43-L'ASSASSINIO DEL PADRE DI ASTORIDE

Io sono il figlio primogenito del defunto Elezomene, che un tempo è stato re della città di Terdiba. Amici, se voi poteste contemplare in volto la signora Malasorte, dopo averla scrutata in tutti i suoi tratti fisionomici, sono sicuro che alla fine la scambiereste con la mia persona. Sì, senza dubbio io e lei dobbiamo somigliarci come due gocce d'acqua! Me lo conferma il fatto che, dalla mia puerizia ad ieri, sono state infinite le sventure che non hanno mai cessato di piovermi addosso smoderatamente. Esse mi hanno rinfacciato in continuazione: "Nella pagina del tuo destino, il termine equivale a . Per la quale ragione, per te giammai potranno esserci le gioie e i piaceri della vita, poiché le une e gli altri sono stati banditi per sempre dalla tua esistenza! Quindi, essere sventurato, continua a penare senza fine, non potendo esserci per te un modo di vivere diverso da quello attuale!"

Una notte, che appariva la custode della mia serenità, mi spinse sull'orlo della voragine dei mali, siccome una caterva di disavventure mi stavano aspettando al varco. Eppure, con le sue attraenti stelle che luccicavano smaglianti nel cielo, essa sembrava promettermi un mare di cose assai belle! Invece poi la vidi tramutarsi di botto in un mostro detestabile che, senza ritegno alcuno, stava per iniziare a vomitarmi addosso un mare di disgrazie. Esse, secondo il mio destino, via via che fossero trascorsi gli anni, avrebbero dovuto ghermirmi senza interruzioni, rendendo la mia esistenza un crogiolo di ambasce e di sofferenze a tempo indeterminato, come appunto è avvenuto in tutti questi anni.

Eppure la giornata era stata abbastanza lieta e movimentata, dal momento che era trascorsa in una rumorosa allegria. Il popolo aveva festeggiato mio padre, perché egli, dopo aver condotto una seconda spedizione punitiva contro i Bogonghi, ne era ritornato vittorioso ed era stato anche osannato dai suoi soldati. Si trattava di un popolo crudele, che era stanziato oltre il confine dei nostri territori meridionali. Esso, di tanto in tanto, sconfinava e faceva scorrerie nelle nostre terre, compiendo razzie di ogni sorta ai danni degli indifesi coloni che le abitavano. Era stato il mio genitore a voler festeggiare la vittoria riportata sui nemici, facendo allestire un grande banchetto sulla piazza antistante alla reggia. L'invito a partecipare alla festa era stato esteso a tutti i Terdibani. Per cui essi, approfittando della bella occasione, si erano dati a mangiare e a bere con gioia e a più non posso. Intanto che essi gozzovigliavano, dandosi ad un'orgia di allegria senza precedenti, mio padre aveva accolto con soddisfazione gli applausi e le frasi di elogio che gli provenivano dal suo devoto popolo. Il quale non aveva cessato di rivolgergliele con calorose effusioni per l'intera giornata, non dimenticando nello stesso tempo di mangiare, di bere, di divertirsi e di sfrenarsi come non gli era mai capitato. Il mio genitore, però, intanto che era il destinatario di tante ovazioni, come poteva sospettare che nella reggia, da parte del suo stesso sangue, si stesse ordendo una congiura contro la propria persona?

Quando infine le tenebre si erano calate fitte sulla nostra città, senza chiedere il permesso a nessuno, dappertutto la maggioranza dei convitati era stata avvinta dall'invitante sonno ristoratore. Allora pure nella reggia c'era stata la cessazione di ogni fermento e di ogni trambusto. Vi era rimasto a farsi sentire il solo passo cadenzato dei soldati di ronda, il quale, ad intervalli regolari, riaffiorava ogni tanto improvviso dal buio notturno. Nel pieno della notte, anche nelle strade, che erano diventate deserte, non era rimasto più nessuno a sbraitare e a far baldoria. Vi si potevano scorgere solamente poche persone avvinazzate, le quali sedevano per terra, stando con la schiena appoggiata ad un muro. Esse continuavano a farneticare al fresco notturno e facevano prevedere che avrebbero trascorso l'intera nottata all'addiaccio.

Quella notte io dormivo con Apento, il vegliardo a cui ero stato affidato dal mio genitore. Egli, facendomi da saggio educatore, avrebbe dovuto garantirmi una formazione fisica, psichica, intellettuale e morale. Quella fisica mi abbisognava per irrobustire e rendere forte il mio corpo, rassodando la mia pelle e facendo diventare vigorosi i miei muscoli. Invece quella psichica avrebbe dovuto accrescere in me il coraggio, l'intraprendenza e la capacità di sapermi barcamenare in ogni situazione. Quanto a quella intellettuale e a quella morale, dopo che fossi diventato re, esse avrebbero dovuto farmi governare con saggezza sul mio popolo.

Ebbene, mentre le ore notturne trascorrevano con la solita lentezza, io non riuscivo ad addormentarmi: una insonnia irresistibile si era infiltrata inspiegabilmente in me, ostacolando il mio sonno. A volte ricevevo la visita di terribili incubi, i quali si impossessavano di me con il solo obiettivo di incutermi un folle terrore. Perciò scorgevo davanti a me delle ombre minacciose, le quali si agitavano freneticamente nella penombra e si davano spesso ad una orrida sabba. Non bastando ciò, di tanto in tanto qualcuna di loro, dopo essermisi avvicinata repentinamente, si divertiva a tirarmi una ciocca di capelli. A quel suo atteggiamento dispettoso, ero spinto a gridare forte e a svegliare il bravo Apento. Ma poi, trattenendomi alla meglio, ci rinunciavo e cercavo di scacciare da me ogni effetto ansioso, che mi proveniva dalla paura. Questa, infatti, si dava a comprimere il mio tremante cuore, fino a farlo apparire che stesse quasi per fermarsi oppure per scoppiare.

Soltanto più tardi presi finalmente sonno; ma esso non mi risultò per niente sereno. Mentre dormivo, sognai di trovarmi in mezzo ad un mare immenso e tempestoso, le cui onde continuavano ad avventarsi voraci contro il cielo e spesso assalivano anche la mia persona, che restava confinata sopra una fragile barchetta. La quale, poiché veniva sferzata dagli aggressivi fiotti spumosi, si dava a traballare paurosamente sopra l'oscillante superficie equorea. Ma la situazione veniva aggravata dal fatto che, a poca distanza da me, il cadavere di una persona sconosciuta galleggiava sulle acque ribollenti. La sua presenza, facendomi molta impressione, rendeva più lugubre l'indiavolata mareggiata. Infine, insidiata da un mulinello scontroso, la mia instabile imbarcazione fu risucchiata dal vorticoso movimento dell'acqua e fu così costretta a fare rotta per le profondità marine. In quel luogo, fui accolto da un vertiginoso turbinio di correnti contrapposte, le quali lottavano fra di loro senza tregua. Esso, accogliendomi con molto sgarbo, mi spinse poco dopo con forza in un antro sottomarino, dove mi abbandonò e mi dimenticò per un tempo imprecisato. Restando poi a lungo in quel posto, a un tratto, mi sentii anche mancare il respiro e soffocare. Quel senso di soffocamento, unitamente ad una forte dose di terrore, mi fece ritrovare nuovamente sveglio; però adesso avvertivo che avevo il grido strozzato nella gola. D'istinto, perciò, subito aprii gli occhi e scorsi al mio fianco il savio Apento. Egli, al contrario di me, se la dormiva come un ghiro e se la russava assai rumorosamente.

Poco dopo, ero sul punto di assopirmi ancora, allorquando il verso di una civetta mi strappò dal mio piacevole sopore. Esso venne a distrarmi, proprio quando avevo appena cominciato a gustarmi il sonno, nonostante persistessero in me dei momenti di panico, i quali non avevano smesso di mostrarmi il loro sfondo funereo! All'udire quel verso, poiché la superstizione faceva ritenere tale animale come presago di sventure, all'istante si fece avvertire più ossessivo quel turbamento che già spadroneggiava in me oltre ogni misura, azzerandomi la calma interiore. Per questo ritornò ad assalirmi la tentazione di svegliare il mio aio, volendo farmi tranquillizzare dalla sua preziosa compagnia e ricevere da lui un po' di conforto. Ma evitai di farlo, poiché ero convinto che, se lo avessi svegliato, mi sarebbero derivati dei risultati peggiori dalla mia improvvida decisione. Essa, infatti, mi faceva andare contro i precetti che mi impartiva il mio istruttore, i quali miravano, tra l'altro, a far di me un uomo coraggioso e forte. Fu quella la ragione, per cui recedetti da tale proposito e decisi di tenermi la mia paura tutta quanta per me, senza cercare di spartirla con nessun altro, specialmente con lui.

Alcuni attimi dopo, mentre mi agitavo tra quei pensieri turbinosi, a un certo punto mi accorsi che la ronda notturna non si faceva più sentire tanto nella reggia quanto nei suoi dintorni. Allora mi domandai che storia fosse quella; nel contempo, però, mi mostravo turbato e mi davo a mille congetture, tutte che mi facevano preoccupare non poco. Infine, non riuscendo a rasserenarmi in nessuna maniera, mi buttai dal letto e mi avvicinai di corsa alla porta, poiché volevo cercare di saperne qualcosa di più. Ma avevo già afferrato la sbarra che ne impediva l'apertura, allorché intercettai un parlottio proveniente dall'esterno. Esso mi spinse ad approfondire meglio quel fatto strano e rendermi conto di ciò che i due parlanti si dicevano, per cui non esitai a poggiare l'orecchio sull'imposta per potere origliare nel modo migliore. Stando poi in ascolto senza fare il minimo rumore, udii il commento di una prima voce, che diceva:

«Con la prossima alba, il nostro re Elezomene cesserà per sempre di regnare sulla nostra città, visto che la sua ombra starà vagando nella bruma del regno dei morti! Da domani, quindi, avremo il nostro nuovo sovrano sul trono di Terdiba, il quale sarà senz'altro suo fratello Romundo, il quale lo sostituirà sul trano, rendendo reali i suoi piani.»

Allora una seconda voce, mostrandosi dispiaciuta per quanto stava per accadere al suo attuale sovrano, il quale era amato da tutti i Terdibani, volle anch'egli esprimere la sua opinione sulla vicenda. Per questo, prendendo le difese del mio genitore, non si astenne dall'obiettargli:

«Peccato che sia stato stabilito così! A mio avviso, il re Elezomene era una gran brava persona, benvoluta e stimata dall'intero popolo. Per il qual motivo, non si meritava un tradimento del genere da parte nostra. Non la pensi anche tu allo stesso modo mio, Ferpos? Oppure sei di parere contrario, che in realtà non riuscirei a comprendere?»

All'intervento del compagno, il primo interlocutore, non gradendo neppure un poco il suo commento a favore di mio padre, all'istante lo riprese con molta burbanza:

«Tienitele per te certe opinioni, Zonne, se non vuoi ritrovarti con la testa mozzata nei prossimi giorni, ossia dopo l'incoronazione di Romundo! Mi sono spiegato a sufficienza? È un consiglio che ti do per il tuo bene, essendoci tra di noi una schietta amicizia, la quale è anche di vecchia data! Al posto mio, un altro ti avrebbe messo in grossi guai.»

Poco dopo, tutto tacque, poiché un silenzio sepolcrale ritornò ad avvolgere la reggia, facendola ripiombare nella quiete di prima, per cui in essa non si sentiva più anima viva. Senza alcun dubbio, mio zio Romundo stava tramando vigliaccamente contro il mio povero genitore, con l'intento di usurpargli il trono. Perciò era necessario che io svegliassi immediatamente il mio maestro dal suo profondo sonno e lo mettessi al corrente di ciò che avevo udito fuori un istante prima. Così, in un batter di ciglio, fui presso il suo letto. Scuotendolo più volte, gli gridai:

«Apento, devi svegliarti subito! Mio padre è in grave pericolo!»

Alle mie reiterate scosse, il vegliardo dapprima sobbalzò. Qualche attimo dopo, destandosi a fatica dal torpore del suo profondo sonno, domandò ad alta voce con stupore:

«Chi mi ruba il sonno, mentre me la dormo beatamente? Come mi avvedo, qui non si può neppure dormire in santa pace e dimenticare, almeno di notte, quegli affanni che vorremmo avere lontani da noi!»

Poi, avendo aperto gli occhi ed avendomi riconosciuto, mi chiese:

«Ah, sei tu, mio principino! Per favore, vuoi dirmi cosa c'è che non va? Hai forse fatto un altro dei tuoi brutti sogni? Possibile che, alla tua età, ti fai ancora spaventare dai loro contenuti spettrali? Se ti comporti così, mio caro Astoride, devo ammettere che a niente è valso il mio insegnamento rivolto a liberarti dalla paura! Ma ora rimettiti a dormire!»

«Invece non va assolutamente niente, mio buon Apento! Adesso tanto i miei sogni quanto la mia paura non c'entrano per niente, se lo vuoi sapere!» gli risposi con fare alquanto convulso «Si tratta invece di ben altro, che devi sapere subito! Vogliono assassinare mio padre! Bisogna fare qualcosa per salvarlo, ammesso che siamo ancora in tempo per salvarlo! L'ordine è stato dato dal malvagio mio zio Romundo!»

«Ah, ah, ah! Ma allora davvero hai fatto un altro brutto sogno, mio piccolo Astoride! Anzi, direi che esso sia stato il peggiore di tutti, per cui continui a viverlo anche da sveglio! Ti consiglio di ritornatene nel tuo cantuccio e di dormirci serenamente! Così ne approfitterò anch'io per riaddormentarmi e riposarmi, come stavo facendo un attimo fa!»

Erano appena uscite tali parole dalle labbra dell'incredulo Apento, allorché echeggiarono nella reggia molte urla disperate di donne. A quelle grida, che ben presto si misero a risuonare dappertutto, il vecchio si offuscò in viso. Un momento dopo, avendo preso coscienza di ciò che realmente stava succedendo nella reggia, ruppe il breve silenzio e mi fissò stravolto. Condividendo poi la mia preoccupazione, mi disse:

«Allora le tue parole erano vere, ragazzo mio, per cui questa volta non avevi affatto sognato! Scusami, se dentro di me ho ritenuto le tue affermazioni delle strambe fantasie di un farnetico, anche se a te ho fatto soltanto credere di considerarti vittima di un sogno! Come puoi constatare, caro Astoride, tutti possiamo sbagliare nella vita, nessuno eccettuato, anche quando siamo sicuri al cento per cento di stare dalla parte della ragione! Impara pure questo, mio discepolo!»

Dopo avermi chiesto scusa, il mio educatore balzò celermente dal letto a piedi scalzi e si precipitò alla porta con l'intenzione di aprirla. Ma per quanti sforzi egli facesse, ogni suo tentativo risultò vano, siccome essa era stata preventivamente ben serrata dal di fuori. Il quale provvedimento doveva impedirci di uscire dalla stanza in cui dormivamo.

Nel frattempo, quell'urlare pazzo e straziante, dopo aver rotto la quiete della notte, si era dilagato per l'intero palazzo reale. Oltre alle urla delle atterrite ancelle, potevamo sentire i penosi strilli della mia povera mamma. Ella invano si dibatteva e si disperava, dando sfogo al suo incontenibile ed agghiacciante dolore. Alle grida di afflizione delle donne, nella reggia ben presto si aggiunsero anche i frastuoni delle prime avvisaglie. Invece dall'esterno di essa cominciarono a giungere le proteste della popolazione, la quale, non avendo paura di manifestare contro mio zio, si preparava a dare origine ai primi torbidi. Dunque, sul serio mio padre era stato tradito e fatto assassinare dal proprio fratello! La qual cosa mi riempiva di rabbia e di dolore. In quel momento, però, mi risultavano inefficaci le parole di sollievo del buon Apento, che cercavano di mitigare la mia ira e il mio tormento. In verità, anche le sue gote erano cosparse di calde lacrime, siccome anch'egli si stava struggendo dal dolore, essendo il consigliere di mio padre. Perciò, al pari di me, aveva bisogno di qualcuno che lo consolasse per la perdita del suo grande amico e gli desse la forza di affrontare il funesto evento.

Trascorsa appena un'oretta, da quando erano esplose le prime urla nella reggia, vedemmo finalmente la porta della nostra stanza spalancarsi con violenza, essendo stata spinta senza riguardo dal di fuori. Allora un picchetto armato si presentò a noi due e, dopo averci prelevati, ci obbligò a seguirlo senza mezzi termini. In quel momento, non valsero a niente le recise rimostranze del mio indispettito maestro. Mentre poi avanzavamo per i corridoi della reggia, mi sentivo un autentico condannato alla pena capitale, ossia distrutto nell'animo e confuso nella mente. In quella notte da tregenda, ciò che prima mi allietava, adesso mi appariva orrido e terrificante. Gli stessi colonnati mi si mostravano come dei giganteschi pitoni, mentre i loro capitelli ne venivano a rappresentare le grosse teste. Mi sembrava che quegli smisurati serpenti volessero aggredirmi e divorarmi senza avere pietà di me!

Ogni angolo della reggia rigurgitava di soldati armati fino ai denti e il più delle volte Apento ed io ci imbattevamo in qualche residua scaramuccia, che continuava ad esserci inutilmente. Infatti, si trattava dei pochi soldati rimasti fedeli a mio padre che resistevano ancora, cercando di vendicarlo. La loro fedeltà, però, non essendoci più niente da fare per il loro sovrano, permetteva ai poveretti soltanto di seguirlo nel regno dei morti! Inoltre, le grida di tormento, i pianti angosciosi e i rumori d'armi si univano al rapido andirivieni di armati frettolosi e frementi, i quali in quella notte si aggiravano dappertutto. Perciò gli uni e gli altri avevano trasformato la nostra reggia in un vero caos infernale.

Nel frattempo, anche il popolo di Terdiba faceva sentire la sua voce collerica e sdegnosa. Molti cittadini, subito dopo avere appreso l'infame assassinio del loro amatissimo sovrano, si erano subito accalcati intorno al palazzo reale, le cui entrate erano già state bloccate preventivamente. Per cui adesso esse erano presidiate da alcuni contingenti di armati. Essi controllavano che il popolo non riuscisse a riversarsi nella reggia, potendo tale invasione mandare a monte i disegni di mio zio, che adesso era diventato il fratricida senza cuore e senza scrupoli. Ma la furia dei Terdibani, se non poteva essere vista, la si poteva almeno sentire dall'interno della reggia. C'erano di quelli che gridavano: "A morte il traditore fratricida! Che sia giustiziato in pubblica piazza!" Altri invece urlavano: "Che sia il figlio Astoride a succedere al valoroso re Elezomene! Il venerabile Apento gli farà da saggio consigliere!"

Alla fine fummo condotti nella sala, dove mio padre giaceva morto. Un colpo di spada lo aveva sgozzato nel suo letto, mentre trovava riposo nel sonno. Mia madre e le sue ancelle stavano al suo capezzale, piangenti e sconsolate. Mio zio invece, con le braccia conserte e grave nel viso, era ritto accanto alla salma del babbo. Si mostrava impassibile, senza permettere al suo volto di manifestare il benché minimo segno di sofferenza. Anzi, appariva una vera statua di bronzo! Soltanto quando ci scorse, egli ci venne incontro, cercando di abbozzare una espressione di profondo cordoglio. Dopo che ci ebbe raggiunti, il cinico malfattore ebbe perfino il coraggio di prendermi per mano e di accompagnarmi presso il corpo esanime di mio padre, come se avesse la coscienza pulita. Standomi poi accanto ritto ed impettito, quasi volesse lenire la mia pena, il mentitore incominciò ad affermarmi ipocritamente:

«Mi hanno ucciso l'unico fratello che avevo, Astoride! Ti garantisco che i veri colpevoli me la pagheranno con il sangue! È una promessa che ti faccio, nipote mio, e giuro che la manterrò! Sappi che gli assassini traditori mi hanno inflitto una offesa imperdonabile! E dire che io ero il braccio destro del tuo povero genitore! Ahimè, quanta vergogna è stata gettata sulla mia onorabile persona dai vigliacchi regicidi! Essi devono sapere che il mio motto irriducibile è "Ferro col ferro!". E così sarà»

In vita mia non avevo mai visto un lupo camuffarsi così bene in un mite agnello, come mi capitò di rendermene conto quella notte di sangue. Mio zio Romundo, l'orditore di quella obbrobriosa congiura e il mandante dell'assassinio del povero babbo, adesso faceva la parte dell'innocente, ossia di chi era all'oscuro del turpe delitto che si era appena consumato, a danno del mio sventurato genitore. D'altronde, in quel momento cosa potevo fare contro il cinquantenne mio zio, se avevo solo otto anni? Inoltre, egli era spalleggiato da numerosi armati, i quali ora tenevano sotto controllo l'intera reggia. Mi sovvennero allora alcuni consigli del saggio Apento, uno dei quali diceva: "Quando ti trovi nell'impossibilità di reagire e di vendicarti, rinuncia ad ogni reazione istintiva e ad ogni vendetta. Esse potrebbero solo peggiorare la tua situazione e mettere a repentaglio la tua esistenza. Ti sarà salutare, invece, astenerti da ogni minaccia e da ogni atto inconsulto. Perciò, in una simile circostanza, serra i denti, frena la lingua, comprimi in te l'ira e rimanda la tua vendetta a tempi più favorevoli! Per essi, intendo quelli che un giorno potranno farti vendicare, senza che tu possa correre alcun rischio!" Il consiglio del mio eclettico maestro era senz'altro il partito migliore a cui appigliarmi, in quel terribile frangente. Allora mi rivolsi con la mente al mio genitore estinto e gli feci questa solenne promessa: "Padre mio, la tua barbara uccisione mi costerna e mi spinge a formulare alcuni propositi di vendetta. Per questo la tua maledizione cada su di me e mi fulmini, se in avvenire, restando insensibile di fronte ad un simile misfatto, non mi adopererò per vendicare la tua uccisione. Dunque, facendo anche mio il suo motto, perisca di ferro chi col ferro ha ucciso!"

Poco dopo, essendomi girato a guardare indietro, mi accorsi che il mio maestro non c'era più alle mie spalle, poiché era stato condotto via da alcuni soldati. Ma la guardia, che in quel momento era di scorta a mio zio, volendo giustificare la sua assenza, fu lesto a dirmi:

«Cerchi il vecchio? Non devi preoccuparti per lui. Egli è stato portato in un posto sicuro, dove non potrà correre pericoli di alcun genere!»

«Sì, Astoride, te ne do conferma! Nel posto in cui lo hanno accompagnato i miei uomini, il tuo maestro Apento starà indubbiamente al sicuro!» mi assicurò con ipocrisia quel bastardo di mio zio «Anzi, adesso condurranno pure te in un luogo di massima sicurezza, poiché qui regna ancora il disordine. Perciò tu potresti correre qualche pericolo mortale, da parte delle medesime persone che hanno ordito la congiura contro lo scalognato mio fratello, il quale era pure tuo padre!»

Così, dopo che ebbi uno scambio di calorosi abbracci con mia madre, vennero a prelevarmi alcuni soldati. Essi avevano ricevuto l'ordine da mio zio di scortarmi e di condurre pure me via dalla reggia. Ma io svenni, ancor prima di lasciare la camera ardente, dove mio padre giaceva privo di vita. Per la quale ragione, non mi accorsi del mio allontanamento da essa e non potetti neppure rendermi conto del tragitto che era stato seguito, mentre mi trasportavano nella località in cui mi risvegliai il mattino dopo. Di sicuro essa doveva trovarsi a parecchia distanza dalla mia cara Terdiba, che non avrei più rivista per tantissimo tempo o forse mai più. Ma adesso, grazie a voi due, è venuto ad esserci in me uno spiraglio di speranza che un giorno potrò ancora ritornare nella mia città natale e rivederla con gioia. Ve ne sono immensamente riconoscente!

Da quell'istante in poi, non ho più saputo alcunché delle mie due familiari, le quali sono mia madre e mia sorella, e dei miei simpatici amici. A ogni modo, durante la drammatica circostanza, ogni mio pensiero era rivolto particolarmente alla mia diletta sorellina Dildia e non riuscivo a spiegarmi la sua assenza presso il capezzale del babbo assassinato. Anche perché la mia dolce madre, quando l'avevo raggiunta presso la salma di mio padre, non aveva avuto il tempo di parlarmi di lei. Durante quella evenienza luttuosa, ovviamente, nemmeno io avevo ritenuto opportuno farle delle domande specifiche sul conto di mia sorella. Perciò oggi, a distanza di tanto tempo, mi ritrovo come non mai con l'ardente desiderio di rivederla e di riabbracciarla!