi al corrente che hai stabilito di vendicare i tuoi genitori e di venire in soccorso di tanti bimbi lokratesi, non mi hai detto ancora il motivo della tua necessità di incontrarmi. Potevi fare i tuoi tentativi contro i nostri nemici senza dirmelo. Non sei d'accordo?»

«Lo sono senza meno, re Velvut. Comunque, adesso ti rivelo il motivo per cui mi trovo in tua presenza. Sono venuto per chiederti se in città c'è in qualche parte un baratro profondo che non è circondato da alcuna transenna protettiva. Se le mie aspettative non saranno disattese, esso mi farà raggiungere il mio scopo.»

«Uno ce n'è, Pessun; ma esso è transennato. Si tratta di una voragine senza fondo e non sappiamo neppure dove va a finire. Essa esiste da una infinità di tempo, per cui non è noto se c'è sempre stata in quel posto oppure vi si è formata dopo la costruzione della nostra città. Da sempre, il popolo lokratese se ne serve per buttarci dentro i vari elementi organici ed inorganici che costituiscono i rifiuti che vengono a formarsi presso le varie case. Una volta, quando in Lokrat veniva applicata la condanna a morte a carico di coloro che si macchiavano di gravi reati, i condannati alla pena capitale vi venivano gettati dentro. Fu mio padre ad abrogare la pena di morte, sostituendola con l'isolamento in una segreta vita natural durante. Quando poi il recluso moriva, il suo corpo veniva scaraventato nel baratro, di cui ti ho parlato. Ma mi dici come te ne vorresti servire? Da parte tua, sarebbe da ingenuo riuscire a buttarci dentro i dieci mostri che ci opprimono, poiché essi non saranno così stupidi da permettertelo!»

«Invece, secondo il mio piano, è proprio in questo modo che intendo sbarazzarmi di loro, sire; ma uno per volta, si intende, quando gli altri non possono vedere come faccio ad eliminare il loro compagno.»

«Pur ammettendo che sarà uno solo a competere con te nei pressi della voragine, Pessun, mi riesce assai difficile pensare che tu possa averla vinta contro di lui, facendovelo cascare dentro. Hai forse qualche privilegio, il quale sarà in grado di permetterti di sconfiggere il mostro, costringendolo ad andare incontro alla brutta fine, che gli hai programmata? Se ce l'hai, vorresti farmelo conoscere?»

«Anche se so che non mi crederai, mio sovrano, ebbene ti affermo che ce l'ho; sono convinto che esso potrà essermi di molto aiuto, quando lo affronterò a singolar tenzone.»

«Quale sarebbe questo tuo privilegio, Pessun, che ti dà la garanzia che ne uscirai vincitore, quando intraprenderai la tua lotta contro uno dei mostri dalla doppia natura?»

«Io riesco a trasformarmi in un animale qualsiasi, ogni volta che lo desidero, sia esso piccolo oppure grande. Posso perfino diventare un volatile e darmi liberamente al volo.»

«Non mi stai mica prendendo in giro, Pessun, per asserirmi simili assurdità! A nessun uomo può essere consentito di ottenere dalle sue capacità la trasformazione del proprio corpo in una bestia qualsiasi. Se non me lo dimostri con i fatti, devo considerarti un impostore indegno di stare alla mia presenza. Perciò diventa un colombo, se non vuoi essere sbattuto fuori dalla reggia. Anzi, ti farò rinchiudere nelle carceri lokratesi, nel caso che tu fallisca! Intesi?»

Il re di Lokrat aveva appena finito di minacciarlo, se la sua trasformazione nel volatile da lui proposto non ci fosse stata, allorché Pessun, divenuto colombo, si era messo a svolazzare nella sala del trono. Infine si era appoggiato sopra una spalla del suo minacciatore. Allora costui, prendendolo e tenendoselo tra le mani, gli si era rivolto, dicendo:

«Bravo, Pessun: mi hai convinto! Adesso puoi tornare ad essere un uomo, poiché desidero apprendere da te come intendi sconfiggere i dieci mostri che tengono la nostra città in loro balìa. Se ti necessitasse anche la collaborazione dei miei soldati, non hai che da chiedermelo. Metterò a tua disposizione quanti te ne occorrono.»

Riassunte le proprie sembianze, il figlio di Loben gli aveva chiarito:

«Il mio piano è quello che ora ti riferisco, mio re. Dovrò riuscire ad attirarli uno alla volta presso la voragine, ad evitare che gli altri vedano come lo elimino. Infatti, stando presenti durante la sua eliminazione da parte mia, la sua morte li metterebbe sull'avviso e non gli farebbe commettere lo stesso errore del compagno.»

«Ma mi chiarisci, Pessun, come vorresti farli fuori? C'è forse sotto un trabocchetto, a cui i restanti mostri non devono assistere, quando lo tendi contro ciascuno di loro? Altrimenti non potresti più metterlo in atto contro gli altri nove, poiché essi non ci cadrebbero alla stessa maniera del compagno. Non è vero che è così?»

«In un certo senso, sire, non ti sei sbagliato. Dopo che avrò ricercato in città uno dei mostruosi bipedi, lo costringerò ad inseguirmi fino allo spiazzo in cui si trova il baratro. Una volta in quel luogo, fingerò una retrocessione nella sua direzione, fino a trovarmi sul suo ciglio. A quel punto, mi lascerò cadere in esso per evitare la sua aggressione brutale, facendogli credere che è stata la paura ad indurmi a prendere tale decisione. Da parte sua, il mostro, volendo sincerarsi della profondità del fosso e che la mia caduta in quella cavità ha potuto soltanto arrecarmi una morte certa, vi si affaccerà e cercherà di darvi una guardata. Così, mentre il mio inseguitore sarà intento a scrutare l'interno della voragine, io, dandogli una spinta energica alla schiena, ve lo farò precipitare giù, costringendolo ad una caduta esiziale. Non trovi efficace il mio piano?»

«Senz'altro il tuo piano è meraviglioso, Pessun. Ma non ho inteso bene, come farai a trovarti alle sue spalle, dopo esserti gettato nel precipizio. Me lo vuoi specificare meglio?»

«Nel momento stesso che salterò dentro di esso, mio sovrano, mi trasformerò in un passero e ne verrò fuori. Quindi, da parte mia, non ci sarà una caduta ma solo un volo, il quale mi condurrà ad un passo da lui. Allora mi ritrasformerò in un uomo e porterò a termine la parte restante della mia missione, come ti ho anticipato prima. Comunque, potrebbero darmi il loro aiuto anche alcuni tuoi soldati.»

«Pessun, adesso mi hai dato le più ampie garanzie che il tuo piano funzionerà alla perfezione. Ma i miei soldati a cosa dovranno servirti nella tua impresa? Io non riesco a comprenderlo.»

«Dopo essersi divisi in nove drappelli, mio sovrano, il compito di ognuno sarà quello di istigare uno dei mostri e di farsi inseguire da lui per le vie cittadine, fino a quando non sarò andato io a prelevarlo. La mia funzione, però, non sarà quella di condurlo ancora in giro per la città senza una meta prestabilita. Essa avrà come punto di arrivo la nota voragine di Lokrat, che dovrò ancora vedere dove è situata.»

«Adesso ho capito anche per che cosa i miei soldati ti necessiteranno, Pessun. Forse ne basteranno quarantacinque come appoggio al tuo piano, visto che ogni drappello sarà formato da cinque di loro. Inoltre, darò ordine ad alcuni di privarti della tua disinformazione sul luogo dove il baratro si trova, accompagnandoti in esso nel pomeriggio, dopo il pasto di mezzogiorno, visto che sarai mio ospite gradito a pranzo.»

I tre giorni, che erano seguiti, erano stati impegnati nella reggia del re Velvut a mettere a punto tutti i vari particolari connessi al piano di Pessun. Coloro che vi avevano partecipato, nel darsi ad attuarlo, avevano badato a far procedere ogni cosa per il verso giusto, siccome essi avevano come obiettivo l'eliminazione dei Kroep. Alla fine il piano di Pessun aveva avuto un grande successo, siccome gli antropofagi mostri, uno dopo l'altro, erano stati tutti fatti precipitare nel baratro, dove avevano trovato la morte. Allora il popolo lokratese aveva osannato a Pessun, aveva inneggiato alla sua gloria e lo aveva additato come un grandissimo eroe degno di un'apoteosi. Da parte sua, il sovrano aveva voluto dargli in moglie l'ultima sua figlia, che era la principessa Lusueg.



CAPITOLO 466



IVEONTE CONQUISTA LA PARTE DI POTERE COSMICO DI PESSUN



Una volta che ebbe erudito il suo ospite anche sul quarto Guardiano del Potere Cosmico, Tupok non si astenne dal fargli la solita domanda di rito, anche se ogni volta si presentava in una forma diversa.

«Ora che hai appreso ogni cosa su Pessun,» si diede a dirgli «mi dici, Iveonte, se sei intenzionato a gettargli il guanto, come hai fatto con i precedenti tre guardiani? Anche se non escludo che lo farai, ugualmente voglio ascoltare la tua risposta ed apprenderla con soddisfazione. Senza meno anche il tuo nuovo avversario è un guerriero di alto livello, che non ha da invidiare niente agli altri tre già affrontati. Ma mi piacerebbe che tu mi spiegassi come farai a neutralizzare la sua prodigiosa facoltà, che gli consente di trasformarsi nell'animale che egli desidera, anche se poi tale sua trasformazione ha una durata limitata.»

«Lo sai, Signore di Potenzior, che nessuno e niente potrà mai distogliermi dall'andare fino in fondo, in questa mia missione, la quale ha come obiettivo la conquista dell'intero Potere Cosmico. Per cui come potrei non sfidare anche Pessun, pur essendo un guerriero che ha in sé infinite capacità combattive e, per giunta, la prerogativa di potersi trasformare in un qualsiasi animale? Quanto a quest'ultimo suo privilegio, per il momento non so dirti in che modo riuscirò a superarlo; ma sono certo che ne troverò qualcuno che sarà in grado di neutralizzarlo.»

«Dopo aver ascoltato la tua risposta, eroico Terrestre, non mi resta che lasciarti andare ed augurarti un'altra splendida vittoria nel combattere contro l'eroe di Lokrat. Nel frattempo, starò qui ad attendere che tu ritorni orgoglioso del tuo nuovo successo. In bocca al lupo, campione!»

A quel punto, Iveonte chiamò Russet, perché lo raggiungesse e lo conducesse nel luogo dove si trovava Pessun, il quale era il suo nuovo avversario da abbattere e da privarlo della sua parte di Potere Cosmico. Allora il cavallo alato subito gli si presentò e gli permise di saltargli in groppa per portarlo via con sé. Intrapresa poi la sua rapida volata, si diede ad attraversare senza mai fermarsi lo spazio celeste, che era azzurro e nitido ovunque. L'animale arrestò la sua corsa, soltanto quando raggiunse colui che tre secoli prima era stato l'osannato eroe di Lokrat, per aver liberato la sua città dai mostruosi Kroep e per aver riportato in essa la serenità e la felicità che godevano un tempo.

Quando Pessun si vide davanti Russet, il quale gli nitrì come se avesse voluto salutarlo, attese che chi lo cavalcava scendesse dalla sua groppa e gli si presentasse. Intanto, non avendo ravvisato in lui nessuno degli altri Guardiani del Potere Cosmico, non poté fare a meno di stupirsi, anche perché era stato il cavallo alato a servizio di Tupok a condurlo in sua presenza. Comunque, aspettò che lo sconosciuto gli rivolgesse la parola e gli facesse pure le proprie presentazioni. Iveonte, da parte sua, non lo deluse. Infatti, dopo che gli si fu avvicinato, incominciò a dirgli:

«Non sei forse tu Pessun, l'eroe di Lokrat? Lo sarai senza meno, se Russet mi ha condotto davanti a te. Invece il mio nome è Iveonte e sono venuto da te non senza una ragione.»

«Allora, Iveonte, sei pregato di riferirmi cosa ti ha spinto a venire da me, siccome sono tutto orecchi ad ascoltarti.»

«Pessun, probabilmente la mia risposta non ti risulterà gradita, dopo che ne sarai venuto a conoscenza. Ma non ci posso fare niente, se ciò che sto per comunicarti giustamente non sarà di tuo gradimento.»

«Parli, Iveonte, come se tu fossi giunto da me per annunciarmi che sei venuto a prendere il mio posto, sostituendomi nel possedere una parte del Potere Cosmico. Ad ogni modo, sentiamo la vera ragione che ti ha condotto da me, considerato che una ce ne sarà senz'altro!»

«In un certo senso, Pessun, qualcosa di vero c'è in ciò che hai detto. Comunque, non sono venuto a sostituirti nell'importante compito che hai. Invece la mia venuta da te ha solo lo scopo di impossessarmi della tua parte di Potere Cosmico. Essa, una volta che te ne priverò, sarà la quarta per me, dal momento che già altri tre guardiani si sono dovuti piegare al mio volere. Infatti, ho dovuto combattere con loro e li ho sconfitti, quando si sono opposti alla mia richiesta forzata. Per il momento, essi sono stati Arkust, Furiek e Serpul, i quali adesso si ritrovano privi della loro parte del prezioso potere. Ma tra poco toccherà anche a te seguirli sia nella sconfitta che nella privazione del Potere Cosmico!»

«Davvero, Iveonte, sei convinto che io ti cederò la mia parte di Potere Cosmico, senza cercare di impedirti di impadronirtene? Al posto tuo, non ci farei affidamento e me ne guarderei dal provarci con tanta facilità!»

«Questo lo vedremo tra poco, Pessun. Ad ogni modo, già da adesso ti garantisco che ogni tua iniziativa, che è diretta a rendermi impossibile quanto mi sono proposto, ti risulterà vana, essendo io il più forte.»

«Sentirti parlare così, Iveonte, mi spingi solo a considerarti un presuntuoso. Per questo mi toccherà spegnere questa tua presunzione con provvedimenti concreti. I quali presto seguiranno da parte mia, dovendo dimostrarti che non sono il tipo che parla a vanvera, come hai fatto tu!»

A quelle ultime sue parole, Pessun, smettendo di parlare, cercò di far seguire solo fatti. Perciò ricorse alla sua spada, con la quale armò il suo braccio sinistro, essendo egli affetto da mancinismo. Così la impugnò con presa sicura e si diede a mulinarla, facendole compiere dei moti vorticosi, come se volesse confondere l'avversario, senza dargli ad intendere dove avrebbe vibrato il suo primo colpo. Nello stesso tempo, tenendo i talloni appena divaricati, che gli consentivano una maggiore stabilità negli spostamenti, mostrava le gambe flesse e il busto profilato leggermente inclinato in avanti. Non c'era dubbio che quella sua posizione era da considerarsi abbastanza naturale e rilassata. Invece i suoi occhi apparivano estremamente guardinghi e cercavano di rendersi conto delle parti del rivale più vulnerabili, volendo sferrare su di esse i suoi fendenti e i suoi montanti. Difatti gli uni e gli altri a breve sarebbero seguiti, come una valanga di fulmini e tuoni, nonché lo avrebbero tempestato di colpi che avrebbero manifestato una inaudita irruenza. Dal canto suo, Iveonte non lo lasciò fare, senza prendere le dovute precauzioni. Esse, risultando adeguate, avrebbero difeso la propria persona dalle minacce che stavano per provenirgli dall'avversario, essendo convinto che esse sarebbero sopraggiunte a momenti e con aspra violenza. Perciò egli si preparò a tener testa sia alle sue imbroccate che alle sue stoccate, le quali non sarebbero risultate carezze, bensì colpi poderosi tendenti a tagliuzzargli il corpo, come era nelle previsioni di Pessun. Il quale, in fatti d'armi, aveva una esperienza del tutto temibile, che non andava sottovalutata; al contrario, bisognava studiarla nei minimi particolari. Soltanto così ne avrebbe ricavato contromisure capaci di neutralizzarla e di fargli avere il sopravvento sulla medesima, fino a farla soccombere mediante contromosse efficaci e lesive al massimo.

In un primo momento, Pessun tentò di sbilanciare il suo contendente con una finta, cambiando subito dopo il colpo in sede di attacco. Con tale sua simulazione, mirò a provocare la sua reazione e a colpirlo in una sua parte scoperta. Ma il suo tentativo non fu in grado di ottenere dei risultati positivi, dal momento che aveva contro Iveonte, la cui preparazione nelle armi e nelle arti marziali era da considerarsi efficiente al cento per cento e giammai avrebbe accusato qualche scricchiolamento sia nella difesa che nell'offesa. Perciò senza difficoltà, più volte egli dovette deviare la lama dell'avversario, che aveva cercato di crearsi un varco e colpirlo, oppure svincolarsi da essa, mentre effettuava un tentativo di legamento. Così convinse la controparte di essere un par suo e di stare bene all'erta, se non voleva lasciarci le cuoia. Allora Pessun, essendosene reso conto, decise di esprimersi contro l'avversario con azioni più avvedute e studiate. Ma prima ci tenne a fargli presente:

«Come vedo, Iveonte, sei un tipo tosto da non sottovalutare, se sei stato in grado di uscire indenne dal mio primo assalto. Comunque, la partita è ancora all'inizio e non sai a cosa dovrai ancora andare incontro, prima di vederne la fine. Tu non immagini neppure con chi hai a che fare, in questo combattimento. Presto ti convincerai che sarà una impresa pressoché impossibile il cercare di carpirmi la mia parte di Potere Cosmico. In me sono riposte le migliori garanzie che mai nessuno potrà affrontarmi, senza venirne battuto ed ucciso.»

«Dicevi a me di peccare di presunzione, Pessun! Allora cosa devo dire di te, che ti senti già il vincitore dell'incontro, quando lo abbiamo appena iniziato? Molto presto ti farò venir meno questa effimera sicurezza, costringendoti a mangiare la polvere, come è già avvenuto con gli altri guardiani che ti hanno preceduto, i quali, similmente a te, pure si credevano invincibili. Come vedi, nessuno di noi può considerarsi insuperabile, poiché c'è sempre qualcuno capace di darci la lezione che non ci saremmo mai aspettata. Ebbene, per tua sfortuna, oggi sono io colui che ti impartirà la lezione che non ti attendi!»

«Se ne sei persuaso, Iveonte, alla stessa mia maniera, ci conviene riprendere il nostro combattimento, in modo che ciascuno di noi dimostri quanto ha affermato senza ombra di dubbio. Questa volta, però, faremo sul serio e daremo sfogo all'intera nostra bravura.»

Terminate le ultime parole di Pessun, subentrò fra i due campioni un clima di silenzio esasperante, poiché ognuno adesso andava studiando quelle mosse tattiche confacenti alla situazione e che avrebbero dovuto permettergli di aver successo sul difficile avversario. Ma esso non li tenne impegnati a lungo nella loro attenta ponderazione, siccome questa scemò poco dopo nei due campioni, che preferirono così venire coinvolti in un conflitto tremendo. A quel punto, lo scontro divenne incandescente, poiché entrambe le controparti si diedero a dare il meglio di sé in quella lotta nella quale ciascuna non intendeva subire le imposizioni dell'altra. Perciò si impegnava al massimo, metteva in campo le migliori strategie schermistiche e di arti marziali in suo possesso, pur di avere il sopravvento sull'intrepido rivale. Pessun allora dovette rivedere la sua stima fatta sul proprio contendente, essendosi accorto che aveva sottovalutato le sue capacità. Le quali ora, mentre la contesa infuriava accanita, glielo facevano ritenere al suo stesso livello, se non proprio superiore. Perciò era obbligato ad assumere un differente atteggiamento nell'offesa e nella difesa. Ma anche Iveonte non tardò a capacitarsi che aveva di fronte un tenace e pericoloso avversario, che non gli consentiva di prenderlo sottogamba. Per cui si vedeva costretto ad impegnarsi seriamente in quella tenzone per far fronte alle esuberanze aggreditrici del rivale. Il quale impegno doveva esserci in special modo, quando Pessun lo attaccava con la spada oppure lo assaliva con una serie di evoluzioni che esprimevano il meglio delle arti marziali. Egli, però, non era da meno nel reagire ad esse, allo scopo di difendersi e di improvvisare contromosse adatte alla circostanza.

Così, in breve tempo, lo scontro assunse un furioso svolgimento, nel quale alle tattiche mosse e agli irrefrenabili colpi di spada dell'uno si contrapponevano le scaltre parate e le controreazioni mordenti dell'altro, senza che da parte loro si registrassero cedimenti oppure insufficienze psicofisiche. A vederli combattere, sembrava che si stessero scontrando due uragani che, nella loro burrascosa foga, tendevano a far piazza pulita di ogni cosa nella regione che stavano tempestando. Ai virtuosismi dell'uno si opponevano i tecnicismi dell'altro, mentre essi manifestavano il massimo della loro preparazione fisica e psichica, non permettendo al loro spirito di annichilirsi o di smarrirsi. Al contrario, esso vi partecipava sempre più attivamente, come se nel loro corpo le gagliarde energie fossero divenute inesauribili e non c'era la possibilità di venir meno in quella lotta da loro accesa, che ora iniziava a surriscaldarsi. Lo testimoniavano le loro azioni, che venivano compiute con grande impeto e con spirito vigoroso. L'uno e l'altro attestavano che la loro vitalità era nel pieno rigoglio e non poteva accusare il benché minimo afflosciamento.

Dimostrandosi ferma e salda la tenuta del combattimento fra il campione terrestre e quello urnutese, quest'ultimo si rivolse al suo avversario e gli fece presente:

«Mi avvedo, Iveonte, che non c'è stata alcuna presunzione da parte tua, quando ti sei autogiudicato. Te ne do atto. Perciò adesso la tua eccellente preparazione nelle armi e nelle arti marziali mi obbliga a ricredermi della mia sfiducia dimostrata nei tuoi confronti.»

«A mio giudizio, Pessun, anche tu non ti sei dimostrato inferiore a me ed hai dato prova di essere l'eroico campione che il tuo popolo ha visto in te, celebrandoti con tutti gli onori che ti erano dovuti.»

«Se ciò è vero, Iveonte, però ho notato nella tua preparazione qualcosa che mi ha stupito moltissimo, nel senso che essa mi è risultata sorprendente oltre ogni aspettativa. Fino a quando non mi sono misurato con te nelle armi, ero sicuro che la scuola frequentata da me dava ai suoi allievi la massima formazione che si potesse raggiungere nell'uso delle armi e nelle arti marziali. Tu invece mi hai dimostrato che la mia convinzione era errata, anche se di poco. Per cui sono dovuto ricorrere alle mie innate potenzialità di guerriero intrepido ed astuto per colmare la differenza esistente fra la tua scuola e quella mia, anche se minima. Ma non c'è dubbio che in te scorgo un guerriero mio pari, nel quale si rivelano ineccepibili le qualità combattentistiche e quelle che fanno capo all'audacia, all'inarrendevolezza e ad una bellicosità inverosimile. Per la quale ragione, sono obbligato a rendertene merito!»

«Non posso neppure chiederti, Pessun, di cedermi con le buone la tua parte di Potere Cosmico, per un semplice motivo. Se voglio ottenerla, ho bisogno di ucciderti, anche se poi la tua morte non risulterà effettiva, poiché ritornerai alla tua precedente esistenza, dopo pochi istanti che ti avrò ucciso. Stando così le cose, il nostro combattimento dovrà andare avanti, fino a quando non ti avrò definitivamente sconfitto ed ucciso.»

«Hai omesso, Iveonte, che c'è pure la possibilità che sia io ad uccidere te e che resti così ancora in mio possesso la parte di Potere Cosmico che mi assegnò il Signore di Potenzior. A proposito, Terrestre, mi hai riferito che io sopravvivrò alla mia morte; ma tu, nel caso che io ti uccidessi, accadrebbe anche a te la stessa cosa? Oppure per te il destino sarebbe diverso, ossia che moriresti per sempre? Mi piacerebbe venire a conoscenza di questo particolare.»

«Vuoi proprio saperlo, Pessun? Ebbene, non lo so neppure io, poiché Tupok non si è soffermato su un particolare del genere. A mio avviso, però, non dovrebbe esserci per me la resurrezione dopo la mia morte. La qual cosa mi esorta ad evitare di farmi sconfiggere da te e ad ottenere la tua uccisione con ogni mezzo, visto che non potrò fare a meno di conquistare anche la parte di Potere Cosmico che custodisci per volontà del Signore di Potenzior. Perciò non illuderti che io rinuncerò alla mia lotta, prima che essa abbia termine!»

«Ti comprendo, Iveonte; ma non ti sarà facile raggiungere il tuo obiettivo. Tenendo fede alla parola data a Tupok, mi impegnerò con tutte le mie forze perché ciò non succeda. E tu lo sai quale tuo temibile avversario si trova nella mia persona, che non risparmierà energie, pur di averla vinta contro di te. Inoltre, voglio metterti al corrente che possiedo qualcosa che tu non hai, di cui potrò servirmi per concludere il nostro scontro a mio favore.»

«Invece, Pessun, so a cosa ti riferisci. Non sei forse dotato di un potere, il quale ti permette di trasformarti in qualsiasi animale? Me ne ha già parlato chi comanda in Potenzior. Ma non vedo perché tale potere dovrebbe favorirti nella nostra lotta. Io non credo che una bestia riuscirebbe a fare più di una persona, che è dotata di intelligenza e della capacità di riflettere selle singole situazioni del caso. Mi spieghi, quindi, in che modo potresti nuocermi con facilità, una volta che ti sarai trasformato in una bestia da te scelta?»

«Dipenderà dall'animale in cui deciderò di trasformarmi, Iveonte. Lo sai anche tu che essi sono tanti, nei quali sono comprese anche le bestie feroci. Mica mi trasformerei in un topolino per arrecarti un danno serio! Invece sarebbe la peggiore delle belve ad aggredirti, dalla quale ti sarebbe difficile districarti, pur contando sulle tue infinite capacità di strenuo combattente, che hai dimostrato di possedere.»

«Io non temo alcuna belva, anche se ferocissima, Pessun. Con la tua trasformazione belluina, saresti tu a rimetterci, poiché andresti incontro alla morte non come un valente guerriero, ma come una bestia per niente cosciente delle sue virtù guerresche. A tale proposito, mi riferisci se conservi il dono di volare, anche quando ti trasformi in un animale che non è un pennuto? Se non ti dispiace, vorrei che tu me lo dicessi.»

«Siccome in Potenzior non mi sono mai trasformato in una bestia, Iveonte, né tanto meno ho provato a volare mentre ero nell'altro corpo, non saprei cosa risponderti. Ma siccome conservo le mie facoltà psichiche ed intellettuali, dopo che mi sono trasformato in un animale, almeno dovrei essere in grado di far nascere in me un tale desiderio. Ma poi esso mi sarà permesso dalla mia esistenza in Potenzior? Come vedi, ne sono all'oscuro anch'io!»

«Comunque, Pessun, si tratta di un particolare che mi interessa ben poco, siccome in Potenzior a noi Materiadi il volo è consentito, per cui potrei competere lo stesso con te, dopo essere diventato animale. A questo punto, bando alle ciarle e riprendiamo la nostra aspra contesa!»

«Sono d'accordo con te, Iveonte, poiché la sua ripresa ci darà modo di conoscere il risultato finale che ne conseguirà. Non lo stiamo forse aspettando entrambi con una certa ansia?»

Alla domanda dell'Urnut non seguì la risposta di Iveonte, per cui ci si preparò, da parte di tutti e due, ad affrontarsi di nuovo, mettendo ancora in campo il meglio della loro preparazione nelle armi e nelle arti marziali. Una volta privato dei loro discorsi e di altre sospensioni, lo scontro sarebbe andato avanti con il massimo impegno, fino a quando uno dei due non fosse crollato, permettendo all'altro di conseguire la palma della vittoria. Così la ripresa delle armi fra i due campioni fu caratterizzata da un impiego più incisivo di strategie e di tecniche combattentistiche da parte dei due accaniti duellanti, con le quali essi tesero a concludere l'animosa lotta nel più breve tempo possibile. Iniziò prima Pessun a muovere un furioso assalto contro il suo rivale, tempestandolo di colpi decisi e dati con inviperito sdegno; però nell'assestarglieli, egli cercò quei suoi punti che apparissero più nevralgici. Ad ogni modo, Iveonte resse all'aggressione dell'avversario, senza andare incontro a seri problemi. Invece, intanto che si opponeva ad essa con egregia bravura, al fine di neutralizzarla e di frustrargliela, fu intento in pari tempo a sorprenderlo in fallo in qualche sua mossa per sferrargli il colpo fatale. Ma quella loro prima azione, offensiva da parte dell'uno e difensiva da parte dell'altro, si concluse ancora con un nulla di fatto. Per il quale motivo, i due contendenti furono scorti già pronti a cimentarsi in un duello senza soste e senza sprechi di energie, essendo intenzionati a primeggiare sulla controparte della contesa. Quest'ultima stavolta avrebbe fatto largo uso delle arti marziali, intanto che i colpi sarebbero diluviati senza tregua e con mosse studiate, anziché darli all'impazzata. Così poco dopo li si videro muoversi con destrezza fino ad un paio di metri dal suolo, compiendo volteggi inverosimili, mentre si assalivano a vicenda e cercavano di colpirsi duramente; però la difficoltà a raggiungere il loro scopo si presentava ancora molto alta. Entrambi, infatti, si mostravano attenti perché i colpi dell'avversario non infilzassero il proprio corpo; ma fossero invece quelli da lui inferti a perseguire tale obiettivo su quello del rivale, permettendogli di diventare in quella maniera il vincitore dello scontro. Al contrario, come essi si rendevano conto, a ciascuno di loro non risultava semplice aver ragione dell'avversario, pur ricorrendo alla scaltrezza più fine e alle azioni più avvedute e ponderate.

Possiamo sapere perché Pessun si era convinto che poteva porre fine allo scontro ed aggiudicarsi la palma, esclusivamente con la sua trasformazione in un animale qualsiasi? Secondo lui, trasformandosi prima in un grosso felino e scagliandosi dopo con la massima violenza contro il proprio rivale, egli non avrebbe retto all'urto; anzi, si sarebbe fatto abbattere al suolo, nonché sbranare dai suoi artigli poderosi e dai suoi morsi voraci. Alla fine, avendo fatto quella scelta, Pessun si affrettò ad attuarla senza por tempo in mezzo. Così, ad un certo punto, egli gettò via la spada, sorprendendo il rivale; ma subito dopo, in un attimo, si trasformò in una gigantesca tigre. Essa, mentre bramiva minacciosa, mise in atto il suo balzo mortale sulla persona dell'eroe terrestre. La belva però, anziché arrecare la morte al destinatario del suo assalto brutale, la procurò a sé stessa, poiché Iveonte riuscì a trapassarla con un abile fendente, il quale le produsse un grosso squarcio sul ventre e la fece cadere senza vita al suolo. Qualche attimo dopo, venne fuori da essa il suo avversario del tutto sano, ma con la mente che non rammentava nulla di quanto gli era successo. Invece Iveonte si ritrovò in possesso anche della quarta parte del Potere Cosmico. Allora egli si sbrigò a chiamare presso di sé il cavallo alato e gli ordinò di riportarlo presso il suo padrone. Quando si fu ripresentato al Signore di Potenzior, costui, non avendo dubbi della sua vittoria sul quarto Guardiano del Potere Cosmico, si diede ad elogiarlo, dicendogli:

«Bravo, Iveonte! Come vedo, hai di nuovo trionfato sul tuo avversario, il quale questa volta era Pessun. Perciò mi complimento ancora con te, per esserti dimostrato egregiamente all'altezza della situazione. Ora ti attende la quinta ed ultima parte del Potere Cosmico, la quale si trova nelle mani di Rutos, con il compito di non farsela togliere da nessuno. Comunque, anche di lui dovrai apprendere quelle cose che ti necessiteranno per conoscerlo bene e per regolarti nel modo giusto, quando lo affronterai per il medesimo motivo. Allora, formidabile Terrestre, sei pronto a riceverle da me, senza che niente ti distragga?»

«Puoi cominciare a raccontarmi di Rutos, simpatico Tupok, senza tralasciare nulla. Se esse mi risulteranno preziose, come mi hai garantito, stanne certo che non me le farò sfuggire più, dopo che hanno preso posto nella mia memoria. Ma ti prometto che anche il quinto ed ultimo Guardiano del Potere Cosmico avrà il fatto suo da me, anche se cercherà di opporsi a me con tenacia, quando verrà a conoscenza dell'oggetto della mia visita. Anch'egli farà il diavolo a quattro, pur di riuscire a non farmi impadronire della parte di Potere Cosmico da lui custodita. Ma non gli servirà a nulla adoperarsi in tal senso e dovrà chinare la fronte davanti a colui che è destinato a trionfare anche sulle divinità malefiche.»

Non appena Iveonte ebbe smesso di parlargli, Tupok iniziò il suo rapporto biografico che doveva presentare a grandi linee il suo prossimo rivale. Allora il giovane terrestre si diede ad ascoltarlo con la massima attenzione, senza farsi sfuggire neppure una parola.



CAPITOLO 467



RAPPORTI TESI DA SECOLI TRA I BRAKI E I DACIVI



L'eroico Rutos era vissuto quattro secoli prima sul pianeta Tertun, che orbitava intorno alla stella Fares, la quale si trovava nella galassia di Varuz. Insieme con esso, descrivevano le loro orbite intorno alla medesima stella altri due pianeti, i quali, rispetto a Tertun, erano da considerarsi entrambi più piccoli e più lontani da essa. Si trattava dei seguenti corpi planetari: Paeb, che era il meno distante dalla stella, e Oltup, quello che distava di più dal suo sole. I Tertunidi costituivano una razza con le seguenti caratteristiche fisiche: altezza media intorno ai due metri, pelle molto chiara, orecchie atrofizzate, naso come i Terrestri, testa allungata con calotta cranica scarsamente ricoperta da capelli. Quanto ai popoli che abitavano il pianeta Tertun, ce ne stavano soltanto due: l'uno era costituito dai Braki, che abitavano nella città di Guzen, nella quale regnava il re Tamed; l'altro era costituito dai Dacivi, che vivevano nella città di Navel, dove il re risultava Renut. I due popoli del pianeta, in verità, facevano tutt'altro che andare d'amore e d'accordo, a causa della loro propensione alla guerra. Essa, anche per un nonnulla, a volte provocava fra di loro lo scoppio delle ostilità e il ricorso alle armi con conseguente spargimento di sangue, quasi sempre immotivato. Entrambi, fin dai tempi immemorabili della loro storia, si erano comportati sempre così e non si conoscevano le ragioni che li spingevano ad agire in quel modo inspiegabile, da ritenersi folle.

Alla nascita di Rutos, la quale era avvenuta sei secoli prima nella città di Guzen, i rapporti fra i Braki e i Dacivi continuavano ad essere gli stessi, sempre tesi e pronti a battagliare fra di loro soltanto per un motivo di orgoglio, senza curarsi delle migliaia di vittime che venivano mietute nell'uno e nell'altro esercito. Infatti, ogni loro guerra non poteva che portare ad un tale tragico risultato, rendendo vedove una infinità di mogli ed orfani un maggior numero di bambini. Il quale spesso risultava anche triplicato, rispetto a quello delle donne in stato di vedovanza. Ma ciò nonostante, tali popoli si infischiavano di quelle considerevoli perdite di vite umane, che si avevano durante ogni conflitto da loro provocato.

Al tempo a cui ci stiamo riferendo, ossia quando Rutos aveva emesso i suoi primi vagiti, i due giovani re Tamed e Renut, come già è stato fatto presente, regnavano rispettivamente sulle città di Guzen e di Navel. Essi avevano ereditato dai loro genitori quel terribile fardello, che non consentiva all'uno e all'altro di assicurare ai loro popoli una pace serena e duratura. Se vogliamo precisare meglio la situazione, solamente al re Renut quel clima ostile alla cessazione delle ostilità non dispiaceva. Egli, considerandolo un testamento spirituale che aveva ereditato dal padre, mai e poi mai si sarebbe opposto ai continui conflitti che si avevano fra i due popoli, poiché accettare la loro cessazione significava tradire il defunto suo genitore e gli antenati che lo avevano preceduto nel tempo. Perciò aveva voluto continuare a percorrere quella strada, che essi gli indicavano dall'oltretomba. Al contrario di lui, di tutt'altro avviso si mostrava il re Tamed, il quale, fin dal suo primo insediamento sul trono di Guzen, dopo una profonda meditazione, era addivenuto alla consapevolezza che lo stato di cose esistente fra il suo popolo e quello dacivino era da reputarsi errato e bisognava adoperarsi perché esso avesse termine. Ma perché ci fosse il cambiamento di rotta, doveva essere convinto pure il par suo, che era il re Renut. Perciò aveva deciso di confrontarsi con lui su tale delicato argomento per cercare un accordo circa una definitiva soppressione dell'atavico malanimo esistente fra i Braki e i Dacivi.

A tale proposito, il sovrano aveva inviato due suoi ambasciatoti presso il sovrano di Navel, perché gli annunciassero la sua intenzione di parlamentare con lui in un luogo situato a metà strada fra le loro città. Sarebbe stato consentito ad ognuno di loro di farsi accompagnare da un centinaio di soldati. Inoltre, i suoi legati avrebbero dovuto metterlo al corrente che in tale incontro gli avrebbe fatto delle importanti proposte giovevoli a tutti e due i loro popoli. Avendo il suo omologo accettato l'invito, l'incontro si era avuto nella località da lui indicata, per cui c'era potuto essere il loro colloquio alla presenza degli alti ufficiali dei rispettivi eserciti. Una volta l'uno di fronte all'altro, era stato il re Tamed a rivolgersi per primo al sovrano di Navel. Egli aveva incominciato a dirgli:

«Ti ringrazio, re Renut, di avere accettato il mio invito. Ora spero pure che la proposta, che sto per farti, sarà di tuo gradimento perché prevede il bene comune dei nostri popoli. Essi da secoli vengono costretti a farsi guerra e sono tenuti sotto la pressione dell'odio, che non smettono di esprimersi a vicenda, senza che ci sia una ragione plausibile.»

«Non posso risponderti, re Tamed, se prima non mi avrai messo a conoscenza di ciò che intendi propormi. Soltanto dopo ti darò la mia risposta, positiva o negativa che vorrò farla essere!»

«Ebbene, re Renut, non trovando giusto il modo di comportarsi dei Braki e dei Dacivi, i quali da secoli si trasmettono un astio atavico implacabile, senza che vi sia un motivo giustificato, avrei pensato con il tuo appoggio di sopprimerlo per sempre. Così subito dopo inizieranno ad esserci nelle nostre città serenità e pace. Anzi, potranno aversi perfino degli scambi commerciali e competizioni di tipo agonistico, non essendoci più lo spettro della guerra a rovinare la loro esistenza. Allora come ti sembra questa mia proposta, che ritengo abbastanza ragionevole?»

«In verità, re Tamed, io ho già giurato a mio padre che, durante il mio regno, avrei abbracciato per il mio popolo l'esistente politica di belligeranza a oltranza nei confronti dei Braki, volendo prendere esempio dai nostri progenitori. E siccome tu hai deciso di non farla più contare presso il tuo popolo, non so se a torto oppure a ragione, vorresti che anch'io ci facessi un pensierino ed andassi contro tendenza, per il benessere dei Dacivi. Ma mi spieghi come fra i nostri due popoli dovrebbero mutare le cose, instaurando fra di loro il clima di pace da te auspicato? Se sarai capace di convincermi, ti seguirò senza meno nel tuo progetto.»

«Sovrano di Navel, nessun Brako e nessun Dacivo può chiudere gli occhi e fingere di non vedere le cose orribili, a cui diamo luogo con le nostre guerre. La disperazione delle nostre vedove, a causa della morte dei loro mariti; nonché i pianti dei nostri orfani, a causa della morte dei loro padri, sono fatti che non possono essere ignorati da noi, seguendo la politica dello struzzo. Non possiamo fare come tale uccello, il quale nasconde la testa tra la sabbia, quando viene investito da un pericolo, senza affrontarlo con determinazione. Perciò, da parte nostra, dobbiamo adoperarci per il cambiamento, sostituendo nei nostri popoli la pace alla guerra, la gioia alla tristezza, la serenità al turbamento, il rispetto al disprezzo. Una volta instaurato tale clima tra i nostri popoli, incoraggeremo fra di loro anche gli scambi commerciali. Magari potranno esserci pure dei matrimoni, se l'amore sboccerà fra i nostri giovani! Inoltre, potranno organizzarsi giochi e gare, che faranno sì che i Braki e i Dacivi si divertano e si affrontino pacificamente e con sportività. Ecco tutto!»

«Riflettendoci bene, re Tamed, probabilmente hai ragione tu a pensarla in tal modo. Per questo ti prometto che, una volta a corte, mediterò ancora di più sulla tua proposta. Ma dovrai concedermi solo dieci giorni di tempo per farti pervenire la mia risposta. Nel frattempo, dovrai portare pazienza ed attendere che essa ti arrivi conforme ai tuoi desideri.»

Il sovrano di Guzen, essendo stato d'accordo con quanto gli proponeva il re Renut, aveva voluto separarsi da lui con una cordiale stretta di mano. Raggiunta poi la propria città, aveva cominciato ad aspettare la risposta che gli sarebbe giunta dal re navelese, augurandosi che essa sarebbe stata affermativa. Quando il tempo di attesa aveva avuto termine, egli aveva ricevuto la risposta del sovrano di Navel tramite i suoi legati. Essi gli avevano annunciato che il loro re era d'accordo con la sua proposta e che si sarebbe fatto sentire quanto prima per discutere sul processo di pace fra i loro popoli. Il nuovo incontro fra i due sovrani c'era stato un mese dopo, quando il re di Navel aveva fatto una sorpresa a quello di Guzen, siccome si era presentato davanti alle mura con una scorta di cento soldati. Una volta che si erano trovati l'uno di fronte all'altro tra i giardini pensili della sua reggia, il sovrano Tamed si era affrettato a conoscere quanto il re Renut avrebbe proposto per favorire il processo di pace fra le loro due città. Perciò gli aveva domandato:

«Sovrano di Navel, vedo che, come annunciato, ti sei presentato a me per trattare la questione della pace, che in avvenire dovrà esserci tra i nostri popoli. Se mi dici come intendi fare cessare fra di noi la peste nera della guerra, sono qui tutto intento ad ascoltarti.»

«Ammetto, re Tamed, che la tua proposta è molto nobile, per cui essa viene da me accolta con favore. Perciò oggi sono qui per costruire insieme una pace duratura, la quale non dovrà mai venire meno. Ebbene, a tale proposito, avrei pensato di cominciare a farla nascere fra i nostri agguerriti eserciti, prima che tra i nostri popoli e tra le nostre città.»

«In che senso, re Renut? In verità, comprendo poco questa tua idea, la quale è fuori dalla mia immaginazione. Quindi, vorresti spiegarti meglio, se non ti dispiace?»

«Il mio esercito dovrà presentarsi davanti alle mura di Guzen disarmato ed attendere che il tuo ne esca. Avvenuta l'uscita dei tuoi soldati dalla città, essi si daranno ad abbracciare quelli miei, che li imiteranno nell'affettuoso gesto. Al termine degli abbracci, si darà inizio ad un colossale banchetto, durante il quale si mangerà e si berrà a crepapelle. Anche noi due staremo in mezzo a loro e gli faremo da esempio nella nascente pace fra i Braki e i Dacivi. Così, dopo una notte trascorsa all'addiaccio, il mio esercito farà ritorno a Navel.»

«Consisterà solo in questo il nostro processo di pace, re Renut? Oppure c'è qualcos'altro che devo ancora sapere, a tale riguardo?»

«In verità, re Tamed, dopo ci sarà bisogno di un nuovo incontro fra i nostri due eserciti. Questa volta, però, esso dovrà avvenire nelle adiacenze delle mura della mia città, dove ci saremo ancora noi in mezzo ai nostri soldati per dare maggiore efficacia al nostro processo di pace. La nostra presenza, infatti, sarà di esempio a tutti loro; anzi, essi comprenderanno che si sta trattando di qualcosa di molto serio, che noi loro sovrani intendiamo realizzare a qualsiasi costo.»

«Forse hai ragione tu, re Renut, a pensarla in questa maniera. Seguendo la prassi da te proposta, di sicuro convinceremo i Braki e i Dacivi che noi due intendiamo fare sul serio. Dopo il secondo incontro dei loro eserciti, essi inizieranno a sognare la nuova era, che avrà come obiettivo la pace fra i due popoli, la cui durata dovrà superare ogni tempo.»

Definito il modo con cui volevano avviare il processo di pace fra i loro popoli, i due sovrani si erano congedati con una calorosa stretta di mano. In apparenza, le due mani congiunte erano sembrate trasmettersi un ardente calore, a testimonianza che vi erano coinvolti anche il proprio onore e la propria onestà. Ma sarebbero poi andate le cose come le avevano fatte apparire nel loro incontro, il quale si era voluto ispirare ad un profondo senso di fratellanza e di collaborazione? Per accertarcene, non ci resta che attendere e seguire i due grandi raduni presso le due città, da parte di entrambi gli eserciti. Infatti, in quei luoghi essi avrebbero dato la dimostrazione della loro buonafede di mettere in atto il processo di pace auspicato dai propri sovrani. In tal modo, avrebbero dimostrato che la loro onestà e la loro lealtà erano a tutta prova e non mistificatorie. Comunque, almeno durante il primo raduno dei due eserciti, le cose erano filate lisce come l'olio, siccome in effetti fra di loro c'erano stati i previsti abbracci fraterni, dopo che gli uni e gli altri si erano presentati disarmati nei pressi della città di Guzen. Inoltre, essi si erano dati a banchettare e a gozzovigliare per l'intera giornata, ossia fino a quando i soldati navelesi non si erano congedati da quelli guzenesi e non avevano intrapreso il ritorno alla loro città.

Ma non la stessa cosa sarebbe avvenuta nel loro secondo incontro nei dintorni di Navel, poiché il sovrano di quella città aveva predisposto per l'esercito ospite ben altra accoglienza, totalmente priva dello spirito di fratellanza, che si era vissuto nel primo raduno. A parte gli iniziali salamelecchi e i falsi abbracci fraterni, con i quali i soldati navelesi avevano accolto quelli di Guzen, il resto della giornata si era contraddistinto con atti ignominiosi di tradimento e di assassini. Tra poco scopriremo in che modo quelle malvagie azioni si erano avute alla luce del sole, calpestando l'onore e la dignità dell'uomo giusto.

Durante il pantagruelico pranzo che era avvenuto nelle prime ore pomeridiane, il quale era stato allestito con una magnificenza invidiabile nei luoghi antistanti alle mura, si era servito dell'ottimo vino dentro brocche di terracotta. Queste, che all'apparenza erano tutte identiche, invece c'era qualcosa che le contraddistingueva. Sulla parte panciuta della metà di tali recipienti poteva scorgersi un pallino nero, il quale segnalava ai bevitori navelesi che il vino in esso contenuto era avvelenato con un potente tossico ad azione ritardante. Per cui i Dacivi erano attenti a non servirsi di tali brocche nel versarsi da bene; anzi, mescevano il vino da esse, esclusivamente quando riempivano le ciotole dei Braki. Così, nel giro di sei ore, tutti i soldati guzenesi giacevano sul terreno morti per avvelenamento, compreso il loro re Tamed. Per cui, già in serata, i Dacivi si erano dati a bruciare i loro corpi su grandi pire, onde evitare il pericolo di una vera epidemia nella loro vicina città.

Il mattino dopo, ogni lavoro riguardante la cremazione delle salme dei loro nemici era stato ultimato dai soldati navelesi. Essi, perciò, avevano potuto concedersi il riposo non fruito nella nottata con un buon sonno. Ma nelle ore pomeridiane, per ordine del loro sovrano, essi si trovavano già in assetto di guerra, dovendo andare ad assediare la città nemica per sottomettere i suoi abitanti al loro esercito. Essi oramai avevano davanti la strada spianata per conseguire i loro facili obiettivi, i quali erano la presa di Guzen, il suo depredamento e lo stupro di migliaia di donne, la maggior parte delle quali erano divenute da poco vedove. Così, quando tre giorni dopo i Dacivi si erano presentati sotto le mura della città dei Braki, i pochi addetti alla sua difesa non avevano compreso che si stava attuando l'occupazione della loro città da parte dei nemici, credendoli mischiati ai loro commilitoni e in vena di festeggiare e di continuare a fare baldoria. Per cui non avevano esitato a spalancargli le porte cittadine da loro custodite; inoltre, si erano affrettati ad abbandonarle e ad andargli incontro, desiderosi di prendere parte a tanta euforia di massa. Invece, quando si erano resi conto della realtà dei fatti, non avevano avuto neppure il tempo di un ripensamento, essendosi visti trucidare in brevissimo tempo dall'invadente valanga di nemici.

Una volta in Guzen, i Dacivi si erano dati a saccheggiare l'intera città, occupando tutte le sue strade e compiendovi numerosi atti di violenza e di sopruso, senza astenersi dalla violenza carnale a danno delle donne nubili e sposate. Le une avevano dovuto subire le loro deflorazioni e le altre i loro stupri, senza potersi opporre in qualche maniera. Quando infine i soprusi da parte dei Dacivi avevano avuto termine in città per volontà del loro re Renut, costui aveva fatto sapere alla popolazione guzenese, oramai composta da quasi tutte donne, che da quel giorno egli sarebbe stato il sovrano di entrambi i popoli. Per questo la metà del suo esercito sarebbe rimasta di stanza in Guzen a tempo indeterminato, minacciando pene severissime contro coloro che avrebbero tentato di ribellarsi ai suoi soldati. Fra le altre cose, essendo stati uccisi la maggior parte dei loro uomini, egli imponeva alle donne guzenesi di dedicarsi ai lavori dei campi, poiché con il ricavato della terra avrebbero dovuto sfamare ambedue i popoli. Solo le puerpere avrebbero potuto astenersi dal lavoro agricolo, dovendo allattare i loro neonati. Esse avrebbero dovuto pure accudire i bambini svezzati delle altre donne, sfamandoli e trattenendoli in vari giochi.

Con il passare degli anni, nella città dei Braki le cose erano andate peggiorando, siccome il re Renut, che aveva stabile dimora nella reggia di Navel, aveva iniziato ad accanirsi contro i suoi abitanti, trattandoli come schiavi. In verità, a quell'epoca la popolazione era costituita da bambini, da persone anziane e da vecchie, nonché da donne adolescenti, giovani e mature, la cui età era compresa fra i tredici e i sessant'anni. Erano proprio queste ultime a sacrificarsi nei lavori dei campi durante l'intera giornata; invece a sera, una volta rientrate in famiglia, si preoccupavano dei servizi inerenti alla casa. Inoltre, in Guzen, avveniva sempre più spesso che i soldati navelesi, per un nonnulla, condannavano alla fustigazione qualche vecchio della città. In quel caso, venivano date sulla nuda schiena del malcapitato non meno di dieci dure nerbate, le quali gli causavano delle piaghe profonde e sanguinanti; ma soprattutto gli procuravano molto dolore, sia mentre le riceveva sia dopo averle ricevute. Quanto agli sverginamenti delle adolescenti e agli stupri delle donne di maggiore età, da parte dei soldati navelesi, essi erano all'ordine del giorno. Difatti i primi venivano consumati durante la giornata; mentre i secondi venivano compiuti in serata, quando le donne lavoratrici facevano ritorno dai campi. Nel darsi alle loro violenze carnali, tali soldati agivano con strafottenza ed inoculando molto malessere nelle persone anziane e in quelle in cui la senilità si manifestava oramai galoppante. Forse non era neppure un male quel tipo di sopruso da parte dei soldati nei confronti del sesso debole, poiché la pratica del sesso, imposto o consenziente che fosse, essendo un atto fisiologico indispensabile, era da considerarsi salutare nelle donne violentate, che a volte ne ricavavano pure piacere. Anzi, con esso si sopperiva anche al pericolo della denatalità, che si sarebbe potuto presentare in avvenire, dopo che i loro uomini erano stati tutti uccisi in modo infamante.

Dopo l'occupazione di Guzen da parte dei Dacivi, tutti i bambini che nascevano, fossero essi maschi o femmine, venivano ritenuti bastardi tanto dai Braki quanto dai soldati navelesi, anche perché era impossibile risalire ai loro veri padri. Secondo loro, i bambini partoriti, poiché le loro madri avevano avuto rapporti con diversi soldati, non risultava possibile individuarne i veri padri anche da parte loro. Comunque, era previsto che, via via che i bambini e le bambine minorenni avessero compiuto i quindici anni di età, gli uni e le altre avrebbero dovuto affiancare le donne lavoratrici nei lavori campestri, dando loro un valido aiuto.

Quando erano trascorsi venti anni dall'occupazione della loro città da parte dei Dacivi, Guzen poteva contare su un gran numero di giovani, i quali, sistematicamente, erano stati avviati ai lavori dei campi. In verità, intanto che si dedicavano a simili lavori, grazie anche ai commenti dei loro nonni materni, avevano cominciato ad anelare alla libertà, essendo tale desiderio divenuto in loro insopprimibile. Ma ritrovandosi ad essere non avvezzi alle armi e senza un capo carismatico che li incitasse alla rivolta, essi non se la sentivano di affrontare quelli che li tenevano in schiavitù e finivano così per rinunciare al loro nobile sogno. Per loro fortuna, una persona del genere era nata e cresciuta al pari di loro, per cui ben presto gli si sarebbe presentata e si sarebbe messa alla loro guida, allo scopo di condurli al riscatto della loro gente dai malvisti invasori. Si trattava di Rutos, colui che stava per diventare il loro eroe liberatore, dopo essersi messo alla loro testa.



CAPITOLO 468



LA VITA DI RUTOS SUL PROPRIO PIANETA TERTUN



Rutos era nato trentadue anni prima in una zona boschiva, che era situata a venti miglia dalla sua città. I suoi genitori, che lo avevano allevato fino all'età di cinque anni, erano stati Tuop, il padre, e Suem, la madre. I poveretti erano stati trucidati da una banda di malviventi, i quali avevano risparmiato il loro unico figlio di cinque anni, ma solo allo scopo di venderlo al mercato degli schiavi di Navel, poiché volevano ricavare dalla sua vendita un congruo guadagno. In quel luogo, i suoi acquirenti erano stati due coniugi di passaggio in quella città, entrambi quarantenni, i cui nomi erano Vuan, quello del marito, e Luet, quello della moglie. In passato, l'uno e l'altra erano vissuti a Guzen. Ma dopo il loro matrimonio, essi avevano lasciato la loro città per andarsene a vivere tra i monti, che si elevavano a nord di essa. Eppure l'uomo, dieci anni prima, aveva aperto in Guzen una rinomata scuola d'armi e di arti marziali, essendo un eccellente maestro nell'impartire le sue lezioni nei due generi di combattimento. Per questo l'abbandono della propria città natale era avvenuto con un certo rimpianto. Tale sua decisione c'era stata esclusivamente per accontentare la moglie. La quale, dopo la tragica morte del loro figlioletto, che era stato travolto da un carro, aveva preso in odio la vita cittadina. Ma per loro sfortuna, in seguito Vuan e Luet non erano riusciti ad avere altri figli.

La matura coppia aveva acquistato il bambino cinquenne non per crescerlo come schiavo, ma per adottarlo come loro figlio, dovendo egli sostituire quello perito nel mortale incidente, il cui nome era Supus. In un primo momento, perciò, la moglie avrebbe voluto che il nuovo bambino entrato a far parte della famiglia prendesse il nome del loro figlio morto. Invece Vuan l'aveva convinta a non cambiare il nome al loro figlio adottivo, siccome egli si era già abituato ad essere chiamato con il nome che gli avevano dato i suoi genitori naturali. Esso, oltretutto, gli piaceva molto. Appresa poi da Rutos la triste sorte capitata ai suoi genitori, Vuan e Luet si erano dati ad avere cura di lui in maniera ineccepibile, essendo intenzionati a fargli dimenticare la triste esperienza passata e a farlo vivere nella massima serenità. Così, una volta ritornati nella loro casa situata tra le montagne, avevano voluto procurargli un cagnolino. Il quale avrebbe dovuto fargli da amico di gioco durante le sue giornate, quando non era impegnato a seguire le lezioni del padre adottivo. Infatti, costui, già da quando Rutos aveva appena sei anni, ossia l'anno dopo che lo avevano adottato, aveva iniziato ad esercitarlo nelle arti marziali, rimandando invece la sua esercitazione nell'uso delle armi ad una età maggiore, cioè nella sua adolescenza.

Il piccolo allievo aveva quattordici anni, quando un mattino Vuan aveva deciso di impegnarlo per l'ennesima volta nell'apprendimento delle arti marziali, le quali quel giorno prevedevano l'uso delle aste. Mentre così lo faceva esercitare, era successo che un proprio colpo per errore aveva investito appieno il braccio di Rutos. Allora, prevedendo la rottura del radio e dell'ulna, visto che il ragazzo aveva cercato di pararlo con l'avambraccio destro, egli se ne era preoccupato tantissimo. Invece, contrariamente alle sue previsioni, ambedue gli ossi, sebbene non fossero ancora del tutto cresciuti, erano rimasti illesi. Rutos, al forte colpo ricevuto, non aveva accusato il benché minimo dolore. A quello strano prodigio, Vuan, si era stupito non poco, per cui gli aveva chiesto:

«Mi dici, Rutos, come mai il tuo avambraccio non si è fratturato e tu stesso non hai provato neppure un po' di dolore, dopo aver subito il forte colpo della mia asta? Io non riesco a spiegarmelo!»

«Non te lo so dire, padre. Appena mi sono accorto che la tua asta mi stava investendo, ho desiderato che il mio braccio fosse di ferro. Così, al mio desiderio, il colpo mi si è fatto avvertire, come se fossero stati dei fili d'erba a colpirlo; però non mi è sfuggito il sordo rumore metallico provocato dalla tua asta nell'abbattersi sul mio arto.»

«Ehi, Rutos, non mi stai mica prendendo in giro? Non è possibile che sia avvenuto quanto hai voluto farmi credere! Non sei mica diventato un mago, già alla tua tenera età? Sappi che non me la dai a bere!»

«Io non voglio farti credere un bel niente, padre mio. Ho soltanto risposto alla tua domanda, riferendoti ciò che realmente mi è accaduto. La cosa importante è che il mio braccio non si è rotto ed ha retto al colpo della tua asta, quasi fosse stato davvero di ferro!»

«Su questo ti do ragione, figlio mio; ma vorrei capacitarmi di come sia avvenuto un fatto del genere. Solo che, per sincerarmi come stanno realmente le cose, avrei bisogno di fare un nuovo tentativo sul tuo corpo. Rutos, tu te la senti di affrontare un'altra prova, in modo che entrambi scopriamo se ciò che ti è accaduto può ancora succederti? Sappi, però, che potresti andare incontro ad uno spiacevole inconveniente, qualora i fatti non fossero quelli che mi hai raccontati, essendo essi andati in una maniera differente. Allora facciamo questo esperimento?»

«Padre, se proprio ci tieni ad approfondire quanto mi è accaduto, non ho difficoltà ad accontentarti. Ma mi dici a quale rischio vorresti sottopormi, pur di appurare la verità su di me? Spero che esso non sia talmente pericoloso, da provocarmi la morte!»

«Ma cosa hai pensato, Rutos! In un primo momento, figlio mio, avevo deciso di colpirti una gamba con un mio dardo; invece poi, temendo di farti molto male, ho rinunciato a fare tale tentativo.»

«Quindi, padre, non dovrò più attendermi da te alcuna minaccia intenta a ferirmi? Se lo vuoi sapere, il tuo ripensamento non mi garba per nulla, siccome desideravo anch'io conoscere la verità sulla mia persona per sapermi regolare in avvenire e gestire bene la mia vita, nel caso che mi capitasse ancora una situazione del genere.»

«Rutos, ti ho detto forse che la mia rinuncia è definitiva? Non mi sembra che mi sia espresso in questo modo! Perciò l'esperimento sul tuo corpo ci sarà, ma senza eccedere nella mia offesa su di esso. Intesi?»

«Allora mi riferisci, padre, come intendi agire contro qualche sua parte, al fine di avere risposte certe su ciò che mi è successo poco fa? Sappi che sono ansioso di apprenderlo e attendo la tua verifica!»

«Mi servirò di un aculeo di riccio, figlio, per avere la certezza che il prodigio c'è stato sul serio sulla tua persona. In quel caso, sono sicuro che esso si ripeterà. Se non mi sbaglio, in casa dovremmo averne, da quando abbiamo ucciso l'ultimo riccio. Tua madre ne fa vari usi.»

«Sono contento, babbo, che tra poco sperimenteremo se si è trattato di un prodigio del tutto casuale o se il mio corpo, in sintonia con la mia mente, reagisce ogni volta come abbiamo visto, stupendoci a non dirsi.»

Quando Vuan era venuto in possesso dell'aculeo, siccome se lo era fatto dare dalla moglie, si era messo a pungere più volte con esso le varie parti anteriori del corpo del figlio, cercando invano di perforarle. Allora si era reso conto che nell'adolescente si trattava di un portento continuativo, poiché esso si ripeteva, ogni volta che la sua mente lo invocava a difesa del corpo. Grazie al quale, esso diveniva di una durezza che, ad un tempo, non si lasciava trapassare da niente e non faceva accusare alcun dolore a chi veniva investito da colpi anche mortali. A quella scoperta, il padre e il figlio ne erano stati immensamente felici. Ma nell'adulto era sorta una piccola perplessità sul caso. Secondo lui, se ciò si verificava, quando un ipotetico pericolo si apprestava ad investire Rutos, lasciandosi avvertire da lui, cosa sarebbe successo, se esso lo avesse investito a sua insaputa? Quindi, volendo appurarlo senza equivoci, egli si apprestò a sperimentarlo; ma tenendolo nascosto al figlio. Così, rivolgendosi a lui all'improvviso, gli aveva fatto presente:

«Rutos, ti sei accorto che alle tue spalle un banco di nuvole, solcando il cielo, si sta avvicinando a noi con modesta velocità? Anzi, esso presto ci inonderà di pioggia e ci renderà entrambi zuppi!»

Alle parole del padre, il giovinetto si era affrettato a voltarsi indietro e a rendersi conto di quanto il genitore gli aveva affermato. Ma nell'esatto momento che egli si era girato a guardare la parte di cielo situata dietro di sé, Vuan gli aveva infilato sul dorso l'aculeo che ancora teneva in mano. Questa volta, però, esso gli era entrato nelle tenere carni, dalle quali si era messo a stillare del sangue. Da parte sua, Rutos aveva emesso un grido di dolore. Dopo, voltatosi di nuovo verso il padre, gli aveva fatto presente:

«Dunque, padre, l'arrivo delle nuvole è stata tutta una tua finzione per farmi volgerti la schiena, avendo deciso di conficcarvi l'aculeo e renderti conto così se il prodigio avveniva, anche quando il pericolo mi minacciava senza che io lo prevedessi! Hai fatto bene a fare un simile esperimento. In questo modo, abbiamo appurato la verità, riguardo a ciò che mi accade, ossia che soltanto se i miei occhi avvertono il pericolo incombente, il mio corpo non viene danneggiato. Quando invece i miei occhi lo ignorano, il mio dono fortunato se ne va a farsi friggere. Comunque, è già un bene che io adesso lo sappia, perché in avvenire saprò regolarmi, quando mi troverò ad ingaggiare un combattimento!»

«Hai ragione, Rutos. Ma non dovrai preoccuparti della tua difesa, dal momento che, con le mie lezioni d'armi e di arti marziali, ti renderò un guerriero invincibile. Perciò la tua preparazione nelle une e nelle altre seguiterà ad esserci ancora per molti anni. Essa ci sarà, fino a quando non le padroneggerai egregiamente, come non saprà fare nessun altro combattente al mondo!»

Vuan aveva avuto ragione, visto che in una decina d'anni era riuscito a fare del figlio adottivo un guerriero insuperabile, facendogli raggiungere uno spirito combattentistico ineguagliabile, grazie al quale eccellevano in lui il coraggio, l'ardimento e l'eroismo. Perciò, quando aveva compiuto i suoi ventiquattro anni, Rutos si presentava atleticamente forte, combattivamente invincibile ed eccellentemente preparato in ogni tipo di lotta e nell'uso di qualunque tipo di armi. Nelle quali si poteva affermare che avesse raggiunto la quasi perfezione. Inoltre, in lui si presentava abbastanza utile l'involontario fenomeno di invulnerabilità, il quale si verificava, ogni volta che l'arma del nemico avesse cercato di trafiggergli il corpo oppure quando qualche altro pericolo avesse tentato di investirlo in modo mortalmente traumatico. Nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno, Rutos, mentre pranzava con i suoi genitori putativi, ad un certo punto, si era rivolto al capofamiglia e gli aveva detto:

«Padre, da quando mi hai raccontato le disgrazie dei nostri compatrioti Braki, che tuttora continuano ad essere trattati come schiavi dai Dacivi, non riesco a darmi pace. Io anelo di continuo a liberarli dalla loro attuale schiavitù. Tu che ne dici, se prendo la decisione di andare in loro aiuto? Vorrei che tu non ti opponessi ad essa!»

«Invece, figlio mio, la trovo ammirevole! Se ci tieni a saperlo, verrei anch'io con te, se mi fosse possibile. Così ti darei una mano a frantumare gli oppressori della nostra gente. Ma tu lo sai che non possiamo lasciare sola tua madre in questa casa e metterla in grave pericolo, da parte di malintenzionati occasionali. Rammenti che già i tuoi due genitori naturali furono uccisi da persone malavitose, soltanto perché i poveretti non sapevano difendersi? Perciò evitiamo di lasciare sola in casa tua madre.»

«Allora, padre, se sei anche tu d'accordo, partirò domani stesso alla volta di Guzen, dove mi darò a studiare un piano per annientare tutti i Dacivi che vi vivono da aguzzini. Ho compreso pure perché non mi accompagni per spalleggiarmi nella mia lotta, che prevedo dura e lunga. Anche a me la sua morte recherebbe un immenso dolore, se la mamma venisse uccisa da malviventi che fossero di passaggio da queste parti.»



Il giorno dopo, il giovane Rutos, alle prime luci dell'alba, salutati i suoi genitori con un caldo abbraccio, era salito in groppa al suo cavallo ed aveva preso il sentiero che conduceva a Guzen. Vi era giunto al tramonto, senza avere incontrato difficoltà ad entrarvi. Ma una volta dentro la città, si era dato a camminare tra la folla, non sapendo dove andare e chi contattare per avere notizie sui nemici navelesi. Solo dopo una mezzora di cammino, si era imbattuto in un drappello di soldati invasori. I militari, pur tra le proteste dei suoi parenti, si traevano dietro una bella fanciulla, la quale anch'ella gli si opponeva energicamente. A tale visione antipatica, il giovane era intervenuto e non aveva esitato a prendere le parti della poveretta, assalendo ed uccidendo quelli che cercavano di portarsela via. Allora, all'energica azione del prode cavaliere sconosciuto, i familiari della fanciulla non avevano perso tempo a ringraziarlo. Inoltre, un fratello di lei aveva voluto metterlo in guardia da ciò che di sicuro sarebbe avvenuto dopo. Perciò gli si era rivolto, dicendo:

«Grazie, giovane forestiero, per aver difeso mia sorella. Adesso però ti sei cacciato nei pasticci a causa sua. Ben presto i commilitoni di quelli che hai ucciso ti daranno la caccia e non ti molleranno, fino a quando non ti avranno scovato e non te l'avranno fatta pagare duramente. Nel frattempo, io consiglierei di far sparire i loro corpi in un modo qualsiasi, affinché la scoperta della loro uccisione avvenga il più tardi possibile. A proposito, il mio nome è Gìuz e quello di mia sorella è Faen. Ci piacerebbe conoscere anche il tuo, se non ti dispiace. Così dopo potremo chiamarci con i nostri nomi. Allora ci dici qual è il tuo nome?»

«Io mi chiamo Rutos, simpatico Giuz, e non sono affatto un forestiero. Io appartengo alla tua stessa gente, ma sono vissuto sempre lontano da Guzen. Ho ventiquattro anni e penso che tu e tua sorella siate miei coetanei, se gli occhi non mi ingannano. Come giustamente mi hai fatto presente, per prima cosa ci conviene occultare le salme della decina di soldati da me sterminati, prima che un'altra pattuglia dei nostri nemici si trovi a passare da queste parti e li scopra. Una volta provveduto al loro occultamento, sapete dirmi dove potrò rifugiarmi, dal momento che sono appena arrivato in città? In verità, avrei anche da riposarmi e da sfamarmi, considerato che ho viaggiato per l'intera giornata.»

«Stasera sarai ospitato in casa nostra, Rutos, dove, oltre a trovare riposo, mia madre baderà a prepararti anche un pasto sostanzioso. Riguardo alla nostra età, suppergiù essa si avvicina di molto alla tua. Mia sorella ha un anno più di te, mentre io domani ne compirò venticinque. Entrambi siamo nati, poco prima che mia madre diventasse vedova, a causa del tradimento operato dal re Renut contro il nostro esercito, durante il quale anche nostro padre fu ucciso durante il sonno, che i Dacivi provocarono in tutti i nostri soldati. Ma adesso mi dici, Rutos, come hai fatto a raggiungere alla tua età una preparazione d'armi, che a me è parsa un vero prodigio? Avrai avuto senz'altro un bravissimo maestro!»

«Infatti, non ti sbagli, Giuz. Mio padre, il quale mi ha preparato nell'uso delle armi e nelle arti marziali, era un esimio maestro in entrambe le discipline, facendomi diventare bravo quanto lo era lui.»

«Vorrei sapere da te, Rutos, come mai sei venuto a vivere nella nostra città, dove viviamo da schiavi, quando invece potevi startene dalle tue parti, dove il sapore della libertà ti rallegrava lo spirito e ti faceva nascere nell'animo una grande beatitudine.»

«Giuz, l'obiettivo della mia venuta in Guzen, è la liberazione di tutti i Braki dal giogo dacivino. Ma prima dovrò preparare nell'uso delle armi e nelle arti marziali i giovani guzenesi, molti dei quali oggigiorno sono orfani di padre. Così dopo essi saranno pronti a combattere contro i nostri odiosi nemici. Non vedo l'ora di annientarli dal primo all'ultimo, grazie anche alla loro collaborazione. La quale mi sarà molto preziosa, dopo che essi saranno preparati egregiamente da me. Adesso conosci pure il motivo che mi ha spinto nella mia città occupata dagli stranieri!»

«Sono felice, Rutos, di quanto ti sei prefisso di fare a favore dei tuoi concittadini. A questo punto, però, occorre affrettarci a nascondere i cadaveri dei soldati uccisi e a raggiungere la mia casa, dove nostra madre sta vivendo dei momenti terribili, per avere assistito al rapimento di mia sorella Faen, avvenuto nella nostra abitazione.»

Nella traslazione delle salme dei Dacivi, avevano preso parte anche alcuni robusti giovani Braki, i quali erano presenti sul posto. Per cui l'opera del loro occultamento era avvenuta celermente. Esse erano state gettate in un precipizio profondo, che si trovava non molto lontano da quella strada in cui Rutos li aveva ammazzati come cani.

Il mattino seguente, come da istruzioni impartite da Rutos, il giovane Giuz e cinque suoi compagni già si erano dati a trasmettere la notizia a tutti i giovani della città dell'arrivo in Guzen di un formidabile campione nell'uso delle armi e nelle arti marziali. Egli aveva deciso di mettersi a loro completa disposizione per esercitarli nelle une e nelle altre con l'obiettivo di farli ribellare agli invasori Dacivi e di annientare quanti di loro risiedevano nella loro città. Così, al termine di quel segreto passaparola, l'intera gioventù maschile guzenese aveva aderito all'iniziativa dell'imbattibile campione venuto da fuori. Inoltre, in piena segretezza, da parte dei giovani Braki, si era iniziato ad esercitarsi nelle armi e nelle arti marziali. I luoghi scelti per le esercitazioni erano stati sia gli stabili cittadini abbandonati sia le macchie poco frequentate dai contadini e dai soldati intenti a perlustrare le compagne circostanti le mura.

Nel giro di un semestre, erano stati resi abili alle armi oltre tremila giovani. Per cui essi, capitanati da Rutos, avevano stabilito di liberarsi dei loro invasori dacivini. Per la loro liberazione, avevano scelto una notte devastata da un terribile fortunale, quando era sembrato che si fossero aperte le cateratte del cielo, mentre il vento si era messo a frastornare ogni cosa con il suo urlio pazzesco. Era stato in quelle ore cieche, illuminate di tanto in tanto dalla livida ed accecante luce dei fulmini, che i giovani Braki si erano mossi ed erano andati alla ricerca delle case dove alloggiavano i soldati navelesi. Una volta che li avevano raggiunti, essi li avevano freddati nel sonno con grande soddisfazione. Dopo aver eliminato tutti i gendarmi di guardia, erano entrati perfino nella reggia, dove avevano ucciso anche il loro viceré Tobet. Intanto che la notizia della rivolta dei Braki nella loro città non aveva raggiunto Navel e il suo sovrano Renut, in Guzen si era continuato ad arruolare nel ricostituito esercito guzenese altri giovani, partendo da quelli che avevano sedici anni di età, fino ad ingrossare le sue file di altri ventimila combattenti audaci. Quelli più grandi, oltre a liberare la loro città dai nemici, erano pure desiderosi di vendicarsi dei loro genitori uccisi a tradimento.

Siccome ogni mese un migliaio di Dacivi partiva da Navel per rifornirsi di viveri nella città da loro conquistata, Rutos aveva voluto approfittare di quell'occasione per dare la prima lezione all'esercito nemico. Infatti, quando i mille soldati navelesi si erano fatti vivi con i loro numerosi carri vuoti, duemila giovani al suo comando li avevano assaliti e trafitti mortalmente con i loro archi. Dopo averli decapitati, avevano riempito i carri con i loro corpi acefali e le loro teste mozze. Infine erano stati un centinaio di loro a ricondurre i carri presso le mura di Navel, dove avevano subito ripreso il viaggio di ritorno alla loro città, per evitare la furiosa reazione dei commilitoni di coloro che erano stati uccisi da loro.

Ciò che aveva stupefatto maggiormente i giovani Braki era stato il fatto che Rutos, nel tiro con l'arco, li aveva costretti ad esercitarsi aventi come bersaglio il proprio corpo. Perciò, durante tale esercitazione, essi spesso avevano esitato ad effettuare i loro tiri mirati contro il tronco del loro maestro, temendo di fargli del male. Ma poi, vedendo che le frecce rimbalzavano a terra senza conficcarsi dentro di esso, si erano tranquillizzati ed avevano continuato a colpirlo. Naturalmente, avendo Rutos messo in mostra quella sua straordinaria prerogativa, tutti i suoi allievi si erano convinti che egli, oltre ad essere un ineguagliabile maestro, era anche invulnerabile. La qual cosa li aveva spronati a seguirlo in quell'impresa fino in fondo, poiché essa aveva come obiettivi la liberazione del loro popolo dai Dacivi e il proposito di vendicarsi della morte delle migliaia dei loro genitori vilmente assassinati dagli stessi. Così in seguito, quando il sovrano di Navel per ritorsione aveva ordinato una severa punizione contro gli uccisori dei suoi uomini addetti all'accaparramento dei viveri presso i Braki, costoro si erano fatti trovare già pronti prima nella loro reazione ad essa e poi nella loro controffensiva contro i nemici. I quali non se la sarebbero mai aspettata una impresa del genere da parte dei loro oppressi, che essi erano abituati a trattare come schiavi.

Nella battaglia, che aveva avuto luogo un paio di mesi dopo, l'esercito brakese aveva ottenuto una completa vittoria, grazie anche alle ottime qualità di stratega del loro comandante Rutos. Egli, infatti, aveva attirato i nemici in un avvallamento, il quale presentava piccole alture laterali, sulle cui cime erano stati appostati gli uomini di Guzen di età superiore ai cinquantacinque anni. A loro era stato assegnato il compito di lanciare conto i soldati dacivini nuvoli di frecce e di gettare contro gli stessi macigni di varie grandezze; ma soltanto dopo che essi fossero stati attratti in quel luogo di combattimento. In verità, si era trattato di un fondovalle senza uscita, scelto da Rutos come loro campo di battaglia. La sua strategia era stata quella che ora viene riportata. Innanzitutto aveva sistemato gli ultracinquantacinquenni sulle alture laterali di quella piana ristretta, che non aveva sbocco. In seguito, dei ventimila giovani guzenesi che erano al suo comando, ne aveva posto la metà sotto il comando di Giuz. Egli avrebbe dovuto tenerli nascosti al nemico in arrivo e li avrebbe fatti intervenire contro di esso, non appena fosse entrato interamente nel fondovalle, intanto che inseguiva i loro commilitoni guidati dal loro comandante. Difatti, dopo essersi trovato di fronte al grosso dell'esercito dacivino, Rutos con i suoi combattenti avrebbe dovuto fingere una fuga verso il vallone e vi si sarebbe dovuto rifugiare, essendo sicuro che il nemico si sarebbe dato ad inseguirli. Ma una volta raggiunto il fondo della piccola piana chiusa, i Braki avrebbero dovuto attendere i Dacivi, che erano desiderosi di sterminarli, ed accendere in quel modo il sanguinoso conflitto. Comunque, esso era previsto, solo dopo che i nemici fossero stati decimati dai Braki appostati sulle alture circostanti. Nel frattempo, però, sarebbero intervenuti anche gli uomini comandati da Giuz, i quali avrebbero completato l'imbottigliamento a danno dei Navelesi. Allora essi, venendo assaliti da più parti, non avrebbero avuto scampo e sarebbero stati totalmente annientati con la gioia del popolo brakese.

Le operazioni di guerra si erano svolte esattamente come Rutos aveva pianificato, per cui l'esercito guzenese aveva ottenuto pieno successo dalla battaglia campale, riscuotendo il meritato trionfo. Esso, infatti, aveva anche permesso ai Braki di vendicarsi degli assassini dei loro genitori. Quanto alla città di Navel, Rutos, che il popolo aveva voluto nominare nuovo re di Guzen, aveva evitato di farla mettere a ferro e a fuoco. Invece aveva preferito che i suoi abitanti non venissero tartassati dal suo popolo e cominciassero a vedersela da soli nella gestione del loro governo e della loro sopravvivenza, a patto che si sarebbero disfatti del loro re Renut, in qualsiasi modo avessero voluto. Dopo essere stato incoronato sovrano di Guzen, Rutos aveva stabilito di sposare la sorella dell'ex re Tamed, che era stato ucciso dai soldati dacivini tanti anni addietro, il cui nome era Esen. In occasione del loro matrimonio, nella loro città c'erano stati dieci giorni di solenni festeggiamenti. Ai quali l'intera cittadinanza era stata ben lieta di partecipare, siccome c'erano da consumare ettolitri di vino e pietanze succulente a non finire per tutto il periodo di festa. Anzi, nessun cittadino aveva osato declinare il festoso invito del loro benamato sovrano.



CAPITOLO 469



IVEONTE CONQUISTA L'INTERO POTERE COSMICO



Dopo il quinto racconto biografico, il quale questa volta aveva riportato succintamente ciò che aveva avuto attinenza con l'eroico Rutos, Tupok si espresse all'eroe terrestre con tali parole:

«A questo punto, Iveonte, avendoti riferito anche sull'ultimo Guardiano del Potere Cosmico, ritengo terminato il mio resoconto sulle cinque biografie riguardanti i guardiani del prodigioso potere. Al quale, come ti ho riferito in precedenza, nulla può essere negato nell'intero Kosmos, perfino quanto risulta impossibile agli eccelsi tuoi protettori, che sono il dio Kron e il dio Locus. Quindi, impavido giovane, pur conoscendo la tua risposta, non posso esimermi dal rivolgerti per l'ennesima volta la medesima domanda, circa le tue intenzioni inerenti allo scontro che stai per avere con l'eroe tertuniano. Perciò ti chiedo: Te la senti di affrontarlo con la stessa temerarietà dimostrata negli altri quattro combattimenti?»

«Tupok, la mia risposta non può essere che affermativa. Sarebbe da sciocco da parte mia, se rinunciassi proprio adesso, ossia quando oramai tengo in pugno la situazione ed è imminente il momento della mia vittoria finale. Per questo non devi proprio pensarlo che io ci rinunci, visto che sono già pronto ad ingaggiare il mio combattimento finale!»

«Allora, campione terrestre, che sei molto ammirato da me, non mi resta che augurarti un nuovo successo contro l'ultimo Guardiano del Potere Cosmico, che ti prepari ad affrontare, al fine di portare a termine la tua nobile missione. Dalla sua riuscita dipenderà la salvezza di tanti mondi sparsi per l'intero universo e di milioni di Materiadi che li abitano. Dunque, ritorna presto e lascia Potenzior al più presto, poiché in Kosmos la Forza del Male, rappresentata adesso dall'Imperatore delle Tenebre, continua a procurare ovunque distruzione di astri e stragi di persone innocenti, senza pietà e senza commiserazione per nessuna di loro!»

All'esortazione del Signore di Potenzior, Iveonte si affrettò a chiamare presso di sé Russet, il cavallo alato che doveva condurlo da Rutos. Allora l'animale gli si presentò per essere montato da lui e per volare di corsa presso la dimora dell'eroico Brako. Al suo arrivo, il giovane gli saltò sulla groppa e lo spronò a raggiungere la nuova meta, dove avrebbe incontrato il suo rivale di turno, che era l'eroe guzenese. Mentre poi solcava il cielo sopra il cavallo, egli non vedeva l'ora di incontrarlo, di battersi con lui e di portargli via la rimanente parte del Potere Cosmico. Quando Russet fu a pochi passi da lui, Rutos era intento a fare il suo sonnellino pomeridiano presso un acero, dove teneva appoggiata la schiena contro il suo tronco. Ma poi il nitrito della bestia lo destò, facendolo uscire dal suo stato di sopore. Allora, alla vista di Iveonte, egli ebbe quasi un sussulto e fu spinto ad alzarsi subito in piedi, dal momento che il suo visitatore si era presentato a lui, stando sul dorso di Russet. Nello stesso tempo, in verità anche l'eroe terrestre cercò di essere presentabile, scendendo dalla bestia e cercando di mostrarglisi cordiale. Comunque, le presentazioni ci furono, non appena il famoso cavallo di Tupok si fu fatto da parte e se ne andò a brucare nell'adiacente prateria. Allora, se Iveonte, con vari gesti esteriori soprattutto del viso, tentò un approccio amichevole con lui, il guardiano non se la sentì di fare altrettanto con il suo interlocutore. Anzi, forse a causa dell'inattesa presenza del giovane eroe di Geo, con modi scostanti gli domandò per primo:

«Da dove sei sbucato, sconosciuto, privandomi del dolce sonno che stavo assaporando? Anche se sei venuto fin qui a cavallo di Russet, sono certo che non sei di Potenzior. Assodato questo particolare, adesso parlami del motivo che ti ha spinto da me, se vuoi farmi una cortesia.»

«Per prima cosa, ti faccio presente che io conosco il tuo nome, Rutos. Allora è giusto che anche tu sappia il mio, il quale è Iveonte. Dopo passo a rispondere alla tua domanda, ma la mia risposta non ti giungerà gradita. Comunque, non potrebbe essere altrimenti!»

«Perché mai, Iveonte, sei certo che non gradirò il motivo che ti ha spinto da me? Ammesso che tu non abbia torto, dovresti essere più tu a preoccupartene e non io. Te lo garantisco!»

«Se ho bene inteso il significato delle tue parole, Rutos, qualora la mia venuta in questo luogo non ti risultasse benaccetta, tu me ne faresti pentire, senza valutare anche l'ipotesi che potrei essere io a dartele di santa ragione, nel caso che ci fosse uno scontro fra noi due.»

«Ah, ah, Iveonte! Lo sai che hai una bella faccia tosta a venirmi a dire queste cose? Si vede che non sai con chi hai a che fare! Ma presto ne verrai a conoscenza! Ad ogni modo, adesso voglio sapere perché sei venuto a farmi la tua visita. Riferiscimi lo scopo preciso di essa!»

«Non potrebbe essere altrimenti Rutos. Ebbene, sono venuto a prendermi la parte di Potere Cosmico in tuo possesso. Lo so che ti opporrai con tutte le tue forze. In tal caso, prepàrati a lottare strenuamente, se non vuoi che essa diventi mia. Ti rendo noto che in me già ci sono le altre sue quattro parti, per averle sottratte a rispettivi possessori.»

«Ciò significa, Iveonte, che sei un vero osso duro, se sei riuscito a superare i quattro scontri sostenuti contro degli eroi validissimi, i quali hanno sempre meritato la mia stima. Ma io, sebbene tu abbia compiuto tali ammirevoli imprese, non ti consentirò di impadronirti anche della mia parte di Potere Cosmico con una certa facilità. Sappiamo entrambi che esso acquista un valore effettivo, solo se è posseduto interamente da un Materiade. Per cui le quattro parti in mano tua valgono quanto la sola parte che è in mio possesso, presentandosi le une e l'altra allo stato potenziale. Quindi, il risultato della lotta, che tra breve saremo costretti ad ingaggiare, dipenderà solo dalle nostre forze e dalle nostre capacità combattive. E per te non sarà facile conquistare anche la mia parte!»

«Questo lo so, Rutos! Ma tu ignori che le forze in me sono al massimo della loro potenza, per cui prevarranno senz'altro sulle tue.»

«Invece, Iveonte, poiché mi considero superiore a te, anzi ne ho la certezza matematica, sarai tu a fare fiasco e ad essere sconfitto nella nostra singolar tenzone. La quale stavolta ti vedrà combattere contro un insuperabile campione del mio calibro. Al momento opportuno, non esiterò ad infliggerti la giusta sconfitta e a farti vivere uno scorno vergognoso. In un certo senso, renderò nulle le tue precedenti vittorie, per cui ti farò ritrovare con un pugno di mosche in mano, le quali non ti permetteranno neppure di riposare sugli allori.»

«Vedo, Rutos, che non ti risparmi nell'encomiare le tue virtù di imbattibile guerriero e nello stimare quelle altrui di nessun valore. Facendo così, facilmente ti consideri il vincitore di una contesa, già prima che essa abbia avuto inizio. Allora mi converrà ridurti a più miti consigli nel nostro imminente scontro, il quale si preannuncia burrascoso ed ostico per ognuno di noi. Se poi credi che io sia all'oscuro della tua seminvulnerabilità, ho da contraddirti, poiché il Signore del Potere Cosmico mi ha già messo al corrente di essa, insieme a tutte le altre cose che ti riguardano. Essa, però, non mi dà alcun pensiero, siccome a tempo debito riuscirò in qualche modo a neutralizzarla con qualche mia trovata ad hoc. Così ovvierò a simile inconveniente, facendoti risultare il perdente del nostro combattimento, il quale dovrà essere all'ultimo sangue.»

Dopo il nuovo intervento verbale di Iveonte, la sua controparte evitò di reagire, troncando così il diverbio orale che si era acceso da poco. Inoltre, Rutos, dopo aver brandito la spada, si adoperò per studiare le contromisure che la parte avversa avrebbe preso ai propri tentativi di un assalto improvviso. Ugualmente si comportò Iveonte, il quale era oramai convinto che l'assalto nemico stava per esplodere con tutta la sua virulenza, per cui occorreva arginarlo nei modi più appropriati possibili e capaci di contrapporgli una valida difesa. Allora, essendo quella la situazione del momento, da entrambe le parti ci si diede a fare movimenti circospetti e mosse intente ad imbrogliare le carte in tavola per rendere scarso l'accorgimento dell'avversario.

Il primo a decidersi a dare il proprio assalto contro l'avversario, anche se con un timido vigore, fu Rutos. Egli, per il momento, tese ad avere una idea delle reazioni che il rivale gli avrebbe contrapposto; nonché delle difese, alle quali il medesimo sarebbe ricorso. Ovviamente, fatto quel suo tentativo iniziale, non gli fu difficile rendersi conto che aveva di fronte un grande campione, probabilmente par suo o superiore a lui. Allora dovette cambiare atteggiamento nei suoi confronti ed assumere un contegno bellicoso più adatto alla situazione, ossia quello che gli avrebbe evitato uno smacco da parte dell'avversario. Comunque, confidava nelle proprie capacità oltre ogni misura, la qual cosa non gli faceva temere che gli sarebbe capitato di assaggiare il sapore della sconfitta, grazie alla sua eccellente preparazione nell'uso delle armi e delle arti marziali. Inoltre, poteva contare sul fatto che il suo corpo non avrebbe accusato nessun danno fisico, se per imprudenza egli avesse permesso al suo avversario di colpirlo in qualche sua parte. Per questo il suo combattimento sarebbe stato preminentemente offensivo, a differenza del suo antagonista. Il quale avrebbe dovuto badare a trecentosessanta gradi alla propria offesa e alla propria difesa, essendo entrambe imprescindibili per lui, se intendeva assicurarsi la salvezza.

Pure Iveonte era consapevole che il quinto guardiano, rispetto ai quattro precedenti, aveva il vantaggio di non dovere concentrarsi sulla difesa come faceva con l'offesa, più o meno al cinquanta per cento per l'una e per l'altra. Perciò aveva il privilegio che gli permetteva di rafforzare il solo lato offensivo della sua lotta, fino ad assegnare ad esso l'ottanta per cento delle sue risorse fisiche, psichiche ed intellettive, facendolo risultare più efficiente e più minaccioso, rispetto a quello del suo avversario. Ma pur esistendo quella diversità totalmente propensa alla sua controparte, egli non se ne faceva alcun problema, fidando nelle sue infinite risorse in campo strategico e tattico, che stava per porre in essere in quel difficilissimo conflitto. Quanto poi alla parziale invulnerabilità del rivale, il nostro eroe era convinto che senza meno avrebbe trovato un espediente idoneo a fargli superare quella situazione alquanto scabrosa, che avvantaggiava invece Rutos in maniera rilevante.

Dopo esserci state le prime schermaglie di quello scontro ancora all'inizio, le quali erano servite a ciascuno esclusivamente per studiare l'avversario e valutarne i pregi e i difetti, fra loro due si accese un'azione conflittuale non di poco conto. Anzi, essa andò evolvendo in assalti sempre più veementi, i quali mettevano in mostra le loro capacità combattive sia nell'uso della spada che nelle arti marziali. Queste ultime li presentavano come combattenti volatili, che si accanivano ad assalirsi reciprocamente con magistrali giravolte aeree, durante le quali si aveva l'impressione che a volte si sfiorassero altre volte si infilzassero in simultaneità. Ma poi si aveva la sorpresa che entrambi ne uscivano indenni e più audaci che mai, per cui continuavano a darsi alla tenzone con incredibile tenacia e con la massima asprezza. Non si conoscevano soste in quel loro scambio di colpi tremendissimi e scompiglianti, siccome i due duellanti facevano a gara a chi era capace di assestarli più irreparabili e di sferrarli più rovinosi, tali cioè da scombussolare la difesa dell'avversario oppure da far traballare la sua fermezza nel combattere e nell'opporgli una solida resistenza. Un uragano sarebbe apparso ben poca cosa, se messo a confronto con il loro combattimento. Difatti quest'ultimo si dimostrava più catastrofico, più sconvolgente e più distruttivo, considerati i loro vicendevoli assalti, nei quali la loro fierezza e la loro temibilità si esprimevano in modo superlativo. Le stesse forze della natura, nella loro attivazione più disastrosa, paragonate al loro furioso battagliare, si vedevano sminuire di vigore e di potenza.

Dopo un'ora di fiera lotta, che non accennava a scemare, Rutos, non potendo fare a meno di ammetterlo, prese coscienza che il suo rivale era davvero un fenomeno nella scherma e nelle arti marziali. Per cui, facendo una breve pausa, ebbe a dichiarargli:

«Devo ricredermi, Iveonte, del mio giudizio iniziale espresso su di te, visto che ti stai dimostrando un guerriero della mia portata, se non di più. Perciò sono costretto a rivedere il concetto che mi ero fatto su mio padre, poiché l'ho sempre stimato superiore a tutti tanto nell'uso delle armi quanto nelle arti marziali. Come mi avvedo, invece, entrambe le cose in te hanno raggiunto la perfezione assoluta, alla quale a stento riesco a far fronte. Da parte tua, probabilmente, ci sarà stato anche qualche colpo andato a segno, ma che il mio particolare corpo è stato in grado di rendere vano. A proposito di tale sua particolarità, mi dici come farai a neutralizzarla, avendo così la meglio su di me? Sono curioso di apprenderlo, se hai voglia di dirmelo!»

«Innanzitutto, Rutos, ti ringrazio per il tuo nuovo giudizio che hai espresso su di me, il quale mi è risultato obiettivo ed imparziale. Inoltre, voglio farti presente che il maestro, da cui appresi ogni cosa sull'uso delle armi e sulle arti marziali, era il migliore esistente nell'intero universo. A proposito poi della tua seminvulnerabilità corporea, stanne certo che, prima ancora che tu possa infliggermi il colpo fatale, riuscirò a trovare l'espediente che mi permetterà di superarla e di vanificarla, concludendo così vittoriosamente lo scontro che ho ingaggiato con te.»

«Quanto affermi con certezza, Iveonte, è tutto da vedere, non essendo facile colpirmi, senza che mi sfugga un tuo colpo, mentre raggiunge il mio corpo per trapassarlo da parte a parte. Perciò non ti sarà facile ottenere una tale opportunità, anche perché la mia coscienza sarà sempre vigile perché ciò non accada. Ma se una simile eventualità dovesse avverarsi, mi riterrò soddisfatto di essere perito per mano di un guerriero eccezionale, quale tu ti stai dimostrando.»

«Un nuovo ringraziamento ti giunge da parte mia, Rutos, se ora la tua stima verso di me non ha limiti e ti sentiresti perfino onorato, se fossi io a recarti la morte. Allora non ci resta che riprendere il nostro combattimento, considerato che esso dovrà decidere chi di noi due alla fine sarà il più degno di meritare la palma della vittoria.»

Dopo che Iveonte ebbe posto fine al suo parlare, ci fu all'istante anche la ripresa dello scontro, il quale si accese nuovamente con la furia di un ciclone, con la rabbia di una tempesta e con la strenuità degli eroi più celebrati. Per cui da ambo le parti iniziarono ad imbizzarrirsi i loro colpi possenti e destabilizzanti, i quali miravano a rendere fragile la difesa dell'avversario. Soprattutto essi, scatenandosi senza freno, cercavano di creare confusione nelle sue azioni logistiche, al fine di disorientarlo e di renderlo vittima di un senno dalle capacità precarie. Ognuno, per conto suo, interveniva nella mischia con il massimo furore e con uno slancio commisurato al proprio valore, nonché all'insegna dell'accortezza e della scaltrezza, volendo evitare di essere colto in fallo dal rivale. In quel caso, egli avrebbe subito la sua supremazia in quell'arduo confronto schermistico, il quale non faceva prevedere che si sarebbe concluso in tempi brevi. Al contrario, esso induceva a ritenere che sarebbe durato un tempo illimitato, anche se, per il momento, non si lasciava misurare e non permetteva previsioni circa la sua conclusione.

I due inflessibili combattenti ne erano bene al corrente, ma non osavano pensarci, ad evitare di venirne avviliti o di darsi ad ipotesi fasulle circa l'evento conclusivo del loro scontro. Invece essi si dedicavano a fare sfoggio di singolari prove di coraggio, di palesi dimostrazioni di valentia e di indubbie ostentazioni di bravura. Evidenziandole con la massima visibilità possibile, l'uno e l'altro intendevano manifestarsi reciprocamente che la loro temerarietà e la loro tenacia non conoscevano confini, ma potevano benissimo andare avanti nella lotta fino a tempo indeterminato. Dovesse quest'ultimo durare anche una eternità! Per questo i loro colpi e contraccolpi, le loro azioni e controreazioni, i loro assalti offensivi e i loro provvedimenti difensivi non avevano sosta; ma seguitavano ad esserci senza limitazioni e con il solito intento. Il quale non poteva che avere come obiettivo la rovina dell'avversario, che volevano vedere crollare definitivamente sotto i loro colpi tremendi e demolitori.

Si combatteva già da due ore di fila, quando Iveonte, ad un certo punto, preferì il combattimento aereo a quello al suolo. Perciò, senza dare spiegazioni al suo rivale, intraprese un rapido volo, il quale lo fece sollevare qualche miglio da terra. Allora Rutos, pur non comprendendo quella sua improvvisa fuga verso l'alto, decise di inseguirlo nell'infinito spazio celeste, dove prevedeva che egli avrebbe avuto la meglio sull'eroe terrestre. Infatti, era convinto che l'avversario non aveva la stessa dimestichezza che dimostravano di possedere lui e gli altri Guardiani del Potere Cosmico. Invece si sbagliava di grosso e se ne sarebbe reso conto abbastanza presto, contro ogni sua previsione.

Così, quando lo ebbe raggiunto, dopo avergli fatto segno che gradiva anche lui il nuovo tipo di tenzone, si diede a comporre varie traiettorie intorno allo spazio da lui occupato. Ora passandogli vicino a pochi metri ora allontanandosene con velocità incredibile, sembrava che volesse dimostrargli che finalmente gli aveva dato il modo di poterlo dominare. Da parte sua, per breve tempo Iveonte glielo lasciò credere ed evitò di insospettirlo che la sua fosse solo finzione. A volte gli apparve anche disorientato, impacciato e indeciso nel reagire ai suoi voli, i quali non avevano termine e disegnavano nello spazio a lui intorno figure geometriche impercettibili. Infatti, non potevano esserci per esse concretezza e, di conseguenza, visibilità. I moti aerei di Rutos continuarono ad esserci nello spazio circostante ad Iveonte ancora per una decina di minuti, senza che il suo rivale di Geo facesse qualcosa per liberarsene in qualche modo. Perciò l'atteggiamento di colui che era venuto a sfidarlo lo rendeva tronfio, essendo sicuro che fosse quella la realtà dei fatti. Ossia, avendolo reso in sua balia, al più presto lo avrebbe anche fatto diventare il perdente dello scontro. A suo parere, trovandosi il suo avversario in seria difficoltà, a causa della sua inefficienza accusata nel muoversi nello spazio, senza alcuna difficoltà egli lo avrebbe ridotto in un essere impotente a difendersi e ad evitare di venire trafitto ed ucciso con sua grande soddisfazione. Dal canto suo, Iveonte aveva confidato esattamente che ciò accadesse e che Rutos alla fine si persuadesse che la nuova situazione non era artefatta, con il pericolo di celare in sé un tranello da lui ordito, al fine di farlo cadere in una propria trappola mortale.

In verità, non si era ancora compreso cosa in realtà l'eroe di Geo avesse inteso ottenere, cambiando il luogo del combattimento. Perciò vogliamo sapere a cosa il nuovo campo d'azione gli sarebbe giovato, diversamente da quello effettuato al suolo, dove non era riuscito a conseguire i risultati sperati. Ebbene, una volta che avesse fatto intendere al guardiano da lui sfidato che la propria dimestichezza con il volo spaziale era quasi zero, senza che il suo comportamento apparisse sospetto di imbroglio, non lo avrebbe reso malfidato nel valutare le sue future azioni. Una delle quali aveva come scopo la nulla difficoltà di assalirlo e di colpirlo alle spalle, senza che i suoi occhi se ne rendessero conto e trasformassero l'organo colpito, nel suo caso la schiena, di consistenza metallica ed invulnerabile. Per raggiungere tale obiettivo, però, occorreva che Rutos seriamente lo prendesse per un inesperto nel volo spaziale e che quindi non avesse da attendersi da lui pericoli di sorta. Per sua fortuna, era quanto stava appunto avvenendo in quella circostanza, visto che l'eroe guzenese ci stava cascando come una pera cotta, senza avvedersi neppure minimamente dell'inganno. Perciò conveniva che egli ne approfittasse senza alcuna esitazione, anche se un'azione del genere gli risultava alquanto perfida, dovendo essa avvenire a tradimento. Ma purtroppo quello era il solo modo di portarla a effetto, se voleva averla vinta contro l'invulnerabilità del suo rivale, rendendogli l'organo preso di mira vulnerabile e tale da essere da lui colpito a morte.

Ad un certo momento, il Guzenese smise di darsi ai suoi voli, che disegnavano traiettorie bizzarre. Dopo essersi arrestato di fronte al suo rivale, gli si rivolse, dicendo:

«Iveonte, vedo che, anche se ti sei lanciato per primo nello spazio, mi accorgo che non sei avvezzo a volare. Allora potevi fare a meno di spingerti in un luogo che non ti sarebbe stato utile! Inoltre, qui potrei ammazzarti facilmente, senza neppure fartene accorgere!»

«Invece, Rutos, sei in errore, poiché le cose non stanno come affermi. Non hai pensato pure che potresti aver sbagliato a giudicarmi ed essere tu in grave pericolo?»

«Non cercare di nascondere la verità, Iveonte, anche perché non me la dai a bere. Oramai ho compreso benissimo che il tuo agitarti nello spazio ti fa sembrare un pesciolino fuor d'acqua. Ma se insisti a negarlo, ti propongo il modo di dimostrarmi il contrario.»

«Se mi dici come posso liberarti dai tuoi falsi pregiudizi circa la mia abilità di muovermi nello spazio, Rutos, ti assicuro che appagherò ogni tuo desiderio rivolto a tale scopo.»

«Se sei d'accordo, Iveonte, avrei pensato ad una corsa nell'area spaziale di Potenzior. Io partirò per primo e tu dovrai inseguirmi alcuni attimi dopo. Sei riuscirai a raggiungermi e a toccarmi, prima che il giorno ceda il posto alla notte, avrai vinto tu; nel caso contrario, sarò io il vincitore. Ma ti avverto che, insieme con la vittoria, avrò anche il diritto di ucciderti per porre fine al nostro scontro. Dunque, non credi di farti un favore con questa mia nuova gara?»

«Lo considero un meraviglioso favore, Rutos! Così avrò anch'io la possibilità di ammazzarti, dopo che ti avrò raggiunto, poiché sarà anche un mio diritto trafiggerti con la mia spada.»

«Certo che avrai anche tu il diritto di uccidermi, Iveonte, se sarai capace di raggiungermi. Ma ora bando alle chiacchiere e diamoci alla nostra corsa nello spazio, la quale dovrà designare il meritato vincitore. Perciò, non appena sarò partito, farai passare un minuto esatto, prima di darti al mio inseguimento. Mi fido della tua lealtà!»

Pronunciate le sue ultime parole, Rutos si lanciò nello spazio circostante, effettuando un moto serpentiforme, come per disorientare e confondere l'avversario, che a momenti si sarebbe messo ad inseguirlo. Ma poi incominciò ad eseguire varie evoluzioni, imprimendo ad esse una incredibile velocità, con la quale egli era sicuro di disperdere il suo spaurito inseguitore, il quale, a suo giudizio, a malapena avrebbe effettuato dei ridicoli voli nell'immenso spazio. Invece, quando meno se lo aspettava, Rutos avvertì alla schiena un dolore lancinante, il quale era dovuto alla lama della spada di Iveonte, che gliela trapassava. Poco dopo, alla fitta dolorosa si aggiunse in lui l'annebbiamento della vista e la perdita della coscienza, le quali cose ne indicarono la sopravvenuta morte e lo spegnimento dello spirito. Allora il corpo esanime del guardiano iniziò a precipitare giù dabbasso; però, prima che esso raggiungesse il suolo, Iveonte lo afferrò e, reggendolo sulle sue braccia, gli permise un atterraggio morbido, evitandogli di sfracellarsi sopra il terreno sottostante.

L'eroe terrestre, non appena ebbe adagiato sul prato il corpo di Rutos, costui guarì all'istante della sua ferita mortale e si ritrovò di nuovo vivo. Ma la sua mente non rammentava niente di quanto era successo nello spazio. Allora Iveonte comprese che era arrivato il tempo di salutarsi con il quinto guardiano e di abbandonare quel luogo. Dentro il suo animo, adesso si gustava la conquista dell'intero Potere Cosmico, siccome ciò era realmente avvenuto in sé; però anche non vedeva l'ora di trovarsi davanti a Tupok per farsi spiegare come doveva comportarsi per farsi ubbidire da tale potere prodigioso. Una volta che l'eroico giovane fu presso il Signore del Potere Cosmico, costui, abbracciandoselo, si diede ad elogiarlo. Terminati gli elogi, però, gli parlò in questo modo:

«Avendo trionfato anche sul guardiano Rutos, che hai affrontato per ultimo, Iveonte, adesso hai bisogno che io ti erudisca sul Potere Cosmico, perché tu impari ad usarlo senza avere alcun problema. Solamente così in Kosmos otterrai da esso tutto ciò che riterrai giusto e nobile. Ma prima ho bisogno di parlarti di Potenzior e del suo potere, mettendoti al corrente di come essi ebbero ad esistere.»

Fu così che Tupok si diede a raccontare i fatti riguardanti la nascita di Potenzior e a spiegargli come il Potere Cosmico che vi si era costituito nello stesso tempo. In verità, noi non li apprenderemo direttamente dalla sua bocca; al contrario, ci rifaremo ad essi per diverse vie, ma senza discostarci dalla loro realtà, siccome il lettore intende venirne a conoscenza, esattamente come essi si erano svolti.



CAPITOLO 470



LE ORIGINI DI POTENZIOR E DEL POTERE COSMICO



Nello stesso tempo che c'era stata l'origine di Kosmos, era avvenuta anche la nascita di Potenzior, come una sua immensa estroflessione verso l'esterno avente un proprio contenuto spaziale e temporale. Ma esso era venuto fuori dalla creazione voluta dalle divinità, senza che l'onnipotente Splendor ne fosse al corrente. Anche Tupok si era ritrovato ad esistere al suo interno a sua insaputa, ignaro del perché della propria presenza in quel luogo e dei poteri che aveva a sua disposizione. Egli ignorava perfino se lui e Potenzior avessero avuto una nascita simultanea, poiché una tale consapevolezza non gli era stata data da nessuno degli esseri esistenti in quel luogo, ammesso che ce ne fossero stati. Nel frattempo, colui che presto sarebbe divenuto il signore della nuova realtà extracosmica, desiderando apprendere qualcosa sul luogo che gli permetteva l'esistenza e anche su sé stesso, se ne andava in giro alla scoperta di entrambe le cose. Ma poi si era accorto che in quel posto gli era pure consentito di volare, oltre che procedere a piedi per quella estesa prateria. La quale non faceva scorgere intorno a sé, sia nelle vicinanze che nelle parti lontane, qualche catena montuosa o qualche torrente diretto verso il mare. In verità, non interessandogli la propria idoneità al volo, egli preferiva camminare a piedi sopra la soffice erba, intanto che non si rendeva conto del suo sé interiore e di quanto lo circondava in senso fisico e temporale.

Durante il suo peregrinare senza fine, ad un certo punto, Tupok aveva avvistato un cavallo alato che gli andava incontro, il quale appariva candido come la neve. Esso, una volta presso di lui, si era dato a fargli comprendere che avrebbe dovuto montarlo e lasciarsi portare via, senza opporgli resistenza. L'animale aveva il compito di condurlo in un posto dove lo attendeva qualcosa di straordinario a lui favorevole. Allora egli, nutrendo nella bestia la massima fiducia, le aveva ubbidito senza alcuna esitazione. Così poco dopo, sempre restando in silenzio, aveva intrapreso il volo sulla sua groppa, convinto che presto avrebbe appreso quanto cercava di conoscere. Naturalmente, si era trattato dello stesso cavallo alato che in seguito si sarebbe messo a servizio di Iveonte, nei suoi tragitti che lo avrebbero condotto presso i cinque Guardiani del Potere Cosmico e lo avrebbero anche riportato dopo da Tupok. Il suo nome, come siamo venuti già a conoscenza, era Russet.

La bestia equina fornita di ali, dopo una corsa estremamente veloce, si era arrestata nei pressi di un luogo, che si presentava diverso dal resto della sterminata prateria. Esso era costituito da un suolo circolare, il cui raggio non superava i trenta metri. Inoltre, sulla sua linea estrema, che corrispondeva alla sua circonferenza, veniva fuori dal terreno una specie di bruma multicolore, la quale, levandosi verso l'alto, non superava i due metri. Stando sulla groppa del cavallo, Tupok riusciva a protendere il suo sguardo anche oltre quella barriera fumogena composta da vari colori. Perciò aveva potuto scorgere al di là di essa altri fenomeni di varia natura, i quali erano rappresentati da volute di masse vaporose e policromatiche in continuo movimento a zigzag. Sembrava che esse stessero eseguendo delle danze espresse da movenze ritmicamente aggraziate. Le quali si mostravano benaccette agli occhi, che le gradivano in modo particolare, siccome ne ricevevano un piacevole sollievo! Ma ciò che colpiva di più era la sua parte centrale, la quale era compresa in un'area circolare avente un diametro di cinque metri, dal cui suolo proveniva qualcosa simile ad una fiamma enorme. Essa aveva origine da pure energie policrome, che svettavano in direzione del cielo con propaggini laterali di dimensioni disuguali. Queste non smettevano di presentarsi come dei filamenti vibratili, che apparivano a volte aurei altre volte argentei, frammezzo ad una miriade di elementi puntiformi e variopinti, che vi volteggiavano intorno come pulviscolo sospinto dal vento.

Intanto che Tupok non riusciva a decidersi in qualche modo, ad un tratto gli era pervenuta una voce, la cui provenienza non gli era ben chiara, la quale si era data a parlargli in questo modo:

«Che fai lì impalato, Tupok? Avendoti chiamato con il tuo nome, ora sai esso qual è. Ma è tempo di avvicinarti alla fiamma eterea, che scorgi davanti a te. Essa non ti brucerà, siccome non dà origine a nessuna combustione. Comunque, al suo interno vi sono dissolti il tempo e lo spazio in un abbraccio senza fine, dando luogo a particolari energie. Esse non sono in grado di crearne altre oppure di produrre qualcosa di concreto. Se però non hanno tale potere, possono riportare ad una loro precedente esistenza quelle che prima in Kosmos sono state distrutte, mentre attivavano qualsiasi materia inerte nelle sue diverse forme e strutture.»

«Ma tu chi sei, essere che ti rivolgi a me senza farti vedere? E perché mi parli, come stai facendo, e anche mi inviti a fare cose, che non so nemmeno se mi risulteranno giovevoli oppure nocive?»

«Io sono colui che tra poco non esisterà più, precisamente dopo che ti sarai unito alla fiamma in un abbraccio intimo. Quindi, puoi considerarmi il vivente nato e vissuto per brevissimo tempo, solo perché ti comunicassi le cose che ti sto dicendo. Volendo definirmi meglio, sono la Goccia Temporale portatrice del suo unico messaggio a te rivolto. Adesso ti saluto, Tupok, poiché sto svanendo alla tua realtà; ma non esitare a darmi ascolto, siccome tra poco diverrai padrone del Potere Cosmico!»

Dopo quelle sue ultime parole, con le quali aveva anche esortato il suo interlocutore a dargli retta, l'argentina voce dell'essere senza volto era sparita e non si era fatta più udire. Allora Tupok aveva cominciato ad avanzare verso la gigantesca fiamma, dalla quale si sprigionavano numerosi guizzi policromatici, alcuni verso l'alto ed altri lateralmente. Quando infine si era avvicinato ad essa, per niente titubante vi aveva allungato dentro gli arti superiori, volendo saggiare la consistenza di quella fiamma e rendersi conto delle sensazioni che gli sarebbero provenute da essa. Ma non avendovi avvertito nulla che potesse allarmarlo, si era tuffato nella sua massa energetica con il proprio pieno consenso e con la massima fiducia. Una volta all'interno di essa, il disorientato Tupok all'improvviso si era sentito trascinare in una girandola di infiniti rivoli energetici, il cui unico scopo era quello di condurlo in un determinato luogo, dove assai presto sarebbe accaduto qualcosa di strabiliante, che veniva ignorato perfino da chi vi veniva trasportato passivamente. Infatti, colui che vi era attratto con il proprio tacito consenso era all'oscuro di quanto di lì a poco sarebbe successo; comunque, non si poteva affermare che non se ne dava per inteso. Al contrario, egli stava vivendo quel momento con ben altra ansia, la quale gli rendeva lo spirito particolarmente interessato a quel fenomeno. Infatti, esso gli stava provocando un forte trambusto nella psiche, fino a fargliela avvertire in una fase di grande disorientamento.

Procedendo il suo celere incamminamento verso l'ignoto, intanto che viveva il suo nuovo stato d'animo, ad un certo momento, Tupok aveva cercato di venir fuori da ciò che gli stava succedendo, almeno a livello di coscienza. Egli era intenzionato a rendersi conto di quella sua corsa verso la sconosciuta meta, senza riuscire a rendersi conto del motivo impellente che ve lo spingeva. Per questo le più strane congetture avevano iniziato a frullargli nella mente, pur di darsi le risposte alle sue seguenti domande: qual era il punto di arrivo del suo viaggio e perché vi si stava conducendo, anche se non era partita da lui l'idea di raggiungerlo? Ad ogni modo, egli intendeva avere le due risposte, prima che venisse a trovarsi nella loro certezza, per essersi entrambe manifestate a lui nella maniera più evidente e plausibile. Invece poco dopo, avvertendo in sé una specie di sobbalzo, aveva notato che ogni suo moto in quella massa nebulosa si era arrestato, la qual cosa, oltre a sorprenderlo, lo forzava a rivolgersi altre domande. Adesso che era giunto in quel luogo, che non si lasciava scorgersi in modo limpido e lo costringeva ad una visione confusa, Tupok si andava chiedendo esso cosa fosse e per quale motivo egli vi era stato condotto. Anche se vi era giunto, in virtù di una forza che lo aveva obbligato a muoversi come era avvenuto. Ma poi era stata una nuova voce, questa volta stentorea, a dargli le giuste risposte. Essa aveva iniziato a riferirgli:

«Tupok, ti trovi qui per una validissima ragione, della quale adesso ti metto a conoscenza. Prima, però, ti faccio presente che sei in Potenzior, che è il mio regno, mentre io sono il Potere Cosmico e non rappresento alcun essere. In verità, sono la madre di tutte le energie, per cui sono in grado di rigenerarle, se per caso dovessero essere distrutte in Kosmos da qualche forza maligna. Naturalmente, insieme con esse, rigenererei le parti materiali da loro azionate e mantenute in vita per il tempo assegnato alle singole entità concrete, fossero esse esseri animali, vegetali e materiali, oltre che i diversi corpi cosmici. Ebbene, tu, che al par mio ti sei ritrovato ad esistere al di fuori della realtà di Kosmos, che è quella di Potenzior, a buon diritto detieni lo scettro che ti rende mio possessore. Perciò, da questo istante, sei diventato mio signore e puoi fare di me tutto quanto ti aggrada. Ma non dimenticare che potrai fare uso della mia energia, solo se essa dovrà intervenire a riparare i danni causati da una forza, che è autentica espressione del male.»

«Ti ringrazio, Potere Cosmico, di avermi fatto diventare tuo signore. Comunque, se lo vuoi sapere, io mi sento tale e quale a come ero prima, senza avvertire la grandiosità della tua presenza in me. È un fatto naturale questa mia sensazione, la quale non si differenzia dalla prima? Eppure, grazie al tuo prodigioso potere, mi sarei dovuto sentire in preda a chissà quale delirio di onnipotenza! Invece mi vedo e mi sento un comune essere mortale, privo perfino della più piccola fetta di te. Allora come spieghi questa mia attuale sensazione, la quale mi appare del tutto generica, senza un pizzico di grandiosità?»

«Lo so anch'io, Tupok, che percepisci le cose intorno a te alla stessa precedente maniera e non avverti il peso della mia presenza, in quanto capace di ottenere in Kosmos ciò che non è possibile a nessun altro essere, fosse egli anche un dio investito della massima potenza! Ma tu non devi farti ingannare da questa tua falsa sensazione, poiché il Potere Cosmico si manifesta in chi lo possiede esattamente come tu lo avverti adesso, sebbene la realtà sia ben altra nel tuo io senziente, cosciente e giudicante. Invece esso, quando diviene deliberante, si manifesta in modo totalmente differente, perché ti investe della sovranità che è insita in te, facendoti effettuare prodigi impossibili a tutti gli altri esseri, compresi quelli divini.»

«Quindi, Potere Cosmico, soltanto quando mi servo di te per ottenere un risultato giusto e mirante al bene, in me viene ad aversi il cambiamento, che in questo momento non avverto. Ma potrei sapere come dovrebbe manifestarsi in me tale potere?»

«Nel tempo stesso che ti darai alla tua azione rigeneratrice, grazie al mio potere, smetterai di sentirti una persona normale, avvertirai dentro di te e intorno a te la mia energia che si disgrega in numerose forze intente ad eseguire i tuoi ordini. I quali potranno essere di rigenerazione, quando una parte dell'universo è stata fatta sparire e tu vorrai farla rinascere; oppure di restaurazione, quando essa ha subito dei danni di qualsiasi tipo e tu desideri restaurarli. Comunque, stiamo parlando di esistenze e di fatti a livello cosmico e non di bazzecole di nessun valore. Diventerai tu stesso una vampata di impeto creativo e di slancio costruttivo; inoltre, ti vedrai lanciarti con essa nel perseguimento degli obiettivi che ti sei prefissato, dimostrandoti una fattiva fiamma che non si arrende e non arretra. Così facendo, porterai a compimento tutto quanto è da compiersi, affinché il male assoluto non prevalga e non alligni là dove gli è stato vietato di esistere dall'onnipotente Splendor.»

«Ma perché io possa comportarmi come hai detto ed essere così in grado di fare ogni cosa che è da compiersi, Potere Cosmico, vuoi riferirmi come dovrò rivolgermi a te? Ossia, il comando, che dovrò darti, come dovrà esserci, da parte mia? Inoltre, lo desideri categorico oppure del tipo di una richiesta di favore? Così, dopo che mi avrai fornito tali informazioni, quando si presenterà una circostanza del genere, saprò regolarmi ed agirò senza incertezze nei tuoi confronti. Tu stesso mi darai ragione e condividerai quelle che saranno le mie apprensioni del momento. Se poi ritieni che esse esulino dal rapporto che dovrà esserci fra noi due, per cui non meritano alcuna considerazione da parte mia, allora puoi anche non rispondermi.»

«In un certo senso, è così, Tupok, dal momento che fra noi due dovrà esserci un rapporto di sudditanza, con te a comandare e con me ad ubbidire. In esso, sarai solo tu l'essere cosciente in grado di dare ordini; mentre io, in quanto privo di una coscienza, non rappresento alcuna essenza pensante e capace di agire per conto proprio. Perciò, quando ti capiterà di farlo, dovrai rivolgerti a me con tutta la tua imperiosità di linguaggio e di foga, siccome in quella circostanza dovrai assumere il tuo ruolo di mio signore. Invece a me toccherà sottopormi al tuo signoreggiamento e fare in modo che ogni tuo ordine si concretizzi in modo radicale e perfetto per farti sentire pago dei risultati conseguiti.»

«In verità, Potere Cosmico, se in generale ho inteso quanto hai voluto trasmettermi, però vorrei che tu me lo facessi capire con termini più semplici ed appropriati. Ma non devi dilungarti nell'argomento che stiamo trattando, come hai fatto fino a questo istante.»

«Ebbene, Tupok, quando vorrai ordinarmi qualcosa per mettere un tipo di ordine intorno a te, in parole povere, dovrai esprimerti così: “Potere Cosmico, esegui il comando che ora ti do.” Dopo tali parole, mi detterai quanto ti preme ottenere da me. Questo è tutto.»

«Adesso ti sei chiarito alla perfezione, Potere Cosmico. Ma avrò mai la possibilità di servirmi di te in Potenzior, dove di sicuro non ci saranno imperfezioni e non serpeggiano forze perverse? Inoltre, sono convinto che non affronterò mai un viaggio in Kosmos.»

«Ciò che hai asserito nella coppia delle tue frasi finali, Tupok, è tutto vero, poiché la tua esistenza si svolgerà sempre in Potenzior. Per cui, non andando mai in Kosmos, non avrai la possibilità di fare uso del mio potere per i due motivi che ti ho citato alcuni istanti fa. Nel caso poi che tu fossi obbligato ad andarci per qualche tua ragione, automaticamente daresti modo alle due eccelse divinità di Luxan di apprendere ogni cosa di te e del tuo regno, che da poco è diventato Potenzior, perfino ogni tua decisione presa nei miei confronti.»

«Posso sapere qualcosa su Luxan, Potere Cosmico, se non ti dispiace? E chi sarebbero le due entità divine, alle quali ti sei riferito? Ma se ho inteso bene, esse dovrebbero essere delle divinità eminenti, se hai voluto premettere loro un aggettivo fuori del comune.»

«La tua impressione non ti ha tradito, Tupok. Ad ogni modo, comincio a relazionarti su Luxan, il quale è il luogo dove conducono la loro esistenza le divinità positive, comunemente dette benefiche. In verità, colui che ha dato origine a tali divinità, il cui nome è Splendor, dimora in Beatitudo, un luogo che è compreso nella medesima realtà luxaniana. Egli è stato anche il creatore di Kosmos e, parallelamente ad esso e senza volerlo, di Potenzior. Quanto alle divinità Kron e Locus, esse rappresentano la coppia di dèi più potenti di Luxan, dopo l'onnisciente Splendor, il quale li ha messi a dominare su Kosmos, pur non potendo essi trasferirsi in esso. A Locus ha concesso il dominio dell'espansione cosmica, facendolo divenire dio dello spazio; invece a Kron ha concesso il dominio dell'evoluzione temporale, facendolo diventare dio del tempo. Perciò entrambi devono essere considerati le divinità più potenti anche di Kosmos, ovviamente comprese quelle negative o malefiche, le quali hanno come loro capo supremo il dio Buziur, che si è autoproclamato Imperatore delle Tenebre. A lui e alla sua consorte Clostia, però, per volontà di Splendor, è severamente vietato pervenire in Kosmos, per cui di continuo Locus e Kron sono attenti perché mai ci sia il loro ingresso nello scorrere dei millenni. Con questo, penso di aver risposto alle tue domande circa il Regno della Luce e le sue due divinità più rappresentative. Ma se hai da chiedermi altro, sono ancora disposto a risponderti.»

«Potere Cosmico, potrebbe una divinità impadronirsi di te, se mi trasferissi nel Regno della Materia e del Tempo? Per favore, gradirei apprendere anche questo particolare.»

«A nessuna divinità, Tupok, è permesso divenire mio signore, come lo sei tu in questo momento. Al contrario, un Materiade potrebbe diventarlo; ma solo se tu glielo consentissi per una giusta causa, la quale non potrebbe essere che quella della vittoria del bene sul male. Ma egli dovrebbe prima essere in grado di accedere a Potenzior.»

«A proposito di tale accesso, Potere Cosmico, posso essere messo a conoscenza del modo di avere libero ingresso al mio regno, da parte di un Materiade di Kosmos?»

«Innanzitutto, egli dovrebbe raggiungere l'asteroide Tibos, dove si trova l'Antro dell'accesso a Potenzior, il quale è all'interno del sistema stellare di Nuber e può considerarsi il vestibolo del mio regno. Il Materiade vi dovrebbe prima accedere e, una volta al suo interno, dovrebbe gridare: “Potere Cosmico, fammi entrare in Potenzior, siccome il mio desiderio è conforme al bene.” A quel punto, ci sarebbe il suo trasferimento nel luogo da lui ambito. Ho dimenticato di dirti, però, che nessun essere dotato di una ragione e di uno spirito potrà mai spostarsi dal proprio pianeta o satellite e raggiungere l'asteroide Tibos. Per il quale motivo, dovrà considerarsi una vera utopia un viaggio del genere da parte sua. A meno che uno dei divini gemelli eccelsi, venendo in suo aiuto, non ce lo fa trovare con i suoi poteri!»

«Allora, Potere Cosmico, in previsione che ciò possa accadere in futuro, al momento giusto mi mobiliterò perché la sua missione sia resa il più ardua possibile a chi vorrà provarci. Ossia, prima che egli giunga in Potenzior, mi trasferirò in Kosmos e cercherò sulla superficie dei suoi infiniti pianeti quelli che sono stati per i loro popoli i cinque più grandi eroi dell'intero universo. Così, anche se sono morti da molto tempo, li resusciterò e li condurrò con me nel mio regno, dove ti suddividerò in cinque parti e ne assegnerò ciascuna ad ognuno di loro. Ciò dovrà avvenire, solo dopo avermi fatto promettere da loro che mai a nessuno la cederanno. Io darò anche un nome alla cinquina di eroi, il quale sarà: “Guardiani del Potere Cosmico”.»

In seguito erano trascorsi parecchi millenni, prima che il Signore di Potenzior si mettesse alla ricerca dei cinque guardiani del prodigioso potere che si era ritrovato a gestire. In ordine di tempo, essi erano stati, come già da noi appreso, i seguenti:

1) Arkust, l'eroe appartenente al popolo feciano, il quale proveniva dal pianeta Oluoz, che orbitava intorno alla stella Teluas ed era situato nella galassia di Serven;

2) Furiek, l'eroe appartenente al popolo picesino, il quale proveniva dal pianeta Pearun, che orbitava intorno alla stella Nuber ed era situato nella galassia di Abrep;

3) Serpul, l'eroe appartenente al popolo nucestino, il quale proveniva dal pianeta Koser, che orbitava intorno alla stella Murel ed era situato nella galassia di Geltes;

4) Pessun, l'eroe appartenente al popolo urnutino, il quale proveniva dal pianeta Istop, che orbitava intorno alla stella Sandrel ed era situato nella galassia di Anerd;

5) Rutos, l'eroe appartenente al popolo revosino, il quale proveniva dal pianeta Tertun, che orbitava intorno alla stella Fares ed era situato nella galassia di Varuz.

Dopo averli trasferiti in Potenzior, Tupok aveva istruito i cinque Guardiani del Potere Cosmico nei loro futuri doveri, primo dei quali era quello che li obbligava a non lasciarsi mai privare della loro fetta di potere da lui ricevuta da nessun Materiade che lo avesse preteso.



Una volta che Iveonte ebbe appreso quanto in passato aveva interessato l'esistenza di Tupok, dalla sua origine fino al tempo attuale, giunse il momento che quest'ultimo lo mettesse al corrente di come si sarebbe dovuto comportare nei confronti del Potere Cosmico. Il quale adesso si trovava interamente sotto la sua sovranità. Perciò il Signore di Potenzior, non venendo meno anche a tale suo nuovo compito, si diede a fare presente all'eroe terrestre:

«Iveonte, lo so che, come successe a me, non avverti nel tuo intimo per niente la presenza del Potere Cosmico. Comunque, un fatto del genere è anche un bene per te, essendo tu un essere mortale, come tutti i Materiadi. Ti stai chiedendo se lo sono anch'io, dal momento che prima non c'è stata l'occasione di parlare della mia natura. Ebbene, in un certo senso, non essendo uno spirito, come te ne sei già accorto, di divinità in me non c'è neppure l'ombra. In effetti, sono un Materiade fino ad un certo punto, ma con alcune differenze. In primo luogo, io sono immortale e lo sono stato fin dalla nascita, che ignoro come si sia avuta in Potenzior. A mio avviso, l'immortalità c'è stata dentro di me nello stesso istante che il Potere Cosmico ha preso posto nel mio corpo, elargendogli un dono così eccezionale. In virtù del quale, la mia vita non dipende da alcuna esigenza, sentendo in me appagato ogni mio desiderio.»

«Allora, Tupok, ora che il Potere Cosmico risiede nel mio corpo, pure io sono diventato immortale ed è venuto meno in me ogni tipo di esigenza. Se è sbagliata la mia interpretazione dei fatti, vorresti spiegarmi il motivo del mio errore? Attendo la tua risposta con molta attenzione, poiché essa dovrà chiarirmi se sono dotato di immortalità oppure no.»

«In verità, eroico Terrestre, il tuo ragionamento presenta un patente errore. Ad esso ti ha condotto il fatto che all'inizio non ti ho specificato qualcosa, che ti avrebbe dato delle dilucidazioni sull'argomento, evitandoti di incorrere nell'interpretazione erronea in questione. Quindi, mi appresto a dartele adesso, chiarendoti tre punti fondamentali. 1) Soltanto chi nasce in Potenzior ha una esistenza immortale; per questo sono l'unico Materiade ad avere l'immortalità. 2) Un Materiade, il quale si trova a vivere in Potenzior, non può morire; per cui, se viene ucciso da un altro Materiade, subito dopo egli ritorna a vivere, come se per lui non ci fosse stata alcuna uccisione. Tu hai avuto modo di prenderne atto, quando hai combattuto contro i cinque Guardiani del Potere Cosmico e li hai uccisi; ma essi, alcuni attimi dopo, sono ritornati ad essere quelli di prima. 3) Esclusivamente in me può esserci l'assoluto dominio del Potere Cosmico. Quando invece per mia volontà si insedia in un altro Materiade, esso non è l'originale, ma una copia di quello in mio possesso. Anche se poi, una volta che c'è stato il suo sdoppiamento, esso si manifesta con tutti i crismi della sua straordinaria potenza. Per questo ciò dovrebbe tranquillizzarti, poiché il Potere Cosmico che è in te ti permetterà di adempiere il tuo dovere verso tutti i Materiadi di Kosmos.»

«Mi avevi fatto preoccupare, Tupok, quando hai voluto precisarmi che in me c'era soltanto la copia del vero Potere Cosmico. Per fortuna adesso mi hai rassicurato, affermando che esso, nella sua attivazione, ha una resa identica a quella che può dare l'originale. Invece ora, dal momento che lo hai perduto di vista, voglio ricordarti che non mi hai ancora riferito come dovrò rivolgermi ad esso per ottenere ciò che mi abbisognerà in Kosmos. Sono sicuro che mi toccherà far risorgere o rimettervi a posto quanto è stato già distrutto a livello galattico, stellare e planetario dalla Forza del Male, la quale adesso è rappresentata dal dio Buziur.»

«Hai ragione, Iveonte, e chiedo venia per la mia distrazione, che mi ha fatto digredire, comunque non senza una valida ragione. Ebbene, una volta che sarai ritornato in Kosmos e la circostanza ti chiederà di bonificarvi tutto quanto non esiste più oppure versa in uno stato pietoso, innanzitutto dovrai renderti conto di ciò che richiederà un intervento immediato, essendo stato fatto sparire nella inesistenza o condannato alla rovina perpetua. In seguito, senza tanti preamboli e senza alcun atto di richiesta formale, ma con il ciglio imperioso, ordinerai al Potere Cosmico ogni cosa che sarà da farsi nel Regno della Materia e del Tempo, al fine di riportare allo stato originario quelle sue parti che hanno subito danni irreparabili oppure sono state addirittura cancellate dallo spazio in cui erano. A tale proposito, ti metto al corrente che il Potere Cosmico sarà in grado di ricondurre all'esistenza anche il più piccolo particolare e il più piccolo frammento di spazio. Fosse esso anche un microbo, che era stato fatto sparire da un certo posto! Anch'esso ritornerebbe ad esistere nel suo piccolo ambiente e con le medesime funzioni di prima!»

«Se le cose stanno come hai detto poc'anzi, Signore di Potenzior, non mi resta che congedarmi da te al più presto, poiché in Kosmos, come prevedo, sono innumerevoli i mondi e gli esseri viventi che li abitavano ad avere smesso di esistere. Perciò essi hanno bisogno del mio soccorso, affinché ritornino ad essere quelli di un tempo. Salutandoti cordialmente, ti ringrazio per la simpatia che mi hai dimostrata. Ora che ci penso, ho dimenticato il punto esatto che dovrà permettermi di rientrare in Kosmos, precisamente nel vestibolo di Potenzior. In quel luogo mi sta aspettando Iveon, che è il dio dell'eroismo. Per questo vuoi essere così gentile da mettermi sulla strada che conduce ad esso?»

«Invece, Iveonte, dovrai servirti ancora di Russet. Perciò ti basta chiamarlo, montarlo e farti raggiungere il luogo da te desiderato.»

«Riflettendoci bene, Tupok, non era necessario farti una simile richiesta e non c'è bisogno neppure che mi riaccompagni Russet nel vestibolo di Potenzior. Anzi, dovrò anche chiedere scusa al Potere Cosmico, per averlo estromesso dal mio primo stato di bisogno, essendo ricorso a te.»

«Infatti, Iveonte. Ti bastava ordinare ad esso di farti trovare nel vestibolo e così subito avresti raggiunto il tuo divino amico. Perciò puoi farlo adesso, senza che facciamo intervenire il mio bianco cavallo alato.»

Così, una volta trasmesso il suo ordine al Potere Cosmico, in brevissimo tempo Iveonte si ritrovò in presenza dell'eroico dio, il quale fu molto lieto di scorgerlo accanto a sé. Anzi, il divino eroe, si precipitò anche a ridargli la spada, che rappresentava la diva Kronel, e l'anello delle due eccelse divinità, che aveva ricevuto dal dio Osur. Ma Iveonte, a tale suo gesto, dopo aver rifiutato la loro consegna, intervenne a dirgli:

«Da questo momento, divino Iveon, non necessito più né dell'una né dell'altro, essendo diventato possessore di un potere così eccezionale, che in Kosmos supera perfino quello del dio Kron e del dio Locus. Perciò sarai tu a consegnarli al dio del tempo e alla dea della speranza, intanto che io mi darò a far piazza pulita delle divinità malefiche e del loro imperatore, perché nell'universo ritornino ad esserci l'armonia e la serenità di una volta. A questo punto, possiamo anche lasciare questo posto.»

A quel punto, entrambi decisero di abbandonare l'asteroide Tibos per ripartire l'uno in direzione di Luxan, dove avrebbe trovato anche Kronel, e l'altro alla ricerca dell'Imperatore delle Tenebre. Il quale, nel frattempo, venendo spalleggiato da un corteggio di divinità malefiche, si era trasformato nell'invincibile Kosmivora. Anzi, adesso egli stava portando avanti la sua guerra di cattura delle divinità positive; nonché di distruzione e di morte a danno di corpi celesti, nonché dei Materiadi e degli animali che abitavano su alcuni di loro. Noi, però, adesso non seguiremo Iveonte nella sua nuova avventura; invece andremo prima a conoscere i fatti che c'erano stati nell'Edelcadia e nella Berieskania, mentre egli era in Potenzior a portare a termine la sua importante missione.



CAPITOLO 471



NEL FRATTEMPO COS'ERA ACCADUTO NELLA BERIESKANIA?



Avendo ricevuto il comando dell'esercito beriesko dal nipote Leruob, l'anziano Allemb, che era il dodicesimo figlio di Nurdok, il vecchissimo superum della Berieskania, senza perdere tempo si era messo in marcia verso la sua remota regione. Il cammino di ritorno, allo stesso modo di quello dell'andata, aveva costretto i soldati ad andare incontro ad infinite traversie. Ma quando l'esercito si trovava a due terzi del percorso, a Geput stavano accadendo fatti alquanto spiacevoli, che adesso ci diamo a conoscere, per dovere di cronaca.

In precedenza abbiamo appreso che il luogo di venerazione dedicato al dio Mainanun si trovava nella regione della Sandar, a dieci miglia da Geput. Esso era il loro santuario di culto e di preghiere, oltre che meta di pellegrinaggio, da parte delle quattro tribù che appartenevano alla Berieskania. Si trattava di un antro alquanto ampio e capiente, il quale veniva illuminato in continuazione da una ventina di fiaccole fissate sulle scarne pareti. Nella profonda caverna, si trovava l'altare dei sacrifici, sul quale ogni dieci giorni i Berieski immolavano al loro dio protettore una giovenca ed un agnello, allo scopo di propiziarselo e di riceverne infinite grazie. Dietro l'ara, ad un metro di distanza, si scorgeva un cippo di dura roccia alto due metri, che sosteneva un vaso emisferico di terracotta. In esso non smetteva mai di agitarsi una grossa lingua di fuoco, la quale, secondo il popolo beriesko, non poteva essere che la manifestazione concreta dei diversi moti d'animo della loro divinità. Inoltre, esso era convinto che la rossastra e volubile fiamma veniva alimentata direttamente dal dio Mainanun. All'interno del sobrio tempio, non essendoci bisogno di alimentare la divina fiamma, a prendersi cura delle altre cose c'erano undici sacerdotesse. La più anziana di loro era detta Somma Sacerdotessa, alla quale spettava officiare i vari sacrifici. Comunque, ella era coadiuvata dalle altre consorelle, che prendevano posto cinque per ciascun lato dell'altare. Il loro compito era quello di darsi con grazia a dei volteggi stupendi, intanto che indossavano dei veli policromi e trasparenti, che ne facevano trasparire le sottostanti nudità.

Riportati alla memoria del lettore questi scarsi particolari, possiamo andare avanti a raccontare i fatti che erano accaduti nella remota Berieskania, mentre l'esercito beriesko cercava di raggiungerla, dopo aver lasciato l'Edelcadia e adesso si stava avvicinando ad essa. Ebbene, tre giorni prima, allo spuntare dell'alba, la Somma Sacerdotessa Demia, la quale era succeduta ad Elsena in tale importante carica, dopo essersi svegliata, si era condotta nel tempio del divino Mainanun. Quando era giunta nell'antro del dio, ella era rimasta molto sorpresa nel constatare che la sua fiamma non vi restava più accesa. Invece nei giorni precedenti, mostrandosi alcune volte ondeggiante e altre volte convulsa, vi aveva continuato ad esprimere la presenza della divinità. Allora, senza perdere tempo, ne era uscita sconvolta e terrorizzata. Poco dopo, montata a cavallo, la religiosa si era diretta in direzione di Geput, che era distante dieci miglia, essendo sua intenzione mettere al corrente il suo superum dell'inusitato evento. Esso, a suo parere, poteva aver significato che il dio Mainanun si era sdegnato contro il suo popolo prediletto, per essere stato da esso offeso in qualche modo.

Giunta in presenza del più autorevole dei Berieski, la poveretta, intanto che si dava a piangere e a disperarsi, aveva iniziato a riferirgli:

«Insigne Nurdok, questo è un giorno di sventura per l'intera Berieskania, siccome il dio Mainanun ci ha abbandonati di nuovo, dopo esservi ritornato per breve tempo. Sono convinta che il suo abbandono ci preannuncia che le più grandi sventure sono dietro l'angolo per tutti noi Berieski. Il guaio è che, non sapendo noi come placare la sua collera, ci troviamo nella brutta situazione di non poterle eludere!»

«Vuoi mettermi al corrente, Demia, di come sei venuta a conoscenza di ciò che mi hai appena riferito? Dimmi però ogni cosa con calma, altrimenti la mia tarda età mi fa avere difficoltà a seguirti come dovrei.»

«Stamani, nella mia solita visita al tempio, ho scoperto che la fiamma del nostro dio era spenta del tutto, per cui aveva cessato di manifestarci gli stati d'animo che ci provengono da lui. Adesso puoi comprendere anche tu perché sono disperata e preoccupata a non dirsi.»

«Come fai, sacerdotessa Demia, ad essere certa che lo spegnimento della fiamma è stato provocato dal fatto che il nostro dio ci ha lasciati, per essere adirato contro di noi? Al posto tuo, ci penserei un sacco di volte, prima di affermare una cosa simile! Potrebbe anche non avere una base solida tale tua affermazione, siccome tutti possiamo sbagliarci. Secondo me, non puoi asserire con certezza che lo smorzamento della divina fiamma sta ad indicare anche la sparizione del nostro dio dal sacro santuario. Per questo è immotivato il tuo nervosismo fuori luogo!»

«Al contrario di te, capo supremo della Berieskania, io ne sono persuasa al di là di ogni ragionevole dubbio, visto che considero una prova inconfutabile la spenta fiamma, la quale manifestava la presenza del dio in mezzo a noi, pronto ad elargirci ogni tipo di grazia.»

«Hai forse dimenticato, reverenda religiosa, che la tua ex superiora, che era anche una mia parente, affermò la stessa cosa, quando in altra circostanza la medesima fiamma ebbe ancora a smorzarsi? Eppure, il dio Mainanun l'anno successivo fece la sua ricomparsa, contrariamente a ciò che ella aveva temuto. Questo dovrebbe convincerti che anche il tuo cervello sta prendendo lucciole per lanterne, esagerando nella valutazione dell'evento! Perciò bisogna solo attendere il suo nuovo ritorno.»

«Invece, saggio Nurdok, pure allora la consorella Elsena non si sbagliava per niente. Quanto al rientro della nostra divinità nel suo tempio, che ci fu circa dodici mesi dopo, esso avvenne, solo grazie al sacrificio della tua parente. Ella si immolò al dio perché egli non abbandonasse il nostro popolo beriesko e facesse il suo ritorno alla sua dimora terrena.»

«Se vuoi pensarla in questo modo, Demia, sei libera di farlo. Ma non attenderti da me un uguale atteggiamento. Anzi, non mi sento affatto di crearmi dei problemi simili, visto che i miei centoquattro anni già me ne procurano abbastanza. La mia debolezza organica e la mia vista appannata rappresentano per me già di per sé delle molestie intollerabili. Perciò la mia tardissima età mi porta soltanto a pensare che presto la morte mi farà la sua visita e mi avvolgerà nel suo manto nero, privandomi dei miei sensi vitali. Perciò ti conviene lasciarmi in pace, senza che altre preoccupazioni vengano ad assillarmi in questa mia tarda età!»

«Possibile, mio superum, che non ti dai pensiero di ciò che potrebbe capitarci, a causa dell'abbandono da parte del nostro divino protettore, che è il dio dei venti? A confronto delle sventure immani che ci potranno derivarci, la tua morte risulta ben poca cosa. Dovresti saperlo!»

«È pacifico pensare che la mia morte sia vicina. Ma ti assicuro, Demia, che voi tutti che mi sopravvivrete non andrete incontro a nessuna calamità perniciosa, da parte di qualche divinità malefica. Anzi, in quel caso non sarà la nostra divinità a proteggerci da essa. Ne sono certo!»

«Ma che dici mai, illustre Nurdok? Se lo vuoi sapere, considero una bestemmia quanto hai appena dichiarato! Chi, se non il divino Mainanun, potrebbe correre in nostra difesa, qualora ci trovassimo nella sventura di venire attaccati da qualche divinità malefica?»

«Come già lo feci presente alla mia cugina Elsena, colui che ci potrebbe difendere da tale divinità sarebbe soltanto mio nipote Iveonte, il figlio della mia ultimogenita Elinnia. La quale andò in sposa al re Cloronte, il sovrano della più potente città dell'Edelcadia, ossia Dorinda. Per questo, attuale Somma Sacerdotessa, dovresti fare a meno di preoccuparti, nel caso che qualche divinità malefica, più potente anche del nostro dio Mainanun, tentasse di arrecarci del male.»

«Perché dovrei crederti, eccellente Nurdok, se questo tuo nipote, di nome Iveonte è un essere mortale? Da quando in qua, un uomo dovrebbe dimostrarsi più in gamba di una divinità, specialmente poi se ci riferiamo al nostro divino Mainanun, che è un dio molto potente?»

«Ragioni così, religiosa Demia, poiché non ti ho riferito che mio nipote gode della simpatia e della protezione delle due divinità benefiche più potenti dell'universo, che gli permettono di fare anche dei prodigi. Lo mettono in grado perfino di affrontare le divinità malefiche e di sconfiggerle. Adesso ti sei convinta anche tu che io non ti sto mica raccontando cose campate in aria? Quindi, ti conviene avere la massima fiducia in me. In questo modo, farai sparire in te ogni timore e ti riapproprierai della tua calma smarrita. Allora mi dai retta, per favore?»

«Prima di esprimermi in tal senso, insuperabile Nurdok, voglio sapere da te se la tua illustre parente credette alle tue parole, quando le rendesti note le stesse cose che hai detto a me. Comunque, da come ella si comportò dopo, sono propensa a credere che ella allora non ti diede affatto ascolto. Me lo puoi confermare tu stesso.»

«Infatti, rispettabile religiosa, non ti sei sbagliata a pensarla così. Elsena ritenne sacrileghe le mie affermazioni, per cui la fecero scappare via disorientata, ma con il fermo proposito di attuare quanto si era messa in testa in quello stesso giorno. Dopo ebbi una gran pena per la sventurata, la quale si era sacrificata al suo dio senza batter ciglio.»

«Allora, stimatissimo Nurdok, perché vorresti che io non seguissi l'esempio della mia prestigiosa consorella di un tempo? Anzi, sarò ancora più rigorosa di lei, se ci tieni a saperlo, in modo che la nostra somma divinità apprezzi al massimo il mio gesto e si decida a tornare fra noi!»

«Non comprendo il senso delle tue parole, reverenda religiosa. Per favore, vorresti spiegarmi meglio ciò che intendi fare nella situazione che oggi ci si presenta? Se la mia interpretazione delle tue parole è esatta, saresti capace di essere più folle della mia defunta parente. Non è vero che hai posto mente a qualcosa di terribilmente irreparabile?»

«Invece non ti rendo noto, eroico Nurdok, ciò che ho stabilito di realizzare oggi stesso; ma stanne certo che ne verrai a conoscenza molto presto. Ti faccio solenne promessa!»

«Se vuoi pensarla così, devota religiosa, rispetto la tua decisione. Ma spero che le tue parole non nascondano qualcosa di tragico, poiché non avrebbe senso. A questo punto, però, dobbiamo lasciarci, siccome la stanchezza ha cominciato a tiranneggiarmi nuovamente.»

Dopo tale intervento di Nurdok, il quale con esso l'aveva anche congedata, la Somma Sacerdotessa non aveva osato dire altro. Perciò aveva lasciato la dimora del superum e si era diretta al sacro tempio. Giunto nelle sue vicinanze, ella aveva radunato le dieci sacerdotesse sue coadiuvanti e si era data ad esprimersi a tutte loro con le seguenti parole:

«Mie carissime consorelle, mie subalterne, sto ritornando dal nostro egregio superum, al quale ho fatto presente che si è spenta in modo inatteso la fiamma che veniva alimentata dalla presenza nel tempio del nostro divino Mainanun. Gli ho anche chiarito che ciò può essere dipeso unicamente dall'abbandono della nostra divinità della sua sacra dimora, lasciandoci privi della sua protezione. Ma egli è stato di tutt'altro parere, circa lo spegnimento del sacro fuoco e non ha voluto affatto credere che qualcosa di terribile stia per colpire il nostro popolo, magari proveniente da una divinità malefica con poteri superiori ai suoi. Inoltre, quasi con atteggiamento blasfemo, mi ha assicurato che, nel caso dovesse accadere un fatto del genere, ci penserebbe suo nipote Iveonte a difenderci da essa, essendo egli in grado di farlo più del nostro eccelso dio del vento. Ma noi non saremo mai d'accordo con le sue empie affermazioni e ci comporteremo di conseguenza. Non siete forse d'accordo con me?»

«Non pensi, nostra reverendissima superiora,» le aveva obiettato la consorella Ganel «che sia il nostro capo supremo ad essere nel giusto e tu nel torto? Inoltre, hai omesso di esplicitarci il senso della tua ultima frase, secondo la quale dovremmo agire come reazione alla sua posizione presa, in merito alla sparizione della divina fiamma.»

«Possibile, consorella Ganel, che osi parteggiare per il superum, anziché uniformarti al mio pensiero, che è il solo ad essere nel giusto, poiché è a favore della nostra somma divinità? Sbagli a non perorare la mia fervente fede nel nostro divino Mainanun. Perciò ti invito a fare ammenda della tua colpa, perché egli ti perdoni e ti faccia seguire la retta via.»

«In verità, Somma Sacerdotessa, non oserei mai mettere in dubbio il tuo pensiero, che propende per la sparizione del nostro dio dal suo sacro antro. Volevo solo porti davanti all'ipotesi che il nostro superum potesse avere ragione; ma solo in riferimento alla sua incredulità manifestata, dopo la tua asserzione secondo la quale la nostra divinità ci aveva abbandonati. Fatto quindi tale chiarimento, ritorno a chiederti come vorresti risolvere il nostro problema attinente all'abbandono da parte del dio Mainanun. Sono certa che pure le altre consorelle vorrebbero saperlo, dal momento che lo leggo chiaramente sui loro volti.»

«Sorvolando sul primo tasto della questione, il quale è quello che mi ha messo in contrasto con il nostro illustre superum, mia cara consorella Ganel, che sei anche la mia vicaria, adesso passo immediatamente a spiegare a te e alle altre consorelle cosa intendo farvi attuare, allo scopo di indurre la nostra divinità a ripensarci e a fare ritorno tra i Berieski. Andando sulla falsariga della nostra ex Somma Sacerdotessa, dovremo ricorrere pure noi all'immolazione. Questa volta, però, dovrà esserci il sacrificio al nostro dio del vento non solo mio, ma dell'intera nostra comunità religiosa, ossia dovranno esserci undici immolazioni in piena regola. Esse dovranno servire a farlo impietosire e a spingerlo a cambiare idea nei nostri confronti.»

«Non credi, nostra superiora Demia, che debba essere il nostro concistoro ad esprimersi su una decisione di tale rilevanza, anche perché è in gioco il sacrificio di tutte noi? A mio avviso, nonostante tu sia la Somma Sacerdotessa, non puoi decidere da sola su una questione, la quale ha come obiettivo il nostro suicidio in massa.»

«Forse hai ragione, Ganel, considerato che mi sono spinta fin dove non dovevo, facendo a meno del vostro parere. Vorrà dire che lo faccio adesso, mettendo ai voti la mia iniziativa, che mira al rientro nel suo tempio della nostra eminente divinità. Perciò invito ad alzare la mano quelle consorelle che sono convordi con la mia decisione.»

Non c'era stata neppure una religiosa subalterna che aveva osato non alzare la mano. Probabilmente, a fare agire così ciascuna di loro, era stata la sua fede oppure il timore di mettersi contro la propria superiora. Perciò quanto stabilito dalla Somma Sacerdotessa era stato approvato a unanimità. Subito dopo, ad ogni modo, la sua vicaria era ancora intervenuta a farle la seguente domanda:

«Adesso che la tua lodevole iniziativa è stata avallata pure dal nostro consenso, reverenda Demia, vorremmo conoscere come dovrà avvenire il nostro sacrificio. Ci sarà un unico rogo per tutte noi oppure ciascuna avrà il proprio su cui immolarsi, pienamente convinta, al dio Mainanun?»

«Invece, Ganel, ci sarà una unica pira collettiva, poiché in tal modo attireremo maggiormente l'attenzione della nostra divinità e la indurremo ad impietosirsi e a rientrare nel suo tempio, dove ogni giorno lo abbiamo sempre servito, inneggiando alla sua gloria. Quindi, diamoci da fare a procurarci il materiale che ci occorrerà per formare la grande catasta di legna, come tronchi, fascine e paglia. Dopo ci sistemeremo sopra di essa, prima di incendiarla e di farci bruciare dalle volubili fiamme. È necessario che ogni cosa si trovi preparata, quando l'imbrunire sarà al suo inizio e le tenebre saranno prossime ad arrivare. In quell'ora del giorno, le vampe dell'incendio si innalzeranno enormi verso il cielo e verranno scorte dal dio Mainanun. Così lo metteremo al corrente della nostra devota immolazione e gli faremo fare ritorno nel suo tempio.»

Quando il rogo era stato approntato, secondo le indicazioni della Somma Sacerdotessa, la quale lo aveva voluto di forma quadrata e con i lati lunghi sette metri, il morente giorno si avviava ormai alla sua fine. Allora la superiora Demia, appoggiata ad uno dei fianchi della massa di legna una scala con pochi pioli, aveva invitato le consorelle sue subalterne a salire sopra la grande pira e a trovarvi posto in posizione prona. Ella, reggendo parecchi legacci di pelle, le aveva seguite poco dopo e si era data a fare loro il seguente discorso: “Mie care consorelle, la paura del fuoco e le scottature iniziali potrebbero spingervi a saltare giù dal rogo e a sfuggire alle lingue di fuoco, arrecando una imperdonabile offesa alla nostra divinità. Perciò, ad evitare che ciò avvenga, vi legherò i polsi e le caviglie; così non vi permetterò di cedere a tali tentazioni. Solamente dopo, scenderò dalla pira, appiccherò il fuoco tutt'intorno ad essa e vi salirò di nuovo, perché affronti insieme a voi il supremo sacrificio. Ora consentitemi di portare a termine quest'ultimo lavoro, il quale vi sarà molto utile per affrontare a fronte alta la vostra immolazione.”

Le dieci religiose sue subalterne avevano acconsentito che la loro superiora legasse ad ognuna di loro mani e piedi, magari serbando nel loro animo amareggiato una occulta protesta. Allora ella, dopo avere eseguito il lavoro di legatura, si era affrettata a ridiscendere dal rogo e a dare alle fiamme la sua intera parte laterale. Di lì a poco, prima che le fiamme potessero vietarglielo, non aveva perso tempo a salirvi di nuovo sopra e ad unirsi alle altre consorelle, perché affrontassero insieme il progettato sacrificio con la massima devozione. Negli istanti stessi che il fuoco divampava furioso e minacciava di invadere a momenti la totale massa lignea, le undici sacerdotesse si erano messe ad invocare il loro dio, che era il protettore della Berieskania, con queste sentite parole: “Dio Mainanun, accogli la supplica delle tue fedeli religiose, le quali si stanno immolando, esclusivamente perché tu ci ripensi e ritorni ad abitare nel tuo tempio. Allora vi farai brillare la tua fiamma sfavillante più luminosa di questo falò, che è prossimo a bruciarci vive. Noi ci immoliamo in tuo onore, con la speranza che la nostra immolazione ti spinga a redimere l'intero nostro popolo e ad onorarlo con la tua presenza.”

Quando infine l'invocazione era terminata, il fumo aveva invaso ogni angolo dell'immensa catasta di legna. Ma le fiamme non lo avevano lasciato andare da solo sulla sua parte superiore perché lo avevano seguito a breve distanza di tempo. A quel punto, le religiose poverette avevano smesso i loro continui accessi di tosse ed avevano iniziato ad emettere urla di dolore terebrante, fino a quando non era sopravvenuta la morte.

La mattina seguente erano giunti nei pressi del tempio di Mainanun i due figli più anziani di Nurdok con un piccolo drappello. Essi, che erano il primogenito Feron e il secondogenito Sultek, vi erano stati inviati dal padre, avendo presentito qualcosa di tragico dalle parole della nuova Somma Sacerdotessa. Ad ogni modo, la sua preoccupazione era stata soltanto nei confronti di colei che aveva sostituito la defunta parente Elsena, ma non anche verso le restanti religiose. Ebbene, una volta in prossimità del sacro antro, all'istante quanti vi erano pervenuti si erano resi conto dell'immane tragedia, che si era consumata in quel luogo. A quel macabro spettacolo, che si era presentato ai loro occhi terribile ed agghiacciante, in un primo momento essi si erano sentiti mancare il respiro; ma poi avevano badato a recuperare i loro resti mortali e a portarseli a Geput. Nel loro borgo, c'era stato così in onore delle undici derelitte una solenne cerimonia funebre e si era permesso alle loro spoglie ridotte in ceneri di intraprendere il loro ultimo viaggio verso il regno dello spirito. Ma perché esso avvenisse, era stato necessario chiuderle in una cassa di legno incatramata ed abbandonarle alla corrente del Sundro, che era il loro fiume sacro che sfociava in mare aperto.

Il suicidio collettivo delle sacerdotesse del dio Mainanun, sebbene egli non lo avesse approvato per averlo considerato inutile e folle, ugualmente aveva addolorato Nurdok, che in quel momento appariva una vecchia quercia prossima ad essere abbattuta dalle forze tempestose della natura. Infatti, la sua decrepita esistenza faceva fatica a giostrarsela come gli riusciva in modo eccellente da giovane. Naturalmente, ci si riferiva sia al suo fisico che al suo animo, essendo l'uno e l'altro oramai impossibilitati a reggere alle calamità più disastrose provenienti dagli elementi naturali e dalle tristi vicende umane.



Erano trascorsi una decina di giorni da quando era avvenuto il sacrificio delle undici religiose del dio Mainanun. A causa del quale, nel borgo di Geput alcune persone continuavano a rattristarsi e a piangersi il loro suicidio, fra cui era compreso anche il Superum della Berieskania. Costui, in verità, a differenza degli altri Berieski, anziché darsi al dolore e al pianto, si era fatto immergere dalla tristezza in una profonda meditazione, il cui argomento aveva riguardato il destino degli uomini, che era diverso per ognuno di loro. Infatti, come a tutti era noto, la loro nascita non riservava ai nuovi esseri viventi la medesima esistenza: essi sarebbero vissuti alcuni nell'agiatezza oppure nella povertà, altri nella gloria oppure nell'abiezione, altri ancora nella salute oppure nella malattia. C'erano solo pochi casi singoli, i quali facevano rifulgere le vite di alcuni personaggi di eroismo o di grandezza spirituale; ma non mancavano quelli che infangavano la loro esistenza con turpi azioni.

Un giorno Nurdok stava navigando in una delle sue solite meditazioni, allorquando era stato raggiunto dal suo ottavo figlio, il quale si era dato a parlargli in questa maniera:

«Padre, la nostra famiglia è stata colpita da una grande sciagura, la quale non ci sarebbe proprio voluta. Essa, quando ne verrai a conoscenza, ti risulterà talmente terribile, che temo perfino che potresti morirne dal dolore. Perciò non so come comunicartela.»

«Ti decidi, Celton, a dirmi ciò che sei venuto a riferirmi? Facendo così, ossia annunciandomi disgrazie che poi non mi sveli, mi fai solo innervosire. Allora vuoi raccontarmi, figlio mio, di cosa si tratta? Inoltre, non azzardarti più a dirmi che non riuscirei a reggere alla notizia di una sciagura che si è abbattuta sul nostro casato! Adesso, quindi, affréttati a mettermi al corrente della calamità, che senz'altro qualche mio discendente ha avuto la sfortuna di subire.»

«Durante il temporale di stamattina, padre, una folgore ha colpito la casa del nostro congiunto Pamur, quando l'intera famiglia era riparata all'interno di essa. Nessuno era assente da casa, per cui insieme con lui sono rimasti uccisi la moglie Selan, i figli Marsek, Ceduon, Sistrus e Arcupes, nonché le figlie Loifen e Korpel. Di conseguenza, sono tutti morti, essendo stati fulminati dalle scariche terrificanti, le quali hanno perfino bruciata la loro abitazione. Non sei d'accordo anche tu che per noi essa rappresenta una sventura tremenda, che in futuro non facilmente riusciremo a dimenticare?»

«Poveri il mio quarto figlio e i suoi sette congiunti! Una sciagura peggiore non poteva capitargli! Il loro è stato un destino crudele ed ingiusto! Adesso non bisogna perdere tempo, Celton. Raduna al più presto gli altri tuoi fratelli e i loro figli, poiché occorre mettere a punto lo svolgimento delle esequie in onore delle sventurate vittime nostre parenti. Ti raccomando: non fate mancargli dei solenni funerali, degni del loro rango. Datene annuncio anche ai conductor della Berieskania, perché si presentino per onorare le loro salme. La cerimonia funebre dovrà esserci dopo il loro arrivo. Nel frattempo, raccoglierete le ceneri dei nostri congiunti colpiti dalla malasorte dentro una cassa di legno, che racchiuderete in una camicia di catrame. Figlio mio, non attardarti oltre presso di me, siccome dei compiti importanti attendono te e gli altri tuoi fratelli!»

Allertati dal loro longevo genitore, gli altri dieci figli presenti in Geput, con la collaborazione dei loro familiari, avevano fatto in modo che i preparativi per il funerale dei loro congiunti venissero allestiti in pompa magna e fossero terminati, prima dell'arrivo dei conductor delle altre tre regioni. Essi, alla ferale notizia, immediatamente si erano messi in marcia per raggiungere il remoto borgo di Geput, scortati ognuno da un centinaio di guerrieri. Così, il giorno dopo che tutti loro vi avevano posto piede, si erano celebrati i funerali degli sventurati folgorati. Anche Nurdok, nonostante la sua tarda età che gli arrecava un sacco di acciacchi, aveva voluto prendere parte alla sacra funzione religiosa. Per il rispetto che nutriva per il loro amatissimo superum, ad essa avevano partecipato tutti gli abitanti di Geput, i quali avevano desiderato esprimergli le loro più sentite condoglianze, estendendole anche ai suoi figli e ai suoi nipoti.

Se con la fine della cerimonia funebre negli animi di quanti li avevano presenziati si era andato spegnendo ogni strascico di essa, compreso il dolore e l'amarezza che li avevano pervasi, come di solito avviene, per il costernato Nurdok il risultato era stato diverso. In lui, una volta venuto meno ogni strascico delle esequie, era cominciato ad aversi un vuoto incolmabile di sofferenza, la quale non smetteva di angustiarlo in modo terribile. Egli non riusciva a far svanire davanti ai suoi occhi il volto del figlio Pamur e quelli dei suoi familiari, i quali insieme gli si agitavano in una cornice di spasimi e di lividi atteggiamenti. Per cui essi gli toglievano l'appetito di giorno e il sonno di notte, trasformandogli l'esistenza in un coacervo di malesseri e di inquietudini, i quali finivano per mordergli atrocemente la coscienza e per privarlo di ogni pacata serenità. Allora, a causa del nuovo stato di cose che tendeva a comprimergli l'intero essere in una sfocata visione della realtà circostante, aveva cessato di esercitare ogni funzione fisiologica del suo corpo e ogni potere della sua mente, mostrandosi riluttante ad ogni cibo e ad ogni pensiero. Perciò, in capo ad un mese, essendosi ridotto ad uno stato cachettico, il suo organismo era stato abbandonato da ogni tipo di forza vitale e al suo posto si era instaurato poco alla volta il processo che lo aveva condotto tirannicamente ed irrimediabilmente alla morte.

Nurdok era deceduto nel pomeriggio di un giorno estivo, mentre era seduto sopra il suo seggiolone. Nessuno se ne era accorto, poiché egli si trovava solo nel suo alloggio. Si era appreso il suo decesso verso sera, quando era andata a trovarlo la nipote, che ogni giorno gli portava i pasti del pranzo e della cena. Allora ella subito aveva allarmato gli altri parenti, che erano i figli e i nipoti del superum. Essi si erano dati ad adoperarsi per lui, come già avevano fatto per la sventurata famiglia del loro defunto familiare Pamur. Siccome il giorno prima si era appreso da due messaggeri che l'esercito beriesko era prossimo a rientrare dall'Edelcadia, giustamente si era deciso di attendere il suo rientro per celebrare i funerali dell'insigne uomo. In verità, si era dovuto attendere ancora dieci giorni, perché i soldati berieski giungessero a Geput. Il quale lasso di tempo aveva consentito anche ai conductor delle altre tre regioni di pervenire in tempo alle esequie del loro illustre superum.

La nuova funzione religiosa, come ci si aspettava, aveva avuto una solennità indescrivibile, essendo Nurdok la prima personalità della Berieskania e l'eroe decantato dell'esercito, non riuscendosi a pensare ad uno stratega che fosse superiore a lui. L'intero popolo di Geput, commosso ed afflitto, si era dato a piangerselo con l'animo immerso nel più grande cordoglio. Invece, affranti dal sommo dispiacere, lo avevano pianto di più gli undici figli e i sessantasei nipoti presenti, che non avevano smesso di versare per lui infinite lacrime amare. L'esercito aveva voluto formare, lateralmente alla via che conduceva al Sundro, due file lunghissime, le quali partivano dal borgo di Geput e giungevano fino alla riva orientale del sacro fiume. Così i soldati lo avevano venerato lungo tutto il percorso, mentre sul carro funebre si lasciava condurre da una coppia di due splendidi cavalli neri, la cui testa era ornata con uno stupendo cimiero rosa. In verità, per chi, se non per lui, si poteva avere una tale premura e si poteva dimostrare un sentimento di così profondo ossequio? Perciò al leggendario stratega e all'invincibile condottiero di eserciti, che aveva rappresentato per il popolo beriesko la somma moralità, la somma giustizia e la somma perizia in campo militare, unanime si levò da esso un fervore di ammirazione e di esaltazione, desideroso di esprimergli il massimo rispetto. Nessuno avrebbe potuto negare che la sua esistenza ultracentenaria era riuscita a coronarsi delle migliori virtù, quelle che non avevano mai smesso di renderlo l'uomo più retto e più ineccepibile, quanto a moralità e all'alto senso della giustizia. Inoltre, egli era stato un cultore di virtù militari, che ne avevano fatto l'eroe che si era ritrovato ad essere, finché la morte non lo aveva raggiunto.



CAPITOLO 472



I FATTI SALIENTI ACCADUTI AD ACTINA



Riguardo ai fatti avvenuti nell'Edelcadia, incominciamo a parlare di quelli che si erano avuti nella città di Actina, dove era venuta meno anche la presenza del dio Matarum, che era la somma divinità dell'Edelcadia. La sacerdotessa Retinia lo aveva scoperto, quando le era stato domandato dalla ex regina della Città Santa se il futuro della loro città si prevedeva buono, precario o addirittura pessimo. Allora la religiosa prediletta del dio del cielo, al fine di accontentarla, aveva dovuto farsi ispirare da lui nel modo che abbiamo già conosciuto almeno in due altre circostanze. Infatti, senza indugio ella si era data a concentrarsi, assumendo la solita posizione, la quale la faceva scorgere in ginocchi e con le braccia aperte protese verso l'alto. In quel preciso istante, si era vista la sacerdotessa diventare pallida in volto, intanto che storceva le labbra azzurrognole. Ma erano stati il suo contorcersi e il suo dimenarsi ad impressionare maggiormente quelli che la seguivano. Tali suoi atteggiamenti, uniti al rizzamento dei capelli, l'avevano presentata come un essere irreale e terrificante. Comunque, c'erano voluti cinque minuti, prima che ella ritornasse ad essere una persona sul cui viso era cominciato ad intravedersi un irraggiamento di calma e di beatitudine, il quale la predisponeva all'ispirazione divina. A quel punto, però, anziché seguire il momento ispiratore e divinatorio, ella si era resa conto che non esisteva più il dio che avrebbe dovuto dipanare davanti ai suoi occhi il futuro della loro città, come le era stato richiesto dall'amica nobildonna Talinda. Allora l'assenza del dio da Actina l'aveva terrorizzata, poiché le aveva fatto temere che qualche divinità malefica più potente di lui lo avesse costretto a darsi alla fuga e ad abbandonare la Città Santa, come già era avvenuto qualche tempo prima. Perciò Retinia si era data ad urlare:

«Mia grande amica Talinda, ancora una volta è venuta meno la presenza del nostro dio dal tempio, per cui sono impossibilitata a farmi ispirare da lui. Allora mi domando perché mai egli è venuto a mancarci di nuovo. Se è stato costretto a lasciare la nostra città da qualche dio malefico più potente di lui, ciò mi preoccupa molto. Spero che ancora una volta interverrà in suo aiuto lo straordinario eroe, come lui stesso ci ebbe a raccontare dopo, sottraendolo al suo avversario divino! Invece noi sappiamo che il protetto delle due eccelse divinità è impegnato in una missione abbastanza difficile e si ignora quando ci sarà il suo ritorno.»

«Se davvero la somma divinità dell'Edelcadia non protegge più la nostra Actina, preoccupata Retinia, sappi che qualcosa di sicuro gli sarà successo, di cui non possiamo venire a conoscenza. Noi esseri umani siamo impotenti ad approfondire i misteri che riguardano le divinità. Ma devi aver fede perché, da un momento all'altro, potrebbe presentarsi a noi l'amico fraterno di mio figlio, il quale non avrebbe difficoltà a venire a conoscenza di ciò che è accaduto al divino Matarum. Così prenderebbe le sue difese, se qualche dio più potente di lui lo avesse fatto trovare di nuovo in guai abbastanza seri. Quindi, cerca di tranquillizzarti!»

La ex regina della Città Santa aveva appena terminato di pronunciare le sue parole di incoraggiamento alla sua ospite religiosa, allorché il figlio aveva fatto la sua improvvisa apparizione nel soggiorno privato di colei che lo aveva fatto nascere. Subito dopo esservi entrato ed aver salutato le due donne che discutevano appartate, aveva iniziato a dire:

«Se non sbaglio, madre mia, ti ho sentito fare il nome del mio amico Iveonte. Saresti così gentile, da riferirmi a che proposito stavate parlando di lui? Attendo, dunque, la tua risposta.»

Dopo avergli raccontato ogni cosa della sua conversazione con l'amica religiosa, facendogli presenti i vari particolari, la nobildonna Talinda, aveva aggiunto al giovane sovrano:

«Ecco, figlio mio, il motivo che mi aveva spinto a tirare in ballo l'insuperabile Iveonte. In riferimento a lui, Francide, puoi anticiparmi qualcosa circa il suo ritorno tra noi? La sua presenza ci risolleverebbe!»

«Madre mia, non è semplice darti una simile risposta, poiché non si sa neppure in quale luogo egli si farà rivedere prima di un altro, una volta che avrà portato a termine la sua missione. Ma penso che vorrà incontrarsi innanzitutto con la sua Lerinda, che si trova a Dorinda. Inoltre, se intesi bene, quando egli me ne parlò, i divini eccelsi gemelli gli avevano affidato una missione assai delicata, dalla cui riuscita sarebbero dipese le sorti dell'intero universo. Ad ogni modo, non so dirti quale fosse il vero scopo della sua missione; però sono certo che il mio amico saprà farsi valere e salverà chissà quante vite umane nell'intero creato!»

Rivolgendosi poi alla religiosa presente, che si presentava molto abbacchiata, aveva voluto rassicurarla con le seguenti parole:

«Quanto al tuo stato di ansia e di inquietudine, sacerdotessa Retinia, esso deve cessare di esserci, perché per il dio Matarum non potranno farsi presenti insidie e minacce. Il mio amico fraterno, come fece già l'altra volta, eviterà che le une e le altre lo soggioghino per un tempo infinito. Inoltre, ammesso che esse già abbiano avuto su di lui il sopravvento, egli correrà in suo aiuto e lo affrancherà dalle medesime, non appena gli sarà possibile. Così lo farà ritornare alla sua amata Actina.»

«Per te è facile, re Francide, esprimerti in questa maniera. Le tue parole, però, giammai potranno tranquillizzarmi, fino a quando non avvertirò la presenza del dio nella nostra città. Adesso la sua assenza mi priva di ogni serenità e mi riduce l'esistenza in un qualcosa che non riesco neppure ad esprimere, a causa della mia turbolenza spirituale. La quale va innescando nel mio animo ciò che gli provoca il turbamento più tenebroso e disastroso della mia vita.»

«Ti comprendo, prediletta amica della mia genitrice; ma, nello stesso tempo, disapprovo questo tuo atteggiamento pessimistico nei confronti della nostra divinità. Se ti attesto che essa non corre pericolo alcuno, tu devi avere fiducia in me, dal momento che la mia affermazione può essere soltanto veritiera. Tu stessa puoi convincertene, visto che il dio Matarum ti ha dotata di spirito profetico. Infatti, se indaghi nel futuro, senza meno verrai a conoscenza che il nostro dio taumaturgico si trova ad esistere altrove, dove è del tutto scevro di rischi e di qualsiasi altro accidente. Ne sono più che convinto!»

«Hai dimenticato, mio sovrano, che il mio divino ispiratore non è presente in Actina e non può guidarmi nella mia ricerca nell'avvenire? Perciò adesso la mia ispirazione farebbe solo un buco nell'acqua, non trovando ad accompagnarmi nel mio viaggio nel futuro colui che è l'unico a poterlo fare, poiché da lui mi proviene la verità assoluta in tale circostanza.»

«Come avrei potuto scordarlo, sacerdotessa Retinia? Ma io sono persuaso che possiedi il potere di ispirarti, indipendentemente da se il dio Matarum si trova o meno nella Città Santa. Per questo esso ti appartiene per l'intera tua esistenza e puoi farne uso ogni volta che lo desideri. In passato e attualmente, anziché procedere nella tua ispirazione anche senza la sua presenza in Actina, invece, facendoti influenzare da essa, te ne sei spaventata ed hai smesso di ispirarti. Allora vuoi soddisfare il desiderio di mia madre, prima immergendoti nel nostro futuro e poi relazionandola su tutto quanto avrai appreso sulla nostra città? Te ne sarei molto grato, se tu accogliessi la mia richiesta, la quale è diretta in primo luogo a vedere soddisfatta la tua amica. Io ti consiglio di seguire quel detto che afferma: “Tentare non nuoce.”»

«Ebbene, mio re, voglio darti ascolto ed avere fiducia nella tua supposizione, secondo la quale io sarei dotata di uno spirito profetico che mi permette di darmi a divinazioni, tutte le volte che lo desidero, indipendentemente della presenza del dio Matarum in Actina. Perciò adesso mi affretto a sondare il futuro per avere una risposta sicura, circa quanto intende conoscere la nobildonna tua madre, che è l'amata mia amica.»

Qualche attimo più tardi, la zelante sacerdotessa, dopo avere assunto un atteggiamento ieratico, si era immersa in una meditazione profonda. Questa volta il suo viso non era apparso come quando si faceva ispirare dal dio. Nelle due precedenti circostanze, alle quali abbiamo avuto modo di assistere, esso si era trasformato in un qualcosa di orripilante. Adesso, invece, era stato scorto dai suoi due unici testimoni, che erano il re Francide e sua madre, in un rasserenamento che lo presentava in preda al massimo gaudio. Per la ex regina e per il figlio, era stato chiaro che la sacerdotessa loro ospite si stava immedesimando con una realtà ultraterrena, per cui non avevano osato interrompere tale suo gioire transitorio, il quale destava in lei una sovrumana pacatezza. Invece l'avevano lasciata insinuarsi in quella serenità, che stava vivendo e godendo in quell'istante. In seguito, invece, quando non erano trascorsi neppure un paio di minuti, la sacerdotessa era stata vista inorridire a causa di qualcosa che si era dato a svolgersi davanti ai suoi occhi. Anzi, i due congiunti regali avevano notato che ella si era perfino sbiancata in viso, su cui avevano iniziato a manifestarsi dei segni preoccupanti, che la presentavano atterrita e sconvolta. Infine, durante una pausa di minore spossatezza, la religiosa aveva avuto la forza di mettersi a gridare con l'amarezza e il terrore negli occhi. I quali adesso sembravano uscirle dalle orbite, quasi fossero due carboni ardenti:

“O voi che mi ascoltate, o voi che non pensereste mai che possa accadere quanto si sta svolgendo davanti ai miei occhi, state bene attenti a ciò che vi sto trasmettendo. Dovunque intravedo stelle che esplodono, la cui luce sfolgorante mi acceca la vista; assisto alla folla dei pianeti che vanno alla deriva. Parlo di quelli che sono sfuggiti agli immensi falò degli astri esplosi, poiché gli altri, che ne sono stati coinvolti, hanno smesso di esistere nell'universo. Ebbene, gli scampati al pericolo vagano per lo spazio tenebroso senza una meta precisa e verso un futuro aleatorio. Esso per loro è diventato incerto e può riservargli un destino soltanto disastroso, il quale è quello di un impatto catastrofico con gli altri pianeti o satelliti. Ma non riesco ancora ad intravedere la forza immane che provoca un simile sfacelo nello spazio. Ahimè, inizio ad avvistare stuoli di divinità benefiche, che si precipitano all'impazzata e si dirigono verso mete che non mi è dato di conoscere. Mentre avanzano per lo spazio cosmico nel loro abito candido, si mostrano disorientate ed in preda all'ansia, intanto che le inseguono schiere di divinità malefiche, che appaiono come larve nerastre. In verità, non capisco perché le prime non si oppongono alle seconde, lottando contro di loro con determinazione e con forza. Di certo pure il nostro dio Matarum è fra loro, senza reagire e guardandosi bene dal dare battaglia alle divinità loro inseguitrici. Secondo me, anche se non ne comprendo il motivo, esse sono dirette alla loro divina dimora. Ma perché vi si vanno a rifugiare e non si oppongono alle divinità malefiche, le quali seguitano ad inseguirle?

Solamente ora mi rendo conto della verità. Le divinità positive non temono quelle negative; ma scappano da chi le comanda. Si tratta di una mostruosa creatura, la quale, nella sua natura immateriale e spirituale, giganteggia nell'universo ed è capace di indurre le divinità positive alla propria attrazione fatale. Per farlo, però, ha bisogno di avvicinarsi a loro ad una certa distanza, quella che le consente di manovrare secondo i suoi scopi deleteri. La sua avanzata si presenta come uno sconvolgimento apocalittico della parte di universo da essa attraversata. Al suo passaggio, le galassie fibrillano, le stelle a volte esplodono altre volte implodono, mettendo sottosopra la cosmica armonia. Quanto ai pianeti, ai satelliti e agli altri corpi celesti appartenenti all'universale famiglia, essi vengono inglobati dal fenomeno distruttore della forza oscura. La quale non smette di frammentarli, di demolirli e di farli sparire dallo spazio in cui facevano avvertire la loro armonica presenza. Anche il nostro mondo presto subirà la stessa sorte di quelli già scomparsi, per cui per tutti gli esseri della Terra sta per sopraggiungere la fine della loro esistenza. Essa non avverrà, senza che ci siano prima sulla sua superficie dei fenomeni scombussolanti, i quali costringeranno i monti a sfaldarsi e i mari ad invadere la terraferma, provocandovi distruzioni incredibili e morti a non finire. Assisteremo alla nostra morte, dopo averla temuta fino al parossismo, poiché essa si insedierà nel nostro animo e ci procurerà il terrore più tremendo. A causa del quale, prima che la medesima ci giunga, l'avvertiremo, la vivremo e ci faremo accoppare da essa. Anzi, ci faremo strapazzare dalla morte nella maniera più crudele e barbara, quando in noi non si è ancora stabilita, allo scopo di condannarci all'inesistenza e di farci diventare suoi ospiti graditi per l'eternità.”

Quando infine si era riavuta dal trambusto che gli era stato provocato dalla sua ispirazione ed aveva riacquistato in parte la precedente normalità corporea, la sacerdotessa Retinia, non sapendo da dove cominciare, si era messa a parlare con i suoi due interlocutori. Non nascondendo il suo stato di ambascia, gli si era data a dire:

«Re Francide e mia amica Talinda, altro che fuga della nostra eminente divinità da Actina e dall'intera Edelcadia! Nell'universo sta succedendo qualcosa di sommamente grave e di rovinosamente esiziale. Mi sono resa conto che si sta scatenando il finimondo. Ma voi, che siete venuti a conoscenza di ogni cosa che si appresta a scatenarsi nel nostro mondo, avendo io parlato ad alta voce, quando mi sono ispirata senza l'aiuto del dio Matarum, sapete dirmi cosa si fa adesso?»

«Io non credo, Retinia,» le aveva risposto per prima la madre del sovrano «che possano scatenarsi simili sventure contro tutti noi, le quali ci priveranno della vita. Anzi, cerca pure tu di non metterti a fare l'uccello del malaugurio! Ho vissuto per tanti anni nell'angoscia e in una situazione di malinconia che non puoi immaginare, per cui non voglio assolutamente pensare a cose tristi, ora che ho ritrovato mio figlio e sto vivendo insieme con lui dei giorni di immensa gioia. Perciò pretendo che, da questo momento, tu cambi discorso e lasci vivere al mio cuore la sua felicità ritrovata! Nella nostra Edelcadia non si avvererà niente di quanto ci hai preconizzato e la tua predizione dovrà andare a farsi benedire. Sei stata attenta a ciò che ti ho detto oppure no?»

«Nobildonna Talinda, non possiamo cancellare dal nostro destino gli eventi futuri, semplicemente ignorandoli. Essi, purtroppo, già si stanno verificando sul sentiero della nostra esistenza e, in un tempo che non ti so quantificare, ci raggiungeranno e ci avvolgeranno nella loro disastrosa presenza. Allora non ci resta che accettare il nostro ingrato destino, il quale viene a coglierci in un momento della nostra vita che non vorremmo venisse disturbato da esso. Né ci potrà risultare utile qualche nostra reazione alla fine dell'universo intero in arrivo!»

«Se posso dire anche la mia su tale argomento, reverenda sacerdotessa,» era intervenuto anche il re Francide, «mia madre fa bene a mettere in dubbio la tua profezia di qualche istante fa, siccome neppure io ne sono convinto. Pur ammettendo che nell'universo sta succedendo quanto ci hai riferito, sono certo che i fenomeni a te apparsi non raggiungeranno noi terrestri, per cui la faremo franca. Te ne posso spiegare il motivo, allo scopo di rasserenarti.»

«Mi farebbe molto piacere, mio sovrano, apprendere perché dovrebbe avverarsi ciò di cui sei convinto, considerato che esso recherebbe un grande gaudio al mio animo. Allora raccontami ogni cosa!»

«Era stato già previsto qualcosa del genere, che avrebbe riguardato una lotta accanita su larga scala tra le divinità benefiche e quelle malefiche, la quale avrebbe preso una brutta piega per le prime. Ma ci sarebbe stato pure l'intervento del mio amico fraterno a far sì che le divinità positive avessero la meglio su quelle negative. Ad ogni modo, si è sempre ignorato con quali mezzi egli avrebbe ottenuto un simile miracolo, visto che neppure l'anello ricevuto dall'eccelso dio Kron sarebbe bastato a renderlo vittorioso. Questo grande evento, il quale ci sarebbe stato nell'intero universo, me lo riferì lo stesso Iveonte, che lo aveva appreso da alcune divinità che lo proteggevano allora e continuano a proteggerlo tuttora. Adesso comprendi perché mi è difficile credere alla tua recente profezia? Perciò la nostra fiducia in Iveonte non deve abbandonarci, siccome è previsto che egli sconfiggerà il male.»

«Mio re, se davvero un giorno il prodigioso Iveonte ti ha fatto tale confidenza, sono sicura anch'io che almeno una parte del mio vaticinio, ossia quella attinente al nostro mondo, non riuscirà ad avverarsi. Per questo rallegriamoci per essa e restiamo sereni.»

«Sono altrettanto contenta,» aveva aggiunto l'ex regina «della bella notizia che ci ha data mio figlio, la quale mi ha risollevata moltissimo. Ma non essendoci stata ancora la sua vittoria sulle forze del male, ci tocca augurarci che Iveonte ce la metta tutta e alla fine esca vincitore assoluto dalla lotta, che è in procinto di affrontare e di vincere.»

La nobildonna Talinda si era appena espressa in quel modo, allorquando avevano fatto il loro ingresso nel soggiorno anche la regina Rindella e la principessa Godesia. La prima delle due non aveva perso tempo a domandare alla suocera a cosa si stavano riferendo le sue parole, siccome in quel luogo esse erano state le ultime ad essere pronunciate, mentre ella e sua cognata vi entravano. Allora la risposta della madre del sovrano era stata la seguente:

«Rindella mia cara, per favore astieniti dal volere apprendere da me cose, le quali non ti giungerebbero gradite; anzi, esse finirebbero soltanto per intossicarti l'esistenza.»

«Invece le tue parole, suocera mia carissima, mi spingono a conoscere ancora di più quanto stavi dicendo, nel momento stesso che c'è stato nel tuo soggiorno privato il mio ingresso e quello di mia cognata. Voglia il cielo che esso non si stesse riferendo a mio fratello Iveonte, poiché le attuali tue parole mi portano a credere che qualcosa sia successo a qualcuno che mi è tanto caro. Il quale non è mio marito, visto che egli è qui presente.»

A quel punto, era intervenuto il re Francide a rispondere alla consorte, disimpegnando la madre da un compito che le sarebbe risultato molto increscioso. Così le aveva detto:

«Rindella amata mia, non si tratta affatto di tuo fratello, del quale oggi non sappiamo assolutamente nulla. Anzi, l'argomento, che stavamo trattando, non concerneva nessuna persona; invece era riferito ai fatti che stanno accadendo nell'universo intero. Essi potrebbero coinvolgere anche il nostro mondo, distruggendolo e facendoci morire tutti.»

«Dici davvero, Francide? Mi racconti come ne siete venuti a conoscenza? Non ti sembra che nessuna persona, a parte Iveonte, che è anche il tuo amico fraterno, possa trovarsi nel suo spazio infinito e conoscere quanto vi sta avvenendo? Ciò è irrefutabile!»

«Non hai torto in questo, Rindella, e nessuno dei presenti lo mette in dubbio. Ma devi sapere che, se io, mia madre e la reverenda Retinia ne siamo venuti a conoscenza, è per il motivo che ora ti spiego. Tua suocera, volendo apprendere quale sarà l'avvenire della sua città, ha pregato la sua amica di lasciarsi ispirare dal dio Matarum a tale scopo. In verità, non c'è stato alcun intervento divino, solo perché in Actina non si trova più la nostra somma divinità. Allora io, ipotizzando che in lei lo spirito profetico ci fosse indipendentemente dal dio, ho proposto alla sacerdotessa di immergersi nel suo spirito presago e tentare di tirare fuori da esso il presagio che le aveva richiesto mia madre sulla nostra città.»

«Quindi, mio amato consorte, è stato in questa maniera che avete appreso il collasso che sta investendo l'universo e coinvolgerà tutti gli astri che vi risiedono, scombussolando la loro armonia e mandando in malora le folle di gente che abitano sulla loro superficie. Io, però, sono aliena dal credere che ci possa capitare una simile sventura, scomparendo per sempre dalla faccia del nostro mondo. Come vedo, vi è sfuggito il fatto che a difenderci da tutti e da tutto c'è mio fratello Iveonte, il quale non permetterà che ciò si avveri. Nelle sue mani sano stati riposti dalle divinità dei poteri immensi, attraverso i quali egli può ottenere ogni cosa che vuole, sconfiggendo perfino le divinità malefiche più potenti.»

«Questo lo so anch'io, Rindella. Perciò ho voluto farlo presente anche alla sacerdotessa Retinia e a mia madre, per spingerle ad avere più fiducia nel mio amico. Gliel'ho detto che nelle sue mani sono state poste le nostre sorti, perché le preservi da sventure e da calamità, evitando di farle divenire succubi di forze divine dotate di nocivo maleficio.»

«Hai fatto bene, Francide, a rassicurarle che, siccome siamo sotto l'egida di mio fratello Iveonte, mai nessuna minaccia potrà arrecarci del male. In sostanza, è come trovarci in una vera botte di ferro, dove i malanni giammai potranno avere accesso per squassarvi la pace e la serenità. Non la pensi anche tu, mio dolce marito, allo stesso modo mio, circa quanto ho dichiarato sul mio caro Iveonte, il quale è l'unico fratello che mi è rimasto in questo mondo?»

«Riferendoci ad Iveonte, come potrei non essere d'accordo con te, mia cara Rindella? Egli è diventato colui che tutto può e si serve del suo prodigioso potere per favorire l'umanità, naturalmente quella votata ad ogni forma di bene e di giustizia. Ma adesso è giunto il tempo che io vi lasci, poiché mi attendono varie incombenze da assolvere in giornata.»

Andato via il re Francide dal soggiorno privato della madre, vi erano rimaste solo le donne, che erano la regina Rindella, la principessa Godesia, la religiosa Retinia e la nobildonna Talinda. Costei era stata quella che aveva aperto la nuova discussione a quattro, la quale questa volta era finita col vertere in primo piano intorno all'eroe Iveonte. Del quartetto femminile, era stata la nobildonna Talinda a chiedersi ad alta voce:

«Vorrei proprio sapere quale missione le potenti divinità benefiche, che lo proteggono, hanno assegnato all'eroico fratello di mia nuora, al fine di farsi togliere le castagne dal fuoco. Sono convinta che è stato proprio così, o voi che mi ascoltate, altrimenti ci avrebbero pensato loro stessi a liberarci dalla loro potentissima avversaria divina. La quale, a quanto pare, sta dando scaccomatto pure a loro due. Ma non so immaginare come stiano usando l'amico fraterno di mio figlio. Non riesco ad ipotizzare neppure un modo qualsiasi che me lo faccia considerare nel suo attuale incarico. Senza dubbio, dovrà trattarsi di una missione della massima segretezza e di un certo spessore umano non da poco. Vi chiedo se qualcuna di voi saprebbe avanzarmi in merito una propria teoria.»

Se la principessa Godesia non aveva osato esporsi alle altre donne del gruppo con una propria supposizione, la religiosa Retinia e la regina Rindella si erano dichiarate disponibili a fare le loro congetture, ritenendole attendibili. Allora la genitrice del sovrano della Città Santa, come coordinatrice della discussione, si era affrettata a dire ad entrambe:

«Non essendo possibile che voi due mi esponiate insieme quanto avete congetturato ciascuna per proprio conto, allora propongo che sia la mia amica, in quanto mia ospite, ad esporci per prima la sua teoria. Invece la mia nuora Rindella lo farà, dopo che la reverenda Retinia avrà terminato di riferirci su ciò che ho domandato a voi tre.»

«Secondo me, nobildonna Talinda, la divina bestia malefica, che ha stabilito di mettere sottosopra l'universo, coinvolgendo perfino tutte le divinità benefiche che vi trascorrono la loro esistenza, per qualche ragione particolare che non possiamo conoscere, è riuscita a diventare più forte di ciascuna di loro. Per questo quelle più potenti, che sono anche le protettrici del nostro Iveonte, hanno ravvisato che soltanto in lui ci sono le premesse per annientarla. Ma non sappiamo in base a che cosa esse sono state preferite.»

«In un certo senso, Retinia, potrebbe anche essere accettata la tua supposizione; però non conduce a nulla di concreto. Il motivo? I fatti principali, i quali dovrebbero farla poggiare su autentiche concretezze, vengono sfaldati dalla loro impossibilità a manifestarsi noti o possibili. Ne sono esempi sia il motivo per cui la divinità malefica è diventata più agguerrita di qualunque divinità benefica sia l'altro che ha indotto le più potenti divinità positive a ricorrere ad un essere umano per sconfiggerla. Ma adesso ascoltiamo ciò che ha da dirci la mia regale nuora in merito allo stesso argomento. Così dopo lo vaglieremo nel suo reale contenuto, affinché lo si possa tenere nella considerazione che si merita.»

«Nelle sue linee essenziali,» la regina Rindella si era data a dire «concordo con la teoria della sacerdotessa Retinia. A differenza di lei, mi permetto di chiarire i due dettagli, che ella non ha saputo spiegarci. Mi riferisco all'impotenza delle divinità positive di fronte all'entità divina che si è presentata nell'universo a dettare la sua legge agli dèi positivi, agli esseri umani ed animali, oltre che agli astri e ad ogni singola loro parte rappresentata dalla materia. A tale riguardo, azzardo la seguente congettura: La divina creatura, di cui ci stiamo occupando, non è uguale alle altre, poiché è fatta di una natura diversa che la rende refrattaria ai poteri delle divinità positive. Invece queste ultime vengono rese loro stesse attaccabili da essa, senza che ci siano problemi da parte sua.»

«Probabilmente, mia dolce nuora, la tua versione inerente al primo particolare non è errata, per cui la si potrebbe accettare come giusta. Ma in relazione alla scelta di tuo fratello da parte delle più potenti divinità benefiche, ci dici come l'argomenti in modo credibile? Esso sarebbe il secondo nodo, che la mia amica non è stata in grado di sciogliere.»

«Anche questo particolare, mia intelligente suocera, può essere giustificato nella maniera che ora vi spiego. Sono assai certa che, in qualche parte dell'universo, esiste una forza straordinaria capace di aver ragione di quella posseduta dalla divinità malefica, la quale si è data a fare tabula rasa nello spazio cosmico. Essa, però, si lascia possedere soltanto da un essere umano, che abbia le doti necessarie per conquistarla. Ecco perché tali divinità benefiche si stanno servendo di Iveonte per farlo impossessare di tale formidabile potere, con il quale egli poi affronterà la sua divina nemica e l'annienterà.»

«Anche questa volta, consorte di mio figlio, hai dato una giustificazione plausibile, circa le ragioni che hanno spinto le potenti divinità benefiche ad inviare Iveonte perché si 'impadronisca dello speciale potere che lo renderà idoneo ad averla vinta sulla loro invincibile avversaria. Esso dopo permetterà a tuo fratello di distruggere la terribile bestia divina e di salvare infiniti mondi, insieme a numerose vite umane ed animali. A questo punto, però, sono obbligata a congedarvi, siccome mi attendono delle faccende di altro tipo, avendole tralasciate per diversi giorni. Perciò possiamo anche salutarci e lasciarci.»



CAPITOLO 473



COSA ERA SUCCESSO INVECE A CASUNNA E A DORINDA?



Come avevamo già visto, il re Raco, dopo aver lasciato la sorella Lerinda ospite del generoso Sosimo, aveva ripreso la via del ritorno a Casunna, dove si era insediato per la prima volta in qualità di sovrano. Nella sua città, la sua permanenza da re vi durava da quasi un bimestre, quando vi aveva fatto ritorno il suo consigliere Merion. Costui, dopo essere stato costretto dal mago Ghirdo a seguirlo sotto le mura di Actina, alla fine era riuscito a sottrarsi all'assedio ed aveva raggiunto la città natale, tranquillizzando così il suo nuovo re. Venuto poi a sapere dal suo attuale sovrano ogni cosa sugli Umanuk e che uno di loro aveva assunto le sembianze del defunto re Cotuldo, egli non riusciva a credere a quanto si era verificato in ogni città edelcadica, ad eccezione di quella di Actina. Ma lo aveva reso particolarmente felice la bella notizia che il fratello del re Raco era rimasto vittima dell'Umanuk di Dorinda, lasciando sul trono di Casunna colui che prima vi svolgeva le funzioni di viceré.

Poco dopo, il neo sovrano lo aveva distratto da tale evento, che aveva appreso con gioia. Infatti, egli si era dato a dirgli:

«Merion, nella reggia adesso abbiamo un grosso problema; ma tu te ne sei già reso conto. Si tratta della guarnigione dorindana, che attualmente la presidia, onde prevenire le intenzioni per niente rassicuranti da parte di persone inclini alla violenza e al depredamento. Almeno per il momento, perciò, dovremo tenercela, poiché essa ci fa comodo, fino a quando non ci sarà nel palazzo reale e in città la ricostituzione di una gendarmeria e di un esercito regolari, capaci cioè di far fronte a qualsiasi evenienza in odore di illegalità. Anzi, se i Dorindani si trovano qui, devo ringraziare il saggio Lucebio, che ha permesso il loro trasferimento nella mia reggia. Ma sono sicuro che essi non vedono l'ora di far ritorno presso le loro famiglie, siccome la permanenza nella nostra città può risultare a tutti loro un grande sacrificio. Ad ogni modo, quando arriverà il giorno che potranno andarsene via, gli offrirò una lauta ricompensa, poiché sarà mio dovere ringraziarli per il loro sevizio volontario nella mia reggia.»

«Come intendi affrontare, mio sovrano, quello che tu consideri un problema? Secondo me, potevi anche fare a meno di considerarlo tale, visto che per me si tratta solamente di una seccatura vera e propria, di cui ci libereremo presto. Allora hai già qualche idea, a tale riguardo?»

«Se lo vuoi sapere, Merion, avevo pensato di affidare a te l'incarico di cominciare a sostituire gli attuali soldati dorindani, che prestano il loro servizio irregolare, con una milizia degna di tale nome, formata da soli Casunnani. Ma ho pensato anche che ci conviene attendere ancora alcuni giorni, poiché corrono voci, secondo le quali Actina non è più assediata dagli eserciti coalizzati. Per cui i soldati sopravvissuti all'assedio hanno ripreso la via di ritorno alle loro città. Sono convinto che fra loro molti facevano servizio nell'esercito di Casunna; perciò essi senz'altro rientreranno nei ranghi. Inoltre, ci sarà bisogno di sostituire i loro commilitoni caduti durante l'assedio. Ebbene, per la loro sostituzione, verranno reclutati i soli giovani che risulteranno loro familiari oppure loro parenti.»

«Forse hai ragione tu, re Raco. Prima di ricostituire il vecchio apparato militare nella nostra città, sarà meglio aspettare che ritornino a Casunna tutti i reduci dell'insana guerra voluta dagli Umanuk. Dopo avremo meno problemi a riformarlo e a renderlo efficiente in poco tempo. Nel frattempo, sempre che tu sia d'accordo, vorrei fare un sondaggio esplorativo nella guarnigione dorindana e vedere quanti fra quelli che ne fanno parte sarebbero disposti a prestare servizio regolare nel nostro esercito. Così inizierei a scozzonare nei loro futuri compiti militari quanti intendessero diventare effettivi nell'attuale loro incarico provvisorio.»

«Secondo me, Merion, la tua è una buona idea. Perciò ti autorizzo già adesso ad informarti quanti Dorindani sono disposti a far parte della nostra milizia e a trapiantarsi a Casunna, trasferendovisi con le loro famiglie. Inoltre, ti do carta bianca nell'assumere a mio servizio tutti coloro che si dichiareranno favorevoli ad arruolarsi.»

Dopo essere stati interpellati circa la loro definitiva permanenza nell'esercito casunnano, trasformandosi da ausiliari in gendarmi effettivi, soltanto un terzo dei Dorindani aveva deciso di cogliere la bella occasione. Così avevano dato il loro assenso alla proposta del consigliere del re Raco. Allora costui si era messo subito all'opera per prepararli nei loro futuri compiti, ma rendendoli anche edotti dei loro diritti e doveri. Comunque, durante il mese successivo, pochi per volta, si era fatto vivo un gruppo consistente di soldati, che nel periodo prebellico già facevano parte dell'esercito. Ma c'era voluto un trimestre pieno, prima che in Casunna venisse reintegrato l'intero organico militare. Quanto ai Dorindani, che non avevano voluto essere assunti nella gendarmeria in servizio presso la reggia casunnana, non avevano perso tempo a rimettersi in cammino verso la loro città. Essi erano ansiosi di raggiungere le loro famiglie, però dopo avere ricevuto dal re Raco un lauto compenso.

A quel punto, il sovrano di Casunna si era convinto che ogni cosa nella propria città aveva ripreso il suo ritmo di sempre. Infatti, adesso non c'era più il timore che delle bande di furfanti della peggiore risma, approfittando della scarsa sorveglianza e dell'insufficiente difesa esistenti in città, potessero assaltare la reggia e trafugarvi gli oggetti preziosi. In quel caso, non era neppure da escludersi che le stesse persone scalmanate avrebbero potuto mettere a repentaglio la vita degli uomini posti a guardia dei tesori in essa custoditi, sorvegliandoli giorno e notte. Invece, in riferimento alla pacifica esistenza di un tempo, la quale secondo lui era ricominciata ad esserci nella sua città, il re casunnano si era illuso, siccome un ingiusto malcontento si era dato a serpeggiare fra i suoi sudditi. Ne era responsabile un certo Buvon, che aveva la convinzione che il re Francide aveva fatto uccidere il fratello Cotuldo per succedergli sul trono. Il Casunnano era stato così convincente presso i suoi concittadini nel sostenere la propria tesi, da istigarli alla ribellione generale e alla disobbedienza nei confronti dell'attuale sovrano. Così, quando meno se l'aspettava, il fratello di Lerinda, a causa del suo suddito disinformato dei fatti, si era trovato a fronteggiare una situazione piuttosto difficile.

In ogni piazza della città erano cominciati ad aversi vari torbidi, durante i quali il popolo osteggiava apertamente il sovrano e lo invitava a rinunciare al trono, non essendo una persona degna di regnare. Alcuni invitavano gli altri ad assaltare in massa la reggia e a fare giustizia con le proprie mani; ma all'inizio non tutti condividevano un invito del genere. Intanto la sommossa popolare si espandeva a macchia d'olio, raggiungendo ogni angolo di Casunna. Non si poteva affermare che quelle dimostrazioni della cittadinanza a lui ostili non avessero impensierito il re Raco. Al contrario, esse lo avevano allarmato sempre di più, fino a quando non aveva sentito il dovere di prendere qualche provvedimento avverso ai più facinorosi di quelle piazzate, le quali erano da ritenersi del tutto illegali. Perciò aveva preso la decisione di intervenire con determinazione contro coloro che fomentavano tali disordini, nonché contro quelli che vi prendevano parte, appunto per reprimerli con la forza.

In quella circostanza, la sua prima mossa era stata quella di inviare contro di loro un grosso contingente di truppe bene armate. Esse avrebbero dovuto disperderli, ma senza eseguire alcun arresto anche nei confronti di quanti si fossero dimostrati i più esagitati nelle diverse schermaglie da loro messe in atto. Invece, per non essere ricorse alla mano pesante fin dall'inizio contro i rivoltosi, le milizie regie alla fine avevano subito il loro contrattacco e a malapena si erano salvate con la fuga. Dopo l'insuccesso dei suoi gendarmi, il sovrano di Casunna aveva stabilito di mutare atteggiamento nella lotta contro coloro che miravano a detronizzarlo, sebbene fosse contrario alle maniere forti. Ma il suo popolo non gli permetteva altra alternativa ed egli era costretto a ricorrervi, smettendo di curarsi delle gravi conseguenze che ne potevano derivare. Solo che non era riuscito a disporre di una parte dell'esercito per domare la sommossa dei cittadini che si mostravano tenaci oppositori del suo regno, siccome a torto lo tacciavano di fratricidio. Per cui costoro, mediante il passaparola, infine si erano radunati tutti intorno alla reggia, per non permettere al loro monarca di uscirne e di svignarsela.

Per il momento, i rivoltosi non osavano assalire i gendarmi posti a difesa del palazzo reale, ma si limitavano a far giungere al loro sovrano grida di protesta, come le seguenti: “Sporco fratricida, rinuncia al trono, del quale non sei degno! Sovrano senza onore, fatti giudicare dal tuo popolo, che sa quale provvedimento prendere contro la tua persona! È stata una tua grave colpa macchiarti del sangue di tuo fratello, per essere stato spinto dalla cupidigia di potere! Vieni fuori, farabutto di un re, se non vuoi che veniamo noi da te e facciamo giustizia mediante un processo sommario, quale appunto ti meriti!”

Da parte sua, il sovrano aveva evitato di esporsi alle loro minacce; ma lo avrebbe fatto, se al suo fianco avesse avuto il cognato Iveonte, poiché soltanto lui avrebbe saputo come affrontare quel difficile caso. Il quale ingiustamente lo stava mettendo in pericolo di morte. Allora aveva invitato Merion a presentarsi al proprio popolo, affinché lo facesse rinsavire, raccontandogli la verità sulla morte di suo fratello Cotuldo, e lo discolpasse dalle accuse che esso gli muoveva. Il suo consigliere, però, benché ce la mettesse tutta, pur di far ragionare i suoi concittadini e fargli recuperare il buonsenso, non era riuscito ad ottenere tale risultato. Perciò, continuando la salvezza del suo re ad essere a rischio, si era deciso a rientrare a corte e a raggiungere il suo re Raco. Intanto, all'esterno la gente, sempre indotta da persone pervicacemente contrarie al loro sovrano, si era decisa a spazzare via la guardia regia e a raggiungere il monarca, che non osava presentarsi ad essa e farsi giudicare.

Perciò erano già iniziati i primi tafferugli tra i gendarmi e i numerosi dimostranti, venendo a volte perfino alle mani, allorquando c'era stato un prodigio inatteso. Il quale aveva costretto gli uni e gli altri a troncare ogni azione di lotta fra loro. Ad un tratto, una luce folgorante aveva abbagliato i loro occhi, costringendoli a coprirseli con le mani per non venirne accecati. Dopo essere venuto meno il bagliore, tutti avevano visto, sospesa nell'aria, una figura dalle impeccabili sembianze, la quale non aveva tardato ad aprire bocca e a fare loro il seguente discorso:

“Smettetela di prendervi a botte, se non volete che vi fulmini e vi faccia diventare ospiti della morte! Chiedo a voi Casunnani, che in questo momento vi state comportando come sudditi senza cervello, perché vi ostinate ad insistere nel vostro marcio torto? Chi vi ha detto che il re Raco ha complottato contro il proprio fratello e ha anche commissionato il suo assassinio a gente senza scrupoli? Invece vi faccio presente che vi hanno fatto credere il falso, quando vi hanno riferito una notizia simile. Il re Cotuldo e gli altri regnanti dell'Edelcadia, ad eccezione di quello di Actina, sono stati uccisi da esseri malvagi, i quali godevano anche dell'immortalità. Essi avevano pure assunto i loro volti e li hanno sostituiti sui loro troni. Per qual motivo? Per spingere voi e gli altri popoli edelcadici ad una guerra contro la Città Santa, come è avvenuto. Ma il loro piano è fallito, grazie all'intervento di un eroe eccezionale, il quale li ha uccisi tutti, liberando la città actinese dal loro assedio. Perciò, se non volete che io vi punisca severamente, rinsavite finché siete in tempo, poiché dopo non risponderò delle mie azioni, le quali vi risulteranno tremende e micidiali!”

All'apparizione della divina immagine, tutti i Casunnani aggressori all'istante avevano cessato di assalire i gendarmi. Avendo poi appreso la verità sul loro nuovo sovrano, essi si erano dati a chiedergli scusa per l'ingiusta offesa ricevuta da loro. Alla fine se ne erano ritornati alle loro case, essendo persuasi che il loro ex viceré era una persona perbene e non un fratricida, come si era voluto dipingerlo dai suoi accusatori.

Al lettore, che non lo avesse ancora compreso, a proposito della misteriosa comparsa al di sopra della reggia, sveliamo subito che si era trattato della diva Kronel. Ella, essendosi resa conto che il cognato del suo pupillo navigava in cattive acque, aveva voluto aiutarlo ad uscirne sano e salvo, come appunto era stato. In verità, il re Raco non aveva avuto dubbi che a toglierlo dai guai era stato la dea amica del fidanzato della sorella e ne aveva gioito moltissimo.

Lasciamo adesso Casunna e trasferiamoci a Dorinda per sincerarci di come procedevano le cose nella città fondata dal re Kodrun, il defunto nonno paterno di Iveonte.



Nella Città Invitta, finalmente si era cominciato a respirare una fragrante aria di libertà, siccome i Dorindani, a qualunque categoria appartenessero, dopo l'uscita di scena del re Cotuldo e il ritorno dei legittimi regnanti nella loro città, si sentivano affrancati da ogni ingiusto servaggio. Perciò il vedersi liberi inebriava il loro animo e li metteva di fronte ad una realtà nuova, la quale gli faceva dare sfogo come non mai al loro spirito di autentico patriottismo. Soprattutto continuavano ad esserci, da parte delle persone avanti con gli anni, ossia di quelle attempate, esaltazioni a favore del loro re Cloronte, siccome esse si mostravano appagate della sua presenza in Dorinda. Ma più che cercare di renderci conto della soddisfazione dei loro sudditi, a noi occorre approfondire il trascorrere del tempo dei due regnanti, che da poco avevano ripreso a viverlo, sotto una luce diversa. La quale li andava colmando di ingenti gradevoli sensazioni, quasi simili a quelle che già avevano vissuto in quella stessa reggia.

Allora iniziamo col dire che, essendo passati un bel po' di anni da quel tempo remoto, cioè da quando il vigore circolava nel loro intero organismo, essi stavano affrontando la nuova esistenza con minore entusiasmo. Anche perché gli acciacchi di ogni sorta, i quali erano dovuti alla loro età e in special modo alla grama esistenza condotta fino a quel momento, non li facevano sentire adatti a condurre una vita di corte. Adesso l'uno e l'altra, poiché la stanchezza si faceva avvertire ad ogni loro minimo sforzo, venivano spinti a cercare soltanto riposo, preferibilmente in un luogo lontano da ogni trambusto. Invece non disdegnavano la compagnia delle due persone che, dopo i loro figli Iveonte e Rindella, amavano di più, le quali erano Lucebio e Madissa. Ovviamente, se al re Cloronte interessava conversare con il suo saggio amico e suo ex consigliere, la regina Elinnia voleva intrattenersi con la sua ex prima damigella d'onore. Inoltre, il sovrano dorindano aveva voluto che fosse Lucebio a portare avanti il governo della città, come già stava facendo da alcuni mesi, almeno fino a quando il suo primogenito Iveonte non si fosse presentato a corte. Così, al suo ritorno, egli avrebbe abdicato in suo favore, facendolo diventare il nuovo degno sovrano di Dorinda. Volendosi tirare in ballo anche la principessa Lerinda, per conoscere i suoi rapporti con l'anziana coppia di sovrani, bisogna chiarire alcune cose. Specialmente il re Cloronte, non aveva visto di buon occhio il fidanzamento del loro primogenito con la sorella di chi, dopo avergli usurpato il trono, lo aveva condannato insieme con la moglie al carcere a vita. Ma poi entrambi i coniugi regali, dopo averla frequentata da vicino, si erano capacitati che la ragazza, grazie alla sua amabilità e all'immenso amore che gli voleva, avrebbe reso il loro primogenito oltremodo felice. La principessa, da parte sua, tutti i giorni andava a trovarli, cercando di essere ad entrambi utile a qualunque costo.

Per l'intercessione di Lucebio, dopo il loro giuramento di fedeltà al loro re, Solcio era stato nominato Comandante della Guardia d'Onore, carica già ricoperta dal nonno Sosimo; mentre Polen aveva assunto il comando del Corpo di Guardia, che era situato all'ingresso della reggia. In verità, la seconda carica era stata proposta a Zipro; ma egli aveva preferito fare da vice al suo amico Solcio, volendo stare a contatto con lui il più possibile. Invece il figlio del defunto Trisippo aveva nominato, quale suo vice, l'amico Liciut, che aveva accolto con gioia tale nomina. Sosimo, da parte sua, quando aveva appreso che al suo nipote preferito era stata conferita dal re Cloronte l'alta carica da lui occupata un tempo, ne era stato lietissimo. Ma era convinto che era stato l'amico Lucebio a proporre al sovrano di Dorinda quell'ambita nomina a favore di Solcio. Comunque, egli non aveva potuto negare che il nipote se l'era guadagnata per i suoi alti meriti.

Dopo che tutti gli ex ribelli avevano sloggiato dall'altopiano, che fino a poco prima era stato usato come loro nuovo campo, naturalmente insieme con le loro famiglie, anche Croscione aveva dovuto cambiare casa. Allora Lucebio gli aveva prospettato le due seguenti alternative: poteva scegliere tra l'andare a vivere presso la reggia del re Raco oppure restare a Dorinda, occupando la stessa stanza che gli aveva assegnato il re Cotuldo, dopo che era rimasto cieco. Egli, pur non gradendo nessuna di tali opzioni, aveva dato la sua preferenza alla seconda delle due. Lucebio, però, avrebbe dovuto prima chiedere ed ottenere l'autorizzazione del sovrano, circa il suo alloggiamento nella reggia. In cuor suo, però, non era sicuro che l'amico re gliel'avrebbe concessa, trattandosi dell'uomo che aveva fatto molto male ai suoi sudditi, in qualità di braccio destro dell'odioso re Cotuldo. Così il giorno successivo, nella tarda mattinata, quando i regnanti si erano già alzati dal letto ed avevano anche fatto colazione, Lucebio si era presentato al re Cloronte. Costui, nel vederselo davanti, subito gli si era rivolto, dicendo:

«Hai fatto bene, amico mio, a venirmi a trovare! Sai, stamattina avevo proprio bisogno di te! Ad ogni modo, non è nulla di importante. Non sono da prendersi in considerazione neppure gli affari di stato.»

«Perché mai, amico mio, oggi ti necessita la mia compagnia? Spero che la tua salute non c'entri in questo tuo desiderio odierno!»

«Puoi stare tranquillo, mio caro Lucebio, poiché, almeno nel fisico, non posso lamentarmi. Te lo posso assicurare!»

«Allora, mio sovrano, a cosa è dovuto questo tuo bisogno di avermi vicino, visto che ti senti bene fisicamente e non ti preoccupa niente che possa essere attribuito al governo della nostra città? Me lo dici, sire?»

«Stamani, pupillo del mio defunto genitore, mi sento soltanto un po' spossato, per cui la spossatezza mi deprime il morale. Ma sono sicuro che mi basta una bella conversazione con te per allontanare da me la cupezza della mia psiche e recuperare così la mia serenità.»

«Re Cloronte, se il conversare con me riuscirà a guarirti del male passeggero di questa mattina, trasferiamoci subito nel patio, dove ci daremo a chiacchierare per tutto il tempo che vorrai. Così approfitterò per farti anche una mia richiesta, la quale riguarda un caso pietoso, che vorrei si risolvesse con un gesto caritatevole da parte tua.»

«Se anche tu necessiti di avere un colloquio con me, amico mio, affrettiamoci a raggiungere il luogo da te suggerito, dove potremo parlare nella massima tranquillità. Ma prima mi devi promettere che, una volta che avremo raggiunto il patio, non ti azzarderai ad usare nei miei confronti alcun titolo regale, come sire, re, sovrano, e via dicendo. Invece ti rivolgerai a me, chiamandomi solamente Cloronte, come se fosse un tuo fratello, proprio come facevi con il mio genitore. Ci siamo intesi?»

«Te lo prometto, amico mio, perché gli ordini di un sovrano non si discutono, ma si eseguono sempre con la più grande ubbidienza!»

Poco tempo dopo, essi si trovavano già nel meraviglioso giardino della reggia, dove un'abbondanza di fiori stupendi facevano mostra dei loro colori sgargianti e diffondevano nelle aree adiacenti i loro intensi effluvi profumati. Dopo esserci stati un centinaio di passi da parte loro, i due amici si erano seduti sopra una panchina marmorea. Era stato Lucebio a parlare per primo, chiedendo al suo sovrano:

«Mi dici adesso, Cloronte, cos'è che ti priva della serenità, per cui ti senti anche psichicamente un pochino depresso?»

«In verità, Lucebio, non te lo so spiegare con esattezza; però in me c'è qualcosa che mi fa essere giù di corda. Anzi, non riesco neppure a raccapezzarmi. Forse perché regna in me una grande confusione mentale, la quale mi toglie perfino la voglia di agire e di pensare. Ma sono certo che, facendo quattro chiacchiere con te, vincerò la mia attuale abulia. Ne sono convinto!»

«Lo penso anch'io, amico mio, poiché noto in te unicamente dei sintomi di una lieve depressione, i quali spariranno durante la nostra conversazione. Ma sono portato a credere che questi tuoi momenti di confusione e di incertezza siano dovuti all'assenza del tuo primogenito da Dorinda. Soprattutto al fatto che temi che egli non possa farcela nella sua nuova missione e che non lo rivedremo mai più in mezzo a noi. Invece devi scacciare da te un pensiero simile, siccome tuo figlio Iveonte è destinato a trionfare su chiunque e su tutto. Perciò presto egli farà ritorno a Dorinda, da orgoglioso vincitore.»

«Grazie, Lucebio, per le tue incoraggianti parole, poiché esse mi stanno infondendo una illimitata fiducia in mio figlio. Inoltre, scacciando da me l'angoscia, mi fanno sentire meglio. Adesso che mi sovviene, non mi avevi detto che avevi una richiesta da farmi e che essa era attinente ad un caso pietoso? Ma prima che io ne venga a conoscenza, c'era proprio la necessità di rivolgerti a me, quando invece potevi tu stesso risolvere la questione che ti sei trovato a gestire? Sapevi già che nelle tue mani ho riposto ogni potere e che tutto ciò che per te andava bene era benaccetto anche a me.»

«Questo è vero, Cloronte. Ma la questione, che avevo da sottoporti, rivestiva un carattere delicato ed avevo bisogno della tua autorizzazione per essere risolta, senza che poi avessi a pentirmene, se dopo tu non saresti stato d'accordo. Ad ogni modo, se dipendesse da me, io non sarei contrario a mostrarmi misericordioso con il soggetto del caso pietoso, sul quale tra poco ti riferirò.»

«Allora sentiamo di cosa si tratta, caro amico mio. Così dopo saprò dirti anche se hai fatto bene a chiedere la mia autorizzazione oppure sarebbe stato bastevole la tua decisione a portare in porto il caso che avevi avuto tra le mani.»

«Eccomi qui a relazionarti sul caso in questione nei minimi dettagli, mio caro Cloronte, in modo che tu possa avere a disposizione tutti gli elementi sufficienti a permetterti di decidere con consapevolezza e con giustizia. Quando tu eri in prigione, intanto che il re Cotuldo vessava il nostro popolo, il tiranno aveva incaricato il suo braccio destro Croscione di dare la caccia ai ribelli e di intervenire con espoliazioni indebite contro i possidenti Dorindani. Molti di loro, infatti, per essersi ribellati, sono stati uccisi oppure sono stati messi a marcire nelle prigioni. Insomma, nella nostra città egli rappresentava il terrore personificato, visto che ogni giorno vi seminava morti e vi commetteva abusi, senza usare la misericordia con nessuno.»

«Non mi dire, Lucebio, che è proprio lui il soggetto del caso pietoso, per cui dovrei esprimermi a suo favore oppure contro di lui!»

«Certo che è lui, amico mio! Ma lasciami proseguire nella mia relazione sul medesimo, senza saltare le cose importanti che lo riguardano. Ebbene, in seguito, al tempo che tuo figlio Iveonte e i suoi amici Francide ed Astoride si unirono a noi ribelli, cioè quando il tuo primogenito risultava anche il fidanzato della principessa Lerinda, il duro Croscione si ritrovò ad essere cieco. Fu allora che egli, avendo cominciato a stimare tuo figlio, gli chiese anche di permettergli di venire ad abitare nel mio campo. In tale circostanza, gli fece pure presente che sapeva ogni cosa sui ribelli e che egli sarebbe stato dalla nostra parte. Noi lo accettammo con riserva. Quando poi Iveonte e i suoi amici lasciarono il mio campo, Croscione si è sempre comportato come un vero ribelle e, nelle sue possibilità, ha cercato di esserci molto utile. Prese a cuore anche la situazione di tua figlia Rindella, quando ella corse il pericolo di morte, a causa di una setta religiosa che cercava di sacrificarla al loro dio. Alla fine, insomma, egli si è anche guadagnato la mia amicizia.»

«Adesso che mi hai esposto a grandi linee la vita di tale personaggio, Lucebio, mi vuoi dire qual è il problema che dovrei risolvere, il quale non potrà che interessare lui? Attendo di apprenderlo da te.»

«Prima di venirsene a vivere presso di noi, il suo sovrano gli aveva assegnato nella reggia una stanza, dove potere trascorrere le sue giornate, non essendoci nessuno che si prendesse cura di lui e lo conducesse fuori di tanto in tanto a prendere una boccata d'aria. Così, adesso che il campo dei ribelli non esiste più, egli mi ha chiesto di ritornare ad abitare lo stesso luogo, poiché non gli farebbe piacere andarsene a vivere a Casunna, presso la reggia del re Raco. Quindi, quale risposta dovrò dargli? Ti ricordo che tuo figlio Iveonte, nella sua infinita bontà d'animo, avrebbe accolto la sua richiesta.»

«Per il momento, Lucebio, essendo il sovrano di Dorinda, decido io in merito. Perciò non sono disposto a dare ospitalità proprio nella mia reggia a colui che per molti anni non ha fatto altro che perseguitare la mia gente, facendola soffrire moltissimo. Già è troppo che non lo condanno alla pena capitale e gli consento di andarsene a vivere nella sua Casunna. Anzi, non permetterò neppure a parte dei miei soldati di accompagnarlo in quella città. Ecco quanto Croscione si merita, per la sua cattiveria dimostrata verso il mio popolo, intanto che la mia consorte ed io marcivamo in una prigione!»

«Sei sicuro, amico mio, che non ci vuoi ripensare? Nessun perdono riesce a nascere in te verso di lui, pur tenendo presente che tuo figlio Iveonte lo ha già perdonato, avendo creduto nella sua attuale buonafede? Anch'io sarei contento, se da parte tua ci fosse un atto di clemenza verso colui che si è pentito del suo infame passato ed abbracciò lealmente la nostra causa, cercando in tutti i modi di darci degli ottimi consigli, pur di tirarci fuori dalle nostre difficoltà.»

«Così ho deciso, Lucebio, e così dovrà essere! Al massimo gli consento di rimanere nella mia città, nel caso che ci sia qualcuno a badare alla sua vita, visto che il suo stato di cecità gli crea non pochi problemi. Quando poi sul trono di Dorinda ci sarà il mio Iveonte, deciderà lui quale nuova sistemazione vorrà assegnargli. Adesso però, amico mio, riaccompagnami dalla mia consorte, poiché comincio a non sopportare più il non averla accanto. Quando sono vicino a lei, i miei acciacchi vengono avvertiti di meno dal mio organismo.»

Nel pomeriggio di quello stesso giorno, Lucebio si era rincontrato con l'ex consigliere del defunto re Cotuldo e gli aveva chiarito:

«Mio caro Croscione, in mattinata ho parlato al mio amico re della tua situazione per una tua sistemazione nella reggia, proponendogli quella che già ti aveva assegnata il tuo sovrano. Ma egli non ne ha voluto sapere, dichiarandomi che non darà mai ospitalità all'uomo che in passato è stato inflessibile verso il suo popolo, maltrattandolo nel peggiore dei modi. Pur facendogli presente che il figlio Iveonte ti aveva già perdonato, lo stesso è rimasto irremovibile nella sua decisione. Secondo lui, già ti concede abbastanza, se ti evita la condanna a morte e ti lascia vivere in Dorinda. In seguito ci penserà suo figlio a sistemarti nel luogo che egli sceglierà per te.»

«Capisco il re Cloronte, mio caro Lucebio. Ma come farò io a vivere da solo in Dorinda, senza avere una casa dove abitare e qualcuno che mi accudisca? Io ho bisogno di una persona pia che badi a me!»

«Questo è senz'altro vero, Croscione. Perciò non ti si può abbandonare in balia della tua cecità. Comunque, ti prometto che entro domani riuscirò a trovare un rimedio alla tua infelice situazione. Esso ti risulterà anche migliore di quella che sarebbe dovuta essere per te una emarginazione nell'angusta stanzetta della reggia.»

«Ti ringrazio, Lucebio. Forse immagino pure il posto dove hai deciso di portarmi a vivere. Ebbene, nel palazzo del tuo amico Sosimo, il quale abbonda di generosità, mi sentirei più a mio agio, essendoci già vissuto per breve tempo. Nella sua casa mi sono trovato molto bene. Oppure mi sono sbagliato a pensare a lui?»

«È proprio lì che ho pensato di sistemarti, Croscione, anche se dovrà esserci ancora l'approvazione del mio amico. Ma sono sicuro che egli, memore di quanto allora facesti per la sua famiglia, sottraendola alle grinfie del re Cotuldo, ti accetterà volentieri nella sua casa. Quindi, domani stesso andrò a parlargli del tuo caso.»

Come aveva immaginato Lucebio, il suo amico Sosimo aveva accettato di buon grado di ospitare Crocione nella sua casa, anche perché intendeva disobbligarsi con lui di quanto egli aveva fatto per la sua famiglia, evitando ad essa di trovarsi in cattive acque. Ciò era avvenuto, quando lo stalliere Comun aveva denunciato l'intera sua famiglia come ribelli e i soldati erano già sul punto di arrestarli tutti.







CAPITOLO 474



IL DIO KRON INVITA LE DIVINITÀ POSITIVE A TRASFERIRSI IN LUXAN



Non avendosi ancora nessuna notizia dell'umano Iveonte, il dio Kron si era incontrato con il divino gemello, dopo averlo invitato nella sua dimora. Quando il dio dello spazio lo aveva raggiunto, evitando ogni preambolo, aveva iniziato a dirgli:

«Locus, in Kosmos le cose si vanno mettendo al peggio. Da una parte, Buziur, nelle vesti della Kosmivora, continua a mettere sottosopra le galassie che incontra; dall'altra, l'eroico Iveonte non dà ancora notizie di sé. Quindi, se non vogliamo muoverci troppo tardi, occorre da parte nostra prendere subito qualche provvedimento.»

«Ti capisco, mio caro Kron. Ma come intenderesti affrontare la situazione, se contro l'Imperatore delle Tenebre non possiamo intervenire per costringerlo al silenzio? Se invece hai pensato qualcosa a tale riguardo, datti pure a mettermi al corrente di ogni cosa!»

«Per il momento, fratello mio, siccome il nostro asso nella manica sembra che si sia perso, non vedo altra via da seguire che quella di invitare tutte le divinità positive residenti in Kosmos a trasferirsi in Luxan. Solo così esse, almeno quelle che non sono state ancora catturate dalla Deivora, non andranno incontro a dei seri problemi. I quali comprometterebbero per sempre una loro futura esistenza nel Regno della Materia e del Tempo. Ecco come la vedo io, Locus!»

«Se ne sei certo, Kron, vorrà dire che ricorreremo a questa unica possibilità che abbiamo, allo scopo di raggranellare dal nostro intervento qualche profitto a favore delle nostre divinità esistenti in Kosmos. Saremo però obbligati a lasciare al loro destino una infinità di Materiadi, che abitano sulle superfici di molti pianeti e satelliti. Essi, così, andranno incontro ad un futuro catastrofico, il quale li farà sparire dal Regno della Materia e del Tempo.»

«Purtroppo, Locus, avverrà proprio quanto hai previsto, non potendosi venire in loro soccorso nel modo più appropriato!»

«Se le cose sono destinate ad andare in questo modo, Kron, mi dici come intendi avvisare le divinità della nostra stessa natura che devono interrompere al più presto la loro permanenza in Kosmos e trovare rifugio nel Regno della Luce, a causa del grande pericolo che sta per raggiungerle? C'è poi il problema delle divinità latenti. Il nostro avviso raggiungerà pure loro per farle rifugiare in Luxan?»

«Per potere avvisare tutte le divinità benefiche che vivono in Kosmos, mio caro gemello, dobbiamo ricorrere all'immedesimazione transluxaniana. Essa è la sola che potrà permetterci di proiettarci in Kosmos e di farci espandere in esso effettivamente. Questa volta, però, dovendo pervenire a tutte le nostre divinità che vi si trovano, senza che nessuna di loro venga esclusa, bisognerà affinare la nostra espansione nello spazio cosmico. Così ogni più piccolo spazio di esso verrà da noi raggiunto e posto sotto il nostro rigoroso controllo.»

«Vorrei sapere, Kron, come dovremmo affinare il nostro reale trasporto nelle più profonde regioni di Kosmos. Comunque, esso non potrebbe interessare le galassie già invase dalla Kosmivora, non potendo noi fare più niente contro le divinità che vi risiedevano.»

«Locus, nel nostro nuovo trasporto transluxaniano nella realtà cosmica, attiveremo la propagazione multifunzione. Attraverso la quale, fra le altre cose, potremo anche messaggiare in contemporaneità la totalità delle divinità positive esistenti nell'intero Kosmos. Con una simile propagazione, quindi, non ci sarà solo il nostro sguardo effettivo ad abbracciare il suo spazio infinito; ma in seno ad esso potremo pure interagire con i mondi e con gli esseri che vi vengono coinvolti. Di conseguenza, venendo essa ad avere la minima distanza da loro, anche le divinità latenti non sfuggiranno al suo influsso e verranno messe al corrente di quanto la medesima gli vorrà partecipare.»

«Allora, fratello Kron, cosa aspettiamo ad attuare l'immedesimazione transluxaniana, integrata questa volta con la propagazione multifunzione? Se ho bene inteso, non si può più perdere tempo, se vogliamo dare ad un gran numero di divinità positive la possibilità di non cadere nelle maglie dell'insidiosa Kosmivora. La stessa tua figlia Kronel e il quartogenito della dea Lux, che è Luciel, corrono un tale pernicioso pericolo, siccome essi non potranno essere avvisati tramite il tuo anello. Infatti, l'umano Iveonte è impegnato altrove, ad una immensa distanza da lei.»

«Hai proprio ragione, Locus! Diamoci subito ad immedesimarci e ad espanderci in Kosmos per occuparlo in tutta la sua infinita estensione. In questo modo, faremo pervenire il nostro messaggio a tutte le divinità positive che vi risiedono, comprese quelle latenti. Esso sarà il seguente: “Divinità benefiche, siamo gli eccelsi Kron e Locus a riferirci a voi, che esistete in Kosmos ed avete ancora la possibilità di farlo. Vi invitiamo a trasferirvi subito in Luxan, prima che un grave pericolo vi raggiunga e vi obblighi alla non-esistenza. Esso è imminente e può presentarsi a voi in ogni momento. Inoltre, vi preannunciamo che tra non molto nel Regno della Materia e del Tempo ci saranno grandi sconvolgimenti, siccome collasseranno intere galassie, con la fine di molte stelle, di molti pianeti e di molti satelliti. Ne sarà responsabile la Kosmivora, una mostruosa creatura che racchiude in sé i caratteri più devastanti appartenenti alla cattiveria, alla perversione e alla distruzione. Insieme con l'annientamento dei pianeti e dei satelliti periranno una quantità innumerevole di Materiadi, i quali dovranno piegarsi di fronte al loro nuovo destino”»

Essendoci stata anche l'approvazione del dio dello spazio, le due divinità eccelse si erano date ad effettuare l'immedesimazione transluxaniana e la propagazione multifunzione. Al termine delle quali, l'universo era stato invaso da entrambe, che erano divenute una unica entità divina. Esse vi si erano propagate attraverso la loro esplosione espansiva, indagativa e dedita a rendere effettivo il virtuale, affinché il loro volere congiunto vi si dilagasse con un qualsiasi atto concreto. In questo caso, quest'ultimo avrebbe dovuto identificarsi con il solo messaggio che avevano intenzione di trasmettere alle divinità positive di Kosmos, del quale siamo venuti anche a conoscenza. Ma la sua trasmissione, da parte del dio Kron e del dio Locus, ci sarebbe stata, senza che essa venisse captata pure dalle divinità negative con la loro percezione auditiva e con la loro facoltà visiva. Alla fine la loro missione si era esaurita con successo, poiché tutte le divinità benefiche avevano potuto ascoltare il messaggio vocale del dio del tempo. Del cui contenuto erano state messe al corrente anche quelle che risultavano catturate dalla Kosmivora. Perciò esse non avevano potuto usufruirne e condursi in Luxan, essendo impossibilitate a farlo. Invece tutte le altre avevano iniziato ad abbandonare Kosmos con sollecitudine, con l'intento di raggiungere al più presto il Regno della Luce. Fra queste ultime, erano stati scorti anche la diva Kronel e il suo fratellastro Luciel.



La quartogenita del dio Kron si trovava presso il divo Luciel, quando era giunto l'importante messaggio del genitore. Essi, dopo averlo udito, lo avevano accolto con grandissima preoccupazione; ma era stato il figlio della dea Lux a chiedere alla divina sorellastra:

«Non sei anche tu preoccupata quanto me, Kronel? Se tuo padre ha invitato tutte le divinità positive a rifugiarsi in Luxan, ciò vuol dire che sta succedendo qualcosa di brutto in Kosmos. Ne sono sicuro!»

«Senz'altro sarà così, Luciel; per questo ne sono preoccupata anch'io. Quindi, bisogna ubbidirgli, senza che da parte nostra si perda tempo! Ad ogni modo, il suo messaggio mi sta impensierendo ancora più di te, poiché mi sta mettendo addosso molta agitazione.»

«Perché dici così, Kronel? Tu sai forse qualcosa che io non conosco? Se ho ragione, ti va di parlarmene, perché io ti comprenda?»

«Devi sapere, Luciel, che è stato Buziur, l'Imperatore delle Tenebre a costringere gli eccelsi gemelli ad invitarci a trovare rifugio in Luxan, allo scopo di non farci diventare sue prede.»

«Da quando in qua, Kronel, il dio della superbia detta legge nel Regno della Materia e del Tempo, per cui neppure Kron e Locus possono niente contro di lui? Vuoi spiegarmi questo particolare, che non comprendo?»

«Da quando egli è diventato Kosmivora, Luciel, contro la quale nulla possono mio padre e mio zio Locus. Buziur adesso è in grado di sconvolgere intere galassie e mandare in sfacelo tutti gli astri che vi si trovano, senza che entrambi, pur ricorrendo all'immedesimazione transluxaniana, possano neutralizzarlo in qualche modo. Adesso egli va anche a caccia di noi divinità benefiche, poiché la nostra componente psichica, dopo che essa ce ne ha private, la rende ancora più potente. Invece la nostra esistenza, una volta diventate sue prigioniere, smette di essere tale, siccome diventa uguale a quella che ci troveremmo ad avere, se ci buttassimo nell'Abisso dell'Oblio. Anche se si ignora come la Kosmivora riesce ad agire su di noi in tal modo.»

«Allora, Kronel, perché gli eccelsi Kron e Locus non fanno intervenire Splendor contro una creatura simile? Egli di sicuro l'annienterebbe senza alcuna difficoltà, essendo lui il creatore di Kosmos.»

«Se essi non ricorrono al suo intervento, Luciel, è perché un fatto del genere non è possibile. Per costringere Buziur a non essere più Kosmivora e a farlo ritrovare di nuovo in Tenebrun, il creatore di tutte le divinità dovrebbe soltanto far sparire l'intero Kosmos. Ma in quel caso ci andrebbero di mezzo soprattutto tutti i Materiadi.»

«Adesso capisco, Kronel, perché ti mostri abbastanza allarmata, diversamente da me. Sei in ansia per il tuo Iveonte, che è un Materiade della specie umana. Temi anche per lui una fine miserabile, dopo che l'intero sistema eliosino, nel quale si trova anche il pianeta Geo, sarà stritolato e polverizzato dalla furia della Kosmivora.»

«Non sono preoccupata per lui, Luciel, poiché egli, essendo in possesso dell'anello di mio padre, potrebbe sempre allontanarsi dal luogo dove infuria la tempesta provocata dalla Kosmivora e salvarsi. Ma mi preoccupano i suoi familiari, i suoi parenti e i suoi amici, le cui morti lo renderebbero immensamente triste.»

«Questo è anche vero, Kronel. Mi era sfuggito questo dettaglio, il quale gioca a suo favore. A proposito del tuo pupillo, sorella, mi dici che fine ha fatto? Mi sembra strano che egli non si sia fatto più vedere!»

«In verità, Luciel, adesso sono in ansia in particolar modo per Iveonte, dopo che mio padre ci ha trasmesso il suo messaggio.»

«Perché mai, Kronel? Non avevi detto che per lui non c'erano pericoli, poiché l'anello di tuo padre lo avrebbe tenuto lungi da essi?»

«Certo, Luciel! Ma in quel momento avevo dimenticato qualcos'altro sul mio pupillo, che adesso invece mi è riaffiorato.»

«Allora riferiscimi di cosa si tratta, Kronel, per farmi intendere meglio quanto ti turba e non ti fa stare tranquilla.»

«Mio padre Kron e mio zio Locus, non sapendo come riuscire a debellare la Kosmivora, sotto le cui spoglie si cela e si attiva Buziur, come ultima spiaggia il mio genitore ha deciso di ricorrere al Potere Kosmico. Esso, a suo parere, è l'unico capace di neutralizzare e mettere in rotta la perniciosa arroganza dell'Imperatore delle Tenebre.»

«Dove si trova un potere del genere, Kronel? Chi ne è dotato? Ad esserti sincero, non ne ho mai sentito parlare da nessuna divinità.»

«Come potevi conoscerlo, Luciel, se neppure mio zio Locus sapeva che esistesse, pur essendo il dio dello spazio? Mio padre, invece, anche se non so come ne era venuto a conoscenza, era al corrente di esso. Per cui ha voluto giocare l'ultima carta con esso.»

«Vorrei sapere in che modo, Kronel. In Luxan tutte le divinità sanno che l'eccelso tuo padre le sa tutte e non gli sfugge niente. Perfino il fratello Locus ogni volta si affida alla sua elasticità mentale, quando c'è un problema da risolvere, di qualunque tipo esso sia. Prima, però, non dimenticarti di dare la risposta alle mie precedenti domande, altrimenti va a finire che, venendone fuori un guazzabuglio di idee e di pensieri, non ci capirò più niente e ti farò così parlare a vuoto.»

«Allora mi tocca procedere per gradi, Luciel, e metterti al corrente di ciò che ho appreso da poco tempo da Iveon, il dio dell'eroismo. Il Potere Cosmico si trova in Potenzior e all'inizio apparteneva a Tupok, il signore di tale regno extracosmico. Il quale è una eviscerazione spaziale formatasi da Kosmos, all'insaputa dello stesso Splendor, intanto che creava il suo universo. Perciò Tupok e il suo straordinario potere si ritrovarono ad essere autonomi, senza avere nulla a che fare con il Regno della Materia e del Tempo. Per la quale ragione, essi da sempre sono passati per non esistenti da noi divinità luxaniane.»

«Fino a questo punto, Kronel, ti sei fatta seguire senza problemi da me. Ora, però, ti prego di andare avanti. Sono ansioso di conoscere come ha inteso il tuo insigne genitore impossessarsi del Potere Cosmico e servirsene. Non mi dire che userà ancora Iveon per neutralizzare ed abbattere la Kosmivora!»

«Invece, Luciel, nella vicenda questa volta l'eroico dio ci entrava come i cavoli a merenda, a dirla con gli esseri umani. Infatti, il Potere Cosmico si lascia dominare soltanto da un Materiade, il quale però deve essere molto in gamba, se vuole raggiungere lo scopo.»

«Scommetto, Kronel, che i due eccelsi gemelli hanno deciso di inviare in Potenzior Iveonte, avendo in lui la massima fiducia! Anch'io sono convinto che egli riuscirà ad impadronirsi del Potere Cosmico, essendo pure in possesso del portentoso anello di tuo padre.»

«Prima di trarre conclusioni affrettate, Luciel, fatti ragguagliare di ogni cosa in modo dettagliato, senza che ti ometta nulla! In primo luogo, il Materiade, che intende entrare in Potenzior, oltre che è obbligato a pronunciare la formula di rito, deve portare con sé armi comuni, cioè che non siano opere donate da divinità. Infatti, Iveon ha accompagnato il mio protetto, appunto per farsi anche consegnare da lui la mia spada e l'anello, il quale è fattura di mio padre e di mio zio. In secondo luogo, Iveonte non dovrà fare richiesta del prodigioso potere al Signore di Potenzior, con la speranza che egli glielo lasci prendere, tenuto conto delle sue buone intenzioni a favore di tutti i Materiadi residenti in Kosmos. In quel caso, neppure le armi comuni gli sarebbero servite, poiché egli non sarebbe riuscito a piegare Tupok ai suoi voleri, minacciandolo con la spada o con altre armi.»

«Mi dici allora, Kronel, nelle mani di chi si trova adesso il Potere Cosmico, contro il quale Iveonte dovrà lottare, se vuole impadronirsene?»

«Per volontà stessa di Tupok, esso è tenuto in custodia da cinque Materiadi, detti Guardiani del Potere Cosmico, per cui nessuno di loro è in grado di metterlo in funzione per farlo agire contro qualcuno o contro qualcosa, possedendone egli solamente la quinta parte. Difatti, solo esistendo nella sua interezza, tale invincibile potere può essere manovrato da chi se ne impossessa.»

«Chi sarebbero, sorella, i cinque Materiadi scelti per custodire un potere così eccezionale? Secondo me, essi possono essere stati solo degli eroi eccezionali, per essersi guadagnata la stima di Tupok!»

«Infatti, fratello, ciascun guardiano, sul suo pianeta di origine, risultò essere un grandissimo eroe. Per tale motivo, sarà dura per Iveonte affrontarli singolarmente ed impadronirsi della parte di Potere Cosmico custodita da ognuno di loro. E ciascuna sua contesa con il suo rivale dovrà risolversi con un duello all'ultimo sangue.»

«Non serve dirti, Kronel, che è stata la decisione di tuo padre ad allarmarti e a farti essere giù di corda. Sicura che essa è scaturita dal fatto che il tuo pupillo non ha dato più notizie di sé, non è stato difficile per te immaginare che egli sia potuto perire in Potenzior.»

«In un certo senso, Luciel, hai fotografato il mio stato d'animo. Ma io sono più propensa a pensare che Iveonte sopravvivrà a questa sua ennesima missione e salverà una parte di questo Kosmos, che presto la Kosmivora manderà in rovina.»

«Posso darti un suggerimento, Kronel, il quale ti libererà da ogni ambascia attuale? Sono sicuro di non sbagliarmi.»

«Cosa vorresti suggerirmi, Luciel, per non farmi stare nell'apprensione che sto vivendo in questo momento?»

«Al posto tuo, cara sorella, siccome ne hai la facoltà, mi immergerei nel futuro ed andrei a vedere come finiranno qui le cose, dopo che saremo rientrati in Luxan.»

«Hai proprio ragione, fratello! Non riesco a rendermi conto come mai non ci ho pensato prima. Ti ringrazio per il tuo suggerimento. Ora lascio subito il tempo presente e raggiungo quello futuro. Ma dovrò stare attenta a non trovarmi nell'altro tempo, mentre vi incalza la furia della Kosmivora. Perciò mi converrà gestire il tempo diretto all'avvenire, dosandolo in un quinquennio per volta.»

Detto fatto, la diva era scomparsa alla vista del fratello; ma un attimo dopo ella era riapparsa nello stesso posto e si era data a parlare di nuovo al quartogenito della dea Lux, dicendogli:

«Luciel, la Kosmivora è in rapido avvicinamento e tra poco raggiungerà anche il pianeta Geo. Nel primo quinquennio, a partire da oggi, non immagini neppure cosa sarà di esso, quando la creatura infernale imperverserà nella galassia Lactica ed infurierà contro gli astri che vi si trovano. Anche l'astro spento in questione verrà spazzato via, dopo essere stato frantumato in una miriade di asteroidi dalle dimensioni diverse. Perciò anche coloro che lo abitano faranno una brutta fine e scomparirà ogni traccia della loro esistenza.»

«Voglio sapere del tuo Iveonte, Kronel! Cosa mi sai dire di lui? Riuscirà a sconfiggere i cinque guardiani di Potenzior e ad impadronirsi del Potere Cosmico? Su, riferiscimi sull'eroe umano!»

«Certo che ci riuscirà, Luciel! Quando ci sarà il suo ritorno in Kosmos, le cose si metteranno male per la Kosmivora, la quale sarà obbligata a cessare la sua distruttiva presenza nel Regno della Materia e del Tempo. Infatti, Iveonte la ricaccerà in Tenebrun. Dopo la sua cacciata, egli si darà a rimettere a posto ogni cosa nella realtà cosmica, poiché molta di essa è andata soggetta a danni catastrofici.»

«Sorella mia, sono felice per te, per lui, per i suoi familiari e per i suoi parenti, oltre che per i suoi amici. Tutti loro, dopo aver subito i soprusi della morte, grazie al loro eroe, si rivedranno risorgere a nuova vita. A questo punto, però, se non vogliamo farci sorprendere dalla Kosmivora, dobbiamo affrettarci a rientrare in Kosmos.»

«Hai ragione, fratello, a dire che bisogna fare in fretta a raggiungere Luxan; ma prima è mio dovere presentarmi a certe persone che se lo meritano e metterle a conoscenza di quanto sta per succedere a tutte loro. Nello stesso tempo, le informerò che dopo il loro Iveonte interverrà a rendere l'universo uguale a quello di prima, nella cui restaurazione sarà compresa anche la loro resurrezione.»



Nel tardo pomeriggio di un giorno autunnale, il re Francide si intratteneva a conversare nel patio con l'amico Astoride e con le tre donne di casa reale, che erano la madre Talinda, la moglie Rindella e la sorella Godesia. Adesso la loro conversazione stava riguardando il loro benamato Iveonte e la sua misteriosa missione, chiedendosi se fosse ancora arrivato al traguardo e ne stesse anche ritornando da trionfatore. Si era perciò nel mezzo della nuova discussione, la quale invitava ciascun conversatore ad esprimere il proprio pensiero in merito, quando Francide aveva scorto ad una decina di metri dal loro gruppo un uomo. Lo sconosciuto era apparso all'improvviso in quel posto in cui si trovava, dal quale dopo aveva cominciato a fargli cenno di raggiungerlo, poiché aveva bisogno di parlargli. Allora il sovrano di Actina, che non ci aveva messo molto a rendersi conto che gli altri non vedevano il nuovo ospite, dopo aver chiesto scusa ai presenti per il suo momentaneo allontanamento da loro, in un attimo lo aveva avvicinato e gli aveva domandato:

«Posso sapere chi sei e come hai fatto a giungere fin qui, senza che le mie guardie ti abbiano fermato all'ingresso della reggia?»

«Per il momento, re Francide, devi fare a meno di avere le due risposte. Invece ti prego di seguirmi, siccome ho da comunicarti alcune notizie molto importanti. Ti sta bene, se ci appartiamo nella sala del trono? Oppure vuoi tu decidere un luogo diverso?»

«Sconosciuto, per me sta bene anche quello da te proposto. Ma puoi anticiparmi se il nostro abboccamento richiederà molto tempo oppure ci permetterà di sbrigarcela in quattro e quattr'otto?»

«In verità, re Francide, ciò che ho da dirti è alquanto complesso, per cui potrebbe richiedere molto del tuo tempo. Quindi, prima di appartarci, ti suggerisco di congedarti da coloro con cui ti intrattenevi.»

Il sovrano, avendo accolto il suggerimento dello sconosciuto, era ritornato dagli altri, che lo attendevano piuttosto confusi ed imbarazzati a causa del suo atteggiamento, ed aveva riferito a loro quattro:

«Vogliate perdonare la mia assenza, o voi tutti, poiché mi si chiede un urgente colloquio privato, da parte di una persona. A dopo!»

Qualche istante più tardi, il re Francide si era congedato dall'amico e dalle tre donne per ritornarsene presso chi lo stava aspettando. Così insieme avevano raggiunto la sala del trono.

Una volta che il giovane sovrano aveva lasciato il patio, Astoride e le nobildonne Talinda, Rindella e Godesia non sapevano in che modo interpretare il comportamento del loro congiunto. Il quale, ad un tratto, si era allontanato da loro, aveva raggiunto chi in realtà non si vedeva e si era dato a parlare con lui. Dopo era ritornato da loro per avvisarli che doveva lasciarli perché qualcuno aveva una impellente necessità di parlargli, per cui andava a riceverlo nella sala del trono. C'era stata anche una brevissima discussione sull'accaduto, cercando ognuno di commentarlo a modo suo. La prima era stata Godesia ad esprimersi su ciò che era successo al fratellastro re, dicendo agli altri presenti:

«Avete visto anche voi come si è comportato mio fratello. Mentre si chiacchierava tra noi, ad un dato momento, egli ci ha lasciati e, dopo aver fatto una ventina di passi, si è fermato ed ha cominciato a parlare da solo. Dopo è ritornato presso di noi per dirci che era obbligato a congedarsi da noi, dovendo ricevere una persona che aveva da comunicargli delle notizie di una certa importanza. Non posso credere che egli sia diventato matto tutto all'improvviso!»

«Invece non lo devi pensare neppure lontanamente, Godesia!» l'aveva contraddetta la ex regina Talinda «Prima di giudicarlo come hai fatto tu, aspettiamo cosa gli è successo in quel lasso di tempo. Credo che anche Astoride e Rindella siano d'accordo con me.»

«Almeno io la penso come te, dolce suocera mia.» le aveva fatto presente la nuora «Io non potrò mai pensare che mio marito abbia perso il senno tutto in una volta. Senz'altro sotto c'è qualcosa che non riusciamo a comprendere. Sarà lo stesso Francide a chiarircelo.»

«Ne sono convinto anch'io» aveva approvato Astoride «Ma io ho già una mia idea sulla vicenda, che può soltanto tranquillizzarmi.»

«Davvero dici, Astoride?» gli avevano chiesto congiuntamente le tre donne, mostrandosi desiderose di conoscerla al più presto.

«Come ci è noto, non è la prima volta che la dea protettrice del suo amico fraterno gli è apparsa per qualche ragione. Perciò sono certo che anche adesso ella, rendendosi visibile solo a lui, lo avrà invitato ad appartarsi con lei per dargli delle notizie di particolare rilevanza. Vedrete che, quando Francide ritornerà tra noi, ce lo confermerà lui stesso che le cose sono andate come da me ipotizzato.»

Anche la madre e la moglie del sovrano avevano convenuto con Astoride che i fatti erano andati esattamente come lui li aveva immaginati. Allora, in un certo senso, se ne erano rallegrate, prima ancora di venire a conoscenza di quanto la diva era venuta a riferire al loro congiunto. Così, essendosi convinti che era stata la diva Kronel a fare agire in quel modo il re Francide, tutti e quattro avevano deciso di lasciare il patio e di ritornarsene nei propri reparti, anche perché la sera era prossima ad arrivare. Per cui le cuoche di corte erano già indaffarate intorno ai fornelli, essendo intente a preparare la cena. Invece un paio di cameriere si dedicavano già ad apparecchiare tavola nell'ampia sala da pranzo, dove avrebbero servito le varie vivande e bevande.

In verità, Astoride, la regina Rindella, la nobildonna Talinda e la principessa Godesia avevano la convinzione che il re Francide si sarebbe rifatto vivo, prima che ci si desse a cenare; ma così non era stato. Anzi, il sovrano li aveva fatti avvertire che non si sarebbe disimpegnato dal suo ospite prima di cena, per cui si sarebbero dovuti sedere a tavola senza di lui. Egli li avrebbe raggiunti, dopo essersi sbrigato. Quando poi c'era stato il suo ritorno presso i suoi congiunti, costoro avevano già finito di cenare e la servitù di corte si dava a sparecchiare e a riportare ordine in sala. Comunque, il suo volto non prometteva nulla di buono, venendo esso segnato da una cupa malinconia. Allora la consorte, preoccupandosene, si era affrettata a domandargli:

«Cosa ti succede, amore mio? È successo forse qualcosa a mio fratello Iveonte, per manifestare una simile tristezza?»

«Iveonte sta bene, dolce mia Rindella. Sono altre cose che mi spaventano. Ad ogni modo, voi donne uscite subito da questa sala e lasciatemi solo con Astoride. Domani, quando ne avrò voglia, vi racconterò ogni cosa. Ma adesso, per favore, ritiratevi nelle vostre stanze, poiché ho deciso di digiunare e di sfogarmi un po' con il mio amico.»

Quando le tre nobili donne avevano lasciato la sala da pranzo, il re Francide aveva invitato il cognato a seguirlo nella sala del trono. Una volta giunti in quel luogo, Astoride subito gli si rivolse, dicendo:

«È vero, Francide, che è stata la diva protettrice del nostro amico Iveonte ad allontanarti da noi per darti delle notizie, a dir poco, spiacevoli? Allora vuoi raccontarmi ciò che ella è venuta a riferirti?»

«Non ti sei sbagliato, Astoride, a pensare a lei, poiché è stata proprio la dea che protegge il nostro comune amico a contattarmi. Così pure hai compreso che il contenuto delle sue informazioni non è stato affatto piacevole, almeno fino ad un certo punto.»

«Sto aspettando che tu me ne parli, amico mio, perché non sopporto che tu viva da solo quello che ritengo sia un enorme drammatico fardello. Il quale potrebbe schiantarti il cuore, se ti astieni dal condividerlo con una persona nella quale poni la massima fiducia.»

«Ebbene, Astoride, da quando la dea me ne ha parlato, io mi sento distrutto in tutti i sensi, poiché si tratta di qualcosa che non può avere un male equivalente al suo in nessun altro cataclisma naturale. Non so quando ciò accadrà, ma sicuramente in tempi stretti, il nostro pianeta sarà sconvolto da terribili terremoti e maremoti, fino a quando una forza più gigantesca e distruttiva non lo frantumerà in tanti pezzi e non lo spazzerà via, costringendo i numerosi frantumi ad una corsa senza fine nell'immenso universo. Di conseguenza, gli esseri umani ed animali che lo abitano lo seguiranno nell'amaro destino ed andranno incontro ad una morte spaventosa.»

«Francide, conosci la causa di questo terribile disastro, il quale si prepara ad assalirci e a condannarci all'annientamento totale?»

«Secondo quanto appreso dalla dea, l'Imperatore delle Tenebre, dopo essersi trasformato in una bestia invincibile, contro la quale nulla possono neppure le più potenti divinità positive, si è data alla caccia di tutte le divinità benefiche che vivono nell'universo. Mentre persegue tale obiettivo, sconquassa anche le galassie che incontra, le quali sono rappresentate dalle stelle, dai pianeti come il nostro, dai satelliti e da altri innumerevoli astri, che ne subiscono le più rovinose conseguenze, sino ad andare incontro al loro collasso definitivo. Quindi, dobbiamo prepararci a morire tutti, senza poter scampare alla nostra morte, la quale sarà preceduta da fenomeni naturali, che riusciranno soltanto ad infonderci delle paure tremende.»

«Ma il nostro Iveonte dove è finito? Non era stato impegnato in una missione, con la cui riuscita egli avrebbe dovuto evitarci una tale incalcolabile catastrofe? Cosa mi dici, Francide, in merito?»

«Infatti, il mio amico fraterno è tuttora impegnato in tale missione, ma non si sa ancora se sia riuscito ad impossessarsi del potere straordinario che dovrà fargli affrontare vittoriosamente la mostruosa creatura, scacciandola dall'universo. Ma già si prevede che egli non farà in tempo a salvare il nostro pianeta e i suoi abitanti. Ecco perché non so come dirlo alle nostre donne. Esse, nell'apprenderlo, saranno assalite da un'angoscia mortificante, che non conoscerà una misura e dei limiti.»

«In questo hai ragione, Francide. Sarà duro per noi tenerle a freno, quando le aggiorneremo sui recenti fatti che abbiamo appreso. Davvero, amico mio, dopo per noi tutto finirà per sempre, per cui possiamo considerarci spacciati già da adesso? Non ci era stato assicurato che Iveonte, con quest'ultima missione, ci avrebbe salvati dalla più grande delle catastrofi naturali e dallo strapotere di una forza malefica, la quale avrebbe cercato di sopraffarci tutti?»

«Se ti fa piacere apprenderlo, Astoride, ci sarebbe qualcos'altro da riferirti; ma non so se la dea me lo abbia detto solo per darmi il contentino e per non farmi disperare nel modo peggiore. Secondo la sua versione dei fatti, il potere, di cui disporrà dopo Iveonte, avrebbe anche la facoltà di far ritornare l'universo ad essere uguale a quello di prima, riportando perfino al loro precedente stato persone, animali e vegetali con tutta la loro essenza vitale.»

«Invece, Francide, io credo a quanto ti ha detto la dea su tale particolare. Per cui, con una simile rosea visione futura, la quale dovrebbe esserci al termine del periodo nero, potremo tenere tranquille le nostre donne ed eviteremo di sorbirci anche la loro disperazione. La quale inizierà ad esserci, subito dopo il nostro primo annuncio.»

Udite le parole di Astoride, il sovrano di Actina si era deciso a raggiungere la sala da pranzo, per mettere qualcosa sotto i denti.

Intanto che il re Francide consumava il suo spuntino, che egli stesso si era preparato, la diva Kronel si era data a volare verso Dorinda. Anche in tale città ella doveva avvisare gli interessati del nefasto evento che stava per sopraggiungervi, allo scopo di farli perire tutti. C'era con lei anche il divo Luciel, poiché prima avevano stabilito insieme che dopo sarebbero ripartiti da quella città stessa ed avrebbero raggiunto il Regno della Luce, dove li attendevano i loro felici genitori. Quando la diva era giunta nella Città Invitta, il sole stava per sorgere, per cui Lucebio sonnecchiava ancora nella sua camera, che era esposta ad oriente. Allora, inondandolo con una luce piuttosto forte, ella lo aveva obbligato ad aprire gli occhi e a farsi scorgere da lui. In quel momento, Kronel indossava una candida tunica, la quale era tenuta stretta alla vita da una cintura celeste ed era sollevata all'estremità. Perciò era da considerarsi succinta.

Nel vedersela davanti, mentre era ferma e l'osservava, il saggio uomo aveva cercato di svegliare la sua compagna, che gli dormiva accanto nello stesso letto. Ma pur dandogli delle piccole spinte con la mano sinistra, ella non si destava e continuava a russare. A quel suo atteggiamento, la graziosa figlia del dio Kron, gli aveva detto:

«Non serve, Lucebio, darti a farle aprire gli occhi. Ella adesso è immersa in un sonno profondo, che nemmeno il più fragoroso dei tuoni riuscirebbe a svegliarla. Inoltre, anche se fosse sveglia, non potrebbe scorgermi, come lo sto permettendo a te.»

«Considerato che le cose stanno come hai detto, ragazza sconosciuta, sei pregata di dirmi chi sei e perché ti sei presentata a me, a quest'ora del giorno. Non mi dire che trovi adatta ad una visita, l'ora in cui il sole comincia appena a nascere all'orizzonte: per giunta, essa sta avvenendo in una camera da letto!»

«Lo so anch'io, Lucebio, che l'ora non è opportuna. Ma a me tutto è permesso. Dirti il mio nome non ti servirebbe a niente, invece ti basta apprendere che sono la dea tutelare di Iveonte. Certo che sì!»

«Hai senz'altro ragione, divina protettrice del mio principe. Comunque, se sei qui, è perché sei venuta a portarmi notizie di lui. Non sai quanto le desideravo da tempo!»

«Lucebio, invece il motivo, che mi ha spinta a farti visita, è ben altro. Sono venuta ad avvertire te e gli altri, ossia congiunti ed amici di Iveonte, che nell'intero universo stanno succedendo delle cose catastrofiche, le quali sono volute dalla più perfida delle divinità malefiche. Essa, dopo essersi trasformata in una creatura che non si lascia debellare neppure da mio padre Kron e da mio zio Locus, pur essendo essi le divinità più potenti dell'universo, si è data a sconvolgere molte delle galassie, insieme con tutti gli astri che vi sono, come le stelle, i pianeti e i satelliti. Presto anche questo vostro pianeta verrà disintegrato dalla sua forza devastatrice e procurerà la morte a tutti voi che lo abitate.»

«Ciò non è possibile, divinità benefica, poiché non è quello che l'oniromante Virco vaticinò a favore di Iveonte. Secondo lui, il primogenito del re Cloronte sarebbe diventato il legittimo sovrano di Dorinda, dopo l'abdicazione al trono del re suo padre. Perciò adesso come la mettiamo? Devo dare più credito a te oppure al vaticinio dell'infallibile Virco, il quale mai sgarrò in nessuna sua profezia?»

«Ti tocca credere a me e a lui, Lucebio, se vuoi stare nel giusto, senza pentirti di aver fatto la scelta sbagliata.»

«Non è possibile un fatto del genere, giovane dea. Dopo che noi della Terra saremo tutti morti, insieme con la distruzione del nostro pianeta, mi sai dire di quale città Iveonte dovrebbe diventare re?»

«Della sua Dorinda, saggio Lucebio. Adesso te ne spiego il motivo. Come già Iveonte vi ha messi al corrente, egli è stato incaricato da mio padre Kron e da mio zio Locus, che sono due divinità eccelse, di andare ad impossessarsi del Potere Cosmico. Il quale rappresenta l'unica forza in grado di affrontare e di sconfiggere la divinità malefica, che è riuscita a far di sé una mostruosa creatura invincibile. Il vostro eroe, però, non giungerà in tempo utile per salvare il proprio pianeta e la gente che abita sulla sua superficie. Te lo posso garantire!»

«Visto che i fatti andranno come hai appena detto, graziosa divinità, mi dici su quale trono siederà il primogenito del re Cloronte? A questo punto, comincio a non capirci più niente, siccome verrà a contrapporsi ad ogni forma di logica. Mi devi tu spiegare un paradosso simile!»

«Ragioni così, Lucebio, perché non ti ho ancora riferito che il Potere Cosmico ha anche il privilegio di poter far ritornare allo stato originario tutto ciò che viene distrutto o danneggiato dalla forza del male. Quando si parla di distruzione e di danneggiamento, ci si riferisce anche ai tre regni della natura di un pianeta, la quale comprende: quello animale, quello vegetale e quello minerale. Nel primo sono compresi anche i Materiadi, una cui sottospecie è rappresentata dall'uomo. Perciò Iveonte, una volta venuto in possesso di tale potere prodigioso, si premurerà di far tornare esistente il proprio pianeta e le persone che vi abitavano.»

«Se le cose stanno così, gentile divinità, da una parte, vengo terrorizzato dal primo pensiero, il quale mi farà immaginare che dovrò andare incontro ad una morte terribile; dall'altra, vengo tranquillizzato dal secondo pensiero, che mi assicura che dopo per me ci sarà la resurrezione. Ma ciò che comincia ad essermi antipatico sarà un terzo pensiero, il quale mi obbliga a rendere coscienti dell'imminente fine del mondo tutti coloro che vivono a corte e con cui mi relaziono ogni giorno. Di certo essi non apprenderanno con gioia quanto andrò a riferirgli!»

«Me lo immagino, Lucebio, e ti comprendo. A questo punto, però, devo lasciarti, poiché io e il mio fratellastro abbiamo fretta di trasferirci in Luxan, che è la dimora di tutte le divinità benefiche.»

Dopo che la diva Kronel se ne era andata via, si era svegliata anche Madissa. Allora Lucebio le aveva parlato della visita che gli aveva fatta la divina protettrice di Iveonte, raccontandole ogni cosa appresa da lei. Ma la compagna gli aveva risposto che si era trattato di un vero sogno.



CAPITOLO 475



LA KOSMIVORA RAGGIUNGE LACTICA E DISINTEGRA IL PIANETA GEO



Intanto che il dio Buziur, sotto le spoglie della Deivora, in Kosmos si dava a fare strage di corpi celesti appartenenti alle galassie che incontrava, i divini eccelsi gemelli avevano avvertito la necessità di incontrarsi di nuovo, dopo che avevano inviato a tutte le divinità positive il messaggio di rifugiarsi in Luxan. Questa volta era stato il dio Kron a condursi nella dimora del dio dello spazio, volendo abboccarsi con lui e discutere su quanto stava accadendo nel Regno della Materia e del Tempo. Ve lo aveva trovato, mentre conversava con la moglie Seles, la quale era la dea della concordia. Ma poi si era appartato con il proprio gemello nel suo appart ed insieme avevano intrapreso un colloquio fitto di domande e risposte. Era stato il dio del tempo a rivolgersi a lui per primo, facendogli presente:

«Quel perverso di Buziur, fratello, sta esagerando nel devastare una parte di Kosmos, intanto che avanza in esso senza farsi scrupolo di alcunché. Approfitta del fatto che noi adesso non possiamo contrastare la sua avanzata sconsiderata e rigettarlo in Tenebrun. Si vede chiaramente che egli è cieco di ira ed è spinto da un odio profondo ad agire come sta facendo, come se si stesse vendicando di un torto da noi subito. Non pensi anche tu la medesima cosa, mentre egli è intento alle sue devastazioni, travolgendo le galassie, una dopo l'altra, con tutto il loro materiale astrale? A me dà proprio questa impressione!»

«Ne sono convinto anch'io, Kron. A mio avviso, il dio della superbia si sta proprio vendicando di noi, dopo che gli condannasti il figlio quartogenito Furor alla pena che conosciamo. Per sua fortuna, Buziur ha pure trovato il modo di attuare la sua vendetta, per cui si sta vendicando di noi senza correre alcun pericolo. Ma ora che le cose si sono messe come egli desiderava, oltre all'espediente che ci ha permesso di mettere in salvo la maggioranza delle divinità positive residenti in Kosmos, mi dici cos'altro ci è possibile fare, che possa risultargli avverso e punitivo?»

«A quanto sembra, Locus, non ci possiamo muovere in alcun modo, al fine di nuocergli in qualche modo. Per questo noi speravamo che l'umano Iveonte riuscisse ad impossessarsi del Potere Cosmico e ci togliesse così le castagne dal fuoco. Invece, a tutt'oggi, egli non ha dato notizie di sé. Non ha saputo dirmi niente di lui neppure Iveon, quando mi sono messo a contatto con lui. Mi ha risposto che l'eroe umano non era ancora rientrato da Potenzior, da quando gli era stato consentito di entrarvi. Perciò non ci resta che vedercela da soli, tentando quel minimo che ci è permesso per rallentare la sua avanzata annientatrice.»

«Allora, fratello Kron, diamoci ad una elaborazione di un piano, il quale ci dia almeno la soddisfazione di frenare la sua stizza e di provocargli il massimo rallentamento. Così facendo, limiteremo i danni che la Kosmivora sta provocando in tante galassie e le ritarderemo l'arrivo a quella di Lactica, visto che il pupillo di tua figlia non si è ancora fatto presente in Kosmos per salvarla dalla sua minaccia. Se l'invincibile bestia vi giungesse prima, non gli farebbe trovare più Elios, che è la stella che illumina e riscalda il suo pianeta Geo. Ovviamente, anche quest'ultimo, con tutte quante le persone che abitano sulla sua superficie, verrebbe disintegrato, divenendo un grande ammasso di infiniti asteroidi in giro senza fine per la realtà cosmica.»

«Invece, Locus, non è facile ottenere quanto proponi. Il nostro intervento risulterebbe zero. L'Imperatore delle Tenebre oramai, dopo che ha assunto il ruolo di Kosmivora, in Kosmos è libera di fare tutto ciò a cui agogna, poiché non può essere più fermato da nessuno, compresi noi due. La nostra speranza si fondava esclusivamente sull'eroico Iveonte, dopo essere diventato il nuovo padrone del Potere Cosmico. Ma siccome egli tarda a ritornare da Potenzior vittorioso e in possesso del prodigioso potere, non possiamo che assistere impotenti alla disastrosa avanzata della mostruosa creatura. Dobbiamo prenderne atto!»

«Non ti riconosco più, fratello Kron. Non avrei mai immaginato una tua arrendevolezza di fronte ad un ostacolo, avendoti sempre considerato il dio dalle mille risorse, che non dà mai partita vinta a nessuno, fatta eccezione dell'onnisciente Splendor. Dunque, dove è andato a finire quel tuo spirito irriducibile e pervaso di ardore combattivo? Un tempo giammai si sarebbe potuto pensare ad una sua resa, davanti ad uno scoglio che fosse venuto a trovarsi sulla sua strada. Fosse esso anche di una difficoltà insormontabile!»

«Quello spirito, a cui ti sei riferito, Locus, è rimasto sempre in me, come vi esiste tuttora, e giammai potrai scorgerlo sbiadito, poiché la vitalità non smette mai di padroneggiarlo. Purtroppo, sebbene continui a rimanervi senza difetti, esso si mostra impotente a combattere contro la Kosmivora, almeno se mi propongo di prenderlo di petto.»

«Ma io, Kron, non ti chiedevo di avere un confronto diretto con essa, essendo sicuro che non avresti retto ad esso. Al contrario, ti invitavo a ricorrere ad un diversivo capace di rallentare la sua avanzata in Kosmos, facendogli così destabilizzare il meno possibile ogni suo contenuto astrale, come le stelle, i pianeti, i satelliti e gli altri astri. In un certo senso, il tuo dovrebbe essere un escamotage diretto a limitare i suoi danni catastrofici nella realtà cosmica, almeno fino al ritorno in essa del pupillo di tua figlia. Mi hai compreso, fratello? Tu hai il dominio del tempo e puoi giostrare con esso come vuoi, senza che il dio della superbia possa avere qualche profitto nel cimentarsi con la qualità temporale. Non è forse vero che non mi sbaglio, se la penso in questa maniera? Perciò impégnati a fondo in tal senso e cerca di raccogliere almeno qualche scampolo di successo, nella tua lotta contro di lui!»

«Adesso che ci medito sopra, fratello Locus, il tuo suggerimento mi spinge a ricorrere ad un espediente di alto livello, come quello che già un tempo ho avuto modo di inventare e di sperimentare. Allora si trattò di fare viaggiare Iveon attraverso l'Impero dell'Ottaedro, precisamente nella circoscrizione del kapius Brust, travisando il tempo per le sole divinità che vi risiedevano. Queste ultime, infatti, riuscivano a scorgere le vicende che erano accadute il giorno prima; invece ignoravano completamente quelle che avvenivano nel loro presente.»

«Come constato, Kron, ora finalmente sei riuscito a ritrovare il vero te stesso avente la medesima combattività di un tempo. Per questo mettiti in azione e fai vedere a quel presuntuoso dell'Imperatore delle Tenebre chi sei e che anche tu puoi creare a lui dei seri grattacapi, se proprio sei costretto a dargliela vinta. Orsù, datti da fare, fratello mio!»

«Fammi prima impostare il mio piano strategico a regola d'arte, Locus; altrimenti il mio intervento si rivelerà una bolla di sapone, la quale farà soltanto sghignazzare il nostro antipatico nemico!»

Prima di cominciare a seguire lo stratagemma del dio del tempo, mentre si effettua nella sua concretezza, occorre conoscere come esso si manifesterà nella sua reale esplicazione e renderci così conto del modo in cui esso funzionerà in Kosmos. In effetti, bisogna cercare di comprendere in cosa consisterà l'intervento del dio Kron, anche se già prevediamo che il suo obiettivo sarà la trasformazione del tempo da presente a passato, per il numero di volte da lui desiderato. Ma essa coinvolgerà la sola Kosmivora, mentre sarà intenta ad annientare intere galassie. A tale proposito, conviene rinfrescarci le idee sulle prerogative del dio del tempo. Di norma, il tempo e lo spazio procedevano di pari passo, in una corrispondenza biunivoca. Essi, quindi, formavano un connubio indissolubile, nel quale ogni sezione dell'uno era in rapporto con una sezione corrispondente dell'altro e con nessun'altra. Ne derivava che voler visionare una sezione spaziale, senza trovarsi anche nella sua correlativa sezione temporale, era come pretendere l'impossibile. Soltanto il divino Kron, in quanto suo dominatore, poteva produrre nel tempo un effetto ritardante od accelerante, in modo da dare ad una determinata circostanza dello spazio una rappresentazione distorta, ossia del tutto difforme da quella reale. In una situazione del genere, gli avvenimenti, susseguendosi gli uni agli altri, sarebbero accaduti prima o dopo il loro tempo reale. Per questo ogni fatto sarebbe risultato impercettibile a chi si trovava a visionare lo spazio da una sezione temporale differente. In quel caso, esso sarebbe stato captato da un tempo diverso. Quest'ultimo poteva essere passato, se lo si voleva ritardante; oppure futuro, se lo si voleva accelerante. L'uno e l'altro, però, non si mostravano per niente consoni alla loro realtà presente.

In effetti, il dio Kron aveva deciso di imporre al tempo un'azione ritardante, facendo in modo che la Kosmivora, senza che se ne accorgesse, si desse a distruggere più volte una stessa galassia, pur avendola già distrutta totalmente nel passato. Difatti egli intendeva assoggettarla ad un fenomeno ripetitivo, che doveva tenerla impegnata a determinate azioni, che già aveva espresse in un tempo precedente. Il quale sarebbe risultato l'inizio di quello in cui l'aveva vista darsi a devastarla per la prima volta. In quella maniera, le distruzioni della Kosmivora, pur apparendogli reali, non facevano altro che ripetersi nella medesima galassia. Per cui, a sua insaputa, questa veniva sconquassata più volte, risparmiando così ad altre galassie le sue rovinose manifestazioni. Bisognava solo vedere in quale misura il dio del tempo sarebbe riuscito ad ingannare il dio Buziur, prima che egli se ne avvedesse e trovasse lì per lì un ripiego valido ad ovviare all'inganno dell'astuto avversario.

Il divino Kron era intervenuto ad agire nei confronti della Kosmivora, quando essa aveva quasi scompaginato interamente la galassia Trasev ed era pronta a bissare le sue devastazioni scompiglianti nell'attigua galassia Lactica. Era stato a quel punto che egli, con una manovra temporale, aveva sottratto alla Kosmivora la successiva galassia, quella che era in procinto di diventare la sua nuova preda. L'aveva riportata al tempo in cui si era appena data a scatenarsi con furia destabilizzante contro la galassia Trasev, senza che essa se ne rendesse conto. Perciò la medesima aveva iniziato a dilagarvi, provocandovi mutilazioni astrali su larga scala, coinvolgendovi una infinità di stelle con o prive di un proprio sistema. Il quale coinvolgimento, per forza di cose, portava alla rovina comete, pianeti e satelliti, suscitandovi impatti apocalittici di inaudita catastroficità. Essi avvenivano fra i vari astri sistemati in diversi settori galattici. Durante il suo controllo, allo scopo di rendersi conto che il suo sotterfugio non destava sospetti nell'Imperatore delle Tenebre, il dio Kron prendeva coscienza dell'enorme danno che la malvagia creatura che lo rappresentava procurava alla galassia da essa bersagliata. Le stelle avevano perso la loro stabilità, quella che permetteva ad esse di restare in un punto fisso della loro galassia, per cui adesso si davano a percorrerla, senza freno e senza una meta precisa. Anzi, non erano rare le volte che esse si scontravano con una violenza spaventosa, dando origine a dei falò sterminati. I quali poi finivano per trasformarsi in strati estesi di fiamme e fiammelle prossime a spegnersi e a cangiarsi in un pulviscolo galattico dal colore argenteo.

Naturalmente, se le stelle formavano una famiglia astrale, allora tutti i suoi elementi costitutivi vivevano anch'essi il loro dramma disperato, ma ognuno aveva una propria destinazione. C'erano alcuni pianeti e satelliti che venivano inglobati nell'immenso falò, che si era avuto in seguito all'impatto avvenuto fra le due stelle, dissolvendosi come fuscelli nella vampa colossale del loro fuoco impazzito. Altri, essendo sfuggiti a tale indeprecabile destino, seguivano una rotta diversa, la quale sovente era quella di collisione con astri della stessa specie. In quel caso, non era bello a vedersi il calamitoso risultato che ne derivava, poiché lo scontro provocava sulla superficie di entrambi i corpi celesti spenti qualcosa di indescrivibile, data l'inimmaginabile disastrosità dell'evento. Il quale, alla fine, non interessava soltanto la loro parte superficiale; ma coinvolgeva altresì le loro intere masse. Per cui esse andavano incontro ad uno sgretolamento generale, che ne riduceva i corpi in frantumi di differente grandezza. Allora questi ultimi intraprendevano un vagabondaggio senza fine e senza meta; invece molti di loro preferivano fare sosta sopra un altro pianeta, raggiungendolo sotto forma di stelle cadenti.

Ricorrendo al suo ingegnoso espediente, il dio Kron, con il compiacimento anche del fratello Locus, per tre volte consecutive era riuscito a far distruggere dalla Kosmivora tutti gli astri della galassia Trasev, senza che essa si accorgesse dell'inganno. Ma poi il dio del tempo aveva dovuto porre fine al suo stratagemma, avendo superato il numero di volte a cui gli era consentito di ricorrere. Così il dio Buziur non aveva perduto tempo ad assalire anche la galassia Lactica per ottenere in essa gli identici risultati apocalittici che aveva conseguito nelle altre galassie, nonostante sulla superficie di un suo pianeta, che era Geo, vi fosse vissuto il suo quartogenito Furor. Allora, con l'arrivo della Kosmivora nella galassia Lactica, erano cominciati ad aversi in tutto il suo spazio dei fenomeni niente affatto tranquillizzanti sulla superficie della totalità dei pianeti e dei loro satelliti. Essi erano dovuti ad una sorta di fibrillazione, la quale era venuta ad impadronirsi di ogni spazio facente parte della galassia, arrecando ai vari astri instabilità nei loro moti di rotazione e di rivoluzione. Nel medesimo tempo, le stelle, l'una dopo l'altra, avevano iniziato a registrare dei cali del loro materiale gassoso, mostrandosi pronte a collassare. Di conseguenza, avevano perso ogni forza di gravità nei confronti delle loro famiglie astrali, privandole del loro stabile posizionamento nello spazio. Ma man mano che il depauperamento di gas era accresciuto in esse, si era andato anche acuendo nell'intera massa galattica il fenomeno che tendeva alla destabilizzazione di ogni suo elemento.

In realtà, cosa stava succedendo sulla superficie di ogni pianeta? Per venirne a conoscenza, ci basta andare a controllare ciò che si verificava sul pianeta Geo. Ma lo faremo inserendoci nella vita quotidiana di alcuni personaggi a noi noti, che ci sono molto cari.



Nella reggia di Dorinda non si viveva di certo nel migliore dei modi, dopo che Lucebio aveva messo tutti quanti a conoscenza di ciò che aveva appreso dalla divina Kronel. Se qualcuno, a cominciare dalla compagna Madissa, gli aveva dichiarato che si era trattato soltanto di una visione onirica, gli altri erano rimasti scioccati dal suo racconto, per cui avevano cominciato a preoccuparsene seriamente. C'erano stati anche di quelli che, essendosi rassegnati ad esso, avevano deciso di non interessarsi più a niente, visto che a momenti si sarebbe presentata per tutti loro la morte e la fine di ogni cosa nell'intero creato. Comunque, non senza averne un timore panico! A tale riguardo, un giorno quanti vivevano nella reggia si erano radunati nella sala del trono per commentare i fatti annunciati dalla divina protettrice di Iveonte. Alla riunione di corte, per la componente femminile, erano presenti la regina Elinnia, Madissa, la principessa Lerinda e la sua nutrice Telda; per la componente maschile, erano presenti il re Cloronte, Lucebio, Solcio, Zipro, Polen e Liciut. Ebbene, la decina di persone che vi stavano partecipando intendeva discutere sul catastrofico evento che molto presto avrebbe troncato le loro vite, intanto che si dava a scombussolare e a distruggere il loro pianeta. In verità, più che una discussione vera e propria, c'era stata una batteria di domande tutte rivolte al solo Lucebio, poiché la maggior parte dei presenti volevano apprendere da lui cose che neppure il saggio uomo poteva conoscere. Alle quali, però, egli aveva dovuto trovare delle risposte rappezzate alla meglio oppure date per sommi capi. La prima a fargli la sua domanda era stata la regina Elinnia, la quale si era premurata di domandargli con una certa apprensione:

«Se fra non molto sul nostro pianeta tutto finirà e noi moriremo con esso, davvero dopo ci saranno sia il ritorno all'esistenza del nostro mondo sia la nostra resurrezione, grazie a mio figlio Iveonte?»

«Nobile regina, non sono io ad assicurarvelo; invece a garantircelo è stata la dea, che protegge il tuo primogenito. Quindi, se le divinità non sbagliano oppure non sono mendaci, senza meno l'eroico tuo figlio rimetterà le cose a posto ovunque saranno state destabilizzate e farà risorgere gli esseri umani che sono stati travolti ed uccisi. Inoltre, dopo l'universale restaurazione, egli finalmente farà ritorno fra noi, diventando l'eletto sovrano del suo popolo. Ciò, grazie anche all'abdicazione a suo favore da parte di tuo marito, il mio amico re Cloronte.»

Subito dopo era intervenuto a parlargli il sovrano di Dorinda, il quale era stato lieto di confermargli:

«Certo che mio figlio, per mio volere, siederà sul trono della Città Invitta, non appena si farà vivo a corte, perché nessun sovrano è più degno di lui di sedervi con tutti gli onori. Lo aveva perfino decretato il destino, ancor prima che egli nascesse e diventasse l'eroe che si ritrova ad essere. Quindi, che ben si goda egli il suo regno con la consorte e con la sua numerosa prole, per tutto il tempo della restante sua vita!»

Anche la principessa Lerinda aveva voluto rivolgere una domanda a colui che Iveonte considerava suo padre spirituale, chiedendogli:

«Mi dici, Lucebio, come farà il mio Iveonte ad intervenire contro la potente divinità malefica, che sarà la responsabile della fine sia del nostro mondo che di noi stessi, se le medesime divinità benefiche si sono affrettate ad evitarla, rifugiandosi nel loro regno spirituale?»

«La tua domanda, amata del nostro Iveonte, non è semplice, non avendo io avuto notizie inerenti a tale particolare. Ma sono sicuro che, quando ciò accadrà, egli sarà in possesso di un potere superiore a quello che gestirà la sua divina avversaria. Esso, essendo precluso alle divinità, potrà essere usato solamente da un essere umano.»

«Possibile, Lucebio,» aveva chiesto Solcio «che il mio ex maestro riuscirà a ricomporre alla perfezione quanto la prossima calamità che sta per colpirci avrà ridotto ogni cosa in polvere, compresi i nostri corpi?»

«Un fatto del genere, Solcio, ci potrebbe sembrare un'assurdità, a causa dei nostri limiti umani. Ma chi di noi può rendersi conto di quale potere prodigioso tra poco verrà a disporre il nostro Iveonte? Sono convinto che egli, in virtù di esso, potrà ottenere ogni cosa che desidera, perfino creare interi mondi e il reintegro dell'alito della vita nei defunti, anche di quelli morti da molto tempo.»

Zipro aveva desiderato fare l'ultima domanda allo stesso destinatario. Egli, rivolgendosi a lui, aveva domandato:

«Ti sei ancora immaginato, Lucebio, come avverrà il nostro risveglio dalla morte, dopo che Iveonte avrà ordinato al suo potere miracoloso di agire in tal senso sui nostri corpi deceduti da tempo?»

«In verità non l'ho fatto, Zipro. Ma mi dici perché avrei dovuto prefigurarmi qualcosa del genere? Una volta ritornato ad essere vivo, per me sarà come svegliarmi dal solito sonno notturno, poiché ritroverò tutto al posto giusto, come adesso. La medesima cosa avverrà per i miei amici, siccome ognuno di loro, allo stesso modo mio, si ritroverà a svolgere gli stessi compiti che svolgeva prima. Almeno è quanto mi ha fatto intendere la divina Kronel. Ora evitiamo di soffermarci su tale argomento. Esso potrebbe farci venire i brividi, se ci interessassimo ancora ad esso!»

Alla risposta ricevuta dal saggio uomo, il giovane aveva deciso di fargli presente che la propria domanda era stata inopportuna ed anche superflua, quando un fenomeno strano glielo aveva impedito. Infatti, in pieno giorno, si era abbattuto sulla città il buio più pesto, il quale aveva obbligato la servitù di corte ad accendere le varie torciere murali, perché diffondessero la loro luce nei vari reparti della reggia. Dopo che ogni locale era stato bene illuminato, il gruppo delle persone che stavano discutendo nella sala del trono, subito aveva interrotto la discussione e aveva deciso di trasferirsi sul belvedere. Di lassù esse intendevano rendersi conto di ciò che stava avvenendo, ritendendo del tutto improbabile una eclissi eliosina, la quale non era prevista in quel periodo. Una volta che lo avevano raggiunto, non avevano tardato ad accorgersi che il loro sole era sparito dalla sfera celeste; invece al suo posto restavano strati di cielo punteggiati di fuoco morente, che si andavano sbiadendo all'occhio dell'osservatore. Ma prima c'era stata una esplosione grandissima nella stella, la quale l'aveva squarciata e ridotta in filoni di fiamme, lanciandoli poi in ogni zona circostante. Adesso non si scorgeva in nessuna parte neppure la luminosa luna, sebbene l'indomani ci sarebbe dovuto essere il plenilunio. Allora, da parte di tutti, ci si era resi conto che la loro stella non c'era più, per cui l'annunciata calamità aveva iniziato a dar luogo ovunque alla fine del mondo, a livello sia universale che planetario. Perciò si erano precipitati a raggiungere il patio, poiché avevano deciso di restare uniti, mentre andavano incontro alla morte del loro pianeta e di sé stessi.

Venuto meno il loro folgorante sole, tutti i pianeti che prima gli orbitavano intorno e ne subivano una continua attrazione, avevano abbandonato le loro traiettorie ellittiche e si erano dati ad un viaggio erratico nella sconfinata galassia. Il quale presto li avrebbe portati in rotta di collisione con altri astri spenti di varia natura. A dire il vero, sarebbero stati i loro stessi satelliti ad impattare sulla loro superficie, provocando la reciproca distruzione. Nel frattempo, però, in attesa del loro disfacimento totale, gli uni e gli altri andavano incontro a diversi cataclismi interni e superficiali, i quali ne dissestavano la compattezza ed acuivano la reazione dei vari fenomeni naturali. Prendendo in considerazione quanto stava succedendo sul pianeta Geo, a parte l'oscurità che aveva trovato fissa dimora in qualunque parte della sua superficie, le forze della natura avevano iniziato a scatenarsi su di essa con irruenza e tempestosità. Così i terremoti, i maremoti e gli aeromoti si erano dati alle loro azioni sconvolgenti e demolitrici. Esse, mostrandosi della massima disastrosità, ovunque davano origine a sfaceli, ad estese alluvioni, ad aperture profonde di voragini; nonché a raffiche assordanti, le quali imperversavano con tutta la loro veemenza ciclonica. Agendo in quel modo, non smettevano di cambiare in continuazione la geografia di vaste zone. A quelle azioni devastatrici che avvenivano nel sottosuolo, in superficie e nell'atmosfera, nelle città e nei villaggi della terra la gente non si dava pace. Correva senza una meta: a volte impazzita, a volte atterrita, altre volte disperata. Spesso si dava a pregare le benefiche divinità, perché facessero cessare quei calamitosi perturbamenti e permettessero il ripristino della luce in ogni luogo. Ma non mancavano i momenti in cui le persone preferivano abbracciarsi e consolarsi in quella maniera, cancellando il terrore dai loro animi e far finta che l'imminente futuro della peggiore specie non ci sarebbe mai stato per tutte loro. Al contrario, non molto tempo dopo, ritornava in mezzo a loro il burrascoso presente, che si dava a bersagliarle impietoso.

A quel punto, i pianti dirotti e i lamenti inconsolabili di tutti gli abitanti del pianeta contribuivano a rendere i loro cuori macerati al massimo. Comunque, non si poteva tentare con la mente di evadere da quella orribile situazione, la quale iniziava ad essere per loro un'atroce tortura, che faceva invidia perfino alla morte. Anche gli animali, senza esserci affatto in loro la volontà di imitare i loro padroni, non si astenevano dal palesare con sofferenza il loro spavento più tremendo. Essi lo manifestavano, attraverso i loro piagnucolosi versi e i loro movimenti, i quali stavano a significare unicamente il riverbero di una esistenza disastrata. Infine il dolore universale, che veniva espresso dalle persone e da ogni tipo di bestie, era stato risucchiato dalle fenditure immani che si erano create nella massa del pianeta, dopo la sua collisione apocalittica con il proprio satellite. Allora ogni pianto, ogni lamento, ogni dolore, ogni fobia, ogni preoccupazione ed ogni apprensione vi erano precipitati dentro nella loro totalità ed avevano posto termine anche all'ultima goccia della loro vita desolata. La quale, non avendo più uno scopo di esistere, era stato meglio che fosse finita dove il destino era abituato a tarpare le ali alle gioie e alle speranze dei tanti sognatori.





LASCIATO POTENZIOR, IVEONTE DÀ LA CACCIA ALLA KOSMIVORA



Il ritorno dell'umano Iveonte in Kosmos non era sfuggito agli eccelsi gemelli di Luxan. Essi, non appena ve lo avevano scorto, immediatamente si erano voluti incontrare di nuovo nella dimora del dio del tempo per compiacersene e per cucirci sopra le loro congetture del momento. Stando poi seduti l'uno di fronte all'altro su comode poltrone, era stato il divino Kron ad aprire il discorso sull'argomento, esprimendoglisi con questo parlare:

«A quanto pare, Locus, abbiamo riposto bene la nostra illimitata fiducia nel pupillo di mia figlia, poiché egli non l'ha tradita ed è riuscito alla fine a portare a termine la sua ardua missione. Si vede benissimo che egli adesso è in possesso del Potere Cosmico, siccome, pur essendo privo del nostro anello, sfreccia nello spazio cosmico senza accusare difficoltà di sorta. Da adesso in poi, ci toccherà seguirlo e vedere come se la caverà nella sua lotta contro la Kosmivora, la quale senza dubbio farà di tutto per mostrarglisi una sua irriducibile avversaria.»

«Come possiamo renderci conto, fratello, l'umano Iveonte non ha deluso le nostre aspettative, per cui giustamente abbiamo fatto affidamento su di lui, quando lo abbiamo incaricato della delicata missione. Ma sono sicuro che egli seguiterà a darci delle belle soddisfazioni, conseguendo quegli obiettivi che noi non abbiamo potuto raggiungere. Ora il dio della superbia avrà contro un nemico piuttosto inarrendevole!»

«Ne sono convinto anch'io, Locus, se il Potere Cosmico è dotato delle prerogative che gli si attribuiscono e dimostrerà di avere la potenza che gli si riconosce. Se davvero esso è tale, quale viene riportato fin dalla notte dei tempi, Iveonte saprà sfruttarlo con il massimo profitto e, tramite esso, darà il benservito all'insuperbita Kosmivora. La quale, siccome non si aspetta di stare a competere con un avversario di una simile portata, che non ha neppure una natura divina, addirittura si tratta di un Materiade, molto presto avrà una sgradita sorpresa e pagherà lo scotto che si merita. Ne sono convinto quanto te!»

«Sono proprio ansioso, Kron, di vedere il Potere Cosmico in azione, considerato che esso nell'ambito di Kosmos ci supera in potenza, e non vedo l'ora di assistere alla sua straordinaria dimostrazione di ciò che è in grado di fare. Sono certo che ne verremo stupefatti, oltre ogni nostra immaginazione, nonostante anche noi due, per volere di Splendor, disponiamo di una potenza inimmaginabile. La quale ci viene invidiata da tutte le divinità, siano esse positive oppure negative.»

«Non ti nascondo, fratello, che anch'io sto aspettando questo momento e fremo per l'ansia di scorgere il Potere Cosmico nell'atto di dare dimostrazione delle sue insuperabili prerogative. Esse provengono da qualcosa che in sé non ha alcuna natura divina, pur rivelandosi di una potenza distruttiva e generativa di altissimo livello. Mi domando perciò chi o che cosa ha dato origine al Potere Cosmico, non essendo stato il nostro insuperabile Splendor a farlo esistere e a permettergli di esprimersi con una potenza che supera perfino la nostra.»

«Me lo sono chiesto anch'io, Locus; però non ho saputo darmi una risposta soddisfacente, che ne giustificasse l'esistenza con una virtualità illimitata. La quale è pronta a trasformarsi in una concretezza che non conosce confini, pur di non cedere il passo a qualunque altra energia che tenti di opporsi ad essa con il suo ostinato proposito.»

«In verità, Kron, anche l'esistenza di Tupok, che ne ebbe il possesso fin dalla sua origine, è avvolta nel mistero più assoluto, non risultandoci che in Potenzior ci fosse stato qualcuno oppure avesse agito qualcosa, perché l'una e l'altro si potessero giustificare in qualche modo. Quindi, se l'arcano appare essere il principio attivo della loro esistenza e della loro compresenza in Potenzior, non ci resta che arrenderci alla nostra impossibilità di comprendere un tale mistero.»

«Condivido le tue conclusioni, fratello Locus. Perciò ci conviene mettere da parte le nostre attuali argomentazioni e puntare su ben altro, che possa risultare di nostro sommo gradimento. A questo riguardo, ti propongo di darci a seguire l'eroe umano, mentre è dedito a ricercare la Kosmivora in ogni angolo di Kosmos, poiché sappiamo che egli è intenzionato a raggiungerla e a darle il fatto suo. Specialmente dopo che si sarà reso conto che la Kosmivora ha fatto sparire il suo pianeta Geo dall'intero spazio cosmico! Senz'altro Iveonte vorrà prendersi una rivincita clamorosa nei suoi confronti, come gli detta la coscienza.»

«Ovviamente, Kron, seguiremo il Materiade terrestre con la massima attenzione e ne commenteremo i tragitti cosmici, mentre ricerca in ogni miglio quadrato di Kosmos l'Imperatore delle Tenebre. Egli non vede l'ora di raggiungerlo dove la Kosmivora si dà a scombussolare le galassie e gli astri che vi volteggiano con la loro indefettibile armonia.»

«Certo che faremo come hai detto, Locus, intanto che dedicheremo il nostro prezioso tempo al pupillo della mia Kronel per vederlo trionfare sulla nemica delle divinità positive. A detta di Iveon, egli ha un temperamento irriducibile ed una fermezza di carattere fuori dell'ordinario; inoltre, persegue ogni suo obiettivo con spirito animoso, il quale lo contraddistingue in ogni cimento che affronta. Altrimenti non avrebbe potuto sconfiggere i cinque Guardiani del Potere Cosmico, che erano tutti degli eroi invincibili. A dire il vero, pure io ho avuto modo di assistere alle sue ardite prodezze, anche quando ha avuto di fronte degli esseri non Materiadi, come il presuntuoso Furor.»

«A proposito, mio caro gemello, quando ci sarà lo scontro fra la Kosmivora ed Iveonte, ci sarà consentito di intervenire per dare un aiuto all'eroe umano? O ci sarà negato ogni nostro intervento a suo favore? Ma mi accorgo già che ti affretti a contraddirmi. Non è forse vero, Kron?»

«Infatti, Locus! Comunque, non si tratta di un divieto che ci viene imposto da qualcuno, poiché esso in effetti non esiste. Invece la vera ragione che ci sconsiglia dall'intervenire nello scontro galattico che presto ci sarà tra il dio della superbia ed Iveonte è la seguente: sarebbe vana ogni nostra partecipazione attiva al fianco dell'eroico terrestre, siccome la potenza del Potere Cosmico neutralizzerebbe anche la nostra. La sua neutralizzazione, però, ci sarebbe unicamente per farci presente che essa è già sufficiente a condurre a buon fine i propositi del suo attuale possessore. Per questo la sua decisione di escluderci dal conflitto non va intesa come un suo atto ostile nei nostri riguardi; ma unicamente come una sua intenzione di tenerci fuori da una lotta nella quale basta già la sua potenza a vincerla.»



Intanto Iveonte, dopo la sua uscita da Potenzior e dopo essersi congedato dal dio Iveon, che aveva fatto ritorno su Luxan per consegnare l'anello e la spada ai loro legittimi proprietari, si era dato a sfrecciare alla massima velocità per i sentieri che lo portavano a Kosmos, essendo intenzionato a scontrarsi al più presto con la Kosmivora. Se prima era l'anello degli eccelsi gemelli a permettergli l'esistenza nella realtà cosmica, adesso era il Potere Cosmico in suo possesso a consentirgli di sopravvivere in essa. Diversamente, la mancanza di ossigeno in tale luogo lo avrebbe fatto morire in pochi secondi. Adesso egli proseguiva per la sua strada, quella che non era lui a decidere; al posto suo, invece, era il misterioso potere, che lo coinvolgeva, a stabilire quale essa doveva essere. Tale potere, in realtà, trasferiva nella sua mente la propria facoltà decisionale, al fine di fargli intraprendere il giusto viaggio che lo avrebbe condotto direttamente ad imbattersi nella forza oscura rappresentata dalla Kosmivora. Ad ogni modo, Iveonte ne era a conoscenza e lo lasciava fare, poiché si fidava ciecamente di tale potere, il quale, in un certo senso, adesso lo incarnava.

Mentre lo seguiamo, nello spazio, in cui egli si muoveva, non si avvistavano da nessuna parte i rovinosi sfaceli, che la sua maligna avversaria stava provocando in altre galassie, ossia in quelle che erano ancora ad una enorme distanza da quella in cui si trovava lui. Per questo non ne veniva atterrito e non era ancora costretto a provarne disgusto; al contrario, era spinto a bearsi di tutti quegli astri che presentavano Kosmos come un mirabile esempio di grandezza e di armonia. In quel suo viaggio intergalattico, dove miliardi di astri meravigliosi venivano ammirati da lui, a mano a mano che li incontrava, il nostro eroe pensava al proprio pianeta Geo, ai suoi familiari e ai suoi amici che lo abitavano. Nel contempo temeva per loro, poiché probabilmente egli non ce l'avrebbe fatta a salvare l'uno e gli altri dalla Kosmivora, la quale senza meno lo avrebbe preceduto nella biancastra galassia Lactica. Ma egli, più che preoccuparsi per la morte dei suoi parenti ed amici, alla quale dopo avrebbe potuto rimediare senza problemi, si dispiaceva per i momenti terribili che essi avrebbero vissuto durante l'apocalittico evento. Esso, infatti, li avrebbe sommersi tragicamente, infondendo in tutti loro il terrore più terribile da sopportare.

Così gli tornavano alla mente gli scarni volti dei suoi cari genitori, quello indimenticabile della sua dolce Lerinda e quello barbuto del saggio Lucebio; ma rivedeva anche con sommo piacere i volti della sorella Rindella e dell'amico fraterno Francide, divenuti entrambi re e regina della Città Santa. A quel caleidoscopio di immagini familiari ed amichevoli, Iveonte si commuoveva ed anelava a rivederli quanto prima, desiderando stare accanto a loro e godersi la loro vicinanza a più non posso. Essendo stato lontano da loro per molto tempo, non vedeva l'ora di restare a lungo insieme con tali adorabili persone e di saziarsi della loro compagnia. La qual cosa, però, non sarebbe potuta essere, se si prendevano in considerazione la sorella e il cognato, siccome essi abitavano molto lontano da Dorinda, la città su cui avrebbe regnato. Comunque, in relazione a loro due, l'eroe umano non poteva ancora pronunciarsi sul tipo di rapporto che avrebbe avuto con essi, in riferimento al tempo che avrebbe trascorso con loro. Ciò, perché non conosceva ancora quanto sarebbe durato il suo possesso del Potere Cosmico, poiché dalla sua durata sarebbe anche dipeso il tempo che gli avrebbe fatto compagnia. Infatti, fino a quando fosse rimasto a signoreggiare su tale potere, egli avrebbe potuto gestirlo in qualunque suo desiderio, compreso il superamento di distanze enormi in brevissimo tempo, proprio come gli aveva permesso l'anello ricevuto dalle due eccelse divinità. In quel caso, il voler raggiungere ad Actina sua sorella Rindella e il suo amico fraterno Francide per lui sarebbe stato come fare una passeggiata. Ma poteva anche darsi che, se gli fosse venuto meno il Potere Cosmico per volontà del Signore di Potenzior, tramite sua figlia, il dio Kron gli avrebbe fatto ancora recapitare il prezioso anello.

La sua mente era immersa in simili pensieri, per cui il tempo gli trascorreva più velocemente, allorquando Iveonte notò che davanti a sé, ad una distanza sterminata, si scorgeva qualcosa che risultava in fibrillazione. Ma poi egli si rese conto che quel posto, dove lo si avvistava, apparteneva alla galassia Lactica, la quale era riconoscibile dalla sua apparenza lattiginosa. Allora decuplicò la sua velocità, volendo trovarsi presente in quella zona prima possibile, poiché era convinto che vi avrebbe trovato la Kosmivora, mentre era dedita alla sua azione sterminatrice sui corpi celesti situati in quella galassia. Così almeno avrebbe cercato di salvare il salvabile, se ci fossero rimasti delle stelle, dei pianeti e dei satelliti non ancora distrutti. Soprattutto sperava di trovarci indenni la stella Elios e i pianeti che orbitavano intorno ad essa, seguendo le loro orbite ellittiche distanziate fra di loro, visto che tra questi ultimi c'era anche Geo, il quale era il suo pianeta natio. La distanza, però, era ancora troppa, per potere raggiungerla in breve tempo; mentre egli spasimava di pervenire ad esso, prima che la Kosmivora lo disintegrasse con la sua azione tendente a destabilizzare l'intera area in cui si effettuava la sua orbita, la quale durava da milioni di anni. Comunque, Iveonte prevedeva che, pur esigendo dal Potere Cosmico la massima velocità possibile, non ce l'avrebbe fatta a conseguire il proprio obiettivo. Per cui il suo pianeta sarebbe stato irrimediabilmente sacrificato, poiché la malvagia creatura, nella sua demolizione galattica, lo avrebbe fatto perire come fuscello in una colossale vampa, facendo anche dei suoi abitanti una strage senza precedenti. Per la quale ragione, non poteva che affliggersi per essa e darsi alla stizza, a causa della morte di tante persone innocenti.

Da parte loro, gli eccelsi gemelli, i quali seguivano la corsa nello spazio del loro protetto, si chiedevano come il Potere Cosmico sarebbe intervenuto contro la Kosmivora e come avrebbe fatto apparire Iveonte durante il conflitto con essa. Fu il dio Locus a chiederselo per primo, ma facendo anche al fratello le seguenti domande:

«Mi sai dire, Kron, quale foggia assumerà l'eroe umano, quando avrà inizio il suo scontro con la Kosmivora? Non credi che quella attuale, che è di un qualunque Materiade, non gli si addica?»

«Anch'io sono del tuo stesso parere, fratello, in merito al tuo secondo quesito. Ma sono del parere che essa sarà quella che il Potere Cosmico vorrà che sia. Perciò attendiamo che abbia prima inizio la furiosa tenzone fra il pupillo di mia figlia e il dio della superbia, la cui foggia è quella della Kosmivora che lo rappresenta. Sono persuaso che il suo potere saprà procurargliene una apposta per lui, dovendo il suo personaggio scontrarsi con il pericolo numero uno dell'intera realtà cosmica. Quindi, staremo a vedere.»

«Mio gemello Kron, sono sicuro che, se fossi stato tu a fare avanzare l'eroico Iveonte nella sua folle corsa in Kosmos, gli avresti già fatto raggiungere la sua avversaria Kosmivora. Come dio del tempo, ci avresti impiegato meno di un attimo a farlo trovare nella parte di spazio che è sotto l'influenza kosmivorina. Non è forse così?»

«Sarebbe andata come hai detto, Locus; ma io non potevo intervenire, per i motivi che già ti ho esposti. Devi sapere che a questo punto il problema non è quello di giungere per primo sul campo di battaglia, se si vuole uscirne vincitore. Invece esso è ben altro, poiché la vittoria scaturirà dalla maggiore potenza di cui verrà a disporre ciascuna delle parti. Sarà essa a decidere chi uscirà vincitore dallo scontro.»



Nel frattempo, Iveonte continuava ad andare avanti per la sua strada e non poteva immaginare che avesse su di sé gli occhi degli eccelsi gemelli del Regno della Luce. Essi non smettevano di seguirlo, siccome non vedevano l'ora di assistere al suo confronto con la Kosmivora. Le varie galassie, che lo separavano da Lactica, l'una dopo l'altra, venivano attraversate da lui alla massima velocità consentita al Potere Cosmico. Nell'attraversarle, notava che, tanto le stelle quanto i pianeti e i satelliti, testimoniavano un'armonia cosmica che stupiva. La cui perfezione non poteva che essergli derivata da Splendor, quando aveva voluto crearli in seno a Kosmos. Adesso, via via che gli apparivano e scomparivano davanti ai suoi occhi, i tre tipi di astri lo facevano restare attonito per lo stupore, mentre la loro incredibile maestosità lo incantava. Ad ogni modo, quel genere di strabilianti spettacoli galattici avrebbero continuato ad esserci lungo il suo percorso cosmico, suggestionandolo sempre di più, fino a suscitargli nell'animo sensazioni di serenità mai avvertite prima di allora. Era come andare incontro a qualcosa di indefinibile, che lo colpiva per la sua straordinarietà e gli accendeva nello spirito quel vigore, che già lo predisponeva alla lotta in arrivo.

Fu a quel punto che Iveonte avvertì dentro di sé un arcano scombussolamento, che coinvolgeva il suo intero organismo. Ad un tratto, egli si sentì trasformare in un essere superdotato in tutti i sensi. Perfino la sua complessione andò assumendo dimensioni smisurate, ma senza privare il suo corpo dell'agilità, della solidità e della stabilità possedute prima dal suo organismo. Gli sembrò essere diventato grande come una montagna, con tutti i suoi vari organi proporzionatamente accresciuti, a cominciare dagli arti inferiori e superiori, i quali adesso erano quelli di un essere gigantesco. Così pure il tronco, il collo e la testa apparivano enormi, comunque, in proporzione rispetto alle gambe e alle braccia, che presentavano piedi e mani possenti, con il tutto bene articolato ed armonico. Questa volta, però, le caratteristiche dell'intera sua persona, intese in senso fisico e qualitativo, non erano più le stesse, rispetto a quelle precedenti. Nella loro corporeità, esse erano inattaccabili dal fuoco e da sostanze corrosive o radioattive; nella loro psichicità, non si lasciavano suggestionare da nessun fatto emotivo, fosse esso anche quello più incredibilmente raccapricciante; nella loro spiritualità, riuscivano a tener testa anche alle situazioni più problematiche messe in piedi da qualunque circostanza. La sua straordinaria intelligenza risultava pronta, acuta e viva; il suo ingegno si mostrava vivace, sveglio e fervido, per cui non faceva fatica ad escogitare i più sagaci espedienti; il suo coraggio si esprimeva con la massima bellicosità, essendo preparato ad ogni tipo di combattimento anche contro forze soverchianti; la sua temerarietà ignorava qualsiasi pericolo, soprattutto quello che avrebbe tentato di minacciarlo e di sovrastarlo con la massima pericolosità.

Con il suo nuovo potenziamento della persona, intesa nella sua integralità, Iveonte era in grado di ricorrere ad una strategia diretta. Con essa, mediante una prova di forza, avrebbe fatto accettare alla sua avversaria le proprie condizioni. Inoltre, gli sarebbe stato consentito di fare uso di una strategia indiretta, mediante la quale, attraverso una manovra diversiva, sarebbe riuscito a colpire la vulnerabilità dell'avversaria con attacchi diversificati, tesi a confonderla oppure a distrarla. Con essa, l'avrebbe indotta, da una parte, a concentrare le proprie forze in quei punti dove non avrebbe mai attaccato; dall'altra, a lasciare indeboliti quelli in cui avrebbe sferrato l'attacco con un'azione a sorpresa. In quel modo, gli sarebbe risultato abbastanza facile minare la capacità combattiva e difensiva dell'avversaria con azioni eversive ed ingannevoli. Dopo essere stato dotato dal Potere Cosmico del nuovo assetto psicofisico e spirituale, che abbracciava l'intera sua persona, Iveonte si ritrovò ad essere un combattente di prim'ordine, come se in lui ci fosse adesso l'indefettibile perfezione della natura divina, la quale non ammetteva errori di sorta. Perciò la sua potenza era la massima che si potesse ottenere anche in una divinità; però con la differenza che quest'ultima, di fronte a certe situazioni contingenti, come quelle che a volte riscontrava in Kosmos, era obbligata a desistere.

Il nuovo essere, nel quale il Potere Cosmico aveva trasformato l'eroe umano, non tardò ad intrigare anche gli eccelsi gemelli luxaniani, per cui essi si decisero a discuterne in modo positivo. Il primo a prendere la parola, però, questa volta fu il dio Locus, dicendo:

«Come vedo, Kron, noi due ci stavamo preoccupando inutilmente, quando ci chiedevamo perché mai il Potere Cosmico non facesse assumere al suo possessore la foggia che gli si addiceva per combattere contro la Kosmivora. Anche perché, nella sua insignificante statura, di certo avrebbe trovato difficoltà a confrontarsi con la sua immensa stazza, che occupa uno spazio non indifferente di Kosmos.»

«Invece ora sappiamo, Locus, che il Potere Cosmico ci stava pensando non meno di noi; ma aspettava il momento giusto per tramutare il proprio possessore nell'essere che lo avrebbe fatto combattere con la sua perfida avversaria nella migliore foggia possibile. Esso ha voluto trasformarlo in un valido combattente, che ha a sua disposizione tutto quello che gli serve, fornendogli doti e prerogative che lo faranno brillare nell'imminente suo scontro con la Kosmivora. Sono convinto che l'umano Iveonte ne saprà approfittare e farne l'uso che gli procurerà il migliore profitto, trattando la parte avversaria nella maniera che più gli consentirà una splendida vittoria. A questo punto, però, badiamo a goderci la furiosa tenzone, la quale sta per esplodere in Kosmos.»

«Se lo vuoi sapere, fratello Kron, aspetto proprio il momento che essa abbia inizio, poiché sono persuaso che la loro lotta darà luogo ad uno sconfinato palcoscenico cosmico, sul quale ci sarà uno scenario bellico di vaste proporzioni, dove opereranno forze contrastanti intente ad ignorare qualsiasi resa. Perciò il loro quadro apocalittico si incendierà di enormi deflagrazioni, quelle che non si sono mai verificate prima in seno a Kosmos. Ma se possiamo prevedere quali saranno le forze della Kosmivora, non ci sarà possibile immaginare quelle che deriveranno dall'eroe umano, grazie al suo prodigioso potere. Il quale dovrebbe contendere a quello della sua avversaria il primato e la conseguente vittoria, rendendo il proprio possessore l'indiscusso vincitore.»

«Secondo me, Locus, potrebbe esserci il solo pericolo che il pupillo di mia figlia possa trovarsi in difficoltà nel suo nuovo abito, che gli toccherà gestire con la massima cautela, senza mostrarsi impacciato nell'esprimersi nei modi che gli verranno richiesti dalla lotta. Comunque, io confido in lui e nelle sue capacità, le quali gli consentiranno di destreggiarsi nella difesa e nell'offesa con manovre efficaci. Anzi, esse gli daranno la possibilità di portare avanti il combattimento da eroe superdotato, pronto a fare della rivale uno scempio senza parsimonia.»

«La penso anch'io come te, Kron, poiché l'eroe umano, con la nuova statura che non è più di nove spanne, qual era prima, potrebbe venire a mancare di coordinazione mentale e psichica nei suoi movimenti e nelle sue manovre. Per cui si ritroverebbe ad affrontare una situazione abbastanza disagevole e non facilmente controllabile. Ad ogni modo, la mia è da considerarsi solamente una ipotesi, la quale, al contrario, potrà essere smentita da chi dovrà farsene carico.»

«Così sarà, fratello Locus, poiché il terrestre Iveonte, come è già stato preconizzato, è destinato a diventare l'eroe trionfatore della seconda Teomachia, con la sua schiacciante vittoria sul superbo Imperatore delle Tenebre e sulle altre forze del male, che sono sue alleate.»

Dopo l'ultimo intervento del dio del tempo nella sua conversazione in corso con il dio dello spazio, i due eccelsi gemelli si resero conto che il giovane umano aveva appena raggiunto la zona influenzata dalla Kosmivora. Allora si affrettarono ad interromperla, essendo intenzionati a seguirlo nella sua nuova avventura, la quale si prevedeva assai complessa. Ma dalla sua parte e sotto la sua guida, militava il Potere Cosmico, il cui obiettivo era quello di sconfiggere la nemica del bene. Anche Iveonte si accorse di essere pervenuto nella parte di Kosmos corrispondente alla galassia Paren, la quale un tempo era appartenuta all'Impero del Tetraedro e confinava con la galassia Lactica. Quest'ultima era stata da poco messa sottosopra dal passaggio della Kosmivora, che vi aveva prodotto gravi mutilazioni. Inoltre, vi aveva portato alla rovina la maggior parte degli astri che la costituivano, compreso il pianeta Geo, il quale aveva cessato di esistere insieme con gli altri astri. Era nello spazio galattico di Paren, dunque, che stava per aversi il colossale scontro tra l'irriducibile creatura, rappresentata dal dio Buziur, e il Potere Cosmico, che si stava mettendo a disposizione dell'eroe del bene e lo appoggiava.

Iveonte, già alle prime avvisaglie del conflitto, si mise in stato di allerta, onde evitare di subire un improvviso attacco da parte della Kosmivora, senza averlo previsto e senza aver cercato di porvi un riparo adeguato. Nello stesso tempo, andava cercando quelle mosse strategiche che avrebbero potuto avvantaggiarlo nel conflitto, il quale si apprestava ad esserci con tutta la sua virulenza aspra ed aggressiva. Egli era al corrente che la sua avversaria riusciva a far pervenire fino a distanze enormi i suoi tentacoli energetici. Il cui scopo era quello di captare le divinità positive capitate nello spazio da essa influenzato e di attrarle nel suo nucleo per metabolizzarne la parte psichica. Se questo era uno dei suoi due obiettivi, invece l'altro era quello di fare tabula rasa dello spazio galattico, portandovi alla rovina tutti i corpi celesti che recavano ad esso vitalità ed armonia. Alcuni dei quali, cioè quelli spenti, si mostravano compiacenti con l'essenza vitale, facendovi nascere e crescere il regno animale e vegetale. A tale scopo, la Kosmivora riusciva a creare nell'intera estensione di una galassia teatri bellici da raccapriccio. La cui visione poteva raggelare l'animo di un ipotetico spettatore, che si fosse trovato ad assistere a tali visioni sconvolgenti da un determinato punto.

Iveonte, da parte sua, era in quel posto non perché gli si raccapricciasse l'animo; ma per porre fine ai suoi catastrofici interventi sullo spazio cosmico, volendo vederlo ridotto nel caos più indicibile. Perciò si stava preparando, affinché li neutralizzasse in un primo momento e li annientasse in una fase successiva. A tale riguardo, si era dato ad ingegnarsi per giungere ad una soluzione di questo genere, evitando che ogni sua iniziativa incorresse in un fallimento. L'eroico giovane, avendo già sentito parlare dal dio Iveon della Deivora, era a conoscenza che tale creatura aliena provenuta dal Parakosm avanzava nello spazio cosmico, come se fosse una piovra avente dimensioni enormi. Per cui i suoi tentacoli energetici erano in grado di attirare nel proprio nucleo tutte quelle divinità, che capitavano per caso nel loro raggio di risucchio, che aveva la possibilità di allungarsi fino ad un miliardo di chilometri. Ma siccome il malefico Imperatore delle Tenebre aveva voluto diventare uguale ad essa, era pacifico che la sua conformazione fisica l'avesse imitata e si fosse ritrovata a possedere le identiche sue prerogative. Attenendosi a quella sua considerazione, la quale non poteva fallire, il suo piano di attacco si sarebbe basato proprio su di essa, senza che ne venisse pregiudicato il risultato finale del conflitto in essere, il quale sarebbe dovuto risultare a lui favorevole. Ma vediamo di conoscerlo in dettaglio, perché ce ne rendiamo conto e ci possiamo permettere anche di avanzare delle ipotesi in merito ad esso.

Iveonte, per prima cosa, aveva pensato di eliminare quelli che erano i tentacoli energetici della Kosmivora; invece soltanto dopo avrebbe affrontato la sua parte nucleare, la quale era anche il centro operativo di ogni sua intraprendenza logistica. Ma per un buon rendimento di tale suo piano strategico, aveva pensato di indirizzare le forze del Potere Cosmico alla loro ricerca nella galassia in cui era in procinto di scontrarsi con la sua temibile avversaria. Perciò gli ordinò di generare campi di energie adatte alla perlustrazione dello spazio, con l'intento di ricercare le varie parti appendicolari della Kosmivora e di scandagliarne le potenzialità. Avvenuto poi il loro scandaglio secondo i criteri suggeriti da chi ne soprintendeva all'operato, quasi ne costituisse la mente, le medesime energie avrebbero dovuto ingaggiare con esse una lotta senza quartiere per eliminarle. Così i flussi energetici ricercatori messi in circolo dal giovane Iveonte ben presto si diedero a cercare in ogni angolo della galassia tutte le varie parti appendicolari della mostruosa creatura, la quale aveva iniziato a destabilizzare l'intera armonia esistente fra i vari corpi celesti. Una volta che le ebbero scovate, iniziarono ad avere con le stesse molteplici conflitti locali con il proposito di debellarle e di farle sparire dalla circolazione. Come ci si attendeva, anche i tentacoli della Kosmivora non se ne stettero inattivi; all'inverso, preferirono opporre alle attaccanti forze nemiche una resistenza non di poco conto.

Alla fine, tra l'assalto delle une e l'opposizione delle altre, ci fu l'apertura delle ostilità, riguardo alle quali non fu difficile prevedere pure che esse sarebbero state violente e durevoli. Anche perché, dopo averne preso atto ed essersene stupito, l'Imperatore delle Tenebre, pur stando a quella distanza esorbitante, non si astenne dal prendervi parte con grande rabbia. La quale gli proveniva soprattutto dal fatto che era un Materiade che si era proposto di arrestargli l'avanzata, anziché gli eccelsi gemelli del Regno della Luce. Perciò si chiedeva perché mai si stesse avendo quello strano evento inatteso; ma prima che riuscisse a darsi una risposta, quello scontro iniziale, in un attimo, si acuì e divenne esplosivo al massimo. In verità, non ci fu uno scontro diretto fra Iveonte e il dio più autorevole delle divinità negative; invece esso si accese tra le sole forze messe in campo dall'uno e dall'altro attore della vicenda. Allora si assistette ad un pandemonio di energie in grande eccitazione, le quali si abbrancavano e cercavano di disperdere quelle avversarie, non volendo subire una disastrosa sconfitta. Invece le energie del Potere Cosmico intendevano far pagare a quelle della Kosmivora lo scotto della loro azione malvagia. La quale mirava a distruggere interi mondi appartenenti alla galassia e ad ammazzare un numero imprecisato di Materiadi, che vi trascorrevano la loro esistenza.

Comunque, il conflitto tra le due opposte energie, ossia quelle del bene e quelle del male, non andò troppo per le lunghe, poiché esso terminò dopo brevissimo tempo. Difatti, ad un certo momento, le forze, che Iveonte aveva fatto dilagare per gran parte della galassia, avevano disperso quelle che rappresentavano la parte tentacolata della Kosmivora, sottraendo alla loro influenza milioni di astri e preservandoli dalla loro minaccia distruttrice. A quel punto, si attendeva lo scontro diretto fra Iveonte e il dio Buziur, i quali si trovavano l'una di fronte all'altro pronti a darsi battaglia. Nella quale sarebbero prevalsi il valore e l'ingegno dei due contendenti, specialmente se adoperati con il massimo accorgimento e con perspicacia. Anche gli eccelsi gemelli presero nota del primo passo portato avanti dall'eroe terrestre e ne stimarono l'acume, per aver cominciato a spazzare via dalla galassia la parte appendicolare della Kosmivora. La quale, per la sua vastità e a causa della sua complessa forma a tentacoli, la rendeva per niente malleabile, nel caso che qualcuno o qualcosa avesse voluto attaccarla e sconfiggerla.





CAPITOLO 477



IVEONTE DEBELLA LA KOSMIVORA E SI DÀ AL RIPRISTINO DI KOSMOS



Dopo aver sgomberato davanti a sé la massa soverchiante della Kosmivora, la quale era costituita dalla sua parte tentacolata, Iveonte cercò di tenere in pugno la situazione, senza perderne il controllo. Ma perché non gli sfuggisse un fatto del genere, occorreva prima di tutto avere chiaro davanti a sé l'intero campo che si apprestava a diventare il teatro di battaglia, la quale si sarebbe dimostrata insostenibile da entrambe le parti. Perciò chiese al Potere Cosmico, ottenendolo all'istante, di poter disporre di una vista eccezionale, la quale gli facesse avvistare la sua avversaria dal posto in cui si trovava, riuscendo così a coprire una distanza pari ad un quadrilione di chilometri. Una volta avuto il campo libero nelle sue parti vicine e remote, per cui il suo sguardo poté spaziare per l'intera galassia di Paren, il giovane eroe terrestre fu in grado di scorgere la Kosmivora, benché si trovasse alla sterminata distanza che abbiamo riportata. Allora non ebbe più difficoltà a rendersi conto della sua grandezza sproporzionata e della sua avanzata apocalittica. Con la quale andava disseminando lo spazio galattico di scenari che impressionavano per il terrore e l'orrore che causavano. Inoltre, vi apportava uno sconquasso spaventevole, che toglieva la pace ai vari astri celesti.

La terribile creatura non dava la visione di una bestia smisurata con una propria foggia da poterla individuare, mentre era in cerca di stelle, di pianeti, di satelliti e di quant'altro ci fosse in Kosmos, allo scopo di spazzarveli via tutti. Invece essa appariva come una fornace sempre ardente di attività, le quali producevano energie distruttrici intenzionate a fare di ogni spazio galattico da loro percorso un delirio di devastazioni senza fine. Nel medesimo tempo, quelle stesse energie, intanto che guizzavano da quella fonte di forze endogene che non smettevano di lievitarvi con rinnovata recrudescenza, davano uno spettacolo acustico e visivo di una espressione inimmaginabile. I rumori, a cui esse davano origine e che risultavano assordanti per l'orecchio di un Materiade, erano molteplici: a volte si esprimevano simili ad esplosioni vulcaniche; altre volte provocavano scoppi e rimbombi, che si disperdevano ovunque, dando luogo ad echi minacciosi e disturbatori. Ma se le si consideravano visivamente, potevano notarsi lampeggiamenti accecanti e sventagliate di rosseggianti fiamme, che apparivano scomposte ed azzannanti nella loro vorace volubilità. In pari tempo, formavano un groviglio di rivoli energetici, che avevano teste mostruose dalle fauci ingorde e profonde, in ognuna delle quali poteva essere fagocitato una intera stella.

Adesso anche il dio Buziur, nelle vesti della Kosmivora, si era accorto di avere un rivale, la cui foggia era quella di un essere umano che presentava dimensioni gigantesche. Ma il Materiade appartenente al ceppo androide, più che impressionarlo, lo fece solo meravigliare; anzi, riteneva ridicolo il suo atteggiamento, poiché esso gli faceva intendere che si preparava ad affrontarlo. Egli credette che tale essere, da lui valutato insignificante al suo confronto, gli fosse stato inviato contro dagli eccelsi gemelli. La qual cosa, però, ugualmente non gli provocò né timore né disagio, siccome era convinto che la Kosmivora, che adesso lo rappresentava, non era pane per i suoi denti, a causa della sua insolita durezza, che era disposta a spezzare anziché farsi tritare. Poco dopo, però, ripensandoci, l'Imperatore delle Tenebre fece marcia indietro e non credette più che il suo sfidante fosse un inviato dei divini gemelli Locus e Kron; invece si persuase che si trattava di qualcuno che agiva in autonomia. A suo parere, le due eccelse divinità erano consapevoli che, se non potevano affrontarlo direttamente; a maggior ragione, non avrebbero potuto fare affidamento su creature da loro stesse generate, impegnandosi in modo indiretto contro di lui. Per il quale motivo, il suo pensiero a tale proposito per il momento andava indirizzato verso tutt'altra direzione.

Così si andava rivolgendo delle specifiche domande sulla presenza nella galassia Paren della nuova identità, la quale, a prima vista, era un essere la cui natura non era né spirituale né immateriale. Addirittura tale essere risultava di natura umana, per cui era da considerarsi una infima essenza, anche se si presentava ragionevole e dotato di intelligenza. Chi gli aveva dato l'esistenza? Da dove era sbucato fuori? Perché cercava di intralciargli il percorso, mentre era intento ad avanzare nella nuova galassia, lasciando dietro di sé scie di scombussolamento e di distruzione a tappeto? Come aveva fatto ad averla vinta contro i suoi tentacoli, che erano deputati ad attrarre nel proprio nucleo le divinità positive e svolgevano mansioni destabilizzanti contro qualsiasi specie di astri celesti? Comunque, le sue erano domande, a cui non era semplice improvvisare delle risposte più o meno giuste. Difatti alcune cose inerenti ad esse non facevano parte di Kosmos. Per cui il dio della superbia non poteva concedersele per proprio volere, pur ricorrendo ai suoi iperpoteri secondari. Ciò, perché era all'oscuro da sempre di alcuni eventi, che si erano svolti da poco dietro le quinte e che soltanto un esiguo numero di divinità conoscevano. E il lettore sa a quali fatti ci si riferisce, avendo essi coinvolto in prima persona Iveonte. In verità, vi avevano agito in maniera secondaria gli eccelsi gemelli e il dio Iveon, perché l'eroe umano ne prendesse consapevolezza ed avesse la loro collaborazione nel superare i passi iniziali della vicenda. La diva Kronel non era stata di nessun aiuto al suo pupillo; ma ne era stata messa al corrente dal divino genitore.

Stando così le cose, il dio Buziur dovette arrendersi ed evitò di porsi altre domande relative all'essere, che si affrettava a scontrarsi con lui. Allora decise di prepararsi a riceverlo come meritava, poiché si mostrava uno sfrontato Materiade, il quale si atteggiava a vincitore dell'incombente combattimento, quando invece non lo aveva ancora vinto. Anche Iveonte si riteneva pronto per la lotta contro la Kosmivora, che in realtà aveva già iniziata, quando l'aveva privata della sua parte tentacolata. Questa volta, però, essa si sarebbe dimostrata ben altra cosa, poiché la si sarebbe vista acuirsi ed inferocirsi all'ennesima potenza, essendo a confronto due poteri dalle illimitate risorse. I quali se ne sarebbero serviti senza farsi scrupolo alcuno e con l'intenzione di far capitolare l'avversario, dopo averlo messo a duro cimento ed avergli dato il benservito.

Il primo a tirare fuori le unghie fu l'Imperatore delle Tenebre, che decise di far pervenire al suo sfidante una massa nebulosa bluastra, la quale era anche pregna di energie avvinghianti. Essa aveva due obiettivi: con il primo, intendeva avvolgerlo in una fitta nebbia; con il secondo, mirava ad immobilizzarlo, precludendogli ogni sua azione ostile. A parere del dio della superbia, dopo averlo costretto all'immobilità, avrebbe potuto fare del suo avversario ciò che più gradiva. Da parte sua, invece Iveonte, all'arrivo di quella immensa massa, la quale si mostrava voluminosa quanto la più grande delle stelle, Iveonte, senza perdere tempo, si preoccupò di fare intervenire contro di essa il suo potere, dandosi a gridargli: “Potere Cosmico, procedi contro tale massa energetica come stimi più opportuno, siccome si tratta di un prodotto del male.”

Allora il portentoso potere all'istante fece partire dalla fronte del suo possessore una fascia rossastra. Questa, dopo essersi srotolata per migliaia e migliaia di chilometri, se ne staccò e si diresse verso la massa che si avvicinava. Dopo averla raggiunta, si affrettò a cingerla, formando intorno ad essa numerose spire. Le quali, ad un certo momento, prima ne frenarono la corsa e poi iniziarono a serrarla all'interno di azioni costrittive, che non concedevano via di scampo. Anzi, le medesime si davano a racchiuderla in uno spazio sempre più ristretto, fino a quando non la videro ridotta a niente, facendola così sparire. A quella nuova dimostrazione messa in mostra dal suo rivale, la quale aveva reso la sua massa nebulosa qualcosa di inesistente, il dio Buziur, oltre ad arrabbiarsi, si era sentito parecchio scornato. Nel frattempo non si capacitava del fatto che un essere umano potesse possedere un potere del genere. Anzi, esso era in grado perfino di azzerare un suo prodotto energetico, dopo averlo fronteggiato ed arrestato. Perciò si chiedeva da cosa egli riuscisse ad attingere quella straordinaria potenza, la quale gli permetteva di avere ragione di ciò che egli andava mettendo in campo, pur di liberarsene al più presto e conseguire la vittoria. Ma ogni suo tentativo di venirne a conoscenza era frustrato dalla propria impotenza, poiché si ritrovava a gestire una situazione che, come notava, per un caso strano esorbitava dalle proprie possibilità. Eppure avrebbe giurato che in Kosmos, dopo essersi trasformato in Kosmivora, nessuna divinità sarebbe stata all'altezza di misurarsi con lui; tantomeno avrebbe potuto farlo un Materiade della specie umana. Al contrario, esattamente quest'ultimo gli stava dimostrando con i fatti che si era sbagliato a pensarla in quel modo, non avendo previsto una circostanza di quel tipo, la quale lo stava mettendo con le spalle al muro.

Allora bisognava cambiare tattica, se voleva avere la meglio sul suo sfidante e dominarlo nella giusta misura per distruggerlo e per far disperdere ogni sua minima traccia, come se in Kosmos non ci fosse mai stato. A suo parere, non gli sarebbero mancati i mezzi per farlo, avendo adesso a sua disposizione un potere illimitato, il quale non lo avrebbe fatto fallire in qualunque decisione avesse voluto prendere e non lo avrebbe deluso in qualsiasi impresa avesse voluto imbarcarsi. Perciò non doveva attardarsi ad esprimersi contro il suo rivale con quelle forze necessarie per polverizzarlo e sconfiggerlo, affinché nessuno potesse vantarsi di averla avuta vinta contro di lui. Alla parte avversa, invece, erano ben altre le intenzioni che le frullavano per il capo, le quali miravano a conseguire degli obiettivi che erano diametralmente opposti ai suoi.

Iveonte, da parte sua, si era prefissa una meta molto differente e intendeva tagliarne il traguardo a tutti i costi, poiché la considerava una nobile missione, che egli non poteva fallire. Anche perché, soltanto per potere intraprenderla, aveva dovuto affrontare e battere cinque supereroi, che erano stati i guerrieri più straordinari di Kosmos. I quali gli erano costati non pochi sacrifici per riuscire a domarli e a conquistare la parte di Potere Cosmico in loro possesso. Adesso che ne era diventato l'unico possessore, egli non poteva permettere alla Kosmivora di continuare a scompigliare l'universo, come appunto stava facendo. Per la verità, essa si dava alle più sadiche mutilazioni che provocava nell'intero creato, facendoci andare di mezzo tutti i diversi tipi di astri e le miriadi di Materiadi che vivevano sulla superficie di alcuni di essi, privandoli dell'esistenza. Prima, però, li immetteva in un tunnel, nel quale ansie, paure, sgomenti potevano durare da pochi secondi a delle ore intere, a seconda del tempo che l'astro spento ci metteva a morire, sul quale gli esseri umani ed animali conducevano la loro vita in pericolo. Difatti esso, in seguito ad un impatto con un altro astro oppure ad un inglobamento da parte di una stella, poteva andare incontro ad un destino di durata maggiore nel primo caso oppure di durata minore nel secondo caso.

Tirando le somme, dopo tutto quanto aveva fatto per trovarsi in quella situazione, gli era giocoforza intervenire contro il superbo Imperatore delle Tenebre per costringerlo alla resa dei conti e per forzarlo ad intraprendere l'unico viaggio che gli si prospettava davanti, ossia quello che gli faceva raggiungere direttamente Tenebrun. Perciò Iveonte, consapevole di una tale realtà, adesso volava in direzione della Kosmivora, allo scopo di arrestare la sua corsa demolitrice di ogni prodotto cosmico. Essa continuava a perseguirla con una perfidia così ignobile, da non poter essercene un'altra peggiore. Intanto poi che era lanciato contro la mostruosa creatura, superando milioni e milioni di chilometri, si riprometteva di portare a termine assai presto l'opera di salvamento che aveva appena iniziata in Kosmos, allo scopo di restituirgli l'integrità di prima. La quale gli era stata portata via dalla malefica e pestifera bestia rappresentata dal dio della superbia.

Per un sesto senso, il divino Buziur aveva presentito che da quell'essere umano, il quale lo stava sfidando, poteva attendersi qualche pericolo che neppure gli eccelsi gemelli avrebbero potuto costituire per lui. Anche perché egli non aveva una psiche che si lasciava attrarre dal suo influsso irresistibile, come avveniva con le divinità positive. Perciò doveva darsi da fare e macchinare contro il proprio rivale le insidie più perniciose ed ingannevoli, che fossero capaci di procurare la sua rovina, sperando così di uscire vincitore dal conflitto in atto. Allora, come secondo espediente, dopo che la massa nebulosa aveva fallito, per non aver funzionato secondo le sue aspettative, l'Imperatore delle Tenebre stabilì di ricorrere ad un cordone energetico spiraleggiante. Il quale, attorcigliandosi intorno al suo rivale, avrebbe dovuto sfibrarlo ed ottundergli l'ingegno. Nello stesso tempo, gli avrebbe dato anche l'impressione di stare a volare in uno spazio brumoso che gli offuscava la vista, oltre che svigorirne la mente. Ma egli era all'oscuro che esisteva un Potere Cosmico e che in esso era riposta la forza energetica numero uno, a cui nessun'altra poteva opporsi in maniera vittoriosa; al contrario, era essa a dettare legge ad ogni altra energia esistente in Kosmos. Inoltre, una forza di quel tipo in tale momento veniva addirittura gestita da chi gli si anteponeva come sfidante irriducibile.

Il nuovo intervento della Kosmivora, almeno all'inizio, fece trovare Iveonte spiazzato e in una situazione instabile, poiché lo attraversò lungo l'intero suo corpo all'interno di una forza a forma di spirale. La quale non smetteva di dare alle sue spire un movimento sfuggevole, intanto che sgusciavano con una rapidità inverosimile l'una dietro l'altra, come se si stessero rincorrendo. Così facendo, esse lasciavano sprigionare lungo il loro moto rotatorio energie di alto potere, che avevano lo scopo di rintronargli il cervello e di asservirlo al massimo disorientamento. Non si astenevano neppure dal farlo ritrovare in una specie di coltre fumosa, che gli annebbiava la vista e lo tormentava con sensazioni deprimenti e disgustose. Ma il giovane eroe, essendo stato preso alla sprovvista, fu costretto a sorbirsi quel nuovo stato di cose affatto confortevole. Infatti, esso gli suscitava intorno mille difficoltà e l'obbligava a condurre una esistenza vacillante, siccome veniva ad imprigionarlo in una ragnatela di frastuoni assordanti e di sinistre folgori accecanti. Per cui, anziché lanciarsi con spirito combattivo contro la parte avversa, cercava di sbrogliarsi da quella situazione in cui risultava impelagato.

Una circostanza del genere, però, non durò a lungo, visto che, ad un certo punto, Iveonte prese coscienza che non era lui che doveva far fronte a tale strano fenomeno acustico e visivo, per cui non stava a lui districarsene con un intervento efficace, il quale gli avrebbe anche comportato una perdita di tempo. Invece doveva demandare al Potere Cosmico l'abbattimento di quella sporca faccenda che la Kosmivora gli aveva affibbiata, appunto per distrarlo dalla sua azione punitiva. Allora, senza indugiare oltre, Iveonte si rivolse al prodigioso potere, che adesso era riposto nelle sue mani, e gli gridò forte: “Potere Cosmico, pensaci tu a mettere fuori combattimento le avverse forze della mia nemica, la quale mi sta frastornando con il suo comportamento sleale, pur di non consentirmi uno scontro fisico bilaterale fondato sulla lealtà. Ciò, solo perché esso la costringerebbe ad avere la peggio e a darsi alla fuga verso le tetre regioni di Tenebrun.” Dopo che il giovane ebbe formulato quel desiderio, si scorse un flusso di energia venir fuori dalla sua fronte, sotto forma di una miriade di pallini rossi, che subito si diedero a spargersi nello spazio circostante. Solo quando ne uscì fuori la quantità necessaria, essi si diedero ad inserirsi nella spirale emessa dalla Kosmivora, arrestando prima il suo moto e poi sgretolandola in infiniti pezzi energetici. Alla fine li sollecitarono a sparpagliarsi per lo spazio galattico e a perdersi per sempre in un tempo che aveva già smesso di esistere.

A quel punto, Iveonte si ritrovò ad essere fisicamente, psichicamente e spiritualmente sano, senza più subire l'influsso malefico del dio Buziur. Allora, determinato al massimo, egli riprese la sua volata in direzione della mostruosa creatura rappresentata dal dio Buziur, avendo intenzione di impartire ad essa la punizione che si meritava. Ma questa volta non ci sarebbero stati più, da parte della sua avversaria, vari marchingegni aventi lo scopo di eludere oppure di ritardare lo scontro, che il giovane intendeva imporle ad ogni costo. Il Potere Cosmico, per espresso volere del suo possessore, non glieli avrebbe più permessi, poiché li avrebbe neutralizzati sul nascere e fatti restare inattivi in essa stessa, quando ancora restavano desideri di disegni da attuarsi.

Messo alle strette, il dio della superbia appariva disorientato; anzi, si andava chiedendo qual era la vera natura del suo antagonista e quale potere ci fosse in lui, poiché entrambe le cose gli erano ignote. Era possibile che egli fosse dotato di un potere superiore al suo, che neppure i due eccelsi gemelli riuscivano ad annientare? Ad ogni modo, sebbene ne dubitasse, doveva evitare di escluderlo a priori, se non voleva ritrovarsi con l'acqua alla gola. Anche perché il giovane gli aveva dimostrato l'indubbia sua validità in due diverse circostanze, ossia quando aveva fatto svanire la massa nebulosa e la spirale energetica da lui messe in atto contro chi lo stava affrontando. Poco dopo dovette soprassedere a tali sue domande, poiché doveva badare a ricevere il suo sfidante, dal momento che egli si avvicinava con una rapidità incredibile. Era sua intenzione, infatti, preparargli una trappola coi fiocchi, da cui egli difficilmente sarebbe riuscito a districarsi e a salvarsi, dovendogli risultare una insidia molto deleteria. Ma se l'Imperatore delle Tenebre era convinto di intrappolare Iveonte con una propria tagliola annientatrice, l'eroe umano non la pensava alla sua stessa maniera, visto che era lui a voler procedere in tal senso, tendendogli un agguato che non si sarebbe mai aspettato. Con esso, una volta che ci fosse caduto, non gli avrebbe dato modo neppure di ricorrere ad una scappatoia che gli consentisse di uscirne.

Così, quando lo scontro apparve inevitabile e si presentava irrimandabile, fu la Kosmivora a fare la prima mossa, con la quale essa tese a tentare il tutto per tutto contro il suo ardito avversario. A suo parere, giocandosi l'ultima carta, indubbiamente egli avrebbe dovuto metterlo in ginocchio, senza avere più la forza di rialzarsi. Ma, in effetti, come intendeva agire nei suoi confronti, se voleva portare avanti la sua battaglia in modo vittorioso? Lo sapremo ben presto.

In un passato molto recente, abbiamo appreso che il dio Buziur, con l'intento di trasformarsi in una nuova Deivora, che poi sarebbe stata soprannominata Kosmivora dai due illustri gemelli di Luxan, si era trasferito in Parakosm, dove aveva incontrato il suo unico abitante, di nome Fust. Da lui era venuto a conoscenza dell'esistenza di un'acqua speciale, detta Acqua Doppiante, la quale sgorgava da una polla che si scorgeva ad un paio di metri di distanza da lui, di preciso sul suo lato destro. Tale acqua dotava chi l'attraversava di una sua copia conforme avente le seguenti prerogative: la trasferibilità, la dissolvenza progressiva sfuggente e l'azione proliferativa. Allora l'autorevole dio negativo non aveva esitato a farsi bagnare dall'Acqua Doppiante, per cui aveva acquisito all'istante una copia di sé stesso, che avrebbe potuto orchestrare in seguito a suo piacimento, tenendo conto delle sue speciali prerogative. La prima delle quali, avrebbe potuto farla trovare in qualunque posto avesse voluto; la seconda, invece, l'avrebbe dissolta, se fosse stato necessario; la terza, infine, ne avrebbe ottenuto una infinità di copie, che sarebbero andate a sistemarsi nei più disparati luoghi di Kosmos.

Il dio Buziur, però, adesso era propenso ad approfittare della sua azione proliferativa, che era la sua terza prerogativa, poiché in questo modo avrebbe messo in difficoltà il suo sfidante, non sapendo egli quale delle infinite Kosmivore fosse quella reale per colpirla e chiudere così la partita con essa. In virtù di tale sua possibilità di avere una copia di sé stesso e di poterne ricavare una infinità di copie per farle trovare nei luoghi più diversi, il dio della superbia non perse tempo a sdoppiarsi, dando luogo ad una coppia di Kosmivore, delle quali una sola era quella reale. Dalla copia irreale aveva poi ottenuto un consistente numero di copie, collocandole in vari punti della galassia, che erano molto distanti tra loro. Così agendo, egli era sicuro di aver messo in grande difficoltà chi era sul punto di attaccarlo con un suo primo lancio di forze energetiche dotate della massima distruzione, facendolo trovare nella situazione di non capirci più niente. Dopo, mentre il suo nemico se ne restava sorpreso e confuso, con il dubbio che gli si leggeva negli occhi, si diede a scagliare contro di lui una intera stella, volendo vederlo liquefatto nella sua massa incandescente. Una volta che la ebbe lanciata, il dio della superbia, nel posto dove c'era la Kosmivora originale, fece trovare una sua copia. Invece lui si defilò al tiro di risposta dell'avversario, il quale risultò nullo, per aver colpito una copia della sua mostruosa creatura. Quando poi si fu convinto che quel suo espediente rappresentava una vera trappola per il suo sfidante, egli seguitò a ricorrere ad esso. Per cui anche gli altri lanci di stelle iniziarono a susseguirsi, a breve distanza di tempo l'uno dall'altro.

Intanto che esse avanzavano vorticose per la sterminata galassia, quest'ultima si trasformò in un qualcosa di raccapricciante, poiché i tanti corpi stellari che l'attraversavano l'avevano ridotta in una ridda di giganteschi falò. Alcune volte essi si scontravano e davano luogo a degli spettacoli terribilmente agghiaccianti. Anzi, al termine del loro impatto disastroso, da smisurate masse avvampanti, finivano per diventare miriadi e miriadi di faville. Le quali si diffondevano in ogni angolo dello spazio galattico, dove si spegnevano e cessavano di esistere, almeno nelle sembianze di piccoli luccicori. In tutto quel soqquadro di devastanti esplosioni, nel quale dominavano luci sinistre ed abbarbaglianti, ad un certo momento, l'eroe terrestre si trovò nella situazione di non essere più in grado di reggere all'attacco della Kosmivora dai mille volti. La quale non si faceva individuare nel punto esatto della galassia dove essa si collocava realmente, per cui rendeva impossibile alla sua parte avversaria di colpirla e di metterla fuori gioco. Perciò essa adesso si sentiva di stare in una botte di ferro, dove nessun pericolo poteva raggiungerla ed inferirle il colpo mortale, il quale le avrebbe così provocato due effetti sommamente negativi. Con il primo, avrebbe privato l'Imperatore delle Tenebre del suo abito mostruoso ed invincibile; con il secondo, invece, lo avrebbe costretto a ritornarsene in Tenebrun, privato del tutto della possibilità di un suo futuro ritorno in Kosmos.

Venuto ad essere in quel suo stato disagiato, Iveonte stabilì di rinunciare al suo scontro diretto con la Kosmivora e di demandare al suo prezioso potere la soluzione della loro controversia. Per questo gli impartì la seguente direttiva: “Potere Cosmico, avendo essa rinunciato a scontrarsi con me direttamente e avendo anche scelto di non essere leale nel nostro combattimento, voglio che sia tu a vedertela con lei, dandoti mandato di distruggere ogni forza malefica situata entro i confini di questa galassia!” A quella disposizione impartita da Iveonte, il Potere Cosmico si mise subito all'opera per soddisfare il suo volere nel modo migliore. Così fece partire dalla fronte del suo possessore una specie di bruma giallognola trasparente, la quale, in un attimo, si espanse per l'intera galassia, che era quella di Paren, dove il contrasto era in atto. Dopo che la ebbe presa sotto il suo dominio, fece pervenire alla Kosmivora una massa nerastra, che si affrettò ad avvolgerla e a neutralizzarne ogni obiettivo perverso. Infine la fece esplodere in miliardi di pezzi, che presero il volo verso tutte le parti circostanti, fino a sparire totalmente.

Per ovvie ragioni, il dio Buziur, in qualità di essere divino, rimase illeso dall'esplosione; ma ne uscì ben conciato, poiché la sua psiche si ritrovò ad essere inadatta ad esistere in Kosmos. Per tale motivo, fu costretto a riparare al più presto in Tenebrun, se non voleva vivere fra grandi disagi, che gli avrebbero scombussolato l'esistenza. In verità, la sua nuova psiche sarebbe restata tale per sempre e non sarebbe stato mai più possibile per il dio negativo rifarsi una nuova psiche capace di fargli affrontare un viaggio cosmico per niente disagiato. Ne conseguiva che gli eccelsi gemelli non erano più tenuti a controllare perché non avvenisse mai il suo ingresso in Kosmos. Infatti, il Potere Cosmico lo aveva privato di una simile prospettiva per la parte restante della sua eternità.

A proposito di un particolare del genere, essi ne stavano parlando con grande soddisfazione, visto che avrebbero smesso, una volta per tutte, di fare da guardiani all'Imperatore delle Tenebre, perché egli non venisse tentato di lasciare Tenebrun e di avventurarsi in Kosmos. In quel caso, avrebbero avuto il dovere di fargli passare un brutto quarto d'ora. Adesso che ci riportiamo a loro due, era il dio dello spazio ad esprimersi al gemello in questo modo:

«Hai visto, Kron, come è stato bravo l'eroe terrestre nell'aspra sua disputa con il dio della superbia? Sebbene costui abbia cercato di metterlo alle corde, dopo che è ricorso alla sua azione proliferativa ed ha cercato perfino di colpirlo a tradimento, Iveonte se l'è cavata piuttosto bene. Da una parte, ha retto egregiamente al suo atteggiamento sleale; dall'altra, egli è riuscito a trovare la strada giusta per venirne fuori con acume e con successo, facendo agire al posto suo il Potere Cosmico. Il quale, riducendo malissimo Buziur e facendolo scappare nel Regno delle Tenebre, ha reso un grande favore pure a noi. Infatti, da questo momento, non dobbiamo più darci da fare per controllarlo ad ogni istante.»

«È tutto vero quello che dici, fratello Locus. Il pupillo di mia figlia Kronel si è battuto in maniera encomiabile e può soltanto meritarsi la nostra stima, oltre che la nostra gratitudine, per il suo comportamento assunto durante la sua difficile prova. La sua vittoria, in un certo senso, è risultata anche a nostro vantaggio. Ma ora bisognerà vedere come saprà cavarsela, quando metterà mano al ristabilimento dell'intero Kosmos danneggiato, riportandolo all'originario suo stato. Anche perché, dopo che ciò sarà avvenuto, grazie specialmente all'intervento del Potere Cosmico, le divinità positive che vi vivevano faranno ritorno nel Regno della Materia e del Tempo. Tra loro ci sarà anche la mia quartogenita, la quale non vede l'ora di incontrarsi con il suo eroe terrestre e di abbracciarselo, essendo stata costretta a stargli lontana. Esse tutte non aspettano altro che venga ridata a Kosmos l'integrità fisica di un tempo, essendo desiderose di ritornare sull'astro spento da loro abitato.»

Dopo che l'incontrastabile potere ebbe fatto sparire dallo spazio cosmico la Kosmivora e tutte le sue copie, Iveonte si trovò ad essere il solo a spaziarvi con la sua enorme potenza. Allora la sua foggia ritornò ad essere quella naturale, mentre sfrecciava attraverso l'infinità cosmica e si mostrava soddisfatto dell'operazione condotta a termine dal suo potere straordinario. Nello stesso tempo, si rendeva conto di quante galassie erano state private dei loro astri, per cui in esse regnava il vuoto assoluto. Anche la sua Lactica non si riconosceva più, poiché avevano smesso di renderla spettacolare le sue stelle, le sue comete, i suoi pianeti, i suoi satelliti e i suoi asteroidi, tutti dediti alle loro rotazioni e rivoluzioni oppure ai loro moti erranti senza fine. Quando poi prese coscienza che all'universo occorreva una spinta miracolosa che lo riportasse al suo stato di origine, Iveonte, in relazione tanto allo stato degli astri quanto a quello degli esseri animali e vegetali che vi erano esistiti, si adoperò perché venisse recuperata la folla dei corpi celesti andati perduti e vi ritornassero alla vita ogni cosa e ogni essere vivente che un tempo vi esistevano. Ma perché in Kosmos si avesse un prodigio del genere, egli dovette rivolgersi al suo potere e dettargli il seguente ordine: “Potere Cosmico, siccome non esorbita dalle tue facoltà di ottenere il prodigio che sto per invitarti a compiere, innanzitutto desidero che in Kosmos ogni astro ed ogni cosa su di esso, perfino il più piccolo granello di sabbia, ritornino ad esistere nello stesso posto che prima li ospitava. Esaudito tale mio desiderio, seguirà il mio secondo ordine.”

Allora dalla fronte di Iveonte venne fuori una energia prodigiosa, sotto forma di un velo trasparente di colore verde pallido, la quale, in un attimo, si propagò per l'intero universo. Da tale energia, poco dopo, scaturì una moltitudine immensa di bolle rosa, le quali, dopo essersi congiunte, formarono un'unica massa infinita, che ebbe vita breve. Ma quando ogni chiazza di tale colore venne meno, non esistevano più nello spazio cosmico le amputazioni e le imperfezioni di un tempo, poiché vi era avvenuta la restitutio in integrum.

A quel punto, Iveonte passò ad impartire al medesimo potere il successivo ordine, il quale fu il seguente: “Potere Cosmico, adesso voglio che su ogni pianeta tagliato per la vita, gli esseri vegetali ed animali, compresi i Materiadi, vi ritornino ad essere gli stessi di prima, quando il cataclisma cosmico non c'era ancora stato per tutti loro e l'armonia vi regnava sovrana.” Questa volta dalla fronte di Iveonte uscì una diversa energia portentosa di colore rosso, anch'essa trasparente, la quale invase l'universo e andò avvolgendo i pianeti e i satelliti che vi esistevano. Quando infine si ritrasse da tali astri spenti, sulla loro superficie la vita aveva ripreso il suo ritmo di sempre, come se nulla fosse accaduto prima di allora. Allora l'eroe terrestre ne fu molto lieto. Poi, ringraziando il Potere Cosmico per la sua stupenda opera effettuata nel Regno della Materia e del Tempo, gli si espresse così: “Ora, Potere Cosmico, riportami a Dorinda, prima che ti consenta di congedarti da me!”

Da parte sua, l'insuperabile potere subito assecondò il suo desiderio; però lo fece ritrovare all'esterno delle mura di Dorinda. In quel posto, Iveonte subito prese coscienza di essere privo sia di un cavallo che della sua spada. Inoltre, non avendo più l'anello del dio Kron, non poteva neppure volare per raggiungere celermente i suoi genitori, la sua ragazza e i suoi amici. Quindi, gli occorreva procedere a piedi, se voleva incontrarli ed abbracciarseli tutti, come appunto fece.

CAPITOLO 478



A DORINDA IVEONTE INCONTRA I FAMILIARI, LERINDA E GLI AMICI



Iveonte aveva appena fatto pochi passi nel dirigersi alle porte della città, allorquando gli apparve la diva Kronel, la quale gli disse:

«Non avevi forse cercato la tua spada e il tuo cavallo, Iveonte? Ebbene, sono venuta a recapitarteli con l'anello. Mio padre Kron e mio zio Locus ti permettono ancora di portarlo al dito! Sei contento della loro generosità, che hanno voluto dimostrarti con esso?»

«Che bella sorpresa mi hai fatta, mia dolce diva! Ti sono grato di esserti preoccupata di mettermi a disposizione la mia spada e il mio cavallo. Riguardo poi al prodigioso anello, come potrei non esserne contento? Anzi, ringrazia l'una e l'altra eccelsa divinità per aver continuato a metterlo a mia disposizione. Spero di non aver deluso tuo padre e tuo zio nella mia recente missione, la quale era rivolta a salvare l'universo dalla furia distruttiva del dio Buziur, che agiva stando all'interno della supercorazzata Kosmivora.»

«Potevi mai tu deluderli, mio imbattibile guerriero? Invece ti faccio presente che entrambi hanno ammirato il tuo prode coraggio e il tuo spirito combattentistico, che non sono mai venuti meno anche nelle situazioni più ardue e più problematiche. Sai una cosa, Iveonte? Il mio genitore è a conoscenza del debole che ho per te. Oserei dire che quasi se ne compiace e mi lascia libera di corteggiarti!»

«Dici sul serio, Kronel? Se è vero quanto hai asserito, allora mi viene pure da sospettare che il tuo divino genitore sia al corrente delle compenetrazioni di tipo sessuale che ci sono state fra di noi. Oppure mi sbaglio a pensare una cosa del genere?»

«Potresti essere nel giusto, mio pupillo, considerato che egli ha seguitato a tenermi sotto controllo, da quando il dio della saggezza Osur ti consegnò l'anello di mio padre. Ma ciò non deve crearti alcun problema, Iveonte, poiché egli desidera soltanto la mia felicità e vede di buon occhio chiunque me la procuri in qualsiasi forma. Perciò, anziché darti pensiero a causa di tale sospetto, prèstati a farmi sapere cosa intendi fare adesso, che stai per entrare nella città che ti diede i natali. Allora vuoi appagare questo mio pio desiderio?»

«Se proprio ci tieni a saperlo, mia divina protettrice, passo subito a contentarti. Per prima cosa, intendo correre alla reggia di mio padre, poiché in me c'è un'ansia terribile di abbracciare i miei genitori. Dopo raggiungerò mio cugino Leruob e la mia Lerinda, che non so neppure dove vive ora, per cui dovrò farmelo dire da chi ne è al corrente. Ma pure i miei amici, primo fra tutti Lucebio, hanno il diritto di ricevere la mia visita, volendo essi accogliermi con un forte abbraccio e con una calda stretta di mano. Infine chiederò a mio padre quale provvedimento vorrà prendere, dopo che avrò messo piede nella reggia. Ma sono del parere che egli allo stato attuale, essendo il suo stato di salute assai cagionevole, vorrà abdicare al trono in mio favore.»

«Naturalmente, Iveonte, in seguito vorrai andare anche a trovare tua sorella Rindella e il tuo amico fraterno Francide, i quali adesso si ritrovano ad essere marito e moglie, come regnanti di Actina.»

«Sarà senz'altro così, soave diva. In quel luogo, approfitterò anche per incontrarmi con i miei amici Astoride e Tionteo. Già, dimenticavo che quest'ultimo da poco è diventato sovrano di Terdiba, per cui vi dovrò fare una sosta per salutarlo ed invitarlo alle mie nozze.»

«A proposito del tuo prossimo viaggio, mio pupillo, sono convinta che vorrai anche condurti nella Berieskania, essendo tu desideroso di salutare tutti i tuoi zii e i tuoi cugini materni.»

«Certamente, Kronel! Ad ogni modo, sarà il leggendario mio nonno Nurdok, che vorrò vedere più di tutti! Ma questo già lo sai.»

«Invece, mio invincibile guerriero, riguardo al tuo ultracentenario avo, a Geput avrai la sgradita sorpresa di trovarlo morto e sepolto.»

«Mi dispiace molto che egli abbia smesso di esistere, Kronel. Vorrà dire che andrò sulla sua tomba a venerarlo e a dargli l'estremo addio.»

«Se sei d'accordo, Iveonte, vorrei essere con te, quando intraprenderai il tuo lungo viaggio. Di sicuro ti toccherà farlo volando, anche perché diversamente ti sarebbe impossibile.»

«Come potrei essere in disaccordo con te, mia amabile diva? La tua compagnia mi renderà il viaggio meno noioso. Allora ci conto, Kronel!»

«Mio designato re della Città Invitta, ora ti lascio, poiché non intendo farti rimandare più a lungo il ritorno alla reggia di tuo padre, che dentro di te stai bramando come non mai. Al nostro prossimo incontro!»

Una volta scomparsa la diva alla sua vista, Iveonte montò a cavallo e si avviò verso le porte di Dorinda, da dove si diresse verso la reggia. Quando l'ebbe raggiunta, le guardie, che erano di servizio al Corpo di Guardia, non conoscendolo, subito lo fermarono. Fu Liciut a chiedergli dove stesse andando in groppa al suo cavallo, facendogli anche presente che era vietato agli estranei entrare nella reggia. Specialmente poi se il loro ingresso avveniva, stando in sella alla sua bestia. Allora il principe ereditario, volendo scherzare sul suo doveroso fermo da parte del gendarme, si espresse al suo interlocutore con tali parole:

«Non mi dire che è vietato anche a colui che sta per diventare il tuo sovrano! Sarebbe il colmo! Ma ti sei reso conto del tuo comportamento, il quale potrebbe farti licenziare in tronco? Anzi, perché non fai condurre il mio cavallo nella stalla regia da una delle guardie qui presenti?»

A quelle sue parole, Liciut, che lo aveva fermato, rimase di stucco, non sapendo come prendere le parole dello sconosciuto. Così alla fine ritenne cosa saggia chiamare il suo comandante, perché fosse lui a sbrogliare la matassa, al posto suo. Quando poi venne fuori il soprintendente al Corpo di Guardia, il quale era di prima nomina, essendogli stata conferita da Lucebio, si rivolse al giovane, che anche per lui era una persona sconosciuta, dicendogli:

«Sono il comandante Polen. Posso sapere chi sei? Il mio vice è venuto a riferirmi ciò che poco fa hai dichiarato a lui e agli altri suoi tre colleghi. Ciò è avvenuto, quando essi ti hanno vietato l'accesso alla reggia, per non avere in tuo possesso il nostro lasciapassare. Sappi che possono mettere piede a corte solo coloro che ci hanno esibito le loro generalità ed hanno ottenuto il nostro permesso di ingresso. Allora vuoi essere così gentile da provarci la tua identità e riferirci il motivo per cui vuoi essere ricevuto a corte dal nostro sovrano? Sappi che è l'illustre Lucebio che attualmente fa le sue veci, a causa del precario stato di salute in cui versa il nostro nobile re Cloronte. Anzi, stiamo aspettando suo figlio, il principe Iveonte, poiché egli lo sostituirà sul trono di Dorinda.»

«Questo me lo immaginavo, comandante Polen, poiché ero già a conoscenza della salute piuttosto ridotta male di mio padre. Vado appunto a prendere il suo posto, visto che egli ha stabilito di abdicare al trono e di lasciarmi diventare suo successore. Adesso hai compreso chi sono? A dire il vero, mi ero già presentato al tuo vice, anche se in modo non del tutto canonico. Comunque, egli ha fatto solo il suo dovere!»

«Dunque, tu saresti davvero il principe Iveonte, il guerriero più decantato dal saggio Lucebio, nonché dai miei amici Solcio, il più bravo dei tuoi ex allievi, e da Zipro, il più bravo degli ex allievi del re Francide. Oh, che gioia e quale onore per me trovarmi a parlare con te a tu per tu. Se poi venissi degnato anche di una tua stretta di mano, la gioia, che è già immensa in me, diventerebbe incommensurabile!»

«Certo che ti do la mia mano, per una forte stretta! Se sei amico di Solcio e di Zipro, sono convinto che te la meriti senza meno!»

Così dicendogli, Iveonte, restando in sella, gli allungò la sua mano destra. Allora Polen non perse tempo ad allungargli anche la sua, perché entrambe le mani si congiungessero e dessero luogo ad una forte presa, come da lui desiderato. Quando infine le due mani si staccarono, Polen, in preda ad una contentezza infinita, si rivolse al suo leggendario interlocutore e gli disse:

«Ti ringrazio, illustre principe Iveonte. Ora puoi condurti dai tuoi nobili genitori e dal sapiente Lucebio. Essi non vedono l'ora di riaverti con loro per fare esplodere i loro cuori in una gioia incontenibile. Se poi consegni il tuo cavallo ad un mio gendarme qui presente, ci penserà lui a condurtelo presso le stalle regie, dove inviterà lo stalliere che vi presta servizio ad abbiadarlo e a farlo riposare con la massima cura.»

Iveonte, accettando all'istante il consiglio del comandante Polen, subito smontò di sella e porse le sue redini nelle mani della guardia che si era avvicinata per prenderle, dietro ordine del suo superiore. A quel punto, egli, salutato il giovane comandante con una pacca sulla spalla, si congedò da lui per raggiungere la reggia del padre.

Intanto che vi accedeva, il principe ereditario di Dorinda si imbatté nel cugino materno. Nell'incontrarsi nell'atrio regale, essi furono immensamente felici; inoltre si affrettarono a stringersi fortemente la mano e ad abbracciarsi, manifestando una grande commozione, la quale brillava nei loro occhi lucenti. Ma fu Leruob ad aprire bocca per primo. Infatti, mentre era ancora in preda all'emozione, egli si diede a dirgli:

«Finalmente a casa tua, cugino mio caro! Bentornato fra parenti ed amici! Dopo quest'ultima tua missione, spero che tu ti sia liberato per sempre da ogni altro impegno per conto delle tue divinità protettrici. Adesso hai bisogno di una esistenza tranquilla e di vivere la tua serena vita accanto ai tuoi genitori e alla tua Lerinda. Ella ti dovrà dare molti vispi figli, che allieteranno così la vostra dimora.»

«Grazie, Leruob, per la tua ottima accoglienza! Ti prometto che per me non ci saranno più missioni che mi terranno lontano da Dorinda, come l'ultima che mi ha consentito di esservi di molto aiuto. Comunque, ti anticipo che qualche viaggetto mi attende ancora. Con esso, però, non avranno niente a che vedere le divinità che mi proteggono. Per questo, prima che avvengano la mia incoronazione a re della mia città e il mio matrimonio con la mia ragazza, dovrò intraprendere il viaggio, che mi condurrà anche a Geput, nella tua Berieskania. Ma non temere, cugino: esso non durerà a lungo, poiché non lo farò in groppa al mio cavallo! Come già ne sei al corrente, grazie a questo mio anello, posso volare ad una velocità che neppure immagini!»

«Mi dici, Iveonte, perché hai deciso di fare questo viaggio e quali altre mete esso avrà, anche se qualcosa riesco a prefigurarmelo?»

«Le destinazioni del mio viaggio saranno quattro, Leruob. La mia prima visita ci sarà a Terdiba, dove raggiungerò il mio amico Tionteo, che è diventato re di quella città. La seconda avverrà a Casunna, dove c'è il re Raco, che è il fratello della mia Lerinda. La terza mi condurrà ad Actina, dove visiterò mia sorella Rindella, mio cognato Francide e il mio amico Astoride. La quarta e l'ultima mi porterà a Geput, il tuo borgo natio. Nelle tre città edelcadiche, la mia visita avrà come scopo le due partecipazioni a tali persone della mia nomina ufficiale a re di Dorinda, siccome mio padre abdicherà in mio favore; nonché del mio matrimonio con la mia Lerinda, il quale ci sarà a breve distanza di tempo dalla mia incoronazione. Nello stesso tempo, le inviterò a tali due solenni cerimonie. Naturalmente, anche tu, fino a quando esse non si saranno concluse, resterai mio ospite ed invitato speciale.»

«Grazie, cugino. Sarò molto lieto di presenziare la tua incoronazione e il tuo matrimonio. Ma non mi hai ancora detto perché vuoi andare anche a Geput. Di certo, non avrai anche deciso di invitare nostro nonno alle tue nozze, siccome la sua età ultracentenaria non glielo consentirebbe. Allora vuoi dirmi la ragione per cui ci vai?»

«Essa è molto semplice, cugino. Vado sulla sua tomba per onorare le sue spoglie mortali. La sua salma oramai giace da molte lune sottoterra, per cui già si comincia a pensare al nuovo superum della Berieskania. Tutti i tuoi parenti, me compreso, sono persuasi che soltanto tu puoi riuscire a prendere possesso di tale importante carica e continuare a dare lustro alla tua prestigiosa casata. Del resto ne era convinto anche il nostro leggendario nonno.»

Nell'apprendere la morte dell'avo paterno, Leruob ci rimase molto male e se ne addolorò così tanto, che cominciarono a lacrimargli gli occhi, per cui si interessò distrattamente alle restanti parole del cugino. Dopo, cercando di asciugarsi le tiepide lacrime, le quali gli scendevano giù per le gote, si rivolse all'amico, chiedendogli:

«Quando hai saputo, Iveonte, che il nostro carissimo nonno era morto? Scommetto che ti avrà informato la tua diva protettrice!»

«Non ti sei sbagliato, Leruob, a pensarla così. Solo che non mi è stato possibile essere presente alle sue esequie, essendo impegnato in una mia delicata missione. Allora mi ripromisi che un giorno sarei andato a piangermelo sulla sua tomba per onorare la sua salma.»

«Oh, se potessi venire con te, quando affronterai il nuovo viaggio, cugino, per piangerci insieme sulla sua tomba la morte del nonno! Ma so già che un fatto del genere mi sarebbe impossibile, siccome, diversamente da te, il viaggio mi risulterebbe lunghissimo. Vorrà dire che lo farò da solo, al mio ritorno a Geput. Prima, però, voglio assistere ai due eventi, che per me sono molto importanti: la tua incoronazione a sovrano di Dorinda e il tuo matrimonio con la principessa Lerinda. Solo dopo ripartirò per la Berieskania con i miei uomini, i quali giustamente vogliono appagare il desiderio di raggiungere i loro familiari, che non vedono da un sacco di tempo.»

«Allora, Leruob, adesso lasciami raggiungere i miei genitori, Lucebio e la mia amata Lerinda, essendo ansioso di riabbracciarli.»

«Fai bene, Iveonte, a raggiungere i miei zii nel loro reparto. A corte, però, non potrai incontrare Lucebio e la tua promessa sposa!»

«Perché mai, cugino, il mio incontro con loro non potrà avvenire, per cui dovrò fare a meno di riabbracciarli?»

«Proprio stamattina, Iveonte, il saggio Lucebio è voluto andare a fare una visita al suo amico Sosimo. Allora si sono unite a lui anche la sua donna e la tua amata. Adesso ne conosci il motivo. Comunque, se lo desideri, in un salto vado da loro ad avvertirli che sei rientrato. Tanto, non mi costa nulla andare alla casa di Sosimo e tornare alla reggia!»

«Invece, Leruob, lasciali pure godersi la loro visita presso il possidente Sosimo. Anche perché, una volta che mi sarò rivisto con i miei genitori, ci farò anch'io una capatina. Così ne approfitterò per salutare pure i padroni di casa e ringraziarli per l'ospitalità offerta alla mia Lerinda e a mio cognato Raco, l'attuale re di Casunna.»

Poco dopo Iveonte corse nel reparto dei suoi genitori, ma non ve li trovò. La servitù di corte lo mise al corrente che essi, proprio un attimo prima, avevano deciso di fare quattro passi nel patio. Allora egli si affrettò a raggiungerli; ma li trovò seduti sopra una panchina, poiché la loro breve passeggiata era già terminata. Al suo apparire davanti ai loro occhi, i due regnanti se ne rallegrarono a non finire. Anzi, stavano per alzarsi, essendo desiderosi di abbracciarselo e di baciarselo. Ma Iveonte, vietandoglielo, fu lui a piegarsi su di loro e a soddisfarli nel loro affettuoso gesto genitoriale; né egli si comportò da meno nei loro confronti, poiché gli fece sentire l'intero suo amore filiale ad entrambi. Dopo il principe sedette insieme con i suoi genitori, consapevole che entrambi bramavano scambiare quattro chiacchiere con lui. Soprattutto essi volevano sentirsi dire dal figlio che non li avrebbe più lasciati e che, da quel giorno, sarebbe sempre vissuto con loro. Il primo a parlare al suo primogenito fu il re Cloronte, il quale gli si espresse con queste parole:

«Adesso che sei di nuovo tra noi, Iveonte, cosa dobbiamo aspettarci da te? Sei ritornato nella nostra reggia per viverci per sempre, oppure è prevista una nuova tua assenza, che ti allontanerà da essa? Tua madre ed io non sai quanto peniamo, ogni volta che ci lasci soli per andare dietro a nuove imprese per inseguire trionfi e gloria!»

«Questa volta, padre, tu e la mamma potete stare tranquilli perché ho smesso di dedicarmi a simili cose, che in verità non sono stato mai io a cercare; invece mi sono capitate per puro caso. Ma da oggi in avanti, avrò altri problemi da risolvere, che riguarderanno la mia vita in Dorinda. Dovrò anche dare a te una mano a regnare, dal momento che le tue condizioni di salute non ti consentono di attendere con tutto te stesso al disbrigo dei vari affari di stato.»

«Visto che hai tirato in ballo questo argomento, figlio mio, desidero subito farti presente che le mie fragili forze non mi permettono più di reggere alla fatica che comporta l'amministrazione del mio regno. Allora, come già ti avevo annunciato ad Actina, ho stabilito di abdicare alla corona, perché tu mi succeda e governi la nostra città come si deve. Sono convinto che, una volta salito al trono, saprai governare il tuo popolo, che è quello dorindano, con giustizia e con saggezza.»

«Padre, acconsentirò a quanto ti sei prefisso, dopo che ti avrò chiarito due cose: prima, non ho mai ambito a scavalcarti e a non avere nessuno al disopra di me, non ritenendomi un arrivista per natura; seconda, accetto di succederti sul trono, soltanto perché la tua abdicazione è resa necessaria dalle tue condizioni di salute estremamente precarie, le quali ti si aggraverebbero di più nelle vesti di sovrano. Quindi, accetto volentieri la mia successione a te nella guida del nostro popolo, il quale, oggi come oggi, ha bisogno di risollevarsi dall'abiezione in cui è stato tenuto per moltissimo tempo, fino alla data odierna.»

«Mi fa piacere, Iveonte, trovarti d'accordo con la mia decisione irrevocabile. Per cui domani darò mandato a Lucebio di avviare la procedura di abdicazione da parte mia e quella della tua successione al trono. Così la tua incoronazione potrà aversi nei tempi che tu riterrai necessari, siccome vorrai che ad essa ci siano presenti tutte le persone che ti sono particolarmente care. Le quali dovranno avere quel margine di tempo che le faccia trovare in Dorinda alcuni giorni di anticipo. Sono sicuro, figlio mio, che vorrai anche far seguire un paio di giorni dopo le tue nozze con la principessa Lerinda, ad evitare che le persone che abitano in città remote si sottopongano ad un duplice viaggio. Non è vero, figliolo, che ho ragione a pensarla così?»

«Non ti sbagli, padre mio. Ora fammi dare alla mamma una notizia funesta. Ma, a mio avviso, all'età di centoquattro anni, una persona ha pure il diritto di morire per liberarsi dei suoi numerosi acciacchi, quando essi hanno iniziato a perseguitarlo ogni attimo dei suoi lunghi giorni!»

«Così, Iveonte, è morto il mio longevo genitore?» con fare compunto, intervenne a dirgli la madre, mentre si lasciava sfuggire alcune lacrime dovute al suo pianto sommesso «La tua osservazione, figlio mio, è stata giusta e la rispetto. Per cui anche il mio dolore ne esce ridimensionato, mostrandomi rispettosa delle leggi naturali. Ma lo stesso avverto un leggero malore, per cui desidero rientrare nel nostro alloggio e concedermi un po' di riposo. Tu, figlio mio, mi aiuterai a raggiungerlo con minore sforzo, se mi sosterrai con il tuo forte braccio. Sono certa che esso mi risulterà di grandissimo giovamento, mentre mi strascico a stento nel mio avanzare, a causa della mia vecchiaia e del mio stato di salute.»

Iveonte, dopo essersi prestato ad aiutare la madre ed avere accompagnato i suoi genitori nel loro alloggio, li salutò con affetto e si congedò da loro, volendo raggiungere al più presto il palazzo di Sosimo. Ma una volta abbandonato l'atrio della reggia, si avvide che davanti al suo ingresso c'era il cugino che lo attendeva con i due cavalli già bardati. Leruob, non appena lo vide venire fuori, gli disse:

«Iveonte, i cavalli sono già sellati per montarli e farci portare dall'amico di Lucebio. Ti dispiace se vengo anch'io con te, cugino?»

«Certo che no, Leruob! La tua compagnia mi risulterà senz'altro assai gradita, mentre ci conduciamo dal generoso Sosimo.»

La galoppata era appena iniziata, allorché si 'imbatterono in uno squadrone di cavalleria. Era la Guardia d'Onore che rientrava alla reggia, dopo aver accompagnato la principessa Lerinda, Madissa e Lucebio a casa dell'amico di quest'ultimo. Ne erano a capo il nuovo comandante Solcio e il suo vice Zipro. Allora entrambi, avendo riconosciuto Iveonte, subito diressero i loro cavalli verso di lui. Dopo che lo ebbero raggiunto, fu il suo ex allievo a parlargli per entrambi, dicendogli:

«Illustre principe Iveonte, siamo ai tuoi ordini! Per noi è una grande gioia averti di nuovo in mezzo a noi. Adesso, se ci è consentito, vorremmo avere l'onore di stringerti la mano.»

«Come potrei negarvelo, se siete stati gli allievi più in gamba, tra quelli che venivano allenati da me e da mio cognato re Francide?»

Avvenute le due vigorose strette di mano, Solcio si diede a gridare: “Lunga vita al principe ereditario di Dorinda, il quale molto presto diventerà il nostro sovrano! Che le mie guardie, giurandoti fedeltà, come stiamo facendo io e il mio vice, vi porgano lo stesso augurio!”

Allora il centinaio di guardie, che erano al suo comando, non persero tempo ad imitare il loro comandante, formulando ad alta voce al principe Iveonte il medesimo augurio, unitamente al giuramento. Ma dopo fu Zipro a gridare alle guardie: “Accostatevi tutte sul lato sinistro e permettete il libero passaggio al nostro principe, nonché prossimo nostro re!”

Di lì a poco, i due cugini raggiunsero la loro meta, dove Iveonte stupì tutti quanti con la sua presenza improvvisa. Anche se tutti ne gioirono immensamente, fu la sua ragazza a superare tutti i presenti in gioia e in commozione. Appena lo scorse, gli si lanciò contro e lo avvinse con le sue braccia, tra calde lacrime di gioia. Ad ogni modo, Lerinda alla fine dovette disgiungersi da lui, per permettergli di salutare le restanti persone che erano presenti con una bella stretta di mano. Mentre poi le domande fioccavano da ciascuna di loro, ad un certo punto si sentì poco lontano una voce, la quale gridava forte: “Lasciatemi salutare il principe Iveonte e stringergli anche la mano, poiché ne avverto un grandissimo bisogno!” Era il cieco Croscione che urlava in quel modo, intanto che procedeva verso quella parte del cortile dove molte voci non smettevano di farsi udire. Mentre avanzava, egli non smetteva di brancolare, poiché in quel momento non aveva nessuno che gli desse un aiuto per permettergli di orientarsi nello spazio. Appena lo scorse, Iveonte gli corse incontro. Una volta che lo ebbe avvicinato, gli prese la mano destra. Dopo, stringendogliela forte, gli si espresse con queste parole:

«Sono Iveonte, Croscione. Eccomi qui ad appagare il tuo desiderio. Oltre alla mia stretta di mano, posso fare qualcos'altro per te?»

«Principe, se non ti disturba la mia richiesta, vorrei che la tua mano restasse attaccata alla mia ancora pochi secondi. Tu non immagini quanto essa risulti salutare al mio organismo! Dentro di me non ho mai provato le sensazioni che sto avvertendo in questo momento. Tutti i miei organi ne stanno beneficiando alla grande! Avverto quasi un vigore nuovo, che circola dentro di me da capo a piedi, trasfondendo in ogni organo del mio corpo forze nuove e rigenerative. Anche nelle alle mie orbite stanno procurando un benessere incomprensibile. Mi chiedo, nobile Iveonte, cosa mi sta succedendo? Percepisco perfino la luce che vi penetra, come se avessi di nuovo gli occhi! Adesso provo ad aprire le palpebre… Ma io ci vedo!... Mi è ritornata la vista!... Gli occhi hanno ripreso ad esserci nelle orbite!...»

«Mi fa piacere, Croscione, di esserti accaduto ciò che affermi. Devi sapere, però, che non sono stato io ad operare il miracolo in te; bensì il mio anello, il quale ha delle proprietà taumaturgiche.»

Alla fine tutti si rallegrarono con l'ex consigliere del re Cotuldo, per essere stato miracolato dall'anello di Iveonte. Subito dopo, evitandosi altri indugi, Iveonte, Lucebio, Leruob, Lerinda e Madissa se ne ritornarono alla reggia, dove fecero propagare la notizia della guarigione di Croscione, che da poco aveva riacquistato la vista.

Anche il re Cloronte lo venne a sapere. A tale riguardo, mandò a chiamare il suo primogenito, avendo bisogno di chiarirgli alcune cose. Quando poi il figlio fu al suo cospetto, il sovrano gli disse:

«Se è vero, Iveonte, quanto ho appreso su Coscione, sono spinto a pensare che egli davvero sia diventato un uomo retto, senza più pecche sulla coscienza e profondamente pentito di ogni suo reato commesso in passato, quando era a servizio del proprio sovrano Cotuldo.»

«Come mai, padre, mi stai facendo un tale parlare, a proposito del miracolato Croscione? Io sono certo che, se il mio anello lo ha beneficiato, il suo ravvedimento e il suo pentimento sono fuori discussioni, altrimenti il prodigioso evento non ci sarebbe stato!»

«Se ho voluto averne la conferma da te, figlio mio, un motivo c'è senza meno. Qualche mese fa, siccome il campo dei ribelli era stato smantellato per sempre, Croscione rimase senza un posto in cui alloggiare. Allora Lucebio mi venne a chiedere se poteva mettergli a disposizione lo stesso alloggio che gli era stato assegnato dal re Cotuldo nella reggia. Ma io ricusai la sua proposta, pur persuadendomi che il mio rifiuto non veniva accettato di buon grado dal mio amico. Adesso, invece, vorrei riparare al mio errore commesso allora e consentire a Croscione di occupare l'alloggio di un tempo. Faccio bene, Iveonte, a ricredermi nei riguardi dell'ex consigliere di Cotuldo?»

«Padre, se vuoi che ti parli sinceramente, ti dico che quella volta sbagliasti a rifiutare a Croscione l'alloggio che ti aveva richiesto. Per sua fortuna, le cose gli andarono meglio che se fosse stata esaudita la sua domanda, poiché dove ora vive, non ha niente da invidiare all'alloggio di cui ti aveva fatto richiesta. Ciò significa che ogni tuo ripensamento a suo favore, oggi come oggi, non avrebbe più senso. Comunque, percorrere una via di conciliazione dà sempre più soddisfazioni che relegarsi in un atto di orgoglio basato sulla vendetta. Aggiungo anche che, dopo avere recuperata la vista, Croscione non ha più bisogno che si badi a lui. Anzi, in seguito penserò io a trovargli un impegno adatto a lui.»

Nel pomeriggio Iveonte ebbe due incontri importanti, il primo con la sua Lerinda e il secondo con Lucebio. Mentre si intratteneva con la sua ragazza, naturalmente, fu dato maggiore spazio alla questione sentimentale, per cui la passione e l'amore, dopo aver preso il volo, si espressero con la massima intensità possibile. L'uno e l'altra cercarono di recuperare il tempo perduto durante l'assenza del giovane da Dorinda. Così si amarono in modo dolce e profondo, come due innamorati che anelavano al godimento più piacevole ed appagante.

Nell'incontro avuto con Lucebio, invece, all'inizio Iveonte preferì affrontare i tre problemi importanti, che andavano risolti a medio termine. Il primo era stato quello inerente all'abdicazione paterna; invece i restanti due avevano riguardato la sua successione al padre sul trono di Dorinda e il suo matrimonio con la principessa Lerinda. Ci si era trovati d'accordo nel ritenere che l'incoronazione e le nozze sarebbero dovute avvenire, dopo che tutti gli invitati alle due cerimonie fossero stati presenti, e che le due cerimonie sarebbero dovute essere molto ravvicinate, per evitare agli stessi un doppio viaggio a Dorinda. Ad ogni modo, Lucebio si offrì lui di predisporre ogni cosa dal punto di vista sia legale e religioso che organizzativo. Messe in chiaro tali cose, Lucebio, volendo farsi spiegare da lui alcuni fatti che considerava inconcepibili, gli disse:

«Iveonte, sono alcuni giorni che non riesco a darmi pace, a causa di alcuni fatti che mi sono successi. A volte sono tentato di considerarli delle visioni oniriche, ritenendoli frutti irreali vissuti in sogno. Altre volte, al contrario, mi risulta difficile capacitarmi che essi non sono reali. Allora dovrai essere tu ad aiutarmi a giungere alla verità, siccome solo con il tuo aiuto potrò impadronirmene senza errori.»

«Lucebio, raccontami quali sono questi fatti che non si fanno collocare da te né in una dimensione reale né in quella irreale. Dopo, cercherò di esprimerti il mio parere in proposito, pur di farti comprendere da che parte sta la verità e di tranquillizzarti per sempre. Intesi?»

«Un mattino, al sorgere del sole, mi trovavo a sonnecchiare nella mia camera, quando una forte luce, inondandomi, mi fece svegliare. Allora mi vidi davanti una bella fanciulla, la quale mi si presentò quale tua dea tutelare. Ella subito mi fece presente che non era venuta a darmi tue notizie; ma per avvertire i tuoi congiunti e i tuoi amici che presto nell'universo ci sarebbero stati eventi catastrofici, a causa di una divinità malefica divenuta più potente del padre, il dio Kron, e dello zio, il dio Locus. In seguito a tale catastrofe, oltre a restare distrutto il nostro mondo, tutti saremmo morti. Per fortuna, dopo saresti intervenuto tu a rimettere le cose a posto, sconfiggendo prima la forza del male e poi riportando ogni cosa al suo precedente stato. Così il nostro mondo sarebbe ritornato ad esistere e noi ci saremmo ritrovati a trascorrere la medesima esistenza, riprendendo a viverla dal punto esatto in cui ci era stata carpita insieme con la distruzione del nostro pianeta. Ma un particolare che non mi convince non si lascia intendere bene da me, amico mio.»

«Esso quale sarebbe, Lucebio? Se non ti dispiace, vorrei venirne a conoscenza anch'io, per darti le giuste delucidazioni.»

«Io sono convinto che le calamità annunciate dalla tua dea protettrice si sono verificate puntualmente. Anzi, ne ho vissuto fin troppo le varie terribili fasi, perché io possa dimenticarle! Ma non comprendo per quale motivo sono il solo a rammentarle. Dunque, mi domando: l'apparizione della dea e la catastrofe universale sono state degli autentici sogni oppure esse si sono avverate realmente?»

«Ebbene, Lucebio, tu non sei stato vittima di allucinazioni o di visioni oniriche inesistenti; ma l'uno e l'altro evento ci sono stati per davvero, per cui devi smetterla di rimuginarci sopra invano. In quel frattempo, io mi sono trovato a possedere di un potere grandissimo, il quale mi ha reso in grado di debellare la forza devastante della malefica creatura e di riportare il nostro mondo, con tutti gli esseri viventi che lo abitavano, allo stesso stato che avevano un attimo prima dell'avvenuto cataclisma cosmico. In più, esso ha fatto in modo che nessun essere umano, tranne te, ricordasse quanto è successo, ad evitare che gli orrendi fatti continuassero a terrorizzarlo. Ne approfitto, amico mio, per comunicarti che mi attende un nuovo viaggio, con il quale dovrò condurmi ad invitare alla mia incoronazione e al mio matrimonio le persone che ne sono degne. Inoltre, dovrò andare in Berieskania, essendo mio dovere visitare la tomba del mio nonno materno, il leggendario Nurdok, ed onorare la sua salma, nonché dargli il mio ultimo addio.»

«Sul serio dici, principe Iveonte? Dovresti saperlo che tale tuo viaggio ti porterebbe via un sacco di tempo! Non vorrai forse dire addio all'incoronazione e al matrimonio! Non ci posso credere!»

«Che sciocco che sei, Lucebio! Non dovrò mica viaggiare, stando sulla groppa del mio cavallo! Hai scordato che il mio anello può anche farmi volare nello spazio ad una velocità impressionante? Sappi che, nel tempo di un giorno, posso perfino arrivare nella remota Berieskania e ritornarne! Ad ogni modo, siccome dovrò restarci almeno una intera giornata presso le persone che andrò a raggiungere, mi ci vorranno almeno cinque giorni, prima che mi rifaccia vivo in Dorinda. Invece non potranno essere altrettanto veloci a presentarsi nella nostra città quanti sarò andato ad invitare alle due cerimonie, che mi vedranno prima incoronare sovrano della mia città e poi sposare la mia Lerinda.»

«Hai ragione, Iveonte, sono stato stupido a non pensare che il tuo anello portentoso possa permetterti ogni cosa, perfino di superare grandissime distanze in poco tempo. Ma ne hai parlato già anche ai tuoi genitori e alla tua ragazza? Sono certo che anch'essi, quando gli riferirai sul nuovo viaggio, si spaventeranno, ignari del modo in cui lo affronterai e del tempo che ti ci vorrà per portarlo a termine.»

«Vado adesso a parlarne agli uni e all'altra, considerato che dovrò affrettarmi a partire, dovendo dare ai miei invitati il tempo necessario per arrivare a Dorinda prima delle due cerimonie.»

Messe al corrente le persone che dovevano sapere del viaggio che stava per intraprendere, il giorno dopo Iveonte spiccò il volo dal belvedere della reggia verso il cielo infinito. Era con lui anche la diva Kronel, la quale gli aveva già fatto presente tre giorni prima, ossia quando gli era apparsa nei pressi delle porte di Dorinda, che sarebbe stata felice di accompagnarlo nel suo viaggio avente come mete alcune città edelcadiche e il borgo beriesko di Geput.

La città, nella quale Iveonte fece la sua prima tappa, fu Terdiba, dove adesso regnava il suo amico Tionteo, il quale aveva anche sposato Dildia, la sorella di Astoride. Egli si presentò all'improvviso a lui e lo mise al corrente che presto nella città di Dorinda ci sarebbero state la sua incoronazione e le sue nozze. Dopo le partecipazioni delle due cerimonie, lo invitò anche a presenziarle, poiché sarebbe stato un invitato gradito. Allora l'amico sovrano fu molto lieto di esserne stato avvertito e gli promise che non sarebbe mancato insieme con la sua consorte, la regina Dildia, e con una scorta di soldati. Poiché essa si trovava da quelle parti, Iveonte fece presente all'amico Tionteo che andava ad invitare anche la famiglia del defunto Tio. Il quale era stato il maestro d'armi e di arti marziali suo e del re Francide. Essa era composta dalla vedova Luta e dai figli Zilio ed Ucleo. Era sua intenzione indirizzarli alla reggia di Terdiba per farli viaggiare con la comitiva terdibana nel trasferirsi a Dorinda. Il re Tionteo gli promise che avrebbe accolto i tre familiari con tutti i riguardi, ospitandoli nella sua reggia e facendoli viaggiare con loro.

Così il giorno dopo il giovane principe si presentò anche alla famiglia di Tio, la quale ora viveva in una bellissima fattoria, dove si erano dati all'agricoltura. Essi furono molto felici di rivederlo e di stargli insieme, anche se fu per brevissimo tempo. Inoltre, accettarono volentieri da lui l'invito alla sua incoronazione e alle sue nozze. Gli promisero anche che, riguardo alla loro andata a Dorinda, essi avrebbero fatto com'egli gli aveva consigliato. Quanto alla tappa successiva del suo viaggio, Iveonte la fece a Casunna, dove si incontrò con il cognato Raco, mettendolo al corrente che presto ci sarebbero state la sua incoronazione e le sue nozze con la sorella Lerinda. Nello stesso tempo, lo invitò a tali cerimonie. Il re Raco ne fu lietissimo. Avendo poi appreso che Iveonte andava ad invitare anche i regnanti di Actina, i quali erano il suo amico fraterno Francide e la sorella Rindella, lo pregò di riferirgli che li attendeva a Casunna, da dove poi, dopo un giorno di rilassante riposo, sarebbero ripartiti insieme alla volta della città di Dorinda.

Quando Iveonte si presentò alla reggia di Actina, dove aveva stabilito di fare la quarta tappa del suo viaggio, la sua inattesa presenza a corte stupì quanti lo conoscevano. Anzi, quel giorno si intrattenevano tutti a festeggiare nel patio il compleanno del piccolo Ivun. Il quale era il primogenito dei regnanti della Città Santa e compiva quel giorno il suo primo anno di vita. Quando Iveonte vi si condusse anche lui, vi trovò l'amico fraterno, la sorella Rindella, Tionteo e la sua consorte Godesia, la nobildonna Talinda, la sacerdotessa Retinia e Dumio, il nuovo Sommo dei Sacerdoti. Non serve dire che essi furono tutti oltremodo felici di rivederlo, specialmente in quella circostanza, nella quale Iveonte ebbe modo di conoscere il figlio della sorella, che era il suo primo nipotino. Subito dopo egli partecipò ai presenti le due bellissime notizie, che erano la sua incoronazione a re di Dorinda e il suo matrimonio con Lerinda. Nello stesso tempo, gli annunciò che sarebbero stati degli invitati assai graditi alle due cerimonie che lo riguardavano. Ma anche gli fece presente che il re Raco li attendeva nella sua reggia, perché vi trascorressero un ragionevole tempo di relax, prima di continuare il loro viaggio per la Città Invitta. Ovviamente, avrebbero preso parte alle due solenni cerimonie i regnanti di Actina e la coppia di freschi sposi formata da Tionteo e dalla principessa Godesia.

A quel punto, restava ad Iveonte di fare la sua ultima tappa, che era il borgo di Geput. Quando lo raggiunse, tutti i suoi parenti di parte di madre lo accolsero con gioia e calore; ma anche vollero apprendere tante cose che concernevano lui e Leruob. Quando poi seppero che egli a breve sarebbe stato incoronato re della sua città e si sarebbe anche sposato, tutti si congratularono con il nipote e cugino e gli espressero le loro più vive felicitazioni. Nella stessa giornata, dietro espresso desiderio di Iveonte, lo zio Deloz lo accompagnò sulla tomba del suo defunto genitore, dove erano stati deposti i resti mortali del leggendario Nurdok. Una volta presso il tumulo, il giovane, con il cuore afflitto e con l'animo angustiato, si pianse la morte del compianto nonno. Il cui valore aveva brillato sopra tutti gli eroi, poiché aveva illuminato la sua esistenza con atti di indubbio eroismo e di irreprensibile integrità morale. Infine si rivolse a lui, proferendo le seguenti parole: “Nonno carissimo, sono venuto ad onorare la tua salma, essendo stata la tua esistenza densa di gesta eroiche. Durante la quale, ti sei anche dimostrato uno stratega di altissimo livello, facendo conseguire all'esercito beriesko grandiose vittorie contro chi ha osato invadere la Berieskania. Che il tuo nome e la tua gloria possano resistere alle ingiurie del tempo, affinché, lungo il trascorrere dei secoli, vengano sempre ricordati con ammirazione e con devozione! Addio, nonno!” Dopo quelle sue parole, Iveonte diede un abbraccio al suo parente accompagnatore e volò via verso il cielo, lasciando lo zio attonito e con il naso all'insù, mentre si dava a seguirlo senza parole e con il fiato sospeso.