33-IL RE CLORONTE DECRETA LA MORTE DI SUO FIGLIO IVEONTE

Dopo che ebbe ascoltato il sogno fatto dal re Cloronte nella precedente nottata, il mago Ghirdo subito si adoperò per spiegarglielo. Ma egli era intenzionato a dargli una interpretazione falsa e fuorviante, ossia quella che sarebbe giovata esclusivamente alla sua esistenza in pericolo. Perciò, prima di pronunciarsi su di esso, finse di concedersi qualche pausa di riflessione. Al termine della quale, si diede a parlare allo sconsolato monarca dorindano, usando le seguenti parole:

«Potente sovrano, è fuori discussione che i tre gioielli, che durante il sogno ti tenevi stretti in una mano, rappresentano i tuoi tre figli, i quali per te valgono più di qualunque ricchezza da te posseduta. Secondo la tua esperienza onirica, però, un giorno uno di loro sarà la causa della rovina della tua città e farà versare al tuo popolo fiumi di sangue. Nello stesso tempo, il tuo regno sarà occupato dai molti tuoi nemici, che oggi consideri tuoi fedeli alleati. Essi, dopo averti segregato in una cella insieme con la tua consorte, se lo spartiranno come lupi affamati. Comunque, non scoraggiarti, mio nobile re, perché c'è il modo di aggirare una simile tragedia, facendo evitare ai Dorindani di incorrere nei pericoli che ti ho riferito. Ti basterà immolare al dio Sartipan quel tuo rampollo, il quale nel sogno viene indicato come il responsabile della futura rovina tua e del tuo popolo. Solamente in questa maniera il dio della pace ti si mostrerà propizio e terrà lontana dal tuo regno ogni disastrosa calamità! Perciò, se accoglierai il mio consiglio, dopo potrai startene tranquillo.»

Le parole del vecchio mago arrecarono una piaga immensa nel cuore di Cloronte. Ad una simile notizia, egli si sentì quasi venir meno. L'idea di dover perdere un figlio, condannandolo a morte con un proprio decreto, lo atterrì talmente forte, da farlo reagire all'istante con segni esteriori assai preoccupanti. Il volto, che fra l'altro esprimeva una espressione pietosa di profondo cordoglio, gli si impallidì fino al punto da apparire cereo. Inoltre, mentre la fronte era cosparsa di freddo sudore, gli occhi si andavano immergendo nel più disperato tormento. Perfino il portamento del corpo perse la stabilità di prima, mentre le mani iniziarono ad avvertire un leggero tremore. Era ovvio che la disperazione del re di Dorinda poteva essere soltanto immensa e dolorosa, se il malessere che essa gli cagionava appariva palese a quanti lo scrutavano. E noi possiamo immaginarcela, senza neppure sforzarci minimamente!

Dunque, avendo accusato il tremendo colpo psicologico che gli era stato provocato dalle terribili rivelazioni del mago, il re Cloronte perse la sua calma abituale. Poco dopo, però, si riebbe per un istante dal suo enorme sbigottimento. Allora, approfittando del suo momentaneo recupero di forze, egli domandò al mago:

«Adesso, Ghirdo, vuoi rivelarmi chi dei miei tre diletti figli viene indicato dal fato come responsabile della mia rovina ventura e di quella del mio popolo, che dovrebbe seguire ad essa? Così saprò chi di loro dovrò designare vittima dell'olocausto, che tu mi hai imposto per scongiurare il nefasto destino. Esso, secondo la tua interpretazione, graverà su di me e sul mio popolo come un macigno insostenibile.»

«Iveonte sarà l'unico responsabile dei tuoi mali futuri!» ruggì con impeto il maligno mago «Soltanto lui rappresenterà nel futuro la indubbia causa della tua sciagura e di quella del tuo popolo. Perciò non aver paura, o re di Dorinda, di eseguire quanto ti viene richiesto dall'onnipotente Sartipan, senza mostrare né opposizione né rincrescimento. Ma se farai il tuo dovere, il regno che ti appartiene si salverà dall'ingordigia dei tuoi nemici e continuerà ad esistere in mezzo alla prosperità e alla serenità! Invece guai a te, se oserai opporti alle dure leggi del fato!»

Le sadiche parole di Ghirdo pugnalarono di nuovo senza pietà il già straziato cuore del re Cloronte. Esse lo fecero scagliare contro l'ingrata sorte, visto che essa intendeva portargli via il figlio più intelligente, più bello e più forte. Lo sventurato Iveonte, a quell'epoca, aveva appena sette anni ed era il maggiore dei suoi tre fratelli; gli altri due più piccoli erano Londio e Nucreto ed avevano rispettivamente sei e cinque anni.

A tale riguardo, il sapiente Lucebio si andava facendo varie domande. Perché bisognava sacrificare Iveonte e non Nucreto, che era il più piccolo? Durante il sogno, dalla mano del re non era forse caduto il diamante meno grande? Invece il mago Ghirdo mostrava di avercela proprio con il primogenito del sovrano di Dorinda, se preferiva la morte di costui e non quella del fratello minore. Infatti, stando allo svolgimento del sogno, sarebbe stato l'ultimogenito a fare scatenare l'infausta guerra in avvenire. Per la verità, essa era stata già presagita in un'altra circostanza del passato, anche se in quel momento non la ricordava bene. Quanto prima, però, l'avrebbe rammentata.

Represso quindi da un indicibile schianto interiore, Cloronte si trovò abbastanza in difficoltà a rispondere all'infame linguaggio del mago. In tale evenienza, egli lo detestava come nessun'altra persona al mondo e lo considerava il suo peggiore nemico. Al suo posto, però, fu il suo amico e consigliere Lucebio a farlo con alquanta risolutezza. Egli cercò di controbattere le deduzioni per niente convincenti del cinico mago. Così, dopo essersi rivolto al suo re Cloronte, gli si espresse con queste parole:

«Non dare retta, o mio sovrano, a questo mago ciarlatano, che ha parlato come un autentico impostore! Egli vorrebbe screditare il defunto Virco, il quale, come tutti sappiamo, era il più celebre degli indovini della nostra città. Le sue divinazioni sono state sempre considerate da noi come ispirate dall'onnipotente Matarum. Comunque, mio nobile re, ti paleso che quanto egli ha affermato poc'anzi non mi convince neppure un poco. Anzi, sono portato a credere che stia mentendo appositamente, anche se in questo istante non riesco ad immaginare quale sia il suo tornaconto nel darti una simile sfacciata menzogna!»

Allora l'afflosciato re Cloronte, distraendo per un attimo la sua mente dagli atroci pensieri che tendevano a tormentarlo senza mai smettere, si diede a squadrare il suo buon amico, il quale si trovava al suo fianco. Quando poi ebbe smesso di scrutarlo, cercò di rizzarsi sul suo seggio regale. Infine, con un flebile tono di voce, gli domandò:

«Di preciso, a quali divinazioni di Virco ti sei voluto riferire, Lucebio? Perché affermi che le affermazioni di Ghirdo non collimano neppure un poco con quelle del nostro estinto profeta? Vuoi spiegarmi, per favore, cosa te lo fa pensare? Così, dopo che me lo avrai detto, saprò anch'io come giudicare il responso del qui presente mago!»

«Sire, è la mia memoria che mi porta ad asserirlo e a crederlo, siccome essa ricorda esattamente quanto accadde sette anni fa! Si vede che non riesci a ricordarlo, a causa della tua infelice situazione attuale, la quale ti procura soltanto molta confusione. Tra poco, però, grazie al mio aiuto chiarificatore, finirai per rammentarlo anche tu.»

«Mio Lucebio, quale fatto accadde a quell'epoca, il quale si sarebbe dimostrato importante per il mio Iveonte, grazie alle rivelazioni del nostro Virco? Al momento, esso mi sfugge del tutto. Ma per come lo hai citato, mi induci a pensare che quanto si svolse a quel tempo abbia una certa attinenza con la vita del mio primogenito. Se sbaglio, correggimi!»

«Non sei affatto in errore, mio nobile re! A quell'epoca, il tuo piccolo Iveonte era nato da appena tre giorni, quando avesti a fare il sogno che adesso ti racconto. Durante la notte sognasti di trovarti all'improvviso in mezzo ad una lussureggiante campagna. Reggendo tra le braccia il tuo neonato figlioletto, tu ti aggiravi tra quei campi fertili, senza mai cessare di riempire di baci e di carezze la tua creaturina. Vagando così di qua e di là, all'improvviso venisti assalito da sette voraci serpenti. Cercasti allora di metterti in salvo con la fuga; però, mentre correvi a più non posso, non facesti caso ad un burrone e vi precipitasti dentro. Poco dopo ti raggiunsero nel fondo di esso anche i maledetti rettili, quelli che ti stavano inseguendo con ostinazione per addentarti e divorarti.»

«Ma dopo essi riuscirono a mordermi e ad uccidermi, amico mio, oppure ne uscii illeso, per qualche miracolo?»

«Certo che ti salvasti, sire! Intanto che ti dolevi delle lussazioni riportate a causa della caduta, essi, azzannandoli e riducendoli in brandelli, erano intenti a privarti degli abiti. Alla fine, dopo che ti ebbero denudato, essi iniziarono la loro danza della morte. Ma tu non eri stato ancora raggiunto da nessuno dei loro morsi velenosi, allorquando si verificò uno straordinario prodigio. A un tratto, scorgesti il tuo neonato, al quale il capitombolo non aveva provocato alcuna ferita, alzarsi in piedi, avvicinarsi ai serpenti, afferrarli uno per volta con le sue manine e strozzarli tutti. Quella prodigiosa visione in principio ti sbalordì; poco dopo ti colmò di gioia, facendoti svegliare di colpo nel cuore della notte.»

«Adesso anch'io ricordo perfettamente quel sogno di tanto tempo fa, mio buon Lucebio; ma resto ancora all'oscuro di ciò che il nostro indovino Virco mi vaticinò riguardo ad esso. Perciò, se mi fai la cortesia di riferirmi anche ciò che egli al mattino ebbe a presagirmi in merito al mio sogno, te ne sarò immensamente grato!»

«Nella mattinata, dopo essere stato interpellato da te, il nostro infallibile oniromante diede al tuo sogno l'interpretazione che ora ti riporto. Secondo lui, un giorno Dorinda sarebbe stata attaccata a tradimento e conquistata da sette delle otto città dell'Edelcadia. Perciò tu saresti stato spogliato di tutti gli averi dai loro sovrani traditori, i quali ti avrebbero fatto perfino loro prigioniero. Ma prima che la prigionia ti avesse fiaccato il corpo e lo spirito, indirettamente sarebbe stato il tuo primogenito a capovolgere la situazione. Comunque, riguardo alla tua scarcerazione, non si mostrò abbastanza esplicito. Egli fu chiaro soltanto nell'affermare che il tuo eroico Iveonte avrebbe inferto alle città traditrici la giusta punizione ed avrebbe riscattato la libertà del tuo popolo. Dunque, chi mai oserà porre in dubbio la parola dell'indovino, le cui preveggenze prima della sua morte si sono sempre rivelate veritiere? Volendo poi attenerci alla lettera al tuo sogno, stando dietro alla logica, dovremmo considerare tuo figlio Nucreto e non Iveonte il responsabile della futura guerra, che viene in esso vaticinata. Non è stato forse il diamante più piccolo a caderti di mano? Perfino un bambino non avrebbe difficoltà a trarne le debite deduzioni! Invece il mago Ghirdo, non si sa per quale ragione, vuole che si interpreti alla rovescia il tuo sogno.»

Le osservazioni di Lucebio fecero rasserenare il volto di Cloronte. Il poveretto si sentì un po' risollevato dai ricordi del passato, i quali gli accesero la speranza di poter attendersi dal futuro ancora qualche consolazione. Gli si sciolse perfino la favella, quella che prima si era vista bloccare dalle parole astiose del mago. Così volle all'istante adoperarla per approvare l'amico e bacchettare l'uomo di magia, il quale, come sembrava, stava barando nel dare la propria versione al sogno che egli aveva fatto. Perciò, rivolgendosi al perfido mago con molta grinta, si diede a rinfacciargli duramente:

«Il mio amico Lucebio ha proprio ragione! Egli sa scavare nel posto giusto e rinvenirvi cose utili, quando esse ci occorrono! Sette anni fa, misterioso mago, Virco davvero mi predisse il contrario di quanto mi hai tu asserito adesso. Come posso credere più a te, che per me rappresenti uno sconosciuto, che non a colui che per decenni si è sempre dimostrato presso questa corte un infallibile oniromante? Inoltre, è lampante che il mio sogno non indicherebbe Iveonte come il colpevole della nostra futura guerra, bensì il mio terzogenito, che è Nucreto. Tutti gli astanti possono prenderne atto, senza farsi assalire da alcun dubbio!»

Mentre il loro re ribatteva il vecchio mago, infatti, manifesti cenni di assenso erano provenuti da tutte le persone che si trovavano nella sala del trono. Ghirdo allora non ci mise molto ad accorgersi del mutato atteggiamento del pubblico presente, il quale era lo stesso che egli inizialmente era riuscito a conquistare e ad attirare dalla sua parte. Perciò si diede ad escogitare qualche espediente clamoroso, che potesse fare una facile e rapida presa sugli astanti, fino a fargli recuperare così il credito perduto presso ciascuno di loro. A ogni modo, dentro di sé avvertiva che non gli sarebbe stato facile attuare qualsiasi artificio, fino a quando Lucebio lo avesse tenuto sotto il tiro dei suoi vigili occhi. D'altra parte, si rendeva conto che doveva tentare ad ogni costo qualcosa, per motivi che erano noti soltanto a lui. Quando infine ebbe trovato il marchingegno a cui ricorrere per riguadagnare la fiducia e il credito che aveva perso, il mago Ghirdo si ridiede a parlare al re Cloronte, dicendogli:

«Grande sovrano, se il tuo sogno si presenta ingannevole, che colpa ne ho io? Esso, a quanto pare, vuol fare apparire una cosa per un'altra; però non è riuscito ad ingannare me, che ho come protettore il divino Sartipan. Di conseguenza, evitando di lasciarmi gabbare da esso, ho scoperto facilmente l'inghippo che si cela nel sogno. Sì, mi sono reso conto senza errori che sarà proprio Iveonte a far scatenare una guerra fra Dorinda e sette delle otto città edelcadiche. A conferma di quanto ti avevo asserito in precedenza, sono pronto ad esibirti una prova dimostrativa incontestabile, quella che il tuo Virco giammai avrebbe potuto fornirti. Dunque, ordina alla tua servitù che portino qui davanti a me un caldano con dentro della brace ardente e due indumenti appartenenti l'uno al tuo primogenito Iveonte e l'altro al tuo ultimogenito Nucreto. Così convincerò te e gli altri astanti che i miei poteri sono straordinari e che quanto ho affermato sul tuo sogno è fuori discussione!»

Quando infine ogni cosa richiesta dal mago si trovò nella sala del trono, tutti tacquero, poiché era venuta a nascere in ognuno di loro una ansia incredibile di assistere presto a qualche mirabolante prodigio di Ghirdo. Nel frattempo l'imbroglione mago, prima di mettere mano alle sue truccate pratiche di magia, aveva assunto un simulato atteggiamento di contemplazione ascetica. Ma in quel luogo c'era Lucebio a squadrarlo da capo a piedi e a sorvegliarlo, mostrandosi massimamente attento a scrutare ogni sua subdola manovra. Per questo egli sarebbe stato pronto ad inchiodarlo, nell'eventualità che il mago fosse ricorso a qualche trucco ingannatore o furberia, al fine di imbrogliare quanti erano presenti nella sala del trono. In quella maniera, egli si sarebbe conquistato la loro fiducia ed avrebbe riscosso anche i loro totali consensi.

Dopo essere rimasto immobile per poco tempo, l'astuto esperto di magia, tenendo le braccia e le mani allungate in avanti, cominciò a girare lentamente intorno al braciere. Mentre compiva i suoi giri, egli andava mormorando certe frasi arcane ed incomprensibili. Lucebio, da parte sua, ritenendole sconnesse ed inventate di sana pianta lì per lì, non attribuiva ad esse nessun significato. Ugualmente, però, seguitava a tenerlo sotto il suo rigido controllo. Quando poi ebbe compiuto il suo decimo giro, Ghirdo levò entrambe le braccia al cielo, come se volesse rivolgere una preghiera a qualche divinità sconosciuta. Difatti, fendendo l'aria con ripetuti e convulsi movimenti delle braccia, egli incominciò ad invocarla: "O Luruz, dio dei sogni, amico del mio divino protettore Sartipan, con un tuo inequivocabile segno convinci quanti si trovano in questa sala che la mia interpretazione data al sogno del re Cloronte è quella giusta. Se farai ciò che ti ho appena chiesto umilmente, ti dimostrerò la mia immensa gratitudine!"

Terminata la sua invocazione al dio dei sogni, l'astuto mago prese l'indumento di Nucreto e lo tenne sollevato sopra il braciere. Indi, intanto che fingeva di pronunciare una formula magica, lo lasciò cadere sulla brace. Allora i tizzoni ardenti immediatamente lo avvolsero in un miscuglio di livide fiamme e di fumi nerastri, divorandoselo in un battibaleno, senza destare meraviglia in nessuno. Qualche attimo dopo, toccò anche alla casacca di Iveonte subire la medesima sorte dell'abito del fratello. Perciò fu buttata anch'essa sopra i rossi carboni, che non smettevano di bruciare. Questa volta, mentre essa prendeva fuoco, fu visto provenire dalla sua combustione un fumo, che adesso era di colore cinabro, anziché nero e bluastro. Ma lo strano fenomeno era dovuto al fatto che il mago furtivamente, nell'atto di gettarvi l'indumento, aveva lasciato cadere nel caldano anche della polverina rossa. Essa aveva avuto come obiettivo quello di tingere il fumo del colore del sangue. Alla vista di quelle fumose volute color carminio, le quali si sprigionavano impressionanti dal rovente braciere, tutti i presenti, non essendosi accorti del trucco operato dal mago Ghirdo, mostrarono un grandissimo stupore e sgranarono tanto di occhi. Subito dopo, ci fu tra di loro anche un lungo brusio, il quale si andò mutando a mano a mano in un'accesa e concitata animazione di opinioni. Adesso tutte le impressioni dei presenti si mostravano concordi nel giudicare verace la spiegazione che il mago aveva dato al sogno del loro sconsolato sovrano.

Come mai Lucebio, con la sua saggezza e con il suo acume, c'era cascato pure lui come un grullo e non si era accorto dell'imbroglio architettato dal mago? A dire il vero, egli si era dovuto assentare per breve tempo, proprio mentre il mago buttava sul fuoco la piccola casacca del primogenito del re Cloronte. Allora l'impostore non si era lasciato sfuggire l'occasione propizia ed aveva approfittato della sua momentanea assenza per giocare con rischio minore la sua carta vincente. Così si era affrettato a portare a termine la sua furbesca trovata, senza che nessuno se ne accorgesse minimamente. Adesso, però, cerchiamo di conoscerne i fatti, che prima non abbiamo potuto seguire. Ebbene, proprio un attimo prima che il mago iniziasse a giocare la totalità dei sedicenti maghi e sapienti, compreso il sovrano, un'ancella della regina aveva fatto cenno a Lucebio di raggiungerla al più presto nell'armeria. Quando poi il vigile uomo si era ritrovato al suo cospetto, ella si era affrettata a fargli presente:

«Saggio Lucebio, la regina Elinnia mi ha mandata a dirti che è molto preoccupata, a causa del sogno fatto dal re suo marito. Perciò desidera essere messa al corrente se si è ancora presa qualche decisione, in merito a tale sogno. Allora cosa devo riferirle, quando tra poco me ne ritornerò presso di lei? Tu mi dici cosa devo dirle ed io ti ubbidirò.»

Siccome in quel momento non era ancora in possesso di notizie certe, circa la vicenda che si stava svolgendo nella sala del trono, provvisoriamente Lucebio si era trovato in difficoltà a darle una risposta precisa. Poi, volendo ritornare in sala prima possibile per continuare a tenere sotto controllo il furbo mago, pur di non perdere altro tempo, aveva risposto alla sua interlocutrice in questo modo:

«Lensia, ritorna dalla regina Elinnia e falle presente che per il momento non si sa niente di certo; come pure non si è ancora deciso alcunché inerente al sogno. Per questo non è il caso di allarmarsi per qualcosa, che non si conosce ancora. A ogni buon conto, quando tutto sarà chiarito, avrò premura di farle conoscere personalmente le decisioni che sono state prese in questa sala del trono. Su, adesso corri a tranquillizzarla, poiché ho fretta di raggiungere gli altri!»

Era stato proprio in quell'attimo che un gran vocio aveva richiamato Lucebio nella sala del trono, dove era giunto in tempo per assistere al colore rossastro del fumo. Ma il suo tardivo ritorno in sala non gli aveva permesso di sorprendere in flagranza l'astuto mago, mentre accalappiava tutti i presenti e li gabbava con il suo trucco ingegnoso. Perciò adesso Ghirdo, essendosi accertato che la maggioranza delle persone era passata dalla sua parte, per cui avrebbe sposato la sua tesi, impudentemente stava assalendo il re Cloronte con un linguaggio altezzoso e assai tagliente. Infatti, smettendo di mostrargli il rispetto che gli si doveva, gli stava affermando:

«Dunque, o re di Dorinda, osi più dubitare delle mie parole, dopo averti fornito la prova schiacciante che Iveonte è davvero il tuo irresponsabile figlio, il quale un giorno apporterà a te e al tuo popolo innumerevoli disgrazie? Neanche se te lo sentissi asserire con le mie orecchie, ci crederei, poiché soltanto ad un folle verrebbe in mente di negare l'evidenza dei fatti! Il fumo, tingendosi del colore del sangue, ha dissipato in noi ogni dubbio e ci ha palesato inequivocabilmente che, dei tuoi figli, Iveonte è il predestinato a far versare un giorno dal tuo popolo fiumi di sangue, il quale si spargerà copioso sul suolo dorindano. Quindi, che cosa si aspetta ad eliminarlo e ad allontanare dalla nostra città ogni sventura? Da parte mia, ti esorto a rendere sereno e pacifico il futuro del tuo popolo, condannando a morte il ragazzo che un giorno attenterà alla sua pace e alla sua serenità, se prima non verrà da noi fermato e soppresso con determinazione!»

Gli incitamenti del mago Ghirdo a mandare a morte il piccolo principe ottennero all'istante ampia ripercussione tra gli astanti. Per il quale motivo, non tardò a levarsi dalla medesima folla il seguente coro di grida forsennate: "Che il tuo primogenito Iveonte muoia al più presto, re Cloronte! Non vogliamo che, a causa sua, un giorno i nostri figli verranno coinvolti in una guerra sanguinosa! Seguiamo i consigli del mago Ghirdo, il quale ha parlato con la bocca della verità. Non cediamo alla pietà, poiché essa, prima o poi, verrebbe a costarci molto caramente! Sia benedetto il divino Matarum, per averci inviato il qui presente mago Ghirdo, che dobbiamo considerare il nostro salvatore! Nostro amato sovrano, cerca di essere forte e di non perderti di coraggio, in un momento così importante per tutti noi. Quindi, decreta senza alcun indugio la morte del piccolo Iveonte, se vuoi evitare di provocare la rovina del tuo popolo e quella della nostra bella Dorinda! Non c'è un'altra soluzione, nostro sovrano, per salvare la nostra città!"

Un'ancella, che si trovava a passare nelle vicinanze, avendo udito quelle grida, corse subito a riferire alla regina che si voleva mandare a morte il piccolo Iveonte, poiché dal sogno era emersa tale necessità. Quando la giovane donna le comunicò la notizia, la regina Elinnia si trovava nel patio e reggeva la gabbia dei piccioni ricevuti dal padre Nurdok durante il suo matrimonio. Ella era intenta a cercare un angolo ombrato per quella coppia di bestiole, che sfortunatamente si era rivelata sterile, per cui era stato negato ad essa di avere una propria discendenza. La brutta notizia le procurò un dolore così atroce, da farla svenire subito e cadere per terra. E poiché in quel momento ella lambiva la piscina del patio, la gabbia con i due piccioni vi finì dentro, facendo morire annegati i poveri volatili che vi erano rinchiusi. Ma nessun cortigiano aveva fatto caso alla disgrazia toccata ai due pennuti, essendo tutti intenti a rianimare la regina. Per cui non ci si preoccupò a trarli in salvo dall'acqua. Un domani, dunque, se la figlia avesse avuto bisogno dell'aiuto paterno, non avrebbe potuto servirsi di loro per avvertirlo e farlo intervenire.

Quanto a Cloronte, siccome le dimostrazioni esibite dal mago avevano convinto anche lui, alla fine si decise a deliberare la morte del suo primogenito. Comunque, egli lo aveva fatto per due motivi principali: primo, era stato incalzato da tante ostinate grida, le quali puntavano tutte l'indice contro il suo primogenito; secondo, aveva voluto evitare di addossarsi l'intera responsabilità delle future disgrazie, nel caso che esse nel futuro fossero piovute davvero sul suo popolo innocente. Allora, dopo che il loro sovrano ebbe sancito la morte del principino, si acquietarono all'istante gli animi dei numerosi scellerati. Essi, che erano stati invitati a corte per aprire bocca sul sogno fatto dal loro re, invece l'avevano spalancata unicamente per scagliarsi contro un inerme fanciullo. Il quale giammai sarebbe risultato il responsabile delle future sventure, che in seguito sarebbero toccate sia alla loro città che alle loro famiglie.