331°-GLI ALBORI DELLA CORRUTTELA GIOVANILE IN TARDUNUK

Non so da dove iniziare il mio racconto, giovani di assoluta probità, visto che sono tantissime le cose che ho da narrarvi. Ma incomincio col dirvi che il mio villaggio, il quale in passato risultava senza nome, è da circa un secolo che ha assunto il nome di Tardunuk. Probabilmente, fu il loro contatto con i borghi berieski ad influenzare i nostri antenati di quel tempo, spingendoli ad assegnare un nome anche al nostro villaggio. All’inaugurazione, il nostro capo di allora, che era Krouz, ritenne giusto festeggiare l’avvenimento con tre giorni di banchetti e di giochi. Alla solenne cerimonia furono invitate pure le massime autorità della Berieskania, le quali accettarono volentieri l'invito. Così il popolo tardunese, durante tali giorni di festa, poté divertirsi ed abbandonarsi, ogni volta per l’intera giornata, alle gozzoviglie più sentite e più sfrenate. A quell'epoca, in Tardunuk non esistevano neanche i sintomi del perverso fenomeno etnico che un giorno vi si sarebbe dilagato con tutto il suo marciume etico e religioso. Perciò i sacri principi morali si presentavano ancora integri e non contaminati dalla pestilenza del male e dei peggiori vizi. Invece essi, neppure un cinquantennio più tardi, dopo la morte del nostro risoluto capo, avrebbero iniziato a radicarsi negli adolescenti e nei giovani a carattere endemico. Quando infine il morbo del male divenne pandemico, allora nessuno più nel villaggio fu in grado di arginarlo oppure di controllarlo.

Krouz era un capo giusto, ma preferiva governare con il pugno di ferro, senza ammettere alcuna clemenza verso chi si macchiava di un qualunque crimine. Perciò, sotto il suo comando, la criminalità non aveva avuto modo di proliferare nel nostro tranquillo villaggio. Per le gravi colpe, era prevista la pena capitale, la quale diventava differente per ogni malavitoso, cioè a seconda dell’azione criminosa da lui commessa. Così il ladro di bestiame, cioè l’abigeo, come pure chi rubava grosse partite di derrate alimentari, cioè il razziatore, erano entrambi condannati al capestro. Invece il furto di piccoli animali domestici e quello di attrezzi campestri o di oggetti casalinghi venivano puniti entrambi con il taglio di una mano. Gli assassini comuni, invece, erano gettati in una caldaia di acqua bollente. Quanto all’uccisione di un parente stretto, come l’uxoricidio, il parricidio, il matricidio, il figlicidio, l’infanticidio, il fratricidio e il sororicidio, essa era punita con la più lenta delle morti. Il corpo del reo veniva prima spalmato di grasso e poi legato presso un nido di formiche rosse, affinché vi fosse divorato vivo dai voraci imenotteri. Costringendolo a morire in quel modo, lo faceva andare incontro ad una lenta tortura. Ma chi commetteva abusi e prepotenze a danno dei deboli e degli inermi veniva legato al suolo in posizione supina e lo si faceva calpestare e schiacciare da una mandria di cavalli. Anche verso l’empietà c’era tolleranza zero, per cui il rogo era la pena comminata per l’atto sacrilego, come poteva essere la bestemmia in luogo pubblico. In relazione allo stupro e all’adulterio, i quali ugualmente erano considerati condannabili, il primo era punito con la castrazione; mentre per il secondo era previsto l'impalamento. Infine un’altra pena capitale era la crocifissione, la quale veniva inflitta ai fomentatori di torbidi popolari e a tutti coloro che sobillavano la popolazione a ribellarsi alle inviolabili leggi dello stato. Insomma, con quelle pesanti pene ed altre punizioni corporali meno dure ma altrettanto severe, Krouz teneva sotto controllo la normale convivenza civile, la quale, grazie ad esse, non si vedeva mai turbata da nessun fatto delittuoso. Lo spauracchio della morte e di altri terribili castighi mutilatori del loro corpo reprimevano perfino nei delinquenti più incalliti l’impulso a trovarsi in errore e a commettere i più svariati delitti, fossero essi gravi oppure lievi. Per questo, procedendo le cose nel nostro villaggio sotto il terrore delle pene corporali per coloro che erano portati a delinquere, il popolo dei Tardun viveva nella più assoluta serenità. Difatti nessuno di loro poteva lamentarsi di qualche reato commesso a proprio danno da parte di terzi, dopo che questi erano ricorsi alla prepotenza, alla fraudolenza, all'intimidazione e all'omicidio.

Mezzo secolo fa, alla morte di Krouz, gli succedette al comando del villaggio il figlio Pluson. In verità, egli aveva idee assai differenti da quelle paterne. Per cui, per opera sua, ci fu in Tardunuk una drastica inversione di tendenza nel campo dei delitti e delle relative pene. Dichiarando di essere una persona civile, egli iniziò una radicale revisione delle vigenti punizioni relative ai diversi tipi di reati. Anzi, considerando la condanna a morte una pena barbara ed incivile, non esitò a relegarla in soffitta. Per lo stesso motivo, dalla sera alla mattina, anche le altre punizioni, essendo ritenute gravemente lesive della dignità umana, furono abolite senza un minimo di ponderazione. Inoltre, ci mancò poco che il nostro capo non si decidesse ad assegnare un premio a coloro che erano particolarmente inclini a comportamenti delinquenziali di ogni tipo. Magari li avrebbe insigniti perfino di una bella medaglia al merito, da conservarsi nella propria casa con orgoglio per l'avvenire, se non avesse temuto la reazione delle persone anziane per tale provocazione!

La medesima cerchia di amici del nostro capo, in nome della civiltà e per una questione di principio, stimava che la vita andasse difesa sempre e in ogni circostanza. Perciò nessuno poteva arrogarsi il diritto di sopprimerla in altri. Secondo tale loro mentalità, infliggere pene spietate contro gli autori di reati era una forma di barbarie indegna dell’essere umano. Per tale ragione, se i Tardun volevano essere stimati un popolo civile, andavano abrogate seduta stante tutte quelle leggi, le quali assurdamente prescrivevano simili castighi per i colpevoli di gravi delitti. In pari tempo, non mancavano considerazioni di contenuto contrario, da parte di coloro che propendevano per la giusta punizione da far subire a chi si macchiava di crimini o commetteva reati comuni. Comunque, la loro opposizione, siccome il fenomeno della criminalità non era ancora attecchito nel villaggio, si dimostrò blanda e poco energica. A loro parere, anche se era giusto considerare sacra la vita di una persona, per cui bisognava evitare di sopprimerla barbaramente; però non si poteva reputare ancora una persona, anziché una bestia, colui che ammazzava il proprio prossimo. Perciò, in quel caso, la condanna a morte non veniva emessa contro un uomo, bensì contro un animale della specie peggiore.

Nel ventennio che seguì, anno dopo anno, in Tardunuk la vita andò cambiando totalmente, però in senso peggiorativo. Infatti, la serenità di una volta, quella che era stata vissuta dal nostro popolo al tempo del capo Krouz, fu vista andarsene in fumo. Non c’era giorno, in cui non si sentiva parlare di assassini tramati e perpetrati nell’ombra; soprattutto di furti a danno di commercianti, di contadini e anche di privati cittadini. Inoltre, le liti, spesso cruente ed originate da futili motivi, crescevano in ogni via del villaggio a guisa di funghi. Andandosi avanti in quel modo, al termine del periodo di tempo da me preso in considerazione, in Tardunuk il clima, quello socialmente inteso, era diventato irrespirabile; mentre l’esistenza risultava oramai insopportabile. Per il quale motivo il nostro villaggio finì per diventare una bolgia infernale, dove l’illiceità prese il sopravvento sulla legalità; dove ognuno credeva di poter commettere qualunque atto illegale e restarne poi anche impunito. In definitiva, ci trovammo di fronte ad una vera giungla d’asfalto.

A tale spirale di violenza e di abusivismo, da considerarsi pressoché inaccettabile, una parte dei Tardun più ragionevoli, la quale era da me capeggiata, decise di insorgere e di reclamare il ripristino delle vecchie punizioni. Esse in precedenza erano giovate tantissimo al nostro popolo e lo avevano tenuto ancorato ad una sana vita civile e morale. A quel tempo, avevo trent’anni e mi sentivo nel rigoglio delle mie energie, per cui non mi mancava la forza di combattere contro una criminalità, la quale era in forte crescita. Invece, nonostante il pauroso incremento dei delitti e dell'illegalità, il nostro capo Pluson, senza battere ciglio, non si decideva a cambiare atteggiamento. Ad ogni modo, erano soprattutto i suoi consiglieri a dargli manforte, facendolo perseverare nei falsi ideali di democrazia e di equità sociale. Essi, affermandogli che lo facevano per il bene della giustizia, la quale per la verità era divenuta fatiscente, si mostravano più tenaci che mai nel propugnare i loro pseudovalori. Le stesse persone non si astenevano dall’asserire al loro capo che la loro opera zelante era esclusivamente a difesa della dignità umana. Quest'ultima, al contrario, mai come a quel tempo, veniva brutalizzata da ogni tipo di reato, da parte di una delinquenza che era paurosamente in forte crescita. Ciò era dovuto al semplice fatto che essa veniva patrocinata dalle istituzioni locali, che si mostravano accondiscendenti.

Nel corso del decennio successivo, non bastando l’attività delittuosa dilagante nel loro villaggio, nella gioventù tardunese cominciò ad esserci anche il radicamento di una coscienza significativamente aberrante. La quale si dichiarava propensa ad ogni genere di reati, poiché essi dovevano servire a scacciare da loro la noia e la monotonia. Nello stesso tempo, perciò, essa pretendeva che venisse garantita l’impunità a coloro che se ne rendevano responsabili. Allo scopo di coprirsi le spalle con una legge così innaturale, i giovani facevano continua pressione presso il loro capo in tal senso. Essi, che erano capitanati dallo stesso suo figlio Ceriet, in nome di un liberalismo sociale a tutto campo, pretendevano che Pluson istituzionalizzasse ogni forma di comportamento dell’uomo, indipendentemente dalla liceità o meno di ogni atto da esso derivante. Inoltre, nella stessa forma comportamentale, era compreso quella fortemente deviante. Da parte sua, il nostro capo, non essendo una persona del tutto sconsiderata e sprovveduta, alla fine tentò di opporsi alla loro folle pretesa. Comunque, non si sognò neppure di restaurare le vetuste leggi paterne, ossia quelle che riguardavano le punizioni previste per i trasgressori e per i prevaricatori, come chiedevamo noi oppositori.

Allora, in quella situazione divenuta oramai confusa, i giovani si resero conto di avere di fronte un capo senza carattere ed ondivago nelle sue decisioni. Allo stesso tempo, si convinsero che egli giammai avrebbe cercato di contestarli con determinazione e con rigore. Per questo, provocatoriamente, essi iniziarono a darsi a mancanze e a violazioni di ogni sorta soltanto per fargli dispetto. Così ogni giorno, con gradualità crescente, la gioventù incominciò a rendersi artefice di efferatezze di qualsiasi genere, rincarando sempre di più la dose, mese dopo mese. All’inizio, senza rivalità tra di loro, gli adolescenti si divertivano a giocare dei sadici tiri mancini alle persone vecchie oppure a quelle anziane inferme. Essi si andavano scegliendo quelle che erano rimaste sole e non avevano parenti, che sarebbero stati poi in grado di difenderle. I loro scherzi si rivelavano davvero inauditi! Ve ne cito qualcuno, per darvene una idea.

Un ragazzo, sebbene nel cielo splendesse un bel sole, dopo essersi presentato all'improvviso ad un passante che gli appariva abbastanza avanzato negli anni, si dava a domandargli:

«Lo sai, caro vecchietto, che tra poco pioverà sul serio? Oppure osi dubitarne, solo perché non sei d'accordo con la mia asserzione?»

Allora il poveretto, a buon diritto, data un'attenta occhiata al cielo azzurro e ritenuta impossibile una imminente pioggia, gli replicava:

«Come è possibile un fatto del genere, ragazzo, se il cielo è sereno, senza neppure l’ombra di una nuvola? Avrai perduto il lume della ragione, se affermi una cosa simile! Te lo garantisco!»

A quel punto, interveniva un suo compagno, il quale era già appostato alle spalle dell'uomo preso di mira. Egli, che reggeva pure un secchio pieno d’acqua, subito glielo versava sulla testa. Dopo quella inqualificabile azione dell'amico nascosto, il ragazzo, che gli aveva fatto le previsioni del tempo, molto soddisfatto gli affermava:

«Hai visto, vecchio scimunito, che avevo ragione io? Per non avermi creduto sulla parola e per avermi anche offeso ingiustamente, entro stasera dovrai procurarmi un coniglio, se non vuoi aver bruciata la capanna, che ti ospita! Ci siamo intesi?»

Non erano rari i casi in cui i delinquenti minorenni mantenevano la parola, passando dalle minacce ai fatti! Se poi ci scappava anche il morto, in seguito ad un loro tiro birbone, gli adolescenti responsabili non venivano neppure puniti. La mancata punizione non era dovuta alla loro minore età, ma alla colposità dell’atto, poiché stimavano la morte la conseguenza di un loro scherzo innocente, il quale non aveva mirato affatto ad uccidere la controparte presa di mira. Ad ogni modo, di scherzi similari a quello da me rammentato in Tardunuk se ne facevano a iosa, da parte dei traviati adolescenti. Costoro ricorrevano ad essi, al fine di soddisfare la loro voglia di uscire dal monotono trantran della loro noiosa vita quotidiana. Via via che gli adolescenti crescevano e diventavano giovani, lo scherzo, pur nel suo cinismo e nella sua malvagità, cominciò a non soddisfarli più. Per questo i balordi cercarono il loro appagamento in qualcos'altro di più positivo e divertente, anche se poi ciò sfociava sempre nel grave delitto. Difatti essi preferivano presentarsi incappucciati alla loro vittima prescelta e massacrarla di botte, spesso a suon di bastonate, lasciandola poi tramortita per strada. Anzi, non si mostravano neppure alieni dall’incendiare le capanne di persone indifese o debilitate, per non aver voluto cedere ad un loro ricatto o per non aver preso sul serio le loro intimidazioni. Ma la cosa più allarmante di quegli atti criminali era l’indifferenza unanime di quanti assistevano agli illeciti penali con impassibilità. I vari testimoni oculari si comportavano come se nulla stesse succedendo davanti ai loro occhi, rendendosi così colpevoli di grave complicità omertosa e anche infischiandosi di tale loro condotta. La quale era da condannarsi nel modo più assoluto.

In quel periodo di totale traviamento giovanile, nessuno si poneva il problema di come arginare l’odioso fenomeno della corruzione. Ormai esso stava trasformando il nostro villaggio in un ambiente malsano, dove non si respirava più la spensieratezza di un tempo! Quando si riusciva ad acciuffare un minore, il quale era stato autore di qualche delitto e colto in flagrante, pur venendo egli consegnato al capo perché lo giudicasse, non era mai emessa alcuna condanna nei suoi confronti. Perciò veniva anche a mancare quella che sarebbe dovuta essere la relativa punizione. Gli si faceva solo promettere solennemente che in avvenire non avrebbe mai più commesso il reato, di cui veniva accusato. Statene certi, bravi giovani, che il reo confesso manteneva sempre la parola; però egli si considerava libero di votarsi ad altri misfatti, i quali risultavano ancora più deplorevoli! Quindi, era inutile fare rinviare a giudizio un imputato, se poi alla fine dell’istruttoria, pur essendo i capi d’accusa a suo carico gravemente incriminatori, si giungeva sempre ad un non luogo a procedere e al proscioglimento dell’azione penale. Il modo di condurre all’acqua di rose e concludere quella fase del processo, che in concreto si rivelava un'autentica farsa, inoculava molta stizza in coloro che, come noi contestatori, invocavano una giustizia equa ed imparziale, sia nella forma che nella sua applicazione concreta. Purtroppo, da parte della maggioranza delle persone di una certa età, si era iniziato a chiudere un occhio. Anzi, si prediligeva l’assoluzione con formula piena di qualunque colpevole di reato, anche quando quest’ultimo si presentasse incontrovertibilmente di una certa gravità.

Quanto al motivo della loro propensione per la clemenza, essa era dovuta al fatto che sul banco degli imputati sedeva in continuazione la loro prole o i figli di essa. La qual cosa veniva a gettare il villaggio in un marasma politico, religioso e morale sempre più inarrestabile, per cui era assai difficile gestirlo. Di conseguenza, per il nostro villaggio non si intravedeva alcuna possibilità di scampo! Comunque, l’indulgenza non era da considerarsi l’unica colpevole di tanto sfascio delle nostre istituzioni, il quale stava attecchendo senza un freno e in modo pauroso nel nostro tessuto sociale. A complicare le cose, invece, c’erano il lassismo e la condiscendenza verso tale fenomeno cancrenoso, il quale era divenuto ormai insanabile. L’uno e l’altra avevano preso piede nella totalità delle persone. Così, da parte di tutti i Tardun, si lasciava commettere i vari tipi di reato senza intervenire, ma mostrandosi ogni volta acquiescenti verso chi li commetteva. Come se all’improvviso avessero essi abbracciato il fatalismo più radicale, il quale li spingeva ad improntare la loro condotta ad una rassegnazione senza fine. Perciò, essendo divenuta drammaticamente preoccupante la situazione del nostro villaggio, ogni sforzo del nostro gruppo minoritario a migliorarla si mostrò sempre più impotente e più inutile. Inoltre, esso risultava quasi una goccia insignificante in un’anfora, la quale per giunta si ritrovava ad essere piena di acqua putrida ed imbevibile! Ecco perché in Tardunuk venne a regnare il disfattismo più assoluto in ogni campo della vita civile e lavorativa.


Procedendo le cose in quella maniera odiosa, il grave stato di emergenza, che era venuto ad ingenerarsi presso il nostro popolo, mi spinse a convocare in segreto il gruppo da me guidato, quello che i nostri figli definivano la scheggia impazzita della popolazione tardunese. La riunione, per ovvie ragioni, ci fu a tre chilometri dal nostro villaggio, all'aperto e quando era notte fonda, sotto i biondi riflessi di una splendida luna piena. Coloro che erano presenti all’adunanza risultarono una cinquantina. In qualità di loro coordinatore, prima che il dibattito avesse inizio, decisi di intervenire con il mio seguente discorso di apertura:

"A tutti i convenuti do il mio rispettoso benvenuto! Non volendo sciupare il vostro tempo, passo subito a giustificare le ragioni che mi hanno spinto a radunarvi nel posto in cui siamo a quest’ora di notte. Come vi siete accorti, in quanto persone perbene, nel nostro villaggio la situazione è diventata insostenibile e, da un momento all’altro, essa potrebbe rischiare il collasso. I nostri figli si sono immessi in una spirale di violenza irrefrenabile, senza che da parte nostra si riesca più a trovare il modo di farli venirne fuori, salvando sia loro che la nostra gente.

Oramai tutti i valori primari dell’esistenza umana sono crollati nei nostri giovani; al contrario, essi li calpestano e se ne beffano con una spregiudicatezza che fa paura. Per tale ragione, bisogna prendere atto che tanto il rispetto per la vita umana quanto il senso religioso sono morti da tempo nella loro coscienza. Così pure la morale è stata fatta annegare dagli stessi in un lago, nel quale riescono ad allignare soltanto i vizi peggiori. A questo punto, occorre tentare il tutto per tutto, se vogliamo evitare che il nostro popolo, che già si trova sull’orlo del precipizio, vi finisca dentro definitivamente. Sono pur sempre i nostri figli coloro che dobbiamo salvare, traendoli fuori dalla perdizione, finché siamo in tempo! Allora, se non vogliamo perdere per sempre loro e il nostro villaggio, ci dobbiamo adoperare per ottenere la loro salvezza."

Dopo il mio sermone, all'inizio seguì il silenzio un profondo silenzio tra i convenuti, per cui ebbi modo di leggere sui loro volti soltanto sconforto ed imbarazzo; come pure li scorgevo disorientati ad esprimersi in qualche modo. In seguito, comunque, l’uno dopo l’altro, essi cominciarono a rompere ogni indugio e a darsi ad una disputa accesa sull’argomento che avevo introdotto. A proposito del quale, poco tempo prima, mi ero già preoccupato di mettere il dito sulla piaga. Così il primo ad intervenire nel dibattito fu il mio amico Eldos. Egli, mostrandosi poco interessato a quanto da me espresso, mi domandò:

«Mi dici, Mendus, quale tentativo vorresti che facessimo, se siamo poche decine di disperati contro l’intero nostro villaggio, il quale conta più di ventimila abitanti? Se devo esserti sincero, al posto tuo, non avrei avuto neppure l’ardire di pensare ad una cosa del genere, per come oggi si sono messe le cose tra la nostra avvilita popolazione!»

«Credi tu, Eldos,» gli risposi «che io mi stia ponendo il quesito con la speranza di riuscire nell’intento? Anch'io sono sfiduciato quanto te e quanto la maggior parte della popolazione tardunese, per cui non so dove sbattere la testa. Se mi impegno nel pensare oppure nel cercare di agire nella nostra opera assurda, lo faccio esclusivamente per distrarmi e per dimenticare! La mia pena è così immensa, che non potrà mai essere cancellata da qualche espediente rabberciato. Essa mi graffia l’animo, quando vedo i nostri figlioli ridotti a dei veri mostri umani, senza un briciolo di dignità e in preda alla ferocia più spietata! Ma come possiamo prendere atto di tutto questo con la massima indifferenza?»

«Anche noi, che presenziamo questa accolta, siamo nelle stesse tue condizioni, amico Mendus.» si scucì la bocca anche Gelnuk, un mio compagno d’infanzia «In Tardunuk, oramai ci ritroviamo ad avere a che fare con delle mostruosità incredibili, senza che ci sia possibile risolverci in qualche maniera oppure fare alcunché per arrestarle. Il fatto che mi costerna di più è che esse sono perpetrate dai nostri figli e nipoti, a dispetto della moderazione! Se poi cerchiamo di riprenderli, da veri saccenti, essi ci ridono perfino in faccia, come se noi rappresentassimo dei matusa oppure dei mentecatti!»

«Tutti e tre avete espresso dei pensieri nobili, i quali, indubbiamente, vi fanno onore.» interloquì pure Verpod «Ma non credo proprio che si possa fare qualcosa di più concreto nella nostra disavventura, oltre che lavorarci sopra con mere considerazioni astratte. Per questo, alla pari degli altri conterranei, non ci resta che rassegnarci alla nostra disgrazia, la quale ha colpito profondamente il tessuto sociale della nostra gente!»

«Se tutti noi, che siamo qui riuniti, protestassimo insieme davanti alla dimora del nostro capo Pluson,» io proposi alle persone presenti «non sarebbe una buona idea? Sovente le manifestazioni di piazza riescono ad ottenere qualche risultato nei loro propositi! Non lo credete anche voi che si possa ricavare qualcosa, da parte nostra? Si può sempre tentare, per sentirci almeno a posto con la nostra coscienza!»

«Io non sono d’accordo con la tua proposta, mio caro Mendus!» mi si oppose con fermezza mio cugino Fudem «Se facessimo come ci hai suggerito, tutti i giovani del villaggio ci prenderebbero a fischi e pernacchie. Vi assicuro che diverremmo i loro zimbelli. Perciò, standoci alle costole, non ci darebbero più pace fino al termine della nostra giornata. Saresti tu disposto ad accettarlo? Io, sinceramente, no!»

Ragionarono allo stesso modo di mio cugino altri trenta che presenziavano la riunione, siccome temevano anch'essi di fare la fine, che egli ci aveva prospettata. Così, siccome gli oppositori alla mia proposta risultarono la maggioranza, essa venne congelata e di fatto fu anche posto fine alla nostra conversazione notturna. La quale, con mio sconforto, terminò senza che tra di noi si fosse giunti ad alcuna intesa oppure ad una seria concertazione comune.

Terminato che fu il nostro incontro, me ne ritornai a casa mortificato e deluso. Mi mostravo così, non perché la mia proposta non aveva avuto la sperata adesione, da parte di quelli che la pensavano come me; ma per un'altra ragione. Siccome ero rimasto dispiaciuto per come era andato l'incontro, pure io mi ero reso conto che essa non era realizzabile, per i motivi già addotti dal mio parente Fudem. Inoltre, i miei pensieri si rattristavano di più perché, grazie anche a loro, soltanto in quella circostanza mi ero convinto di una dura realtà. Sebbene in passato non avessi voluto persuadermene, quella notte avevo preso coscienza che i miei conterranei, che un tempo erano stati laboriosi ed onesti, ora non avevano più un futuro davanti a loro. Avendo ormai perduto il decoro e la ragione in modo irrimediabile, essi molto presto avrebbero riconosciuto la propria disfatta, senza possibilità di un ripensamento da parte di nessuno. Il quale forse era il solo che avrebbe potuto mutare le cose nel nostro villaggio. A causa di ciò, pur essendomi coricato molto tardi, non riuscivo a chiudere occhio, come se in quella nottata il sonno si fosse dimenticato di me. Al contrario, mi facevano compagnia l’amarezza ed un esacerbante rammarico, che mi rendevano la notte ancora più bianca. Nel contempo, mi soggiogava una profonda mestizia, che mi faceva languire l’animo e mi torturava lo spirito, senza permettermi di addormentarmi serenamente, come avrei tanto desiderato.

Quando infine i miei occhi e la mia mente furono in grado di assopirsi, fuori l’alba era appena iniziata a spuntare; mentre il villaggio andava riprendendo dovunque l’inquietante vita di ogni giorno, quella che avevo cominciato a digerire male. Per fortuna, i miei familiari avevano l’abitudine di non destarmi al mattino, per cui mi lasciavano dormire per tutto il tempo che ne avevo voglia. Questo loro comportamento mattutino scaturiva dal fatto che essi sapevano che ero un emerito dormiglione e ci tenevo alle mie scorpacciate di sonno. Ma forse erano lieti di non svegliarmi, anche perché così almeno evitavano che intossicassi la loro giornata con le mie solite paternali. Al mio risveglio, il quale avvenne verso mezzogiorno, la realtà mi si presentò di nuovo davanti agli occhi cruda e raccapricciante. Come sempre, la rabbia mi prendeva fin sopra i capelli, per il fatto che non potevo proibire quell’andazzo ignominioso, che si era instaurato nel nostro villaggio a mo’ di zizzania. Al contrario, essa adesso era perfino capace di sostituirsi alle buone erbe utili all'uomo, dopo averle fatte perire un poco alla volta.

Nel frattempo, gli anni trascorrevano a rilento, fino ad affacciarsi all’attuale decennio. La gioventù, in quel periodo, già aveva perso totalmente il giudizio. Per la quale ragione, trovò normale darsi ogni giorno a dei fatti di sangue, che aggravarono ulteriormente la già pessima situazione del villaggio. Così, a poco più di quarant’anni dalla morte del nostro ex capo Krouz, tra la nostra gente lo stato di cose si andò deteriorando al massimo. Fin dal primo anno del quinto decennio, non conobbe più sosta la catena dei delitti che venivano commessi dai giovani scapestrati. Essa fu aperta da un assassinio illustre, cioè quello del nostro capo Pluson; ma non lasciò indenne anche la cerchia dei suoi amici. Essi, infatti, l'uno dopo l'altro, furono eliminati da mano ignota, per cui non si conobbero mai i veri esecutori materiali delle loro uccisioni. Le quali c’erano state ogni volta, mentre ciascuno se la dormiva nel proprio letto. Solo in seguito si venne a sapere che era stata la mano omicida del figlio Ceriet ad accoppare il capo del villaggio, poiché l’assassinio gli era stato commissionato dal comitato di base dei giovani anarchici.

Nonostante non si fosse rifiutato di eseguire il turpe incarico, in seguito ugualmente egli fu da loro scaricato e messo da parte. Come loro caporione, al posto suo, essi preferirono invece il facinoroso Obluz, poiché costui, secondo la loro stima a priori, dava più affidamento del figlio del loro ex capo fatto ammazzare. Inoltre, egli sarebbe stato certamente in grado di guidarli nel cammino della nuova libertà, che era quella da loro intrapresa a gonfie vele nel mondo dell’ingiustizia e della disonestà.

Miei cari Iveonte e Tionteo, siccome siete dei giovani giusti ed onesti, sono sicuro che a questo punto volete sapere chi era la nuova guida carismatica dei giovani Tardun e come mai egli meritò l’autorevole ruolo, ammesso che di autorevolezza si possa parlare nel nostro caso. Ebbene, sono qui principalmente per riferirvi su questo individuo spregiudicato e viscido, feroce ed implacabile, permaloso ed irascibile. Il quale faceva della propria esistenza un connubio di malvagità e di prepotenza, che egli riusciva ad amalgamare nell’anarchia più dissacratoria e disfattista.

Il suo nome era sinonimo di caos sociale, siccome in lui lievitavano tutti i vizi peggiori, in mezzo ai quali gli piaceva sguazzare con protervia e con perversione. Stando le cose come vi ho detto, non mi resta che ripercorrere i fatti salienti della sua vita ingloriosa. Mi riferisco a quelli che lo hanno interessato negativamente fino al tempo d'oggi.