40-LA MORTE DELL'INDIMENTICABILE BABBOMEO
Un giorno Iveonte e Francide erano intenti a cacciare, battendo animosamente le zone lontane un miglio dalla loro dimora. Prima di partire, essi avevano promesso al loro caro Babbomeo che al ritorno gli avrebbero fatto gustare delle carni squisite, come non le aveva mai assaggiate in vita sua. Inoltre, gli avevano garantito che gli avrebbero portato un paio di soffici e calde pellicce, le quali lo avrebbero protetto dal freddo dell'inverno, che era oramai alle porte. Emettendo degli acuti fischi, le loro snelle saette sfrecciavano fulminee nell'aria, giungendo sempre infallibili a destinazione. I loro primi bersagli divennero dei grandi uccelli dalle piume variegate, dei quali poco prima alcuni erano in volo e altri saltellavano sui rami degli alberi. Allora essi caddero a capofitto nel vuoto sottostante. Invece le numerose fiere, che si mostravano sconvolte ed atterrite davanti a loro due, furono viste fuggire qua e là mugolando, intanto che si andavano cercando un nuovo rifugio più sicuro. Pareva quasi che esse esprimessero la loro stizza forsennata alla coppia di disturbatori, poiché non gradivano che le si cacciasse dal loro habitat. Insomma, l'intera fascia di foresta da loro setacciata, la quale si presentava meno intricata e più somigliante ad una savana, tutto a un tratto, era diventata un subbuglio selvaggio, come non lo era mai stato in passato. Infatti, intere torme di animali selvatici fuggivano mugghiando ed atterrite dinanzi all'impeto infrenabile dei due giovani, che si davano a cacciare con arditezza. Nella loro fuga, le bestie assumevano le caratteristiche di un fiume in piena che, dopo aver rotto gli argini, irrompe impetuoso nei campi circostanti e li invade travolgente. Da parte loro, i due ardimentosi cacciatori, avanzando nella foresta come due severe divinità sterminatrici, ne facevano una enorme carneficina.
Mentre erano intenti a seminare morte e terrore nel luogo che stavano mettendo sottosopra, Iveonte e Francide scorsero all'improvviso, proprio in direzione della loro abitazione, un pennacchio di fumo nerastro. Esso, in quel momento, spinto com'era da un vento moderato, si levava denso verso il cielo. Inoltre, espandendosi nell'aria con volute invaditrici sempre più ampie, riempiva di un insolito nervosismo i due giovani amici, costringendoli a farsi la seguente domanda: Perché mai si alzava quella colonna fumosa in quel posto, il quale non era neppure molto lontano? Se fu semplice intuire che laggiù qualcosa stava prendendo fuoco, non risultò poi facile comprendere cosa vi stesse bruciando e chi avesse provocato quel modesto incendio, il quale veniva scorto in continua espansione. Ma poco dopo essi iniziarono a preoccuparsene tantissimo, come se quel fuoco li riguardasse di persona. Per la verità, Iveonte e Francide non venivano impressionati neanche minimamente dall'immane scompiglio, a cui gli animali della foresta avevano dato origine davanti a loro, sollevando un grande nuvolo di polvere. Al contrario, la massa di fumo che si levava al cielo alle loro spalle, sebbene si mostrasse di proporzioni minori, ne aveva calamitato così fortemente l'attenzione, da indurli a tralasciare le loro belle imprese cominciate. Perciò entrambi erano rimasti fermi e senza fiatare, come se fossero assorti in un fosco presentimento, che li andava rendendo assai inquieti. Fu a quel punto che Francide, immagazzinando nell'intimo una grande inquietudine che incominciava anche a risultargli ossessionante, provò ad esprimere all'amico la propria opinione in merito all'incendio, che si stava producendo a qualche miglio da loro due. Così gli fece notare:
«Non sembra anche a te, Iveonte, che quel fumo si levi proprio dalle parti della nostra abitazione, proprio oggi che abbiamo lasciato il nostro Babbomeo non tanto bene in salute? Quindi, se consideriamo insieme le due cose, potrebbe essere proprio la nostra dimora a bruciare e a dare origine alla turbinosa folata di fumo, che si va leva verso il cielo!»
Quelle poche parole, che tra l'altro avevano manifestato parecchia apprensione, erano uscite dalla bocca del giovane con un tono di voce che, allo stesso tempo, poteva considerarsi debole e convinto. In un primo momento, Iveonte parve non porre una sufficiente attenzione alle giuste constatazioni dell'amico. Perciò, rimanendo immobile lì dove si trovava ed apparendo un po' pensieroso, si astenne da ogni personale commento. Qualche istante più tardi, però, venendo ad esserci in lui una più attenta riflessione, egli montò all'improvviso in bestia e si espresse all'amico fraterno nel modo seguente:
«Me lo vuoi dire, Francide, perché ce ne restiamo qui completamente inerti, senza intervenire subito? Devi sapere che le più nefande azioni possono commettersi a breve distanza da noi, senza che neppure ce ne accorgiamo! Quindi, lasciamo morire chi, per ragione di età o per infermità, si trova nella impossibilità di difendersi e diviene vittima dell'altrui prepotenza? Il caro Babbomeo potrebbe essere addirittura in pericolo!»
Così gridando, Iveonte si lanciò con la velocità del vento verso la loro abitazione. Francide, che mostrava altrettanto interesse a raggiungere prima possibile il loro tutore, si diede a seguirlo da vicino. Dopo che ne ebbero raggiunto le parti viciniori, essi non vi trovarono un turbine di spaventate bestie che correvano all'impazzata, come quello che avevano lasciato alle loro spalle. Invece vi scorsero una grande baraonda di ostili selvaggi, i quali assalivano da ogni parte la loro dimora ed erano intenti a darla alle fiamme divoratrici. In quel momento, alcuni di loro continuavano ad appiccarvi il fuoco, anzi ad accrescerne il divulgarsi delle fiamme, in modo che l'intera sua struttura lignea venisse ad ardere. Altri, invece, scagliavano con furore ferino molte frecce nel suo interno, dove c'era qualcuno che lottava per salvare la pelle. Si trattava di Babbomeo, il quale, sebbene fosse infermo, teneva lontano i numerosi selvaggi, colpendone molti in pieno petto e facendoli stramazzare al suolo. Allora la furia inumana dei selvaggi assalitori fece irritare sia Iveonte che il suo compagno Francide. Essi, aizzati dall'infelicissima situazione nella quale versava il loro anziano amico, si adoperarono immediatamente per far pentire quei maledetti aggressori della loro azione iniqua e scellerata. I due giovani intendevano altresì punirli con la medesima foga ed inclemenza con cui essi si erano dati a combattere contro il loro benefattore. Ecco perché decisero di farne una orrida strage.
«Diamine!» Francide commentò ad alta voce, non appena li scorse, mentre si davano da fare con grande accanimento «Quei birbanti si sono messi in testa di privarci del nostro insostituibile Babbomeo! Devono essere dei veri incoscienti, se credono di riuscirci, facendocela sotto il naso! Adesso ci siamo noi a dargli manforte e a proteggerlo. Perciò non gli permetteremo di perseguire il loro obiettivo malvagio. Tra poco gli faremo vedere di che cosa sarà capace la nostra indignazione e quale funesta reazione essa sarà in grado di scatenare in noi contro di loro! Ne sei convinto anche tu, amico mio fraterno?»
«Certo che sarà proprio come tu hai detto, Francide!» approvò lo sdegnato Iveonte «Ma adesso evitiamo di perderci in chiacchiere inoperose. Dobbiamo sbrigarci, se non vogliamo rinunciare al nostro Babbomeo per sempre! Non vedi come quegli esseri scimmieschi sono intenzionati a portarcelo via? Dunque, adoperiamo la massima celerità nell'agire e non interveniamo troppo tardi, quando si è già all'irreparabile. In quel caso, per lui non ci sarebbe davvero più niente da fare!»
Una volta che si furono tolti gli archi di tracolla, i due giovani amici diedero inizio ad una lotta accanita e spietata, qual era scaturita dal loro cuore colmo di ira. Perciò, dopo una breve ricognizione, la quale che era servita a valutare meglio la situazione, Iveonte consigliò Francide di aggirare i nemici e di andare a raggiungere il lato opposto al suo. In quel luogo, poi, egli si sarebbe dovuto appostare sopra un albero, come avrebbe fatto pure lui nel posto in cui era. In tal modo, i selvaggi sarebbero stati intrappolati nel mezzo e sarebbero stati bersagliati senza scampo dai loro dardi impietosi. Di lì a poco, avvenne precisamente come l'avveduto Iveonte aveva previsto. Tenendo i selvaggi sotto il loro pieno controllo, i due giovani arcieri si diedero a colpirli senza nessuna misericordia. Essi erano contenti di ammazzarli, siccome quegli esseri spregevoli difettavano nel modo più assoluto del senso della pietà e di quello della carità. Inoltre, ignoravano che soltanto tali sentimenti erano in grado di unire fraternamente i cuori dell'intera umanità, formando una interminabile catena di solidarietà umana e tirando fuori da ogni individuo il meglio di sé stesso.
Così ben presto le prime due frecce partirono rapidissime contro i loro nemici. L'una andò a conficcarsi nella nuca di un gigantesco selvaggio e l'altra attraversò il collo di un acceso sbraitone. Quest'ultimo, fino a quel momento, si era dato a schiamazzare come un cane rabbioso, incitando i compagni ad intensificare l'assedio. Allora entrambi morirono all'istante e stramazzarono a terra in una gran pozza di sangue. Dopo seguitarono a piovere altre loro saette, altrettanto inesorabili e fatali! A uno a uno, gli assedianti selvaggi si videro accasciarsi al suolo tra grida disperate di dolore. La morte si presentava in mezzo a loro senza né farsi vedere né farsi annunciare; comunque, giungeva ogni volta implacabile e fulminante. Ciò nonostante, quei ferocissimi cannibali combattevano sempre più fieramente e non si accorgevano di coloro che a loro insaputa li andavano decimando. Ma non conveniva ai due prodi giovani esporsi alla vista dei loro nemici, con il pericolo di diventare i loro facili bersagli. Tenendosi appiattati sopra i due alberi su cui avevano preso posto, la lotta riusciva a loro totale vantaggio. Inoltre, prendendo parte ad essa nel modo che abbiamo appena appreso, Iveonte e Francide non si esponevano a nessuno dei reali rischi, ai quali di sicuro sarebbero potuti andare incontro, se invece l'avessero condotta apertamente.
Dopo che ne ebbero colpiti ed uccisi un centinaio, giunse anche il momento che i due ostinati amici vennero a scarseggiare di saette, poiché una parte di esse erano già state usate in precedenza contro le bestie. Per questo, per allontanarli dalla loro abitazione in fiamme, essi furono obbligati ad intervenire con altre armi nella indiavolata mischia. Cioè, dovettero azzuffarsi con i nemici a distanza ravvicinata, in un aspro e duro corpo a corpo, siccome la circostanza lo imponeva. Iveonte brandì furiosamente la spada, proponendosi di farla finita a qualunque costo con quei testardi musilunghi, i quali si presentavano con i volti tinti di nero e rigati da strisce bianche. Anche Francide, dopo aver raccolto da terra un nodoso bastone, irruppe a corpo morto tra quella gente odiosa al massimo. Così diedero inizio a un accanito combattimento a stretto contatto con i terribili avversari; ma benché il loro numero si presentasse ancora numeroso, i due giovani non si persero d'animo. Al contrario, poiché quelli se lo meritavano, continuarono a combatterli con valentia, essendo desiderosi di vederli perire del tutto in breve tempo.
Adirato com'era, Iveonte sembrava una vera furia ciclonica, intanto che si avventava contro quei selvaggi che, dopo essersi accorti di loro, cercavano di sopraffarli. La sua spada sferrava a destra e a manca dei colpi di insolita potenza, massacrando e maciullando i corpi di quanti avevano l'ardire di assalirlo, al fine di avere il sopravvento su di lui. Spesso egli faceva mulinare la sua lunga spada, cercando di fare raggiungere all'arma la massima distanza da sé. Usandola in quella maniera, essa finiva per sgozzare o decapitare tutti quei malcapitati che venivano a trovarsi all'interno del suo raggio d'azione. Ad altri, invece, il vorticoso roteare della tagliente lama dell'arma squarciava orribilmente l'addome e, in alcuni casi, vi provocava la vomitevole eviscerazione. Francide, dal canto suo, sebbene fosse armato di un rude bastone nodoso, ugualmente mostrava l'unghia del leone ed assicurava la sua parte di vittime. Difatti assaliva con l'impeto e con la devastazione di un maroso coloro che osavano affrontarlo con insolenza, facendo grandinare su di loro ingenti e forti colpi a ripetizione. I quali non trafiggevano i corpi dei suoi avversari; ma massacravano le loro teste o fratturavano le loro ossa, facendoli accasciare al suolo come esili steli che venivano calpestati dalle possenti zampe di un rinoceronte. Al termine della loro feroce lotta, la quale era andata avanti per circa un'ora, giacevano morti sul terreno insanguinato un paio di centinaia di selvaggi. Soltanto pochi di loro, in quel luogo, pur essendo feriti ed agonizzanti, venivano scorti che si dimenavano e si mostravano duri a tirare le cuoia; ma poi anch'essi furono ammazzati come bestie dai due giovani campioni.
Messi fuori combattimento gli insolenti aggressori di Babbomeo, i due giovai amici, senza perdere tempo, si riversarono come due bolidi nell'ingresso della loro abitazione che bruciava. Essi volevano congratularsi con l'amato Babbomeo, per la splendida vittoria riportata sui loro nemici. Ma una volta che furono nel suo interno, i due agili giovani lo trovarono riverso per terra agonizzante. Tre frecce nemiche, le quali gli si erano conficcate una nello stomaco e due nei polmoni, lo stavano facendo spegnere, a causa di una grave emorragia in atto. Allora essi, prima che il bruciante tetto gli crollasse addosso e le fiamme lo avvolgessero nelle loro volubili spire, facendolo ardere vivo, trasportarono all'aperto il corpo afflosciato del loro moribondo maestro. Il quale si presentava ormai in fin di vita. Avvenuto il suo trasporto all'esterno, Iveonte e Francide cercarono di rianimarlo con ogni mezzo, ora con le loro voci ora con leggeri scuotimenti del capo. Invece fu un leggero spruzzo d'acqua a fargli riprendere i sensi. Essi avevano appreso tale accorgimento dal loro stesso maestro, quando erano adolescenti.
Scorgendo i due baldi giovani, i quali in quel momento erano chinati sopra di lui, Babbomeo, benché si mostrasse molto debole, si ravvivò subito in volto e gli si diede a sorridere dolcemente. Alla fine, chiamandoli con i loro nomi ed afferrando con le sue una mano di ciascuno, incominciò a parlare così ad entrambi:
«Iveonte... Francide... bravi, siete salvi! Io invece sto morendo, mi reclama l'altra esistenza. Sono tanto felice di vedervi di nuovo qui accanto a me, forti e vittoriosi! La vostra vita mi importa più di ogni altra cosa, compresa la mia. Vedo che avete saputo fare un ottimo uso delle mie lezioni d'armi e di lotta. Del resto, ci avrei scommesso che non mi avreste deluso e non mi avreste fatto sfigurare! Bene o male, si può dire che io abbia già vissuto la mia esistenza cosiddetta attiva; per cui adesso tocca a voi due iniziare a viverla nel migliore dei modi. Comunque, già prevedo il vostro roseo avvenire. La vostra vita avrà un'aureola di gesta memorabili e di splendidi trionfi. Invece il destino non è stato tanto generoso con me, quanto lo sarà per voi due; ma non fa niente, siccome è la vostra felicità che mi sta particolarmente a cuore! Ma ora, prima che la morte venga a sottrarmi a voi due per sempre, desidero darvi gli ultimi consigli, che voi osserverete. Mi giurate, miei cari figlioli, che, quando sarò morto, farete ciò che sto per consigliarvi?»
«Te lo giuriamo, Babbomeo! Per noi, i tuoi savi consigli diventano ordini, ai quali non oseremmo mai disubbidire. Quindi, dicci subito quali sono quelli che adesso vuoi darci!» gli risposero i due giovani commossi.
In quell'istante, Iveonte e Francide si mostravano con gli occhi arrossati, essendo in procinto di darsi ad un pianto dirotto. Dalle loro orbite, infatti, si preparavano ad uscire parecchie lacrime calde. Ma esse, per la verità, potevano essere esclusivamente di sommo dolore e di grandissima disperazione, anziché di gioia, come era stato le altre volte!
«Questo non è un luogo per giovani intelligenti e civili, quali vi ho allevati, miei amabili figlioli.» Babbomeo seguitò a dire «Oltre che forti e coraggiosi, vi ho educati per un tenore di vita, il quale è possibile solo riscontrare in una città. Lì abitano moltissimi altri giovani, la maggior parte dei quali sono onesti ed intelligenti come voi. Non appena sarò morto, voi dovrete condurvi in una città, dal momento che in queste terre, dove siete cresciuti da piccoli ed ammaestrati da grandi, non potete e non dovete più vivere. Specialmente dopo che le voraci formiche hanno appurato la loro preda! Lo sapete anche voi che è loro consuetudine non darsi mai per vinte ed incessantemente la caricano con un esercito sempre più numeroso ed agguerrito. Inoltre, dovete sapere che ormai è terminata la vostra missione di far compagnia ad un uomo sfortunato come me, il quale si è voluto punire volontariamente, autoisolandosi da ogni comunità civile. Perdonatemi, se mi sono mostrato egoista nei vostri confronti, se cioè, pur di ottenere la mia gioia e la mia serenità, vi ho tenuti lontani dai luoghi nei quali avreste potuto divertirvi di più e in maniera più soddisfacente. In cambio, comunque, ho cercato di ricompensarvi come meglio potevo. Infatti, io mi sono adoperato di continuo per infondervi quelle doti, delle quali avreste avuto bisogno nella vostra esistenza, dopo il vostro trasferimento in una città.»
«Noi siamo coscienti, Babbomeo, che hai fatto per noi tutto quello che potevi,» acconsentì Iveonte «per cui te ne siamo eternamente riconoscenti. Ma sbagli, quando dici che sei stato ingiusto verso di noi, per averci trattenuti presso di te per puro egoismo, anziché permetterci di andare altrove a trascorrere una esistenza migliore. Vivendo accanto a te, siamo stati ottimamente ed abbiamo ricevuto una educazione integrale, quella che giammai avremmo potuto conseguire in un altro posto, fosse esso anche una grande città. Dunque, soltanto questo noi penseremo sempre di te, caro Babbomeo: te lo garantiamo!»
«Vi ringrazio, miei figlioli. Ma dopo la mia morte, vi prego di andarvene da questi luoghi, senza perdere neanche un attimo di tempo. Se vi rimaneste, diverreste dei bruti selvaggi, identici a quelli che avete visti or ora, quei brutti scimmioni che mi hanno assalito stamani! Imparereste ad uccidere selvaggiamente come loro; mentre saper fuggire l'uccidere è cosa altissimamente nobile. Inoltre, sareste incessantemente presi di mira da quelli che hanno trafitto me. Quanto prima, scordata la sconfitta odierna, essi ricominceranno a spiarvi e a tendervi continue insidie mortali, si apposteranno dove meno credete. Sì, non si arrenderanno mai, fino a quando non vi avranno uccisi e non si saranno cibati delle vostre carni. Vi esorto, dunque, a stare alla larga da quei ceffi antropofagi e a raggiungere al più presto possibile qualche città che vi accolga come suoi onorati cittadini. Lì potrete stringere amicizia con altri giovani, iniziando così a conoscere il vero divertimento, quello che soltanto una città potrà offrirvi. Io ne conosco una, sulla quale dovrebbe regnare una bravissima persona, anche se le nobili sue vedute mi hanno causato in passato guai a non finire, come adesso anche voi sapete.»
«Faremo senza meno quello che ci stai suggerendo, nostro caro Babbomeo.» gli assicurò Francide «Anche perché, una volta venuta meno la tua piacevole compagnia, non avremo più alcun motivo di restare in queste zone selvagge! Ma vorremmo apprendere da te come trovare la città, a cui poc'anzi hai accennato. Allora ce lo dici?»
«Se volete raggiungerla, dovrete dirigervi verso quella parte dell'orizzonte che non viene mai percorsa dal sole. È un tragitto di appena pochi giorni. Adesso, però, prima che la vita mi venga meno e mi chiuda per sempre gli occhi e la bocca, voglio che scolpiate nella vostra mente le seguenti preziose parole, che vi lascio come retaggio: "La lotta contro gli altri può scatenare solo odio; mentre quella contro noi stessi, al fine di sconfiggere i nostri vizi e i nostri difetti, può suscitare solo amore. Offende la giustizia più chi tollera un sopruso senza reagire che chi lo commette. Non bisogna convincere gli altri che l'offenderci è cosa quanto mai facile, oltre che tornare loro utile. Con una simile opinione, essi fanno presto a generalizzare e a designare le rimanenti persone quali potenziali loro vittime, universalizzando in questo modo ciò che deve essere bandito dalle leggi della condotta umana. Perciò bisogna deluderli e convincerli che non è né giusto né facile arrecarci del male. Nello stesso tempo, quando è possibile, bisogna cercare di riabilitarli in seno all'amore e alla giustizia." A questo punto, ritengo che sia giunto il momento di lasciarvi, cari figlioli. La morte, che non intende mollarmi, mi tiene strettamente avvinghiato ad essa e non mi mette altro tempo a disposizione, perché io possa seguitare a fruirne a mio piacimento. Quanto a te, Iveonte, una volta che sarò morto, ti raccomando di non dimenticare di portare a termine la missione che ti affidai tempo fa.»
Francide, mostrandosi molto mortificato, supplicò il vegliardo:
«Carissimo Babbomeo, spesso ci hai parlato della tua indimenticabile famigliola e della tua amata città. Ci hai perfino svelato i segreti più reconditi del tuo inaccessibile intimo, parlandoci dei tuoi rimorsi, delle tue angosce, delle tue disillusioni, delle tue gioie, delle tue ansie. Ma mai hai voluto dare un nome ed un volto ad alcun personaggio del dramma della tua vita, pur dimostrando per ciascuno di loro una grande venerazione. Adesso è tempo che ci riveli i tanti nomi che ci hai nascosti fino ad oggi, siccome non puoi e non devi sottrarti a quest'obbligo. Nei limiti delle nostre possibilità, noi vogliamo aiutare la tua famiglia e non vediamo l'ora di farlo. Essa oggi di sicuro deve trovarsi in uno stato di indigenza, se non ci sei stato più tu a proteggerla e a sfamarla. Per questo vogliamo conoscere il nome della tua povera moglie e della città dove l'hai abbandonata in una situazione molto difficile, costringendo lei e i suoi figli a vivere una vita di stenti. Soltanto così ci sarà possibile rintracciarla facilmente ed aiutarla nel modo che sarà necessario.»
Intanto che Iveonte e Francide attendevano che uscissero quelle due parole dalla bocca del loro tutore morente, costui, esternando un sorriso affettuoso, con le sue dita quasi gelide strinse fortemente le mani dei due giovani. Poi, facendo uno sforzo immane, cercò di strappare agli ultimi istanti della sua sfuggente esistenza le ultime sue parole. Così, con una smorfia penosa del viso, il brav'uomo distorse paurosamente le labbra. Attraverso le quali, si intravide una lingua convulsa che si agitava impotente nella cavità orale, poiché qualcosa impediva ad essa di articolare anche poche sillabe. Infine Babbomeo, mentre gli si annebbiava la vista, si diede a balbettare con fatica, smozzicando le seguenti poche parole: "Mia... moglie... si chia...ma Lu...". Invece, proprio in quel momento, l'uomo fu abbandonato da ogni forza, per cui gli si chiusero gli occhi e lo si vide spirare per sempre. A causa di ciò, egli non fu più in grado di terminare il nome della consorte e di soddisfare il vivo desiderio di coloro che lo stavano aspettando con un'ansia incredibile. Allora Iveonte e Francide piansero amaramente la morte del loro Babbomeo e gli eressero un altissimo rogo; né si astennero dal sacrificargli anche tre pecore ben pasciute. Al crepitio delle fiamme si univano i pianti sommessi dei due giovani, i quali in quella triste circostanza si mostravano affranti dal dolore. Essi vegliarono l'intera nottata accanto al rogo che le fiamme facevano crepitare. Bruciando, esso andava consumando la spoglia mortale di colui che era da considerarsi in ogni senso il loro vero padre. All'alba del nuovo giorno, anche la sua ultima fiamma si spense. Così, da parte loro, non rimase altro da fare che raccogliere le care ceneri dell'indimenticabile defunto. Dopo aver spento la brace del rogo con abbondante acqua, i due giovani le raccolsero e le deposero in una urna cineraria, seppellendole infine sotto un modesto tumulo.
Dopo che si conclusero le esequie in un clima mesto, per la prima volta Iveonte e Francide si ritrovarono l'uno di fronte all'altro, muti e pensierosi. Poi i loro sguardi si incontrarono e si intesero a vicenda, senza doversi esprimere con parole. Nell'uno e nell'altro, infatti, era balenata la spada del giusto re Koluor, alla quale essi non avevano mai smesso di pensare durante il giorno e durante la notte. I due giovani si erano incaponiti di intraprendere quell'avventura e mai nessuna forza al mondo sarebbe stata capace di dissuaderli dalla loro ferma volontà. Essi oramai, temerari quali erano, in quel momento si dimostravano decisi a portare a termine quanto si erano proposti, senza temere alcun pericolo!
I due inseparabili amici partirono alla volta del Castello Maledetto, mostrando molta calma ed una brama ardente di raggiungerlo al più presto. La loro intenzione era quella di prelevarvi la prodigiosa arma invincibile e di fare una grande strage dei suoi abitatori, se avessero tentato di ostacolarli nella loro impresa tanto attesa. Soltanto dopo essi avrebbero cercato di adempiere i restanti compiti, i quali erano il raggiungimento della città suggerita da Babbomeo e la ricerca della famiglia del loro maestro. Il quale aveva messo a loro disposizione un bagaglio culturale di inestimabile valore. Durante l'intero tempo che avrebbero impiegato a portare a termine la loro impresa nel Castello Maledetto, i due giovani sarebbero stati costretti a lasciare il loro gregge incustodito, non potendo fare altrimenti. A ogni modo, essi erano fiduciosi che, al loro ritorno dal castello, avrebbero trovato le loro pecore nello stesso posto dove stavano in quel momento, senza registrarne neppure una in meno. Ma sarebbe stato poi così, grazie alla fortuna, la quale almeno in quella circostanza sarebbe stata dalla loro parte? Ovviamente, per crederci, bisognava ancora sincerarsene con prove concrete alla mano.