35-LUCEBIO RAGGIRA IL MAGO GHIRDO

Nel frattempo dov'era finito Lucebio? Naturalmente, non a grattarsi la schiena con comodo contro la ruvida corteccia di un tronco d'albero. Egli, che non sapeva più dove sbattere la testa, di certo non avrebbe avuto né il tempo né la voglia di badare ad accontentare la sua regione dorsale, nel caso che davvero gli fosse risultata pruriginosa! Lo sventurato, poiché il mago Ghirdo aveva chiesto al re Cloronte il cuore del piccolo Iveonte, allo scopo di offrirlo in sacrificio al suo divino protettore Sartipan, non poteva ritornarsene alla reggia, senza portare con sé l'organo vitale del principino. Come ora possiamo renderci conto, era stata affidata a Lucebio anche quest'altra incombenza ingrata e crudele. Egli, però, aveva pensato di dispensarsene, poiché essa, se l'avesse portata a termine, senza meno lo avrebbe oberato enormemente in senso psichico e morale. Dunque, doveva liberarsene al più presto, se voleva evitare di procurare danni alla propria coscienza. La disubbidienza da lui presa in esame era derivata dal fatto che, con quel raccapricciante incarico, gli era stato chiesto di compiere uno sforzo d'animo non indifferente. Infatti, prima egli avrebbe dovuto colpire selvaggiamente il ragazzo; subito dopo avrebbe dovuto squarciargli il petto ed estrarne il cuore. Il medesimo compito, inoltre, gli imponeva il rigetto del suo senso morale, se intendeva vincere la sua avversione a quella empia azione.

Lucebio, invece, scaltro e fecondo di idee com'era, aveva pensato di porvi rimedio alla sua maniera. Anche perché egli era maldisposto contro il mago Ghirdo e non vedeva l'ora di dargli una bella lezione, giocandogli magari un proprio tiro mancino. Ma prima doveva concedersi qualche ora di sonno in più, se l'indomani voleva svegliarsi abbastanza riposato e con la mente lucida nell'accingersi ad assolvere il nuovo terribile compito. Il quale sarebbe dovuto risultare alternativo a quello che aveva preteso il protetto del dio Sartipan. In verità, com'era ipotizzabile che il sapiente e sensibile consigliere del re Cloronte avrebbe potuto dormire sonni tranquilli? Non era forse bersagliato dallo straziante rimorso di avere abbandonato il suo piccolo amico completamente solo nel cuore della foresta e nella tetraggine di quella notte fonda? Perciò possiamo immaginarci da quale convulsa agitazione egli era stato soggiogato e a quali incubi orribili era andato incontro! Alla fine l'una e gli altri non gli avevano concesso di fruire neppure di un paio d'ore di sonno.

Per l'intera nottata, esso era stato interrotto da un andirivieni di stati d'animo ansiosi ed assillanti, che lo avevano fatto preoccupare in modo ossessivo. Quello stato inquieto era provenuto a Lucebio da un rimorso di tipo etico, il quale, con doloroso rammarico, lo aveva portato a riflettere sulla propria infamia perpetrata ai danni di chi si fidava ciecamente della sua persona. Oltretutto, si era trattato di un infelice ragazzo che, in quella circostanza tremenda, aveva un disperato bisogno del suo aiuto! Anche se c'era stato costretto a quel suo comportamento vigliaccamente immorale, l'amico del re Cloronte lo stesso aveva considerato la sua recente violenza perpetrata nei confronti del principino l'esecrazione della propria coscienza. Perciò essa durante la notte, trovandosi di fronte a quel misfatto da lui compiuto, si era ribellata con tutte le forze e si era mostrata disperatamente inorridita. Oltre all'angoscia profonda, che seguitava a flagellargli il cuore, c'era stata in Lucebio l'ansia più che giustificata di spegnersi come essere vivente e pensante. Così non si sarebbe più sentito torturare dall'insopportabile peso morale, che gli era piombato addosso come un macigno insostenibile. Anche nei ritagli di sonno, il poveretto non aveva fatto altro che sognare in continuazione. Per fortuna, non tutti i suoi sogni avevano avuto un contenuto macabro, come ci sarà permesso di apprendere in un secondo momento.

Ricongiungendoci a Lucebio la mattina seguente, ebbene, una volta sveglio, egli si sentiva più acciaccato della sera precedente; mentre il suo fisico si presentava pieno di magagne. Dopo essersi già sottratto alla prima parte della sua missione, cioè quella che gli imponeva l'uccisione del principino, egli non poteva esimersi dalla seconda parte di essa. La quale prevedeva questa volta l'espianto del cuore dal petto di Iveonte. Infatti, al suo rientro alla reggia, avrebbe dovuto consegnarlo al mago. Per assolvere tale compito, però, egli era costretto a ricorrere al cuore di un animale, dopo averlo ammazzato. Perciò occorreva iniziare a meditare in gran fretta sul da farsi, considerato che una soluzione doveva essere obbligatoriamente trovata da lui! Così, dopo una ponderata riflessione, Lucebio pensò che, se avesse abbattuto un piccolo animale selvatico abitatore di quella foresta e avesse poi portato alla reggia il suo cuore, di sicuro quella sarebbe stata una trovata niente affatto male. Nessuno avrebbe dubitato della sua lealtà verso il re di Dorinda, affermando che esso non era il cuore del principino! Una siffatta pensata gli stava balenando nella mente, allorquando la testolina di un timido cerbiatto sbucò da un grosso cespuglio e si diede a guardarlo impaurito.

L'improvvisa apparizione dell'animale, rivelandosi quanto mai propizia ed opportuna in tale circostanza, spinse Lucebio a tradurre in atto ciò che la sua mente in quell'istante già stava ideando. Allora, volendo approfittarne, egli senza perdere tempo mise mano al suo arco. Dopo si sbrigò ad incoccarvi una saetta e a farla scattare contro l'innocua bestiola. Avvenuto lo scocco, ad esso seguì dapprima un fischio acuto, poi un sommesso lamento, infine un piccolo tonfo. Il quale gli fece intendere che il cerbiatto, essendo stato colpito ad una tempia dal micidiale dardo, era stramazzato sull'erba agonizzante. Da parte sua, Lucebio lo raggiunse in gran fretta e, sebbene ne provasse parecchio ribrezzo, lo squartò e gli estrasse dalla cassa toracica il cuore ancora caldo. Dopo lo immerse in un liquido giallognolo, il quale era contenuto in un vasetto a chiusura ermetica. Terminate tali operazioni, ad evitare di farlo cadere oppure di perderlo, l'ex pupillo del re Kodrun custodì con premura il recipiente di vetro dentro un cofanetto. Inoltre, depose quest'ultimo dentro la scarsella sistemata alla sella del suo cavallo. Eseguite alla svelta anche tali azioni, egli intraprese la via che lo avrebbe riportato a Dorinda.

Verso il tramonto di quello stesso giorno, rifacendo il medesimo percorso, Lucebio si ripresentò affaticato ed afflitto nella reggia della città, dove lo attendevano con impazienza sia il re Cloronte che il misterioso Ghirdo. Ma appena ebbe messo piede nella sala del trono ed ebbe modo di scorgerli da una certa distanza, Lucebio subito notò la profonda differenza che c'era fra le espressioni dei loro volti. Il re appariva angustiato, pallido, turbato, quasi fosse un moribondo; mentre il mago si mostrava burbero, rabbioso, pronto a mordere chicchessia, soprattutto insofferente di quell'attesa che si era prolungata oltre il previsto. Quando poi Lucebio si fu avvicinato al trono, Ghirdo di scatto si lanciò contro di lui e gli strappò di mano il cofanetto, siccome esso, a suo parere, avrebbe dovuto contenere il cuore del giustiziato Iveonte. Nel carpirglielo senza riguardo, egli gli esclamò: "Dammelo, perché è mio e so io cosa dovrò farne! Voleva annullare la mia esistenza, invece sono riuscito a distruggere la sua! Mai più egli risorgerà; mentre io vivrò in eterno!"

Dopo aver pronunciato quelle parole, le quali erano sembrate accennare ad una sua vittoria riportata su chissà quale suo acerrimo rivale, il mago fece uno sconcio inchino al sovrano di Dorinda e sgattaiolò fuori della sala. Giunto all'esterno di essa, si affrettò ad abbandonare la reggia e la città, essendo desideroso di trovarsi al più presto in aperta campagna, dove si eclissò nel buio circostante. Il re Cloronte e il suo amico non erano stati in grado di comprendere il significato oscuro delle enigmatiche parole, che erano uscite dalla bocca del mago Ghirdo. Lucebio, dal canto suo, mentre l'esperto di magia si allontanava dalla sala del trono, pronunciandole quasi a fior di labbra, aveva accompagnato il suo incedere spedito e claudicante con le seguenti parole: "Vai pure via di qui soddisfatto e felice, perfido vecchio della malora! Vedrai che anche tu, accogliendo l'evento come una sorpresa sgradita, assai presto ti ritroverai ad ingoiare il tuo rospo indigesto. Te lo garantisco!"


Rimasti soli, il re Cloronte e Lucebio si sentivano investire da un clima agghiacciante e funereo, come se si trovassero in mezzo a una tormenta lacerante. Perciò nessuno dei due aveva la voglia di esprimersi in una maniera qualsiasi, fosse essa anche misera e banale. Nel mite sovrano, quel senso di intirizzimento era attribuibile al suo ricorrente pensiero funesto, da cui non riusciva a staccarsi. Il quale lo spingeva reiteratamente a raffigurarsi la tragica morte toccata al suo primogenito, fino a ripercorrerne con l'immaginazione le varie fasi ripugnanti. Esse, come immaginava, si erano succedute con drammaticità atroce sul corpo dello sventurato figliolo. Perciò si sentiva schiantare il cuore e martoriare l'animo, nello scorgere la lama della spada del savio amico abbattersi sul collo di Iveonte e troncargli il capo, decapitandolo. Vedeva perfino la sua testa schizzare e rotolare per terra in un lago di sangue. Ma non si presentava meno spettrale la visione che veniva a provocare in Lucebio l'ondata di gelo, poiché essa si presentava ancora più truculenta. Al poveretto, che in quel momento si mostrava atterrito, pareva davvero di vedere dal vivo il principino, mentre veniva aggredito da una tigre feroce. La quale, dopo averlo trafitto e fulminato con i suoi artigli mortali, finiva poi per dilaniarlo e divorarselo con famelica ferocia. A causa di quella visione, egli avvertiva nell'intimo un'amarezza inesprimibile che, in quella orrenda circostanza, insinuandosi nella sua mente, ne insidiava la serenità dei pensieri e ne cancellava la pacatezza delle riflessioni.

Mentre quell'atmosfera macabra continuava ad investire entrambi gli amici, l'abbacchiato Cloronte volle rompere per primo il silenzio. Così incominciò a dire al suo saggio consigliere:

«La mia povera Elinnia aveva proprio ragione, caro Lucebio, quando mi disse che il nome di una persona assassinata non bisogna mai darlo ad un bimbino nato nel medesimo giorno, poiché esso attrae su di lui soltanto sciagure. Ecco ciò che ella ci tenne a farmi presente, quando decisi di dare al mio primogenito lo stesso nome di mio cugino Iveonte, siccome egli era rimasto vittima di un assassinio quasi contemporaneamente alla nascita di mio figlio. Lo sventurato era stato ucciso dal folle Tio, per una vendetta personale. In quella circostanza, quasi con un fare presuntuoso, le risposi che si trattava di una sciocca superstizione della sua gente. Invece solo oggi (ahimè, troppo tardi!) mi accorgo che la mia affabile moglie non aveva torto, in merito al suo timore. Da quando è nato, lo sventurato mio Iveonte è stato perseguitato di continuo dalla malasorte, la quale ha voluto far piovere su di lui infinite disgrazie. E ognuna di esse c'è stata unicamente per colpa della mia stolida presunzione di stare dalla parte della ragione e di ciò che è giusto!»

«Io non credo, mio re, a superstizioni simili, specialmente se fanno parte della cultura di popoli non del tutto civili. Per questo non do ad esse nessun peso. Quindi, ti esorto a pensarla come me su questo argomento, ossia senza fartene una colpa e senza ritenerti responsabile dell'evento sfavorevole, che oggi ha colpito il nostro piccolo Iveonte!»

Il sovrano, non badando alle parole dell'amico, seguitò a dirgli:

«Ti ricordi, mio buon Lucebio, quel giorno in cui stavamo a caccia nel bosco? Intanto che tutti gli altri cortigiani erano intenti a cacciare i cinghiali, soltanto noi due ci intrattenemmo a discorrere sui vari problemi attinenti alla nostra città. Naturalmente, a volte affioravano dalle nostre discussioni alcune divergenze di opinioni, senza però dare ad esse alcun peso. Mentre ci davamo a discutere, all'improvviso vedemmo precipitarsi nella nostra direzione due soldati a cavallo, i quali provenivano l'uno da Dorinda e l'altro dall'interno del bosco. Il primo mi annunciava che ero diventato padre di un bellissimo maschietto; il secondo invece mi recava la ferale notizia che mio cugino Iveonte era perito per mano di Tio. Nello stesso momento, dunque, mentre mio figlio aveva emesso il primo vagito della sua incipiente esistenza, mio cugino aveva lanciato il suo ultimo grido, che era quello di morte. Allora mi fu istintivo dare al mio primogenito il nome del mio collaterale assassinato. Ma glielo diedi per i seguenti due motivi: primo, egli era stato colpito da un così tragico destino; secondo, ero unito a lui da rapporti quasi fraterni. Ero convinto che, se avessi dato al mio primogenito il suo nome, in avvenire egli avrebbe sempre tenuto acceso in me il ricordo del mio scalognato parente. A quanto pare, mi sbagliavo di grosso, per cui adesso mi ritrovo senza neppure mio figlio vivo con il suo nome! Ciò è assolutamente ingiusto, poiché il nome di Iveonte è sparito in una tomba!»

«Ti capisco, mio sovrano! Non dubito che la tua decisione significò per te un gesto da considerarsi più che nobile. Comunque, stanne certo che essa non ha influito per niente sulla odierna sciagura del tuo primogenito, dal momento che era questo il suo destino. Per questo noi due lo accetteremo con grandissima rassegnazione!»

«Sapresti dirmi, Lucebio, che fine fece dopo l'assassino di mio cugino? Da quel giorno nessuno ha mai più sentito parlare di lui. Non c'è dubbio che la sua vendetta, macchinata e consumata ai danni del mio parente, fu concepita con un'assurda infamità! Se era vero che egli aveva influito parecchio sulla mia decisione di promulgare il giorno prima la legge che faceva chiudere tutte le scuole d'armi, Tio cosa credette di risolvere, uccidendolo e sottraendosi dopo alla mia giustizia? Spero che egli non abbia mai trovato pace in questi anni, dovunque si sia trasferito! Anzi, voglio augurarmi che le sue carni in seguito abbiano appagato l'appetito di qualche belva affamata, poiché così l'omicida avrebbe espiato la sua tremendissima colpa!»

Lucebio, dal canto suo, aveva tutt'altra reputazione dell'eccezionale Tio, siccome lo stimava moltissimo e lo riteneva un nobile uomo dotato di un animo colmo di ottimi principi morali. Perciò, in contrapposizione a quella manifestata dal suo amico sovrano, egli volle esprimergli la sua con franchezza e lealtà, dandosi a replicargli:

«Amico mio Cloronte, sono convinto che il valente Tio non scese mai così in basso, come affermi tu. Noi due avemmo modo di conoscerlo meglio di tutti gli altri. Il suo animo era generoso e leale, alieno da ogni atteggiamento meschino; mentre la sua condotta era distinta ed irreprensibile. Inoltre, egli era magnanimo, colto, dotato di uno spirito sensibilissimo ed altruista, cortese e gentile con tutti; ma soprattutto un uomo d'armi eccezionale, anzi, il migliore che ci potesse essere nell'intera Edelcadia. Non osò mai comportarsi smodatamente in nessuna circostanza; al contrario, tenne sempre una condotta dignitosa e fiera, morigerata e nobile, quella stessa che pretendeva anche dai suoi allievi. Insomma, Tio era un uomo dalle doti singolari e ricco di una interiorità esemplare. Affermo che non era sbagliato asseverare che egli impersonava l'autentico uomo d'onore, in cui si poteva riporre la fiducia più cieca. Io l'avevo già prescelto come aio straordinario dei tuoi futuri figli. Dunque, come puoi pensare che una personalità del genere si fosse potuta macchiare di un delitto barbaro ed efferato? Possibile che egli, giudizioso e premuroso com'era verso la sua famiglia, a un certo punto, non si sarebbe curato per niente dei suoi due magnifici figli e dell'intelligente sua moglie Luta? Non riuscirò mai a persuadermi che il mio amico scapatamente li avrebbe messi nelle difficoltà in cui sono oggi e seguiteranno a ritrovarsi domani! Ecco come la penso sul conto del nobilissimo Tio e non accetterò mai dei giudizi contrari su di lui!»

Allora il re di Dorinda non si astenne dall'obiettargli:

«Pur convenendo che le tue osservazioni siano giuste, mio caro Lucebio, come spieghi il fatto che Tio scappò via come un autentico criminale e non si fece più vedere nella nostra città? Mi spieghi perché non si presentò a me per discolparsi, sottomettendosi così alla mia giustizia? Secondo la mia opinione, egli era convinto di avere torto marcio, se non lo fece e preferì invece eclissarsi ai suoi e al mondo intero!»

Lucebio non gradì le insinuazioni fatte dal re Cloronte sul carissimo ed ineccepibile amico, per cui si sentì obbligato a difenderlo ancora una volta con molta tenacia:

«Invece non andarono così le cose, mio re! Il valoroso Tio a buon ragione temette che tu avresti ragionato proprio come stai facendo adesso. Sono sicuro che egli, se non avesse temuto ciò, immancabilmente sarebbe corso da te e ti avrebbe riferito che si era trattato di uno spiacevole incidente, descrivendotene perfino l'esatta dinamica. Ma le varie circostanze di quei giorni a lui sfavorevoli lo costrinsero a rinunciare a difendersi. Tio avrebbe assolto senz'altro il suo dovere, se il giorno prima non ci fosse stata la chiusura di tutte le scuole d'armi da parte tua, a cui egli sovrintendeva. Essa, come tu stesso hai ricordato, era stata propugnata in particolar modo dal defunto tuo cugino! Così, essendosi reso conto che tutti gli indizi erano contro di lui e che non facilmente si sarebbe potuto discolpare, ebbe paura di sottoporsi al tuo giudizio. Il quale, secondo lui, poteva risultare esclusivamente privo di ogni imparzialità. Infine, credi che egli, dandosi alla fuga, riuscì ad evitare l'espiazione delle sue colpe, ammesso che ne avesse avuta qualcuna? Io non lo credo. Lontano dalla sua famiglia e dagli amici, di sicuro lo sventurato avrà sofferto più di un cane abbandonato! A mio avviso, con la sua autopunizione, egli fu molto ingiusto verso sé stesso e verso la propria famiglia!»

«Lucebio, per me Tio resta sempre un assassino. Mai gli perdonerò l'uccisione di mio cugino. Inoltre, non avendo voluto sottomettersi al mio giudizio, gli augurerò sempre ogni male possibile!»

«Invece, mio sovrano, spero che egli viva in qualche parte remota e che la benedizione del divino Matarum gli stia disacerbando l'intera sofferenza, che si è voluta caricare sulle spalle di sua volontà. Sono convinto che Tio è stato sollecitato a fare ciò inconsciamente da uno strano destino, il quale potrà risultare incomprensibile sia a noi che a sé medesimo. A tale riguardo, ho la netta sensazione che nella sua scomparsa abbia agito la mano di qualche divinità, la quale avrà avuto i suoi reconditi fini, che non ci è permesso conoscere. Per questo, mio sovrano, faresti bene a ricrederti di quanto poco fa hai affermato su Tio e a ritirare gli anatemi e le imprecazioni che hai lanciato contro di lui. Un giorno potresti desiderare di non averlo mai fatto! Specialmente dopo il sogno che ho avuto modo di fare questa notte, me ne vado convincendo sempre di più! Interpretandolo secondo una mia logica visione, nell'operato di Tio scorgo l'indubbia mano del destino, il quale ne sta muovendo i fili con cognizione di causa.»

«Vuoi dirmi, Lucebio, cosa ha a che vedere Tio con il tuo sogno? Se credi che egli abbia attinenza con esso, ti prego di raccontarmelo. Così dopo ti darò il mio parere in merito!»

«In verità, Cloronte, il mio sogno riguarda non solo lui, ma anche tuo figlio Iveonte! Naturalmente, se te lo raccontassi, non so fino a che punto potresti comprenderlo, a causa di fatti a te ignoti. I recenti avvenimenti, i quali si sono susseguiti tra ieri e oggi, per un certo aspetto potrebbero non fartelo capire del tutto oppure potrebbero indurti a seguirlo con una mente offuscata e fuorviante.»

Possiamo sapere quale sogno Lucebio aveva fatto durante la precedente notte? E perché mai il re Cloronte non avrebbe potuto comprenderlo nella sua interezza? Un motivo ci sarà senz'altro, se ne era certo il saggio uomo. Perciò cerchiamo di rendercene conto almeno noi, se vogliamo fare una cosa giusta, magari anche per dovere di cronaca.

Durante la sua visione onirica, Lucebio si era ritrovato in un luogo sconosciuto. Dove, dopo solo pochi passi, si era imbattuto in un vecchio che si teneva fra le braccia un bambino e gli faceva un sacco di moine. Avendo poi riconosciuto in lui l'indovino di corte, il quale se ne stava lì sereno, non aveva esitato a rimproverarlo duramente, dicendogli:

«Bel modo di comportarti è stato il tuo, Virco! Proprio quando il nostro sovrano aveva un gran bisogno di te, sei sparito dalla circolazione, lasciandolo così nelle grinfie del mago Ghirdo. Ma quel bambino, che tieni in braccio, mi dici di chi è figlio? Non mi dire che adesso ti sei messo a fare il bambinaio, per aver cambiato professione! A ogni modo, se lo hai fatto, non te lo approvo neppure un poco!»

«Come è possibile, Lucebio, che tu non abbia riconosciuto l'amatissimo tuo Iveonte? È per lui che mi trovo da queste parti. Devi sapere che sono venuto ad affidarlo alla persona che, più di qualunque altra, saprà sviluppare in lui le insite virtù dell'eroe. Così essa lo avvierà per i futuri sentieri della gloria! Adesso mi hai inteso?»

Lucebio, dopo aver ravvisato nel bambino il primogenito di Cloronte, aveva desistito da ulteriori accuse e si era messo pure lui a vezzeggiare il principino. Ma più tardi, quando non era trascorsa neppure una mezzora, egli, con sua grande sorpresa, aveva visto avvicinarsi a loro due anche il fenomenale Tio, al quale Virco aveva subito consegnato il bambino, dicendogli: "Ti affido il piccolo Iveonte, valoroso e nobile Tio, a nome di chi sta più in alto di noi. Mi raccomando: permetti ai destini della storia di Dorinda e dell'Edelcadia di avere il loro corso e di procedere, secondo quanto è già stato statuito dall'inoppugnabile fato! A questo punto, puoi anche andare, poiché non ho altro da comunicarti."

Una volta che ebbe preso in consegna il fanciulletto, Tio si era allontanato taciturno, cioè nello stesso modo in cui era arrivato. Lucebio, da parte sua, avrebbe voluto chiamarlo, fargli alcune domande e chiedergli soprattutto delle spiegazioni sull'uccisione del cugino del re. Invece, prima che ciò potesse avvenire, egli, assai dispiaciuto, si era ritrovato improvvisamente sveglio di nuovo.

Riprendendo il discorso di prima, il re di Dorinda non diede alcun peso alle parole dell'amico Lucebio o forse neanche le intercettò, distratto come appariva in quel momento. Difatti si vedeva benissimo attraverso il suo volto che egli si stava immergendo in un nuovo ricordo, il quale riaffiorava drammaticamente dal passato. Allora i suoi occhi prima si diedero a luccicare, diventando umidi; poi non seppero trattenere le lacrime, le quali si diedero a riversarsi copiose giù per le sue gote. Infine, mentre singhiozzava e si asciugava le madide guance, iniziò a ridarsi ad un altro suo sfogo personale, dicendo:

«Povero il mio sfortunato Iveonte! La sorte gli si è sempre accanita contro. Ti ricordi, mio caro Lucebio, cosa accadde due anni fa al mio povero bambino? Anche allora si stava a caccia. Ce lo avevo condotto perché egli me lo aveva chiesto con insistenza. Anzi, fosti tu a convincermi ad esaudire il suo desiderio e volesti pure che salisse sulla groppa del tuo cavallo. Tu gli volevi un bene da morire e lui te lo ricambiava in egual misura. Ma nel bosco, mentre il mio piccolo Iveonte s'intratteneva a rincorrere le farfalle, un terribile falco lo aggredì alla spalla destra ed affondò i suoi artigli nelle sue tenere carni. A quella trafiggente presa, il mio bambino cominciò ad emettere forti grida di dolore, tentando di liberarsi da quell'uccellaccio, il quale gli stava lacerando parte del dorso con rabbia ferina. Tu allora subito corresti in suo soccorso e, dopo averlo afferrato con le ali, cercasti di strappargli il falco dalla spalla. Esso, però, teneva duro e non si lasciava staccare dalle carni sanguinanti del mio bambino. Anzi, egli provava dei dolori ancora più atroci, ai tuoi sforzi di liberarlo dalla rigida presa del volatile. Esso, siccome non approvava il tuo intervento, ti lanciava contro molti stridi minacciosi. Solo alla fine decidesti di strozzarlo con le tue mani. Allora il falco perse le forze e si lasciò cadere per terra esanime; però il mio Iveonte ne uscì ben conciato dalla sua aggressione. Infatti, ci vollero per lo meno due mesi, prima che le sue ferite si rimarginassero completamente!»

Dopo che Lucebio ebbe ascoltato il racconto del suo amato re, toccò a lui riferire sul conto del principino, avendo anch'egli da riportare una nuova vicenda, che lo aveva riguardato. Così si diede a raccontargli:

«Io invece, amico mio, rammento un altro episodio, il quale pure interessò il tuo primogenito. Si era per l'ennesima volta a caccia. Stavolta, però, tu avevi voluto che ti seguissero anche Elinnia e le sue ancelle, desiderando far respirare un po' d'aria più salubre al tuo unigenito, che allora aveva quattro mesi. In quella circostanza, io evitai di buttarmi sulle tracce di qualche cinghiale, come avevate fatto tu e gli altri uomini. Ero rimasto invece con le donne, poiché mi divertiva un sacco fare le carezze al tuo Iveonte. Ma non era ancora mezzodì, quando capitò dalle nostre parti una donna in groppa ad un bardotto, la quale aveva deciso di consumare la sua colazione nei nostri paraggi. Perciò, venuta giù dalla sua bestia, andò a sedersi all'ombra di un albero dalla chioma immensa. La forestiera si era appena seduta, quando dei vagiti di un infante affamato provennero dalla cesta di vimini, che era legata al basto del suo ibrido animale. Allora la tua Elinnia, essendosi incuriosita, si accostò a lei, chiedendole di farle vedere il suo bambino. In verità, la donna non fece alcuna obiezione al desiderio della regina. Perciò raggiunse subito la cesta, ne trasse fuori un bambino, che doveva avere la stessa età del tuo Iveonte, e lo consegnò alla tua consorte. La quale lo trovò bello quanto il suo e generosamente volle anche dargli il proprio latte, avendo avvertito il bisogno di sfamarlo.»

«Ma il piccolo della sconosciuta, Lucebio, era veramente bello quanto il mio primogenito? Oppure mia moglie lo disse soltanto per compiacere la madre, come si è solito fare, anche quando non è vero? Su, chiariscimi meglio questo particolare, per favore!»

«Invece lo era sul serio, mio re! Ma adesso ascolta che cosa avvenne dopo tra i due bambini! Di lì a poco, volendo vedere la loro reazione, il tuo Iveonte e Francide, come si chiamava il bimbo di quella donna, furono tenuti talmente vicini, che quasi i loro minuscoli nasi si sfioravano. Essi allora subito si afferrarono con le manine e si misero a sorridersi vicendevolmente. Invece, quando tentavamo di disgiungerli, si mettevano subito a piangere forte. Quell'episodio, oltre a farci meravigliare, divertiva moltissimo la regina e me; invece lasciava del tutto indifferente la misteriosa madre di Francide. A tale riguardo, ebbi la sensazione che alla donna, che era divenuta livida in volto, stranamente ripugnasse il sorriso del figlioletto. Infine, pochi attimi prima che voi ritornaste dalla caccia, la forestiera si riprese con modi bruschi la sua creaturina e la ripose nella cesta. Così facendo, ci lasciò in fretta, senza degnarci neanche del suo saluto. Come puoi rendertene conto anche tu, il suo atteggiamento fu incomprensibilmente scorretto!»

«Secondo me, Lucebio, quella donna non doveva essere la sua madre naturale. Magari ella aveva rapito il bimbo a qualche sventurata puerpera, lasciandola nella più inconsolabile disperazione, mentre si piangeva il rapimento del figlioletto neonato!»

«Infatti, re Cloronte, l'assurdo comportamento di quella donna fece sospettare anche a me che ella non fosse la vera madre del bambino, dal cui volto, diversamente dalla genitrice, traspariva una regale nobiltà. Forse non mi sbagliavo nel presentire che qualcosa di drammatico stava per succedere al piccolo Francide, come qualcosa di drammatico sarebbe accaduto sette anni dopo al tuo Iveonte. Per un sesto senso, a mio avviso, i due infanti, già in quel momento, si erano riconosciuti come compagni di sventura. Per questo motivo ci tenevano tantissimo a restare uniti e non volevano che noi li separassimo anche per un attimo!»

Esauriti i ricordi del passato, in Cloronte e in Lucebio ricomparve il tempo presente, il quale fece loro ricordare i rimanenti compiti della giornata, la quale si era appena spenta. Lo dimostrava pure il cielo, che aveva iniziato a riempirsi di dense tenebre, avvolgendo la terra in una caligine nera. Perfino la luna si era già presentata e si era messa a solcare con la sua apatica lentezza il firmamento colmo di stelle. Essa si era data a rischiarare con la sua scialba luce gli stinti tetti della deserta città, dove presto avrebbe iniziato a predominare un sonno profondo.