37-IVEONTE SMETTE DI ESSERE IL PRIMOGENITO DEL RE CLORONTE

Il giorno seguente si era intenti a consumare il frugale pasto di mezzogiorno, quando Francide, che non riusciva a togliersi dalla testa il suo chiodo fisso, all'improvviso ruppe il silenzio che regnava fra loro tre. Volendo chiarire meglio le cose, con il suo intervento egli desiderava manifestare all'uomo, che era intento come loro a consumare la propria minestra, una propria idea, la quale continuava a torturargli la mente.

«Babbomeo,» cominciò a dirgli «perché non diamo un nome pure al mio simpatico amico? Devi sapere che mi trovo molto a disagio, quando mi rivolgo a lui. Posso andare avanti sempre con il solito "ohé!", il quale, oltre a non sembrarmi giusto, mi infastidisce anche parecchio? Stamattina ne ho parlato pure con lui ed egli è stato pienamente d'accordo con questa mia iniziativa, per cui non attende altro! Cosa aspetti, dunque, a dare un bel nome al mio amico? A me non ne viene in mente nessuno da suggerirti, siccome, oltre al mio, non ne conosco altri. Ma sono convinto che tu ne avrai più di uno a portata di mano, per cui puoi scegliere per lui quello che consideri il più bello fra tutti loro!»

L'uomo, alla domanda del ragazzo, fece seguire la sua seguente risposta sull'argomento:

«È molto giusto, Francide, quanto proponi per il tuo compagno. Ma devi sapere che, prima ancora che nascesse in te una idea simile, essa era già balenata nella mia mente. Inoltre, avevo anche deciso quale nome dargli! Siccome si tratta di un nome bellissimo, sono sicuro che esso piacerà tanto a te quanto a lui. Ve lo garantisco!»

«Bravissimo, Babbomeo! Allora tira fuori il nome che già avevi stabilito di assegnargli! Così dopo potrò chiamare il mio amico con il suo nome, senza più trovarmi in difficoltà, come mi tocca fare adesso!»

Nello stesso momento, Francide andò ad abbracciare il trovatello della foresta, considerato che loro due oramai se la intendevano benissimo, essendo essi già divenuti amici per la pelle. Poi, stando attaccato a lui, egli attese che Babbomeo pronunciasse al più presto il nome che aveva scelto per l'amichetto. Ma l'uomo, in quella circostanza, aveva assunto un atteggiamento grave e pensieroso, come se qualcosa di orribile gli fosse ritornato alla mente e lo avesse assai impensierito. Allora il ragazzo, vedendo che l'amico adulto continuava a starsene zitto e non si decideva a pronunciare il nome da loro atteso, lo esortò vivamente:

«Babbomeo, perché te ne stai soprappensiero, anziché comunicarci questo benedetto nome? Non immagini neppure quanto sia grande la nostra ansia di apprenderlo! Per questo attendiamo che tu ce lo riferisca subito. Per favore, vuoi sbrigarti a farcelo conoscere?»

Richiamato da Francide, l'uomo si decise a distogliere la sua mente da ciò che era venuto a conturbarlo. Per questo si affrettò ad appagare la curiosità e l'ansia dei due ragazzi, poiché in entrambi esse erano divenute incontenibili. Come già gli aveva annunciato, fra i tanti nomi che conosceva, egli aveva già scelto quello adatto al nuovo membro della famiglia. Babbomeo, infatti, fin dal primo giorno che era stato trovato il ragazzo abbandonato nella foresta, non avendone egli uno, aveva già pensato al nome da dargli. Esso gli apriva la mente ad un episodio triste e doloroso, il quale, ogni volta che lo rintracciava nella sua memoria, trafiggeva la sensibilità del suo animo. Gli succedeva proprio come se un ciclone tormentoso all'improvviso si abbattesse con schianto incredibile su di lui, con il chiaro proposito di farlo crollare per sempre. Infine egli annunciò a ragazzi, che erano in trepida attesa:

«Il nome del nuovo membro della nostra famiglia sarà Iveonte, poiché lo trovo davvero splendido! Non ho forse ragione a pensarla così?»

Al suo avvenuto annuncio, il quale aveva interessato soprattutto il ragazzo che era stato trovato da poco, seguì dentro di sé la seguente intrinseca considerazione: "Un giorno lo uccisi contro la mia volontà; però oggi, seppure in forma simbolica, intendo ridargli la vita alla mia maniera. Che il dio Matarum lo abbia in gloria!" Essendosi poi addentrato nei ricordi del passato, Babbomeo si oscurò in volto e si amareggiò tantissimo. Anzi, dovette fare degli sforzi enormi per riuscire a frenare il pianto. Egli a ogni costo voleva evitare di impensierire i due ragazzi, proprio in quella particolare circostanza, che era di gioia per loro, poiché le sue lacrime di certo avrebbero guastato la festa all'uno e all'altro.

Francide, appena ebbe udito il nome uscito dalle labbra dell'uomo, dapprima proruppe in una esultanza senza freno; subito dopo gli gridò:

«Sei stato davvero bravo, Babbomeo, a scegliere per il mio compagno un nome coi fiocchi! Sono certo che piacerà anche a lui tantissimo. Pur non essendone sicuro al cento per cento, in verità direi quasi che esso mi piaccia più del mio! Perciò provo molta contentezza per il mio amico Iveonte! Comunque, grazie per averglielo trovato così bello!»

Dopo, rivòltosi all'amico, che non teneva più stretto a lui, gli chiese:

«Iveonte, è vero che anche tu trovi magnifico il tuo nome? Non dirmi che non la pensi allo stesso modo mio, poiché diresti senz'altro una bugia! Esso è talmente bello, che quasi te lo invidio!»

Il suo coetaneo, per indicare che gli piaceva, annuì gaio e soddisfatto. Dopo seguì fra i due ragazzi un nuovo forte abbraccio, mentre si giuravano con gli sguardi eterna amicizia. Da quel giorno, essi, divenuti intimi amici, si sarebbero recati sempre insieme al pascolo, trovandovi ogni volta un mondo di svago con i loro giochi, creandone sempre di nuovi.

Ma per l'uomo era stato davvero tanto importante che al neo membro della famigliola venisse dato proprio quel nome? Se la risposta è affermativa, perché allora non lo aveva dato a Francide, il quale era stato trovato per primo da lui? Certo che per Babbomeo era stato di capitale importanza che il ragazzo si chiamasse Iveonte! Ecco perché ci aveva tenuto moltissimo che egli prendesse tale nome. Con quel suo nobile gesto, il poveretto aveva creduto di ridare la vita ad un'altra persona, che egli aveva uccisa per sbaglio tempo addietro e che ora di continuo gli ritornava alla mente. Riguardo poi al fatto che l'uomo sette anni addietro non aveva dato a Francide quel nome, va fatto presente che c'era stato un validissimo motivo. Quando egli lo aveva salvato dalla famelica tigre, il piccolo, con delle piccole lettere azzurrognole, teneva già inciso sul petto il proprio nome, a guisa di tatuaggio indelebile.

Un paio di ore più tardi, consumato il pasto di mezzogiorno, Iveonte e Francide si misero a giocare a scaricalasino sull'aia; ma restavano sempre sotto gli occhi vigili di Babbomeo. Costui, all'ombra di un pergolato, era affaccendato a fare la sua scorta di frecce, che si era esaurita totalmente il giorno precedente. Pur sembrando che non volgesse mai lo sguardo in direzione dei due ragazzi, egli trovava il tempo e il modo per sbirciare ogni tanto i loro giochi, controllando che essi non prendessero una piega pericolosa e non risultassero dannosi alla loro salute. Così, mentre gli giungevano all'orecchio i continui schiamazzi e le gioconde effusioni dei due amici, i quali oramai erano in preda ad una immensa felicità, rallegrandosene un mondo, l'uomo si emozionava e si lasciava prendere da una intensa tenerezza. Ben presto, però, l'emozione lo condusse sull'onda di quei ricordi che egli aveva creduto di aver rimosso per sempre dalla sua memoria. All'improvviso, si raffigurò davanti i suoi due figli, di quattro anni il primo e di tre anni il secondo, ai quali era solito fare una infinità di carezze e di moine. Allo stesso tempo, si immaginò anche la sua devota moglie. Ogni giorno ella, sempre con il volto sorridente, attendeva sulla soglia di casa il suo ritorno dal lavoro per accoglierlo con un abbraccio passionale.

Allora, con un ardore inesprimibile, egli rivisse l'intero suo focolare domestico: gioie, baci, abbracci, carezze, sorrisi, speranze e i grandi progetti fatti insieme con la consorte. Adesso si andava chiedendo che cosa ne era stato della sua famigliola. A tale sua domanda, un fosco quadro gli si presentò davanti. Scorgeva la sua dolce Luta costernarsi, disperarsi, lottare eroicamente contro le molte avversità della vita, sopportare con pazienza le ingiurie di molti Dorindani, sebbene suo marito avesse fatto molto per la loro città e per l'Edelcadia. Il poveretto era convinto che, da quando per errore aveva ammazzato il cugino del re, ogni persona, dopo averla emarginata, l'avversava. Di conseguenza, per colpa sua, l'intera sua famiglia veniva costretta a tirare la cinghia ed era obbligata a grandi privazioni, oltre che a stenti di vario tipo non di poco conto! Stando dietro ai suoi tristi ricordi e alle sue brutte considerazioni, Babbomeo provava in cuor suo una enorme amarezza, si rattristava duramente, si rammaricava per la sua sventurata famiglia, per averla abbandonata in balìa di disgrazie terribili. Per cui gli dispiaceva di non poter fare niente per essa. La fame, la vergogna, il disprezzo, le inimicizie e l'emarginazione erano le sole cose, tutt'altro che gratificanti, che egli aveva lasciato in retaggio ai propri familiari. Ciò, contrariamente alle tante belle promesse che aveva fatto a loro tre!

L'unica consolazione gli proveniva dal fatto che c'era una persona, nella quale egli confidava immensamente. Secondo lui, il suo amico Lucebio giammai avrebbe dubitato della sua buonafede e giammai si sarebbe schierato contro la sua famiglia, neppure se il suo re glielo avesse imposto. Per questo era convinto che almeno il suo grande amico, memore della loro fraterna amicizia, non avrebbe mai permesso che i suoi cari congiunti soffrissero in qualche modo la fame. A tale riguardo, lo tranquillizzava il fatto che Lucebio poteva disporre di tutto il denaro che volesse. Infatti, secondo un decreto del re Kodrun, egli, per i propri bisogni e per i propri capricci, poteva attingere al patrimonio della casa reale, senza limitazioni e vita natural durante! Esso, quindi, gli permetteva di avere a sua disposizione il denaro che desiderava, senza che il suo sovrano potesse vietarglielo. La qual cosa lo metteva nella condizione di aiutare, primi fra tutti, i suoi familiari, che erano venuti a trovarsi in serie difficoltà, dopo la disgrazia capitata al loro congiunto.

Babbomeo si stava macerando nel rimorso, allorché delle grida dolorose vennero a strapparlo ai suoi pungenti pensieri. Esse erano del povero Iveonte e lasciavano supporre che qualcosa di grave gli fosse successo oppure gli stesse accadendo in quell'istante! Infatti, mentre si giocava a scaricalasino e si faceva portare sulle spalle da Francide, essendo il suo turno di assumere tale posizione, il ragazzo era stato aggredito alla spalla destra da un vorace falco. Esso, dopo avergli affondato gli artigli nelle tenere carni fino a raggiungere la scapola, si era messo a riempire l'aria dei suoi versacci. Perciò, mentre il volatile lo martoriava con ferinità, Iveonte si dava ad emettere grida di dolore. Francide, da parte sua, sentendo gridare dolorosamente il compagno, si era fermato di colpo; ma era anche diventato livido nel volto. Siccome gli riusciva difficile rendersi conto di quanto si stesse verificando, pensò che era meglio rivolgersi a Babbomeo e richiedere il suo intervento immediato, per fargli porre fine alla sofferenza del suo amico che urlava.

Ma l'uomo, che non aveva perduto tempo a squadrare la situazione del momento e si era accorto all'istante di ciò che affliggeva Iveonte, stava già intervenendo in suo aiuto. Mentre si precipitava a soccorrerlo, egli appariva pieno di furore e di rabbia, indirizzando l'uno e l'altra alla bestiaccia. L'avvicinarsi di Babbomeo, invece, non impressionò il falco. Esso, anziché mostrare spavento e volare via alla svelta, seguitò a lacerare il corpo del sofferente ragazzo. In pari tempo, rivolgendo la testa irta di piume verso il soccorritore della sua vittima, gli inviava terribili occhiatacce e acuti stridi ferini, come se volesse minacciarlo, a causa della sua indebita ingerenza. E se il pennuto faceva solo supporre la propria minaccia a Babbomeo, costui invece stabilì di fargli assaggiare la propria in concreto, con la quale si era proposto di privarlo definitivamente dell'esistenza. Così, raggiunto il falco, l'uomo lo afferrò energicamente con la sua mano nerboruta, volendo staccarlo dalla spalla del ragazzo con uno strappo violento. Ma poi egli dovette recedere da quella sua idea iniziale, ritenendola inopportuna e controproducente. Infatti, prima di tentarla, si avvide che essa si sarebbe risolta esclusivamente a danno del suo protetto, poiché gli artigli dell'uccello si erano conficcati nelle sue carni molto in profondità. Anzi, essi formavano con esse una presa talmente rigida, che era pericoloso cercare di strapparli. A suo parere, ogni suo tentativo di estirparli dalle stesse sarebbe risultato ancora più pregiudizievole nei confronti dei tessuti sottostanti. Il brusco strappo avrebbe potuto arrecare al corpo di Iveonte un danno maggiore, in termini sia di dolore fisico che di conservazione dell'integrità della cute. Perciò, dal punto di vista estetico, quest'ultima sarebbe potuta uscirne irrimediabilmente compromessa, con il palese disagio per colui che si sarebbe poi ritrovato con una spalla gravemente deturpata.

Siccome le cose si presentavano in quella maniera, a Babbomeo non restò altra soluzione che quella di mozzare la testa al falco. Perciò, senza perdere altro tempo prezioso, prese il pugnale e gliela recise con un bel taglio netto. Soltanto così la bestiaccia si lasciò staccare dal martoriato corpo di Iveonte, il quale, provandone finalmente meno dolore ed un relativo sollievo, smise di darsi alle sue tante urla. I sommessi lamenti del ragazzo, in verità, continuarono fino a tarda sera, poiché solamente allora il dolore, grazie alle preziose cure dell'uomo, si calmò considerevolmente e lo lasciò in pace per l'intera nottata. Difatti, dopo l'uccisione dell'aggressivo volatile, l'uomo aveva tolto al ragazzo la casacca insanguinata e gli aveva curato le ferite sottostanti con la massima applicazione, cospargendole di un linimento da lui stesso preparato con delle erbe officinali, che non gli risultava difficile reperire nella flora locale. Così il prezioso balsamo, in pochi giorni, avrebbe consentito il rimarginamento totale delle ferite del ragazzo, come appunto avvenne.

Ma quando infine le piaghe si furono rimarginate totalmente, come era da aspettarselo, restarono sulla spalla di Iveonte diverse cicatrici abbastanza visibili. Ma esse non convincevano l'uomo della foresta e gli davano molto da pensare. Egli stentava a credere che quelle cicatrici fossero state originate tutte dalla recente aggressione del rapace. A suo giudizio, anche se nella forma le une e le altre non differivano fra loro, di sicuro esse appartenevano a due epoche diverse. Alcune, dunque, ce ne dovevano essere, già prima che ci fosse la recente aggressione del volatile. Babbomeo pensò perfino di chiedere ad Iveonte cos'altro avesse avuto prima alla stessa spalla. Ma poi, ricordandosi che il ragazzo non rammentava più niente di sé e del suo passato, si astenne dal rivolgergli una simile domanda. Egli era persuaso che neanche ad essa lui avrebbe saputo rispondere. Per questo la sua richiesta sarebbe risultata una perdita di tempo.

A quel punto, poteva affermarsi che Iveonte era morto per sempre come il primogenito del re Cloronte per i seguenti tre motivi: primo, egli era stato colpito da una amnesia, la quale gli aveva cancellato dalla mente ogni ricordo di sé e dei suoi anni trascorsi; secondo, si chiamava Iveonte, perché quel nome gli era stato dato da Babbomeo, dietro espressa richiesta dell'amico Francide; terzo, la sua spalla destra aveva delle cicatrici, per il semplice fatto che a sette anni esse gli erano state procurate dall'aggressione di un terribile falco. Quei fatti si sarebbero dimostrati nell'avvenire senz'altro inoppugnabili! Da parte loro, tanto Iveonte quanto Francide avrebbero sempre tenuto in mente tali incontestabili episodi. Perciò in seguito, se qualcuno, fondandosi sul nome, sull'età e sulle cicatrici che aveva sulla spalla destra, fosse stato spinto a ritenere Iveonte il primogenito del re di Dorinda, i due giovani amici avrebbero messo a tacere la sua ardita ipotesi con delle prove schiaccianti. Magari entrambi avrebbero reagito a malincuore in quella maniera, poiché sarebbe stato più bello per loro che una meravigliosa supposizione del genere corrispondesse a verità. Ma essi non sarebbero mai stati capaci di mentire per interesse, risultando la menzogna contraria all'etica, che il venerabile Babbomeo aveva inculcato in loro. La bugia, quindi, per intenderci meglio, in ogni momento della loro esistenza, non avrebbe mai fatto parte della loro condotta morale. La quale, invece, si sarebbe radicata e mantenuta integerrima in loro due in ogni luogo e in ogni tempo, a costo di rimetterci la vita, qualunque fosse stata la loro condizione economica!


Nel frattempo, l'uno dopo l'altro, gli anni trascorrevano con una velocità impressionante. Perciò Iveonte e Francide crescevano a vista d'occhio, dimostrandosi ogni giorno sempre più in gamba sotto tutti i punti di vista. Essi volevano un bene grandissimo al loro Babbomeo, il quale per loro due valeva più di un padre. L'attempata persona, da parte sua, ne ricambiava il generoso affetto, rendendo ad entrambi tanti utili servigi. Egli si andava prodigando per i due ragazzi in modo che neanche un vero genitore avrebbe saputo fare meglio di lui. La qual cosa denotava il suo premuroso attaccamento nei loro confronti, che non veniva mai meno in lui e accresceva a dismisura anno dopo anno. Babbomeo si dava pure a costruire per i due ragazzi dei bellissimi oggetti-giocattoli, i quali venivano molto graditi da entrambi. Essi dovevano servire all'uno e all'altro come incentivi alla riflessione, al ragionamento e al giudizio. Egli si preoccupava in modo coscienzioso che i due ragazzi crescessero sani non solo fisicamente e psichicamente, ma anche intellettualmente e spiritualmente. Perciò non smetteva mai di esercitarli in talune attività che, a un tempo, potessero rendere pronti i loro riflessi, ferrea la loro forza di volontà, acuta la loro continua osservazione; ma soprattutto esse dovevano abituare il loro animo ad essere giusto e magnanimo. Insomma, li aiutava a formarsi quel carattere virile, che era di un uomo maturo e autonomo. Naturalmente, non si asteneva dall'insegnare ai suoi allievi a scrivere, a leggere e ad avere dimestichezza con i numeri. Egli li istruiva, facendoli scrivere su fogli di papiro da lui stesso preparati; invece, come inchiostro, si servivano di un estratto di bacche, nel quale i suoi discepoli intingevano le loro sottili piume.

In Iveonte e in Francide, in questo modo, venivano a crescere l'intelligenza e a formarsi la fortezza, la moralità, la cultura e la religiosità. Comunque, non venivano trascurate dall'insigne educatore neppure le principali norme del vivere civile. Egli faceva in modo che il desiderio di apprendere sorgesse in loro spontaneamente, anziché essere lui a spronarli ad imparare. Egli era convinto che, soltanto seguendo tale strategia educativa, le anime dei due ragazzi si sarebbero spiegate meglio alle tante problematiche della vita. Come pure sarebbe nato in loro lo stimolo a dare sempre ad ognuna di esse una risposta conforme e realistica, senza mai disinteressarsene. Secondo il suo esimio parere, attraverso la spontaneità e la libera iniziativa, i due ragazzi avrebbero sviluppato nella maniera migliore la loro personalità. Facendo poi rapportare quest'ultima con i vari problemi insiti nella natura umana, avrebbe permesso ad essa di determinarsi nel suo unico vero valore, ossia nel suo vario, dinamico ed infinito autoperfezionamento. Così, vivendo la coscienza di Iveonte e quella di Francide nel buio, Babbomeo si dava ad accendere in esse dei fuochi speciali, i quali avevano il compito di rischiarare le rispettive menti. Infatti, immergendole nella vasta gamma degli interrogativi che la vita stessa faceva porre, le arricchivano dell'insopprimibile desiderio di cercarne le giuste risposte. Il saggio uomo otteneva ciò, pronunciando parole che avevano il sapore della casualità oppure facendo dei gesti apparentemente spontanei. Spesso invece lo conseguiva, assumendo un'aria sornione o manifestando un atteggiamento che, pur non dandolo a vedere, aveva tutta l'intenzione di farsi notare ed emulare. Perciò non erano rare le volte che il saggio maestro centrava il suo obiettivo, attraverso una frase che pareva quasi sussurrata al vento. Al contrario, essa mirava a fecondare nei due discenti i primi sensi di una vita desiderosa di crescere, di svilupparsi, di espandersi, di realizzarsi e di comprendere ogni cosa esistente.

Per terminare, Babbomeo addestrava i due ragazzi anche nelle arti marziali e nel maneggio delle armi, attività che essi andavano apprendendo in modo eccellente, fino a conseguire rapidamente dei risultati insperati, facendo stupire il loro maestro. Dopo nove anni di insegnamento e di addestramento, alla fine l'uomo dovette ammettere che mai in passato aveva avuto allievi come Iveonte e Francide. Essi, sebbene fossero ancora lontani dal raggiungere la piena maturità, si dimostravano già abbastanza svegli nel saper badare a sé stessi, senza più temere pericoli di sorta. Per tale motivo, egli gli diede il permesso di avventurarsi nell'interno della foresta; ma prima aveva voluto farne degli abili ed astuti cacciatori, che mai nessuno avrebbe potuto illudersi di superare. Infatti, i due adolescenti avevano ricevuto delle eccellenti lezioni di tiro all'arco, per cui adesso erano in grado di centrare con l'arco pure gli oggetti posti a distanze inverosimili. Essi colpivano perfino quelli che erano in volo a grande velocità, senza mai fallire il loro bersaglio mobile. Per allenarli nel modo migliore, egli gli lanciava in aria con forza dei pezzi di legno per fargli fendere l'aria e per essere colpiti da loro.


Un giorno Iveonte e Francide erano ritornati dal pascolo più presto del solito. Babbomeo, che si trovava fuori della loro abitazione, vedendoli presentarsi a casa molto prima delle altre volte, subito pensò che fosse loro successo qualcosa. Quando poi i due ragazzi gli furono davanti, egli notò una certa stranezza nel loro atteggiamento. Essa non lo allarmò; però, volendo approfondire meglio la cosa e cercare di capirci di più, non esitò a rivolgere ad entrambi le seguenti domande:

«Per favore, ragazzi, volete spiegarmi perché oggi siete ritornati a casa così presto? Cosa vi ha costretti a prendere una decisione del genere? I vostri volti stralunati mi spingono a supporre che abbiate fatto un incontro poco piacevole o che abbiate scoperto qualcosa di straordinario. Orsù, mettetevi immediatamente a raccontarmi tutto ciò che vi è accaduto, se volete che io comprenda ogni cosa che questa mattina vi ha impressionati, oltre che scombussolarvi la mente!»

Allora, con frasi concise e chiare, Iveonte e Francide, alternandosi nel loro concitato racconto, incominciarono a riferirgli ciò che di insolito li aveva colpiti nella foresta. In verità, si era trattato di una scoperta che avevano fatto, la quale c'era stata, mentre essi si divertivano allegri e le loro pecore pascolavano mansuete. I due ragazzi stavano giocando a rimpiattino ai piedi di un esteso ridosso collinare, quando Iveonte, che era alla ricerca di un buon nascondiglio tra i numerosi cespugli del luogo, all'improvviso si era ritrovato davanti ad una specie di galleria. Essa, che era rimasta fino a quel momento completamente sottratta alla vista da alcune piante cespugliose, si era rivelata abbastanza profonda e percorribile soltanto a piedi. Dopo averla scoperta, Iveonte aveva voluto mostrarla all'amico Francide. Così, senza perdere tempo, si erano introdotti impavidamente nel buio e lungo tunnel, il quale lasciava intravedere in lontananza soltanto un punto luminoso. Esso, poiché era da riferirsi alla luce proveniente da un suo secondo sbocco, stava a significare che la galleria comunicava con l'esterno nell'altra sua estremità.

I due amici, una volta che si furono avventurati in quella specie di cunicolo, avevano dovuto percorrerlo per circa un miglio, prima di pervenire all'altra sua uscita. Quando poi l'avevano raggiunta, essi si erano ritrovati all'inizio di una vasta vallata, la quale si estendeva davanti a loro fertile e lussureggiante. Da quel luogo, inoltre, avevano notato che all'estremità opposta di essa, prendendo origine dalla medesima montagna, due nude vette di media altezza si stagliavano nel cielo azzurro, lasciando scorgervi nel mezzo uno stupendo castello. L'enorme fortezza di pietra, abbagliata com'era dai dorati raggi del sole, quella mattina si mostrava superbamente splendente, fino a rappresentare per loro l'attrattiva preminente dell'intera regione. Di cosa si trattava, dunque? In verità, nessuno dei due ragazzi era rimasto indifferente alla vista di quel castello, il quale era dotato di uno splendido maschio centrale, che a sua volta era munito di merli e di feritoie. L'imponente fortezza li aveva stupiti così incredibilmente, che tanto l'uno quanto l'altro, mentre si davano a narrare, non riuscivano a distogliere i loro pensieri da essa.

Babbomeo, da parte sua, dopo avere ascoltato il racconto dei due adolescenti, non si mostrò affatto stupefatto. Iveonte e Francide, al contrario, come indicavano i loro occhi lucidi, continuavano ancora a vivere il superbo spicco del castello. Forse l'uomo era già a conoscenza di ciò che avevano scoperto i due adolescenti? Naturalmente, sì, se egli si comportava in quella maniera, senza una reazione che esprimesse la sua incredulità. Essendo apparso pacifico che il loro Babbomeo ne era già al corrente, i due ragazzi furono spinti a chiedergli in quale occasione egli avesse fatto una simile esperienza. Alle loro insistenti richieste, l'uomo, non senza un grande rammarico, si diede a narrare ad Iveonte e a Francide tutto quanto un giorno gli era stato consentito di apprendere e di sperimentare di persona, in riferimento al castello da loro scoperto. Perciò non si era astenuto dal raccontare ad entrambi i fatti spiacevoli che era stato costretto a vivere, in un clima a dir poco orripilante. Essi lo avevano fatto penare tremendamente, come non gli era mai successo in vita sua, siccome lo avevano abbattuto fisicamente e psicologicamente.

Allora anche in quest'altra occasione, sarà nostra premura e nostro dovere unirci ai due ragazzi per apprendere insieme con loro i fatti che l'uomo stava per narrare su quel castello misterioso. Esso aveva una sua particolare storia, la quale, in un certo senso, verrà ad avere vari collegamenti con l'esistenza del nostro eroe.