42-LA FINE DEI CHIRONTI E DEGLI SCINNES

Rese appena visibili dal barlume del luogo e rasentando le scalcinate pareti, tre ombre percorrevano guardinghe uno dei tanti sotterranei del Castello Maledetto. Si trattava di tre giovani audaci, i quali facevano il possibile per venir fuori dal labirinto di quel malefico edificio. Infatti, si sa che è molto esasperante indugiare più a lungo in un posto dove mille seccature continuano ad assillarci, fino a quando in noi non si sono esaurite le totali forze che ci sorreggono. Anzi, a volte basta il solo pensiero di una simile evenienza a farci vivere sulle spine e ad intossicarci l'esistenza! Giustamente, neanche ad Iveonte, a Francide e al loro compagno, che era stato liberato da poco in quel castello, piaceva trattenersi un attimo di più in quel tetro crogiolo. Nel quale si fondevano, in un amalgama infernale, le insidie più diaboliche e le malie più esiziali.

Procedendo con un avanzamento gattesco, i tre circospetti giovani avevano già superato otto anguste gallerie, senza aver mai incontrato qualcuno che si fosse azzardato ad intralciargli il passo. Ora essi stavano imboccando il nono ed ultimo corridoio sotterraneo, allorché un fenomeno strano li gettò in pasto ad una profonda inquietudine e a dei tormentosi assilli. Ma non appena vi si immisero, uno strepito assordante, simile ad un fragoroso rombo di tuono, venne a farsi sentire all'improvviso sopra le loro teste. Volendo essere più precisi, era sembrato che il rumoroso fenomeno fosse stato scagliato apposta sul castello da una divinità sdegnata. Essa, probabilmente, si mostrava irata contro i suoi malvagi abitatori ed intendeva perciò punirli, a causa delle loro innumerevoli malefatte. Solo che non si rendeva conto che in quella circostanza potevano andarci di mezzo anche tre giovani innocenti, i quali si trovavano nel castello e non avevano colpa di alcunché.

A quell'imponente boato, Iveonte, Francide ed Astoride si arrestarono di botto. Poco dopo si misero a riflettere sullo schianto appena udito, allo scopo di cercare di individuare la causa di un simile effetto acustico. Ma ormai quel rumore, che si era manifestato come un enorme sfacelo di cose, era totalmente scemato sopra le loro teste. Comunque, esso, a un certo punto, aveva dato l'impressione di ingigantirsi e di avvicinarsi sempre di più. Per cui ai poveretti era sembrato che il medesimo fosse giunto fino a pochi metri di distanza da loro, arrecandovi anche qualche tipo di danno! In realtà, che cos'era accaduto nei locali alti del castello? I tre giovani si andavano chiedendo molto preoccupati. Nel contempo, apparivano sospettosi e alquanto ansiosi. In verità, la preoccupazione suscitava in loro molta irrequietezza e li faceva rimanere nel luogo dove essi si trovavano, immobili e chiusi in un pensieroso mutismo. Non riuscendo poi a farsi alcuna idea sull'arcano fenomeno, che un attimo prima si era verificato frastornante sopra di loro, essi si mostravano titubanti e tardavano a prendere una decisione qualsiasi in merito ad esso. In quegli istanti, Iveonte, Francide e il neo compagno si andavano chiedendo se conveniva riprendere l'interrotto cammino oppure era meglio attendere qualche attimo ancora in quell'andito, che adesso appariva quasi cieco. Optando per la seconda alternativa, i tre amici avrebbero avuto più tempo per tentare di scoprire quale genere di fenomeno avesse avuto luogo sull'enorme fortezza. Magari avrebbero avuto pure l'opportunità di risalire alle sue origini. A ogni modo, il semibuio corridoio ormai continuava solamente per un'altra ventina di metri e nella sua parte terminale esso faceva intravedere una piccola gradinata, la quale conduceva a pianterreno del grande castello.

Era da qualche minuto che la terna di giovani si dibatteva tra quelle due opzioni, senza decidersi in alcun modo per una di loro, allorquando lì sotto iniziò a farsi udire una vera grandinata di irresistibili boati. I quali, tutto a un tratto, si erano dati a piombare sul castello con tale irruenza, da far tremare ogni cosa in tutta la sua solida e compatta costituzione. Con una vibratile oscillazione, allora le scarne pareti del corridoio apparvero prossime al crollo. Anzi, a tutti e tre parve che esse avrebbero ceduto a momenti, riducendo in un ammasso di detriti l'intero blocco di pietra, di cui era costituita la fortezza. Analoghi segni di cedimento diede anche il soffitto, il quale sembrava fendersi e sgretolarsi in migliaia di frammenti, entro pochi secondi. Se ciò fosse accaduto, la non indifferente quantità di calcinacci sarebbe precipitata sopra di loro e li avrebbe così sepolti.

In un primo momento, Iveonte e i suoi amici pensarono che il castello venisse colpito da ripetute scosse sismiche; ma poi una considerazione importante li convinse a ricredersi. Secondo la quale, essendo esso situato sopra un monte, doveva essere il pavimento sotto i loro piedi a minacciare di frantumarsi e non il soffitto che stava sopra di loro. Per la qual cosa, essi finirono per convincersi che non era affatto semplice farsi delle idee precise in proposito. Anche perché quel castello seguitava ad essere dominato dal mistero più fitto e dalla magia più imprevedibile! Allora cosa si poteva fare concretamente per uscire indenni da quel luogo? A tale riguardo, Iveonte volle esprimere il suo pensiero, dicendo:

«Amici, se non vogliamo essere seppelliti qua sotto, da parte nostra va evitato di indugiare più a lungo in questo posto; inoltre, faremmo meglio a smettere di avanzare tante ipotesi sulle cause che danno origine al tormentoso fenomeno. In questa circostanza, anziché badare con insistenza a renderci conto di cosa si tratti o di chi dia origine all'evento risonante, ci deve interessare una sola cosa. Ossia, dobbiamo riuscire a sottrarci a quei pericoli reali, che tra poco ci deriveranno di sicuro da esso, facendoci diventare sue vittime. Quindi, prima che ciò avvenga e ci procuri dei seri grattacapi, ci conviene andare avanti, almeno fino a quando non verremo a trovarci fuori di questo luogo infido!»

«Hai detto proprio bene, amico mio!» approvò Francide «Perciò affrettiamoci a sloggiare da questo Castello Maledetto, se non vogliamo che esso diventi la nostra tomba!»

Così, senza alcun indugio, si cercò di mettere in pratica il suggerimento dato da Iveonte, essendo stato reputato giusto e sensato anche dagli altri due del gruppo. Perciò, nemmeno un istante dopo, i tre giovani già si dirigevano rapidamente e senza esitazione verso la gradinata che essi avevano avvistata poco prima. Essa, secondo le loro previsioni, avrebbe dovuto riportarli al pianterreno del castello, dove si sarebbero ritrovati presso l'enorme portone dell'uscita. Invece, quando mancavano circa pochi passi dalla loro sospirata meta, si videro i tre giovani allibire ancora una volta. Ne fu la causa un altro fenomeno sconcertante, il quale spense addirittura in loro ogni tenue speranza di salvezza. Eppure essi avevano già immaginato di stare a calpestare la serie di gradini della vicina scala, quella che li avrebbe condotti celermente nel vestibolo del castello. Anzi, li avevano perfino contati con umore allegro!

Il nuovo fragore, dopo aver provocato in ogni angolo un assordante schianto, battendo poi con una irruenza irrefrenabile sul castello, aveva causato pure lo sprofondamento dei suoi vari solai, fino a raggiungere il sotterraneo dove si trovavano i tre esterrefatti giovani. Questa volta, però, il rovinoso frastuono era stato di gran lunga superiore ai precedenti. Infatti, essi sarebbero risultati insignificanti, se fossero stati paragonati a quello che si era manifestato appena un attimo prima!

Una volta raggiunti da quel cancan di rumori e da quel rovinio di cose, Iveonte, Francide ed Astoride erano arretrati di una ventina di passi. Perciò adesso se ne restavano rannicchiati senza fiatare contro una parete soggiogata dal buio pesto. Soltanto dopo avere atteso che si smorzasse l'ultimo scricchiolio di quello sconquasso spaventevole, essi ripresero a respirare liberamente. Ma siccome i tre amici non potevano fare a meno di ingoiare la densa polvere che si era originata lì sotto, i poveretti furono colti da tremende crisi di tosse. Essi adesso avvertivano soprattutto una forte arsura in bocca, la quale faceva bruciare la loro gola in modo assai molesto. Alla fine, quando si furono calmati i loro colpi di tosse, Iveonte e i suoi due compagni avvertirono un gran bisogno di raggiungere la gradinata. Perciò ripresero ad avanzare tastoni verso di essa, benché fossero circondati da residui polverosi, che neppure si scorgevano in quella oscurità. Difatti ogni debole chiarore di quel luogo era stato scosso e spento dal diluviare di tanto pandemonio, il quale non accennava a smettere. Per cui in quel posto era venuto a regnare il buio più cieco. Per loro fortuna, la lama della prodigiosa Spada dell'Invincibilità era divenuta fosforescente ed emanava un discreto bagliore. Per cui esso riusciva a rischiarare il tratto di corridoio, che essi stavano percorrendo con molta lentezza.

Continuando così ad incespicare sopra quei cumuli di detrito che si era staccato dal soffitto, alla fine i tormentati giovani pervennero nei pressi della gradinata. In quel luogo essi furono presi da un nuovo e più grande sconcerto, poiché li accolse una ulteriore realtà amara. Un ciclopico macigno, piovuto chissà da dove, adesso intasava la totale area viciniore, bloccando il passaggio che conduceva alla gradinata. A dire la verità, quest'ultima aveva ceduto ed era rimasta interamente schiacciata dal suo enorme ed insostenibile peso. A quel punto, perciò, la loro via d'uscita e di salvezza, secondo le loro riflessioni, risultava seriamente compromessa, se non addirittura sbarrata per sempre. A causa di ciò, nuove complicazioni vennero a turbare la mente dei tre giovani, i quali però non si persero d'animo. Al contrario, con grande fermezza, essi badarono ad ovviare a quella nuova difficile situazione che era venuta a crearsi di repente, ricercando altrove delle prospettive migliori. Ma nel frattempo si andavano chiedendo in cuor loro qual era la forza malefica che li aveva presi di mira così accanitamente, esacerbando i loro animi oltre ogni sopportazione. La loro domanda, però, almeno per il momento, non poteva che restare priva di risposta!

Un quarto d'ora più tardi, mentre si frugava minuziosamente nella tetraggine di ogni angolo di quel corridoio, si manifestò davanti agli occhi dei tre frementi ricercatori un mirabolante prodigio, che aveva tutta l'intenzione di volergli dare una mano. In un attimo, essi scorsero la punta della spada, che era appartenuta al re Koluor, prima appallottolarsi e subito dopo tingersi di un colore scarlatto. Un istante più tardi, invece, la si vide emettere tre raggi verdastri che, partendo dall'arma e procedendo alla stessa altezza dal suolo, si diedero ad avanzare a ventaglio, intanto che venivano accompagnati da altrettanti sibili acuti. Alla fine essi raggiunsero una scarna parete, la quale si presentava con un intonaco piuttosto malridotto. Inoltre, apparivano abbastanza evidenti il suo ammuffimento e la sua friabilità, potendo essi essere notati con una semplice occhiata. Quando ebbe raggiunto il grezzo muro, il raggio mediano prima si alzò di un metro, rispetto agli altri due, e poi ridiscese perpendicolarmente fino a terra, dove scomparve. Avvenuta la sua sparizione, era rimasta una riga luminosa a segnare il percorso da esso seguito. Poco dopo, sempre restando all'altezza iniziale, anche i due raggi laterali si mostrarono operosi, però con un compito ben diverso. Agendo come trapani, essi scavarono sulla parete due piccole buche di forma semisferica e profonde circa un palmo. A lavoro ultimato, entrambi vi avevano lasciato intravedere due anelli, i quali erano grandi abbastanza per essere impugnati dalle mani di una persona. Anche la scomparsa degli altri due raggi, similmente alla sparizione del precedente, era avvenuta subitanea.

Rianimati a non dirsi da quell'evento manifestamente propizio, Francide ed Astoride si lanciarono verso tale parete pieni di trepidazione e cominciarono a forzarla. Comunque, i loro ripetuti sforzi sopra di essa non sortirono l'effetto da loro sperato. Allora Iveonte, visto che i suoi compagni si erano mostrati troppo precipitosi e per niente concludenti, li invitò ad essere più ponderati nel loro comportamento. Per prima cosa, egli consigliò ad entrambi di sospendere ogni sforzo diretto a crearsi un varco nella parete, se non volevano darsi da fare inutilmente. In seguito, invece, avendo studiato il caso con maggiore ponderazione, il giovane, esprimendosi con un tono pacato, incominciò a parlare a entrambi nella seguente maniera:

«Amici, non bisogna mai stare dietro alla troppa fretta, poiché essa offusca le menti di coloro che l'assecondano. Invece occorre prima rendersi conto con calma del nuovo fenomeno, che ci è stato messo a disposizione al momento. Soltanto dopo è giusto cercare di comprendere quanto di buono ha inteso offrirci la nostra spada protettrice!»

Additando poi ad entrambi i due anelli, i quali sporgevano dalle buche scavate dai raggi emessi dalla spada, seguitò a dire:

«Ecco là qualcosa che ci aiuterà ad aprirci un varco nel muro. A mio avviso, se tirate forte i due anelli che si scorgono sulla parete, vedrete che due parti di essa, spalancandosi a mo' di porta, seconderanno i vostri sforzi. Allora ne approfitteremo per passarvi attraverso e per sgomberare da questo luogo maledetto. Perciò, amici miei, datevi da fare e smettete di perdere ancora tempo, come state facendo!»

Senza esitare un solo secondo, Francide ed Astoride si affrettarono ad impugnare energicamente i due anelli pendenti indicati da Iveonte. Subito dopo si diedero anche a tirarli con molta forza. Invece, pur seguendo il consiglio del compagno, neanche questa volta quella che sembrava essere una porta autentica non fece registrare alcun segno di cedimento e di apertura completa. Tale risultato deludente fece avvilire ulteriormente i due sconfortati giovani, i quali, indirizzando i loro sguardi verso chi li aveva consigliati in tal senso, attesero da lui spiegazioni sul perché del loro nuovo fallimento. Allora Iveonte, vedendo che il consiglio dato poco prima ai suoi amici non aveva dato i risultati da loro attesi e che invece li aveva disillusi di più, sul principio si fece molto serio in viso. Poco dopo, però, essendosi concentrato ed avendo approfondito meglio il congegno messo a loro disposizione dalla spada, si diresse verso la parete. Mentre si accostava ad essa, il giovane non si astenne dall'esternare uno scherzoso sogghigno di biasimo, il quale era indirizzato a Francide e al loro nuovo compagno. Così, come se fosse assai convinto di quanto stava asserendo, il giovane si diede a spiegare:

«Amici, quando la vita non si lascia condurre in una data maniera, bisogna cercare di prenderla per un verso differente. Se poi neppure esso risulta quello giusto, occorre tentarne un terzo, un quarto e via dicendo. Ossia, non bisogna fermarsi ed arrendersi, fino a quando non avremo trovato quello che fa al caso nostro e ci soddisfa appieno. Qualche attimo fa, voi due vi siete trovati in una situazione analoga. Allo scopo di fare aprire la porta, giustamente prima l'avete spinta; essa, però, non si è fatta smuovere di un solo dito. Dopo, grazie ai due anelli che si sono fatti impugnare, l'avete tirata verso di voi; ma il risultato da voi ottenuto è stato identico al precedente. Quindi, si vede che, per aprire la porta, andava eseguita la mossa che viene richiesta dalla sua apertura. Invece avete ancora desistito dopo due soli tentativi, restandovene lì impalati come due citrulli. Ma un atteggiamento del genere non fa onore a due baldi e svegli giovanotti del vostro stampo!»

Parlando in quel modo, Iveonte afferrò rigidamente con le mani i due anelli, che in precedenza erano stati messi in luce da due dei tre raggi dell'arma fatata, ossia da quelli che si erano visti avanzare lateralmente. Dopo impresse due bruschi strattoni su entrambi, l'uno diretto verso destra e l'altro verso sinistra, come se stesse agendo su due imposte invisibili. Sua intenzione, infatti, era quella di farle rientrare nelle rispettive pareti laterali. Allora, non appena furono trasmessi ad essi i due nuovi tipi di sforzo da parte del giovane, la parete si scisse in due piastre metalliche rettangolari della stessa grandezza. Le quali poi, ritraendosi nei due corpi interni del muro, lasciarono fra di loro uno spazio sufficiente per il passaggio di una persona di media grandezza. A tale spalancamento, Francide ed Astoride, che poco prima si erano dimostrati precipitosi e senza fortuna nel loro agire, rimasero assai meravigliati. In pari tempo, essi, dimenticando il precedente inconveniente, all'istante si lanciarono in quella porta che probabilmente sarebbe risultata la loro àncora di salvezza. Essi vi si riversarono, come se fossero stati due topi che, per sfuggire al loro gatto inseguitore, si introducevano con rapidità nel loro nido salvatore. In questo caso, però, la parte del felino domestico fu interpretata da Iveonte che li seguiva, tenendosi ad un passo da loro. Ma se sui volti dei suoi amici si illuminò un bel sorriso raggiante e si lesse la consolazione di un desiderio appagato, anche la gioia provata dal nostro eroe non era da considerarsi da meno. Anch'essa gli era derivata dallo stupore che lo aveva assalito, dopo che c'erano stati lo squarciamento della parete e il loro ingresso attraverso esso.

Pervenuti nel nuovo corridoio che si presentava altrettanto angusto e buio, i tre giovani vi scorsero in fondo un certo chiarore. Il quale si rivelò sufficiente per convincerli che la sua presenza in quel luogo poteva essere causata unicamente da una fonte luminosa. Quanto a quest'ultima, per arrivare fin laggiù, di sicuro essa doveva passare attraverso un'apertura che comunicava con l'esterno. Tali loro constatazioni infusero parecchio animo nei tre disperati giovani, dando a ciascuno di loro la certezza che ben presto si sarebbero ritrovati fuori del castello, a contatto con la natura. Infatti, quando pervennero al posto rischiarato dalla luce, Iveonte e i suoi amici si trovarono all'inizio di un altro breve corridoio, il quale si immetteva in un vano ampio e sufficientemente illuminato. La nuova fonte di luce li convinse che sarebbero bastati pochi passi per giungere nell'atrio del castello, dove li avrebbe attesi l'enorme portone della fortezza. Ma esso questa volta ne avrebbe impedito ermeticamente l'uscita a chiunque avesse tentato di fruirne.

Dopo che ebbero raggiunto quel vano arioso, i tre giovani vi notarono la presenza di una scala, che risultava costituita da circa cinquanta gradini. Allora, dopo averla salita alla svelta, essa li riportò in poco tempo nel vestibolo del castello. Il quale, nel frattempo, si era trasformato in una grancassa reboante, dal momento che sopra di esso seguitavano a piovere con insistenza dei macigni insolitamente pesanti. Essi, provocando strepitosi boati e grandi scosse sussultorie, facevano tremare le mura portanti del castello. Ma ormai i tre giovani non davano più importanza a quella sorta di fenomeno, siccome vi si erano assuefatti. Inoltre, non pensarono neppure di rimettersi a ricercare, con nuovi sforzi mentali, le cause della caduta di tanti massi sopra la fortezza. L'unica loro constatazione a tale riguardo era quella che li rendeva coscienti che la loro caduta si dimostrava molesta, a causa dell'indigesto frastuono che vi veniva suscitato. Il quale non cessava di provenire da essa in forma continuativa ed assillante.

Iveonte, Francide ed Astoride adesso andavano escogitando il modo di fare spalancare le imposte metalliche del portone. Essi erano spinti a ciò perché, da un momento all'altro, si sarebbe assistito al crollo della massiccia opera di pietra e non era loro intenzione di trovarsi dentro il castello durante il catastrofico evento. In verità, anche in tale circostanza, nessun sistema meccanico concepito da senno umano poteva indurre il portone a spalancarsi. La sua apertura poteva avvenire, solo grazie ad un intervento di natura ultraterrena. Allora la Spada dell'Invincibilità pure questa volta non volle tenersi in disparte, per cui mise a loro disposizione il suo valido aiuto. A un certo punto, i tre giovani la videro repentinamente contorcersi all'estremità, assumendo la forma di una sfera. Dopo esserci stata quella trasformazione dell'arma, il saldo braccio di Iveonte si sentì come sollecitato da essa a sbatterla energicamente contro le imposte di ferro del portone. Precisamente, lo invitava a percuoterlo nel suo punto medio, dove un battente poggiava sull'altro. A simili dimostrazioni della magica spada, le quali erano di una evidenza indiscutibile, il giovane, confidando in un nuovo suo provvido intervento, siccome tutti e tre ne necessitavano particolarmente, si rallegrò come non mai. Perciò tardò il meno possibile a dare retta al suo prezioso incitamento. Così egli sollevò il nerboruto braccio che sorreggeva la sfavillante arma e si preparò a colpire il portone. Un attimo dopo, infatti, Iveonte diede tre colpi bene assestati sulla spessa massa metallica. Per l'esattezza, li sferrò sull'abboccatura delle due imposte che apparivano come saldate. Non appena ebbe dato anche il terzo colpo possente, si scorse la ciclopica porta del castello scardinarsi da entrambi gli stipiti e rovinare al suolo verso l'esterno del castello. In pari tempo, però, c'era stato anche uno schianto di bandelle e di cardini arrugginiti. Ma soltanto dopo il fragoroso abbattimento delle imposte, ci fu il via libera per i tre giovani intraprendenti. Essi, mentre uscivano dalla fortezza, apparvero entusiasti e ringraziarono la Spada dell'Invincibilità.

Una volta che si furono ritrovati all'esterno del Castello Maledetto, Iveonte, Francide ed Astoride, che erano rimasti oppressi fino a quel momento dal suo clima stregato e dalla sua aria viziata, ripresero a respirare il salutare ossigeno dell'atmosfera e a godersi la salubre aria circostante. La natura, da parte sua, non si astenne dal trasmettere nei loro animi un gaudio ed una ilarità senza pari. A quel punto, in verità, non si poteva affermare con certezza che si era definitivamente conclusa la loro avventura contro le tribù castellane. Il motivo? Molto presto, i tre impavidi giovani avrebbero avuto ancora a che fare con gli antipatici abitatori del diabolico castello, siccome essi continuavano ad essere in agguato in qualche parte.


Iveonte, Francide ed Astoride finalmente avevano vinto e potevano considerarsi liberi di nuovo, senza essere più oppressi dagli strani fenomeni che accadevano nel Castello Maledetto. Grazie all'intervento prodigioso della Spada dell'Invincibilità, essi avevano combattuto contro le forze malefiche esistenti nella fortezza e le avevano debellate vittoriosamente. Adesso, però, li attendeva un'altra impresa, quella che Iveonte e Francide avrebbero affrontata in prima persona. Inoltre, l'avrebbero condotta a termine, servendosi esclusivamente delle proprie forze. In tal modo, i due giovani avrebbero dato sfogo ai tanti propositi di vendetta. I quali erano venuti a maturare nel loro animo durante l'odiosa permanenza nel castello del defunto re Koluor, il quale non era stato per niente ospitale, secondo il loro parere. Dopo essersi trovati all'esterno del castello, nei tre giovani non si era spenta la viva brama di indagare su quel pandemonio, che di repente era scoppiato tempestoso e sbalorditivo sopra le loro teste. In special modo, i tre amici intendevano rendersi conto delle cause che davano origine a quei frastuoni. Perciò, adesso che si trovavano all'aria aperta, tale voglia di apprenderlo si rinfocolò di più in loro. In un certo senso, Iveonte, Francide ed Astoride avevano già una mezza idea a tale riguardo, poiché nutrivano dei fondati sospetti su coloro che erano stati i responsabili dei loro travagli castellani. Ma non erano ancora in grado di capacitarsi come tali esseri riuscissero ad ottenere un fenomeno del genere. Comunque, essi non dovettero scervellarsi abbastanza in quella loro indagine, poiché bastò che volgessero gli occhi all'insù, per avere svelato l'ignoto mistero.

Bisogna sapere che i Chironti e gli Scinnes, dopo che ebbero abbandonato il castello, avevano raggiunto ed occupato le cime delle due colline, che si ergevano ai suoi lati. Di lassù poi, allo stesso modo di come continuavano a fare, avevano iniziato a far precipitare con sdegno dei macigni smisurati nel vuoto sottostante. Era loro intenzione farli andare a colpire con violenza l'enorme mole di pietra, che costituiva il castello. Così facendo, essi erano sicuri che lo avrebbero visto crollare e che la sua rovina sarebbe risultata fatale ai valorosi conquistatori dell'invincibile arma. Ma Iveonte e i suoi due amici non avevano più da preoccuparsi di quel tipo di pericolo, che per loro era ormai cessato. Anzi, essi avevano già messo da parte ogni timore proveniente da tale minaccia. In loro ferveva solo il desiderio di vendicarsi adeguatamente dei vari spaventi da cardiopalmo, che avevano dovuto provare per colpa loro.

Alla vista di quegli esseri spregevoli, che li avevano fatti rimanere a lungo con il cuore in pena nel meandro di sotterranei del Castello Maledetto, Iveonte, prima di buttarsi a capofitto nella mischia insieme con i due amici, volle meditare in modo conveniente sul caso. Perciò volle sottoporre al vaglio i singoli dettagli e soppesare le varie misure cautelative, annotandosi perfino tutte le azioni da effettuarsi in contemporaneità nell'attacco. Avvenuta la breve meditazione, egli si rivolse al suo amico di infanzia e lo incitò con queste parole:

«Francide, senza perdere tempo, diamo mano agli archi! Oramai è giunto il momento di porre fine alla malvagità di quegli esseri incivili! Essi sono posseduti soltanto da un istinto bestiale, il quale li sobilla senza sosta all'eccidio. Adesso, mentre tu ti avvicini a quelli di sinistra, io mi porto a un tiro di arco da quelli di destra. In questo modo, le nostre frecce potranno finalmente raggiungerli e castigarli come si meritano!»

All'incitamento del suo compagno, Francide vi aderì prontamente, poiché anche lui era ansioso di vedere annientati quegli abominevoli esseri. Perciò i due giovani furono scorti tremendissimi, mentre passavano alla controffensiva. Quando poi ebbero scalato fino alla giusta altezza entrambi i modesti rilievi che si innalzavano ai lati del castello, essi diedero inizio ad un'autentica strage. Allora l'aria fu scossa ed attraversata da un incessante scattare di frecce, le quali risultavano infallibili nel colpire, atroci nel trafiggere e spietate nel punire. Quelle loro tre caratteristiche, ossia l'infallibilità, l'atrocità e la spietatezza, erano dovute al fatto che, ad emetterle così inesorabilmente, erano delle persone che avevano giurato tremenda vendetta nei confronti dei loro nemici. Perciò nessuna saetta poteva fallire il suo bersaglio; né poteva esimersi dal mostrare la sua atrocità nel trafiggerlo e dall'infliggergli la giusta punizione, come decretato appunto dalla coppia di amici.

Così ben presto le numerose frecce fecero la loro comparsa tra quel tramenio di selvaggi seminudi. Essi, formicolando ovunque sui cocuzzoli aggettanti delle due colline, erano intenti infaticabilmente a cercare nuovi macigni da far piombare dabbasso. Sostenuta da quei dardi punitivi, la morte poté mettersi a mietere molte vittime fra quell'agitarsi di ostinati esseri, che erano in grado unicamente di serbare nel cuore l'infame barbarie. Quelli colpiti furono scorti accasciarsi al suolo tra forti grida di sofferenza; ma prima di stramazzarvi, alcuni tendevano le braccia verso il cielo e altri si piegavano sopra un fianco, con una lenta flessione all'indietro. Invece i tanti corpi trafitti, che si trovavano in prossimità di un picco scosceso, finivano per capitombolare giù nel vuoto ed andavano a stritolarsi sul sottostante castello. L'aria, squarciata da simili saette trafiggenti, mentre in un'altra circostanza di sicuro non le avrebbe approvate, in quella invece non ne provava affatto dispiacere. Pareva quasi che essa fosse consapevole che tali frecce arrecavano la morte ad ignobili degenerati, le cui azioni disumane di certo l'avevano indignata tantissime volte. Si poteva affermare con certezza che pure essa si era unita all'escandescenza dei due giovani, rendendo quegli strali ancora più infallibili e micidiali. In quella maniera, consentiva ai due arcieri di falcidiare un numero impressionante di selvaggi.

Adesso, allo stesso modo delle esili spighe che si lasciano troncare inermi dalla falce dell'agricoltore, senza potere opporle la minima resistenza, anche le due popolazioni castellane soccombevano impotenti sotto l'insistente irrompere in mezzo a loro dei numerosi strali penetranti. Anzi, ineluttabilmente, l'una e l'altra tribù andavano incontro al loro amaro destino, senza alcuna possibilità di opporsi ad esso, il quale risultava ogni volta il vincitore nelle umane traversie. Ma gli Scinnes e i Chironti riuscivano ad avvedersi di quel complotto che, tramato da altri nell'ombra, risultava loro fatale? Neppure per sogno! Loro unica preoccupazione era quella di far crollare il castello e di ridurlo in frantumi; invece delle altre cose non si curavano affatto. Per cui anche i corpi estinti dei compagni caduti non li mettevano in stato di allerta. Anzi, anch'essi, senza il dovuto rispetto, venivano trattati da loro alla stessa stregua dei macigni, poiché ugualmente finivano per essere scaraventati sulle torri e sui cammini di ronda del castello. Il fatto che la spada era entrata in possesso dei due giovani li rendeva furiosi, facendo imbestialire di più la loro indole. Per il quale motivo, essi avrebbero dato la loro vita, purché avessero assistito al crollo del colossale bastione. Ma entrambe le diaboliche tribù erano all'oscuro dell'esistenza di altre persone che avrebbero dato anche due vite, in cambio della loro eterna distruzione. In riferimento a loro, sappiamo bene che poteva trattarsi soltanto di Iveonte e di Francide, i quali molto severamente stavano provvedendo, affinché ciò si compisse senza meno e al più presto.

Siccome le loro faretre non accennavano ancora a svuotarsi, i due giovani non smettevano di prelevarvi le frecce da far giungere sempre più micidiali ai selvaggi che andavano a colpire. Ma qualcosa, anch'essa difficile da interpretarsi, a un certo punto, li fece strabiliare di nuovo. Mentre i due amici erano intenti a lanciare senza sosta gli acuminati dardi contro di loro, furiosi di vederli barcollare totalmente al suolo, all'improvviso furono visti gli appartenenti alle due tribù castellane mettersi ad urlare forte e in modo pazzesco. Da parte dei due giovani, allora fu lecito domandarsi perché mai quei selvaggi si fossero messi a chiassare così tanto. Si erano forse accorti di loro? A ogni buon conto, essi, siccome ignoravano il vero motivo di quelle loro urla bestiali, pensarono di ridiscendere al piano. Così si sarebbero rifugiati nel luogo appartato della valle, dove in precedenza avevano lasciato anche l'amico Astoride, poiché di lì poi avrebbero spiato le future mosse dei selvaggi.

Oramai si poteva affermare che, per le due tribù ostili, stava per giungere il loro momento fatale! Infatti, dopo un prolungato e clamoroso coro di grida inferocite, che si erano scambiate dalle sommità delle due colline, entrambe le tribù urlatrici furono viste buttarsi a capofitto sopra il sottostante castello, il quale persisteva ancora alla loro rabbia ferina. Se essi fossero stati visti dirigersi verso il cielo, di sicuro sarebbero stati scambiati per Titani che riprovavano la scalata all'Olimpo. Invece, siccome venivano scorti che facevano il percorso all'inverso, poteva trattarsi unicamente di bruti testardi, che stolidamente andavano a sfracellarsi sulle alte parti della resistente fortezza dell'ex popolo dei Logunti.

All'urto sodo di quel gigantesco ammasso formato esclusivamente da carne ed ossa, il Castello Maledetto alla fine cedette all'ultima brutalità dei suoi abitatori. Così esso fu visto crollare, tra uno schianto incredibile e un intenso polverone. Comunque, avevano contribuito al suo cedimento definitivo le profonde crepe, le quali già ne insidiavano l'originaria stabilità. Soltanto con il loro olocausto, i Chironti e gli Scinnes avevano potuto averla vinta contro il castello, che non si presentava più stabile; ma essi, suicidandosi, non poterono rallegrarsene per ovvi motivi. Al loro posto, invece, ci furono altri che ne provarono un sommo piacere, avendo desiderato tanto che essi morissero in quel tragico modo! Ci riferiamo, naturalmente, ai nostri tre simpatici protagonisti, ai quali la folle decisione delle due tribù aveva apportato un sollievo ed un godimento inesprimibili, che sarebbero durati per lungo tempo.

Alla fine Iveonte, Francide ed Astoride, soddisfatti della definitiva distruzione dei Chironti e degli Scinnes, decisero di abbandonare quella valle, la quale li aveva fatti prima gioire, poi tribolare e infine godere. Essi ripartirono alla volta della foresta, vittoriosi e possessori dell'invincibile spada, la quale li rendeva di umore faceto. Nell'animo dei due amici di infanzia, però, veniva ad aggiungersi anche un'ombra di profonda mestizia, facendosi avvertire moltissimo in entrambi la mancanza del carissimo ed indimenticabile Babbomeo.

A questo punto, il lettore vorrà apprendere chi era lo sconosciuto giovane, che i nostri simpatici eroi avevano liberato dal Castello Maledetto, considerato che di lui abbiamo appreso solo che si chiamava Astoride. Inoltre, desidererà conoscere da chi e per quale motivo egli, come se fosse stato un lurido verme, era stato gettato in quella sozza cella sotterranea, che veniva vigilata da uno Scinnes per non farlo fuggire. La risposta a tali domande, che l'impaziente lettore si sarà già rivolte vivamente, non può essere data in poche righe. Essa, poiché abbraccia una lunga e tormentosa storia, finirà per suscitare in lui dei brividi di terrore e degli smarrimenti d'animo. Un fatto del genere, però, potrà avvenire, dopo che egli avrà appreso come il turpe e il feroce vengono a fondersi in essa, dando luogo all'infamante termine "disumanità". Per la precisione, l'avidità, la follia e l'ignominia, nelle brutte vicende di Astoride, si temprano e si amalgamano nel modo peggiore. Così, facendole svolgere in un clima orrido, tali astrazioni negative conferiscono alle medesime un aspetto truce e spaventoso. Noi, però, apprenderemo l'allucinante biografia dello sconosciuto personaggio direttamente dalle labbra di colui che aveva avuto la disavventura di viverla in prima persona. Nell'ascolto, ci uniremo ad Iveonte e a Francide, i quali avevano voluto che il loro nuovo compagno gliela raccontasse integralmente, oltre che in modo chiaro ed esauriente.