38-IL RACCONTO DI BABBOMEO E LA SPADA DELL'INVINCIBILITÀ
Un giorno, miei cari ragazzi, ebbi anch'io la mia giovinezza, come avviene nella vita di tutti gli esseri umani e come avverrà anche in quella vostra tra alcuni anni. Ve lo auguro di cuore! Si tratta dell'età dei sogni e delle fantastiche illusioni; ma non di rado essa riserva pure amarezze e delusioni. Con le quali bisogna abituarsi a convivere, se si vuole sopravvivere ad esse in modo dignitoso. Quanto a me, nel fior fiore degli anni, avvertivo nel mio corpo delle forze gagliarde; Invece, in ogni istante della mia vita, sentivo vibrare nel mio spirito un ardimento poderoso. Inoltre, si andava alimentando in me la convinzione che, se avessi voluto, avrei potuto fare cose grandiose. Le quali mi avrebbero fatto riscuotere dalla vita onore e gloria, oltre che ottenere ricchezze a non finire. Il mio istinto non mi tradiva affatto, siccome in seguito si avverò ogni cosa da me sognata e bramata. Per cui mi si permise di andare incontro senza alcuna fatica alla gloria, alla fama e all'agiatezza.
Così, quando avevo superato da poco i venti anni, divenni nella mia città una personalità di primo piano, rispettato da tutti, a cominciare dal mio sovrano. Allora non mi vennero meno la gloria, la celebrità, l'onore ed una vita agiata, cose che avevo agognato nel mio intimo negli anni precedenti. In verità, avevo desiderato la ricchezza non tanto per me, quanto per far vivere bene i miei futuri familiari. Fu al compimento dei miei trentatré anni che sposai la mia adorabile ragazza, con la quale avevo convissuto per tredici anni. La nostra convivenza, però, era avvenuta senza alcuna profanazione del decoro e in un rapporto assolutamente amichevole, come se fossimo stati fratello e sorella. In quegli anni trascorsi insieme, la mia amabile donna, con il suo corredo di virtù, aveva rappresentato per me la massima felicità. Dopo esserci sposati, ella, rendendomi anche padre di due meravigliosi bambini, fece accrescere in me la gioia, che già nel mio animo avvertivo immensa ed indescrivibile. Per cui la ringraziavo ogni giorno, per averli messi al mondo
All'età di quarantatré anni, con l'avvento del nuovo re, per me tutto cominciò ad andare storto. Egli, seguendo un altro indirizzo politico, fece chiudere la totalità delle scuole d'armi della città a cui sovrintendevo, la quale sua decisione mi lasciò disoccupato, dall'oggi al domani. L'improvvisa perdita del mio lavoro mi fece prevedere che, prima o poi, la mia famiglia si sarebbe ridotta sul lastrico. Non bastando ciò, una disgrazia più grave del mio licenziamento in tronco mi stava aspettando al varco. Essa si sarebbe scagliata spietatamente contro di me e anche contro la mia famiglia. Difatti nel pomeriggio del giorno successivo a quello in cui ero stato licenziato, partecipai ad una partita di caccia al cinghiale insieme con tanti altri cortigiani e con il sovrano in persona. Ognuno prese parte alla gara venatoria con animosità e passione, siccome era intenzionato a concedersi un po' di svago in quella mattinata. Ma essa si preannunciava splendida per tutti quanti gli altri, tranne che per me.
La caccia si svolgeva nel bosco, il quale era situato non molto lontano dalla città. Da parte mia, stando con perizia sulle orme della preda che stavo inseguendo, all'improvviso sentii muovere alle mie spalle alcuni arbusti mediamente alti. Allora, pensando che si trattasse dell'animale che stavo inseguendo, all'istante mi voltai indietro, tenendo la freccia già accoccata. Vedendo poi che quella vegetazione arbustiva seguitava ad agitarsi con insistenza, senza che intorno spirasse un solo filo di vento, indirizzai verso quel luogo il mio arco, tenendomi pronto a colpire la mia preda. Un attimo dopo, così, feci anche partire alla cieca la mia saetta, essendo sicuro che dietro quell'ammasso di frutici si trovasse nascosto il cinghiale, il quale prima scappava davanti ame. In quel momento, non vedevo l'ora di farlo diventare la mia vittima prescelta. Ma per mia somma sfortuna, dopo che la mia freccia fu partita, mi giunse all'orecchio l'urlo disperato di un uomo, il quale proveniva dalla stessa parte dove avevo mirato il mio colpo. Allora subito accorsi sul posto per rendermi conto in che tipo di guaio mi ero cacciato senza volere. Quando raggiunsi quel posto, con mio grande sgomento, vi scorsi il cugino del re che era riverso per terra morto. Egli era rimasto stecchito dal mio dardo, che credevo di aver lanciato contro il cinghiale da me inseguito.
Voi, figlioli miei, vi chiederete com'era stata possibile una disgrazia del genere proprio a me. Ebbene, essendogli sfuggite di mano alcune monete d'oro, il poveretto si era chinato per raccattarle. A tale riguardo, non ho mai compreso perché mai egli le avesse tirate fuori dalla scarsella in tale circostanza! Perciò, mentre era flesso ed intento a raccoglierle, la mia saetta gli aveva trafitto il collo, fulminandolo sul colpo.
Il suo grido di dolore era stato udito anche dai soldati del re, i quali stazionavano nelle vicinanze. All'urlo acuto del poveraccio, essi accorsero in un battibaleno. Così mi sorpresero, mentre ero chinato sul corpo inanimato di chi era rimasto vittima della mia freccia fatale per un banale incidente. Logicamente, avendomi colto in quella posizione che si mostrava facilmente ingannevole e mi faceva apparire anche in flagrante reato, i gendarmi fecero presto a trarre le loro errate conclusioni e mi reputarono all'istante un ladro assassino. Perciò, presi dall'ira, essi si misero ad urlare forte: "Catturiamo l'uccisore del cugino del re! Non facciamocelo scappare, altrimenti il nostro sovrano non ce lo perdonerà! L'assassino dovrà essere processato e giustiziato sulla pubblica piazza, come si merita! Su, diamogli addosso e non permettiamogli di sfuggirci!"
A quelle loro grida minacciose, in un primo momento, avevo l'intenzione di arrendermi per discolparmi e chiarire ai gendarmi miei accusatori che c'era stato un equivoco da parte loro, poiché si era trattato soltanto di un puro incidente. Anche perché la volontà di commettere quell'orribile misfatto non mi aveva neppure sfiorato. Ma poi, considerato che tutte le prove a mio carico apparivano schiaccianti ed inequivocabili, decisi di salvarmi con la fuga e di darmi alla macchia. Perciò scappai via come un fulmine, mentre venivo inseguito dai soldati del sovrano, i quali si mostravano decisi a non mollarmi e a rincorrermi a oltranza. Alla fine, però, prima che mi rifugiassi nella zona che era frequentata dalle bestie feroci, essi desistettero dall'inseguirmi, avendo paura di rimanere loro vittime. Allora, dopo una corsa interminabile ed estenuante, durante la quale avevo sofferto non solo fisicamente ma anche spiritualmente, pervenni nell'immensa foresta, dove mi ritrovai tutto solo come un cane randagio. Tale zona, essendo abitata soprattutto da belve feroci in cerca di prede da farne un loro pasto sostanzioso, mi obbligò a stare di continuo in stato di allerta. Solamente così non sarei diventato la nuova vittima designata di qualcuna di loro.
Più tardi, mentre mi aggiravo in questi paraggi e vi andavo cercando un posto sicuro che mi consentisse riposo e tranquillità, con mia grande sorpresa mi imbattei in una vecchietta. Ella, restandosene senza alcuna compagnia e canticchiando con tremula voce, sedeva sopra un ceppo. Allora mi avvicinai a lei e, salutandola con molto rispetto, come era mio costume fare verso tutti i miei simili, gentilmente le domandai:
«Chi sei, simpatica vecchietta, e come mai ti trovi in questa foresta, senza che ci sia qualcuno a farti compagnia? Non temi i tanti pericoli che si annidano in questa zona, i quali, al contrario, dovrebbero allarmarti parecchio? Allora cos'hai da dirmi, a tale proposito?»
Ella, esternando un fare cerimonioso ed accattivante, mi rispose:
«Il mio nome è Schila e faccio la maga di professione, per cui non preoccuparti per me, brav'uomo! Io mi trovo qui soltanto per cercare un baldo giovanotto, il quale si metta volontariamente a mia completa disposizione. In cambio dei suoi servigi, saprò ricompensarlo in modo che meglio non potrebbe aspettarsi da me! Allora non vorresti mica essere tu la persona che sto cercando invano?»
Da parte mia, manifestandole la mia piena disponibilità a mettermi ai suoi ordini, mi affrettai a risponderle:
«Ebbene, da adesso puoi darti a comandarmi quando e come vuoi, Schila, perché sono qui per servirti! Da me avrai la più cieca obbedienza, a patto però che quanto vorrai ordinarmi non sia in disaccordo con i miei principi morali! Quindi, posso essere io la persona che cercavi?»
«Bravo!» ella mi rispose, seguitando a parlarmi «Vedo che sei un uomo ammodo, per cui fai proprio al caso mio! Per questo motivo, meriti di essere ricompensato con il dono più prezioso che ci possa essere al mondo! Sì, voglio premiarti nel modo migliore, dandoti la possibilità di impossessarti della spada di un grande eroe antico, la quale sono sicura che ti recherà l'invincibilità. L'arma prodigiosa è custodita nel Castello Maledetto, dove andrai a prendertela senza correre il minimo rischio. Adesso ti indico anche la strada che conduce al famoso castello. Devi soltanto attendere qualche attimo!»
Pronunciate quelle poche parole, la vecchietta solitaria mi accompagnò in un posto, il quale si trovava poco distante dal posto in cui eravamo, dove mi mostrò un buio e profondo tunnel. Si trattava della stessa galleria che anche voi oggi avete scoperto ed attraversato per tutta la sua lunghezza. A quel punto, ella continuò a dirmi:
«Vedi questo passaggio sotterraneo? Sappi che, dopo che lo avrai percorso per intero, verrai a trovarti di fronte al Castello Maledetto, dove è depositata la spada, che era appartenuta al valente Koluor. Egli era il re della fortezza; ma era morto suicida, in seguito al suo profondo rimorso che gli era sopravvenuto, dopo aver ucciso tutti i suoi sudditi.»
«Ma chi era il re Koluor, Schila? Posso sapere qualcosa di lui?» le domandai, mostrandomi interessato sia alla spada che alla vicenda del suo ex possessore, la quale si preannunciava tragica in ogni senso.
Alla mia domanda, la vecchia subito si mise a narrarmi la storia di quel personaggio importante, il quale aveva combattuto contro l'intero suo popolo, allo scopo di difendere strenuamente i nobili ideali del bene e della giustizia. Comunque, miei cari figlioli, adesso passo a farvi il riassunto di essa, affinché anche voi l'apprendiate nei suoi punti salienti. Dopo averli ascoltati, essi vi faranno mostrare piuttosto basiti. Sarà un racconto che vi spingerà ad odiare profondamente il male; invece vi ispirerà un senso di attaccamento verso le sacre virtù e i nobili ideali.
Molti anni addietro, Koluor era stato il re del Castello Maledetto, che allora era chiamato Castello Benedetto. In esso, prosperavano i Logunti, che rappresentavano un popolo mite ed osservante delle sagge leggi del loro sovrano. Ma col passare degli anni, tutti gli abitanti del castello, spinti da forze demoniache, avevano incominciato a trasgredire le giuste leggi del loro re, dandosi a violazioni di ogni sorta. Un giorno, poi, essi avevano stabilito di vivere nell'anarchia più assoluta ed avevano pure preteso dal loro re Koluor, il quale impersonava la giustizia, la revoca di ogni legge positiva, a cominciare da quelle naturali e religiose. Al loro posto, invece, avrebbe dovuto sancirne altre del tutto negative, cioè delle antileggi. Secondo la nuova mentalità dei Logunti, si sarebbero dovute elogiare e premiare esclusivamente la prepotenza, la dissimulazione, la fallacia, l'astuzia e la forza bruta. Perciò il vero eroe sarebbe dovuto essere solo chi, più di ogni altro, si fosse distinto nell'inganno, nel tradimento, nella ferocia, nella disonestà e nel folle dispotismo. Naturalmente, quelle loro insulse pretese, che si rivelavano quanto mai assurde ed ignobili, erano state energicamente respinte dal loro incorruttibile sovrano. Egli, nel caso che fosse stato proprio necessario, non avrebbe esitato a difendere il bene e la giustizia a colpi di spada e con il personale supremo sacrificio.
Alla salda reazione del loro sovrano, i Logunti si erano schierati compatti contro il loro integerrimo re ed era balenata in loro perfino l'idea di un regicidio. Così, quando si erano convinti che era giunto il momento opportuno, in preda ad una ferocia selvaggia, essi avevano assalito il monarca con ogni sorta di armi. I malvagi castellani, pur di riuscire nel loro intento, si mostravano determinati a spacciarlo, siccome ci tenevano a rendere legalmente riconosciute nel loro castello quelle empietà, che venivano via via partorite dalla loro mente perversa. Allora, essendosi messe le cose in quel modo, il re Koluor, dopo aver impugnato la propria spada, si era dato a difendersi eroicamente con tutte le proprie forze. Ardito e coraggioso com'era, egli, durante la dura lotta, riusciva a mandare molti suoi sudditi nel regno dei morti; ma quelli non venivano mai meno. Essi, mentre lo assalivano furiosi, sembravano veri nugoli di cavallette, poiché ce ne era sempre una nuova turba più infuriata ad incalzarlo e a farlo indietreggiare. Perfino le donne erano intervenute a dare manforte ai loro uomini, combattendo con accanimento al loro fianco. Esse apparivano più agguerrite e tenaci dei loro mariti, dei loro genitori e dei loro fratelli, essendo intenzionate a raggiungere il loro scopo!
Dunque, ci si azzuffava già da parecchie ore, per cui la stanchezza si faceva sentire sempre più faticosa e sfiancante dal prode eroe, allorché si era vista la lunga lama della sua spada spezzarsi in due parti. Quell'incidente inatteso, che era avvenuto a discapito del loro inossidabile ed inarrendevole sovrano, aveva fatto infiammare di più gli animi dei Logunti. Essi, intenzionati a cogliere l'occasione propizia e ad approfittarne, si erano preparati a finirlo con la massima brutalità. Allora Koluor, trovandosi in serie difficoltà, aveva rivolto agli dèi giusti e buoni la seguente sentita preghiera: "Immortali Spiriti Benigni, che, prima ancora di creare gli esseri umani, spargeste ai quattro venti i semi di ogni forma di bene e di giustizia, vi prego fervidamente di non abbandonarmi in questo grave frangente. Al contrario, consentitemi di sconfiggere il male, il quale ha contaminato le menti della totalità dei miei sudditi. Io non mi sto battendo per la mia sopravvivenza, bensì per il trionfo del bene e della giustizia. Per questo, se tra poco dovessi venir meno, dopo chi ci sarebbe ad estirpare il male dai loro cuori depravati e a ricacciarlo nel baratro infernale da dove è venuto fuori? Dunque, divinità comprensive, vi esorto a venire all'istante in mio soccorso, fornendomi una nuova valida arma. Inoltre, rinvigorite il mio braccio stanco e guidatelo verso l'immancabile vittoria! Per favore, accogliete la mia preghiera!" Era stato in quel modo che una nuova spada fiammeggiante era comparsa all'improvviso accanto al retto e saggio sovrano, allo scopo di permettergli di continuare la sua lotta accanita contro i suoi avversari. A quell'apparizione, egli l'aveva raccolta e brandita in un attimo, riprendendo così la furibonda lotta contro i suoi irriducibili sudditi. Essi erano rimasti frastornati dal sopravvenuto strabiliante episodio, il quale questa volta aveva favorito il loro sovrano.
Non appena il re Koluor aveva impugnato la strana arma, in lui era scomparsa ogni stanchezza, mentre una nuova vitalità aveva ripreso a circolare nel suo corpo, attraversandolo da capo a piedi. Ma i Logunti, sebbene avessero assistito a tale prodigio, non solo avevano seguitato a combattere, ma lo facevano anche con maggiore furia ed ardimento. Per cui non badavano nella maniera più assoluta alle decine di vite, che la prodigiosa spada del loro re andava mietendo in gran fretta. A un certo momento, Koluor aveva visto scagliarsi contro di lui perfino i vecchi e i bambini, i quali maneggiavano pugnali e altri tipi di armi. La spada fatata, però, non facendo eccezioni, si dava a scagliarsi pure contro di loro con furore mortale. Anche se il più delle volte il pio re avrebbe voluto trattenerla, poiché provava del rimorso nel vederla trafiggere degli avversari che avevano quella età. Infine si era verificato anche un fatto assurdo ed inconcepibile. Infatti, si erano dati ad assalire il sudditicida anche gli infanti, i quali avevano pochi giorni o pochi mesi. Essi, per legge naturale, non dovevano essere ancora in grado di camminare. A quella visione incredibile, il re Koluor si era oltremodo meravigliato, nel vederli saltellare rapidamente. Quasi fossero tanti ranocchi! Constatando poi che da loro venivano compiute cose impossibili, egli si era convinto sempre di più che uno spirito malefico albergava in loro. La qual cosa lo aveva rassicurato che non era più né tempo né luogo mostrare pietà verso di loro. Perciò bisognava invece estirpare il male alla radice, senza rammarico e senza misericordia.
Dopo tre giorni di aspro combattimento, Koluor aveva visto finalmente soccombere anche l'ultimo dei suoi sudditi. Grazie all'intervento della miracolosa spada, tutti avevano ricevuto il loro meritato castigo. Così il bene e la giustizia avevano ancora una volta trionfato là dove si era tentato di abbattere l'uno e l'altra senza ragione. Quel tipo di trionfo, a dire la verità, non era stato gradito dal grande eroe. Esso gli aveva rattristato immensamente l'animo, facendolo immergere in una cupezza profonda. Quella infinità di morti, a cui era costretto ad assistere, gli infondeva soltanto una incalcolabile mestizia e nessun sollievo. In un certo senso, egli aveva quasi iniziato a pentirsi di quel suo gesto punitivo, considerandolo un esecrando misfatto. Anzi, alla fine i suoi tanti pensieri frastornati, venendo rosi da un tremendo rimorso, erano prima vacillati e poi crollati, portandolo sull'orlo del suicidio. Allora, indirizzando la punta della spada contro il proprio petto, aveva esclamato: "Che la morte purifichi la mia anima e la liberi dai tanti travagli che la opprimono. D'ora in avanti, questa Spada dell'Invincibilità serva esclusivamente a distruggere le ingiustizie, le prepotenze e le nefandezze degli uomini, guardandosi in avvenire dall'infliggere punizioni che coinvolgano un intero popolo! Inoltre, si faccia essa impugnare solo dal braccio giustiziere di quell'eroe nobile e giusto che verrà ad averne un gran bisogno! Per ultimo, che questa fortezza, da oggi in avanti, non si chiami più Castello Benedetto; ma si dia ad essa il nuovo nome di Castello Maledetto! Ecco quanto decreto, da questo momento e per sempre!"
Dopo il pronunciamento di tali parole, il re Koluor, mostrando un indomito coraggio, aveva spinto l'appuntita lama della sua spada contro il proprio corpo. Ve l'aveva fatta affondare, fino a quando il suo petto non ne era rimasto squarciato e il suo cuore non ne era stato trapassato con grande profusione di sangue all'esterno. Nel compiere quel gesto eroico e nel rovesciarsi per terra privo di vita, il sovrano non si era lasciato sfuggire dalle labbra neppure un fioco lamento. Ciò, perché la sua mente era intenta a torturarsi per ben altri mali, i quali, provenendogli dal profondo dell'animo, erano dediti a procurargli un tormento così immane, da non conoscerne i limiti! Dopo che erano morti tutti i suoi abitatori ed era scomparso anche il loro monarca suicida, in ottemperanza alle disposizioni di quest'ultimo, la gente dei dintorni, riferendosi al Castello Benedetto, aveva iniziato a chiamarlo Castello Maledetto.
Quando la vecchia lo ebbe terminato, rimasi impressionato dal suo racconto. Esso mi aveva affascinato a tal punto, che alla fine decisi di tentare la fortuna senza perdere tempo. A dire il vero, volevo affrontare quell'avventura per una sola ragione. Dopo essere riuscito ad impadronirmi dell'invincibile spada, avrei potuto fare ritorno nella mia città. Lì mi sarei discolpato dinanzi al mio re, facendogli presente che il mio non era stato un assassinio premeditato, bensì soltanto un omicidio colposo. Qualora poi egli non avesse voluto credere alla mia versione dei fatti e avesse stabilito ugualmente di condannarmi alla pena capitale, io non avrei esitato a difendere la mia innocenza con quella spada prodigiosa. Oramai ero determinato ad operare una carneficina uguale a quella del re Koluor, se ci fossi stato obbligato. A tale riguardo, ero convinto che in seguito nessun rimorso si sarebbe impadronito di me, come era successo al re del Castello Benedetto. Per questo il suicidio non mi sarebbe passato neppure per l'anticamera del cervello!
Così, percorso in un batter d'occhio il tetro tunnel, mi ritrovai ai confini di una ferace vallata, la quale si estendeva per lungo fra due dorsali non troppo alte. Dal mio posto di osservazione, si scorgeva ben nitido il Castello Maledetto, poiché esso si stagliava imponente e maestoso nell'azzurro del cielo, suscitando in me un incredibile stupore. Il suo fascino, il quale aveva qualcosa di magico, mi colpì all'istante, per cui mi diedi a raggiungerlo senza altro indugio. Mentre mi precipitavo verso l'enorme fortezza, mostrando un'ansia inesprimibile, in cuor mio credevo di sognare. La spada dell'eroe, che era stato prima sudditicida e poi suicida, mi eccitava e mi faceva impazzire dalla gioia. Inoltre, giuravo a me stesso che, se mi fossi trovato ad agire come il suo precedente possessore, di certo non mi sarei ammazzato, come aveva fatto lui. Io avevo una famiglia alla quale badare, dovendo dedicare ad essa le totali mie forze e le mie premure.
Dopo che ebbi attraversato la florida vallata ed ebbi scalato anche il monte fin dove esso si biforcava, raggiunsi il castello. Così vi entrai alla svelta, senza incontrare nessuna opposizione da parte di nessuno. Anzi, al mio cauto avanzare e al mio passaggio, tutte le porte che conducevano alla spada di Koluor si aprivano misteriosamente da sole. Allora, credendolo un buon presagio per me, mi rallegravo a non dirsi della loro apertura spontanea. Ciò si verificò, fino a quando non venni a trovarmi nella spaziosa sala rotonda, dov'era depositata la Spada dell'Invincibilità e dove scorsi altre porte circostanti che davano pure accesso ad essa. Ma da queste, poco dopo, vidi sbucare tanti rozzi ceffi che, impugnando delle grosse clave, le agitavano in modo sinistro. Così facendo, essi, oltre a terrorizzarmi, volevano darmi ad intendere che presto mi avrebbero assalito e spacciato. Per la verità, erano i loro orribili sguardi torvi e il loro stranissimo movimento a procurarmi in quel luogo qualche disorientamento e una certa preoccupazione. A un certo punto, essi si diedero a restringersi sempre di più intorno a me, assumendo una posizione di accerchiamento, al fine di precludermi ogni possibilità di fuga.
Mi aveva forse la vecchia ingannato? Mi andavo chiedendo, abbastanza preoccupato. Eppure la spada si trovava sul serio in quel luogo ed era a pochi passi da me, interamente immersa in un compatto blocco di granito, che riproduceva un tronco di piramide regolare. Il quale era alto un metro ed aveva le basi rettangolari aventi le seguenti dimensioni: in quella maggiore, misuravano tre metri e due metri; mentre in quella minore, si aggiravano intorno a un metro e due metri. Da parte mia, a ogni modo, mi auguravo che quella roccia non si rivelasse così dura, da impedirmi di estrarre l'arma dalla sua solida massa. A tale riguardo, ero certo che, se fossi riuscito ad impossessarmene, immantinente avrei visto scappare via quegli esseri brutali. In caso contrario, essi mi sarebbero piombati addosso per sfracellarmi il cranio e sfogare la loro furia. Allora, volendo deprecare quella terribile prospettiva, in un attimo balzai sul modesto mausoleo. Una volta che mi trovai sopra di esso, mi avventai sulla spada e ne afferrai l'impugnatura con entrambe le mani. Facendo poi sforzi giganteschi, tentai di estirparla dal sepolcro.
In quella circostanza drammatica, il mio primo obiettivo fu quello di impossessarmi della prodigiosa arma, poiché mi resi conto che non potevo assolutamente fallire in quella impresa, se ci tenevo a salvare la pelle! Ben presto, però, dovetti convincermi che la presa della spada con quel pezzo di granito si dimostrava di una rigidità così inflessibile, da non poter essere vinta da alcuna forza fisica umanamente intesa. Per questo quell'arma formidabile, senza il beneplacito della divinità che la tutelava, finiva per frustrare gli sforzi e i sogni di quelli che tentavano di impadronirsene, senza avere il beneplacito del re Koluor! Come constatavo, anche i miei considerevoli sforzi, che si ostinavano a non volere rinunciare ad essa, erano destinati a priori ad un sicuro fallimento, al pari degli altri che mi avevano preceduto nell'orgoglioso intento e nell'allettante impresa. Ammesso che prima ci fossero state altre persone, che avevano tentato quell'ardua prova, senza mostrare un po' di senno!
Ma allora perché la vecchia incontrata nella foresta mi aveva assicurato che il venire in possesso della spada si sarebbe rivelato un lavoretto da niente, siccome tale impresa era da considerarsi un gioco da ragazzo? Purtroppo fui costretto a persuadermi del contrario, non appena scorsi al centro del mausoleo la seguente epigrafe:
QUESTA SPADA DELL'INVINCIBILITÀ È DESTINATA UNICAMENTE A QUEL PRINCIPE CORAGGIOSO, AL QUALE È STATO AFFIDATO IL COMPITO DI FAR TRIONFARE IL BENE E LA GIUSTIZIA. ESSA, INOLTRE, GLI OCCORRERÀ PER CONSEGUIRE I SEGUENTI TRE OBIETTIVI: 1) VENDICARE L'ONTA SUBITA DAI SUOI GENITORI, DA PARTE DI REGNANTI SENZA SCRUPOLI; 2) LIBERARE IL SUO POPOLO DALL'ABOMINEVOLE DOMINAZIONE, CHE I MEDESIMI GLI HANNO IMPOSTA; 3) RICONQUISTARE I BENI DELLA SUA FAMIGLIA, CHE SONO STATI DA LORO CONFISCATI. INVANO LE ALTRE PERSONE TENTERANNO L'IMPOSSIBILE IMPRESA! COSÌ È STATO DECRETATO OGGI E COSÌ SARÀ PER L'ETERNITÀ!
Quella scritta, miei cari ragazzi, consentendo ad un fremito di scuotermi il corpo da capo a piedi, fino ad agghiacciarmelo totalmente, mi fece invecchiare di almeno dieci anni. Anzi, fu in quella terribile circostanza di smarrimento che i miei capelli, dal primo all'ultimo, divennero candidi come la neve. Oramai non c'era più alcuna speranza di salvezza, poiché la morte mi mostrava il suo aspetto orribile con perfido sadismo. Perciò, senza compassione alcuna, mi andava lacerando l'animo con raffiche di sensazioni graffianti e terrificanti. Il mio stato psichico, in quei orrendi istanti, si presentava confuso e in preda ad un'agitazione spasmodica. Si poteva ben dire che io fossi rimasto senza respiro e che mi stessi dissolvendo sotto la minaccia di quell'atmosfera drammatica.
A quel punto, non riuscendo a scorgere per me nessuna possibilità di scampo, nel mio intimo sentivo accrescere la disperazione e lo sconcerto. Ma poco dopo, volgendo gli occhi in alto, scorsi un ampio spiraglio. Non mi rendevo conto di come ciò fosse accaduto; era probabile che prima non ci avessi fatto caso. Da esso poi si sporse la responsabile di quella mia infelice situazione. La vecchia, che reggeva una corda, si affrettò a lanciarmi uno dei suoi due capi, invitandomi ad arrampicarmi lungh'essa e a raggiungerla. Visto come stavano le cose, le quali non mi promettevano nulla di buono, mi decisi a seguire il suo consiglio. Perciò, in un batter di ciglio, agguantai il resistente canapo e me ne servii per pervenire lesto all'uscita del castello, lasciando sotto di me la rabbiosa ed ululante turba dei selvaggi.
Una volta fuori della sala, dietro consiglio della generosa vecchia, mediante la stessa fune mi calai dalle mura del castello e cercai di allontanarmene, dirigendomi a rotta di collo verso la lussureggiante vallata, appunto per sentirmi più al sicuro. Invece la poveretta, ahimè, finì tragicamente i suoi giorni sotto le clavate dei numerosi trogloditi! Ella si era sacrificata per me, senza che io ne conoscesse il motivo. Ma anche nei miei vari tentativi di rendermene conto, non sono mai riuscito a darmi una spiegazione plausibile su come avesse fatto la sedicente maga a trovarsi sopra il castello. Vi era giunta appena in tempo per trarmi fuori dai guai, nei quali ella stessa mi ci aveva messo e per salvarmi la vita. Comunque, in qualità di maga che diceva di essere, doveva possedere qualcosa di magico, il quale l'aveva fatta trovare pronta sugli alti spalti della fortezza. Solo che esso, per cause a me ignote, non aveva funzionato, proprio mentre i suoi abitatori la raggiungevano, l'assalivano e le procuravano tristamente una tragica morte.
Correndo a perdifiato e rifacendo il buio tunnel, mi ritrovai infine nella stessa zona, dove avevo incontrato per la prima volta la buon'anima della vecchietta. In quel luogo, constatai che uno strano oggetto riluceva tra l'erba. Subito mi chinai e lo raccolsi da terra. Sopra vi era scritto: "Se mi perdi, puoi dire addio alla tua vita!" Senza dubbio, esso era stato di proprietà della defunta vecchia. Allora decisi di tenerlo con me e di conservarmelo come cimelio. Ma, a distanza di tantissimi anni, non me lo sono più ritrovato tra le mani e non riesco ad immaginare dove esso possa essere finito. Nel frattempo avevo stabilito di costruirmi una modesta dimora in questa sterminata foresta, poiché avevo preso la definitiva decisione di condurvi una vita da vero eremita. Così non avrei più avuto l'assillo dei tanti problemi quotidiani, quello che il vivere sociale necessariamente comportava. Per fortuna, miei diletti figlioli, in seguito, a distanza di sette anni l'uno dall'altro, arrivaste voi a regalarmi la vostra dolce compagnia, la quale iniziò a rendermi la vita un continuo assaggio di gioie e di piaceri! Per cui ve ne ringrazio infinitamente.
A questo punto, però, siccome si è fatto molto tardi e la notte ha cominciato ad inondare la foresta con la sua oscurità, ci conviene metterci a cenare ed andarcene poi subito a dormire. Anche la luna, come vedete, si è rimessa a circolare con la sua bisaccia carica di sogni d'oro, che intende dispensare ai tanti bisognosi di pace e di conforto.