326°-SUL PIANETA OBLUNGUS LE ORIGINI DELLA DEIVORA

Nell’intraprendere il viaggio verso la galassia di Trespan, Kronel, il dio dell'eroismo ed Iveonte speravano che esso non si presentasse molto burrascoso. Inoltre, si auguravano che la traversata cosmica appena iniziata si limitasse ad offrire a loro tre soltanto quegli spettacoli inimitabili che Kosmos era solito proporre ai divini viaggiatori delle sterminate regioni galattiche. Comunque, fino alla suddetta galassia, il loro viaggio sarebbe avvenuto esclusivamente nello spazio. Invece, dopo aver raggiunto la contrada cosmica dove i due universi paralleli facevano avvenire la loro periodica fessurazione e diventavano così intercomunicanti tra loro, ci sarebbe stata la compenetrazione a tre. Infatti, in quel modo soltanto essi avrebbero potuto affrontare insieme il viaggio temporale che avevano stabilito. Esso avrebbe permesso a ciascuno di loro di trovarsi in presenza del fenomeno intercosmico e di oltrepassarlo senza difficoltà, pervenendo alla fine in Parakosm. Il quale era l'arcano universo da considerarsi, come si era appurato, la copia perfetta di Kosmos. Ma se per le due divinità lanciarsi nello spazio profondo rientrava nell’ordinarietà, per il nostro eroe umano un evento di quel genere si dimostrava qualcosa di eccezionale. Egli non era mai andato incontro ad un viaggio spaziale di quelle proporzioni, dal momento che esso non poteva paragonarsi con le esercitazioni, alle quali lo aveva fatto applicare il dio dell’eroismo poco tempo prima. Come previsto, all’inizio il disagio venne ad esserci senz’altro in Iveonte, poiché l’immensità di Kosmos lo aveva molto disorientato, fino a renderlo insicuro e a fargli provare delle sensazioni di profonda ripulsa ad andare avanti. Ad ogni modo, per lui risultò già un grande vantaggio il fatto che stavano viaggiando in sua compagnia anche l'eroe divino e la diva sua protettrice. La loro presenza lo spronava a non arrendersi e a superare quella fase iniziale di momentaneo smarrimento e di incipiente sfiducia in sé stesso.

Successivamente, via via che il tempo trascorreva, le distanze venivano divorate dalla loro sfrecciante avanzata attraverso lo spazio, fino a farle accorciare a dismisura. Allora, a furia di volare, per l’eroe umano le cose si andarono mettendo per il meglio. Difatti egli finì per raggiungere la dimestichezza con il volo spaziale, il quale adesso gli stava facendo superare sconfinate regioni cosmiche. Addirittura egli si sentì affascinare dalla sua attuale esperienza, siccome essa oramai cominciava a fargli vivere delle sensazioni elettrizzanti, che non lo rendevano mai pago della sua nuova avventura. Adesso gli sembrava di essere divenuto il dominatore di Kosmos, visto che lo attraversava senza più alcuna preoccupazione e con la sola brama di indagarlo e di conquistarlo! Tale nuovo atteggiamento assunto da Iveonte verso lo spazio fu notato anche dal dio Iveon e dalla diva Kronel, i quali se ne compiacquero. Essi reputavano che il cambiamento avvenuto in lui avrebbe avuto effetti positivi anche sulla loro impresa, la cui riuscita con molte probabilità sarebbe dipesa interamente dalla sua persona. Per la quale ragione, si poteva asserire che il lungo viaggio in quel momento procedeva sotto i migliori auspici, per il fatto che una forte dose di ottimismo e di fiduciosa attesa era venuta a farsi strada in ciascuno di loro, specialmente nella componente divina. A dire il vero, intanto che avanzavano verso la galassia di Trespan, tra le due divinità e l'eroe umano non erano assenti scambi di idee e di pareri sull'imminente futuro che li attendeva. Ma per poter conversare a loro agio, essi erano obbligati a volare a distanza ravvicinata, per lo più affiancati. Soltanto in quel modo, le loro parole evitavano le interferenze dovute alla velocità e non si disperdevano nel vuoto, raggiungendo nitidamente i rispettivi destinatari.

I pianeti, che il divino Iveon, la diva Kronel ed Iveonte avevano scelto come loro tappe intermedie per riposare, furono gli stessi sui quali il dio dell'eroismo già aveva sostato in precedenza, prima di giungere alla forzata sua meta finale. Questa, infatti, per le ragioni a noi note, dovette essere da lui fissata nei pressi del Parakosm. In quel luogo egli era stato costretto a rinunciare definitivamente al suo millenario inseguimento della Monotriad, a cui aveva dovuto porre termine per forza di cose, senza poter proseguire oltre. Così, soltanto quando si furono lasciati alle spalle i menzionati pianeti, i nostri tre viaggiatori astrali alla fine pervennero al loro punto di riferimento, il quale era il luogo dove periodicamente si aveva la gigantesca crepa tra i due universi paralleli. Esso veniva individuato al centro di quattro stelle che risultavano collocate ai vertici di un rombo immaginario, precisamente nel punto di intersezione delle sue diagonali. Tali corpi stellari, i quali risultavano tutti e quattro privi di pianeti orbitanti intorno a loro, erano i seguenti: Lutsar, la stella che era situata in alto; Pelvus, la stella che veniva avvistata in basso; Baldor, la stella che era visibile sulla destra; Gekap, la stella che si scorgeva sulla sinistra. Quindi, gli astri citati erano di orientamento ai viaggiatori cosmici che intendevano raggiungerlo. Difatti gli bastava tracciare con l'immaginazione entrambe le diagonali, l’una orizzontale e l’altra verticale, e seguire poi allo stesso modo la retta che conduceva al loro punto di incontro. Soltanto così potevano pervenire a quella parte della galassia di Trespan, la quale era interessata dallo scombussolante fenomeno che avveniva tra i due universi contigui. Una volta raggiunto il punto di intersezione delle due rette perpendicolari, essi dovevano attendere fino a quando in quel posto non si fosse formato il cunicolo intercosmico tra i due universi. Il tempo di attesa, però, non era da considerarsi ragionevole, considerato che esso poteva raggiungere anche una durata inimmaginabilmente esorbitante.

Quando le due divinità ed Iveonte vi giunsero, la circostanza non era quella che lasciava assistere alla spaccatura tra i due cosmi paralleli. A loro, però, non importava per niente la presenza di quella evenienza sfavorevole. Il motivo? Essi vi si sarebbero trovati giusto in tempo, ricorrendo al loro prezioso viaggio nel tempo, come appunto era stato già programmato. Alla fine, desiderando privarsi di ogni indugio che aveva quasi iniziato a snervarli, essi passarono ad attuare la loro compenetrazione a tre. Nella quale per necessità la componente maschile, rispetto a quella femminile, dovette rivestire il ruolo passivo di essa. Ma unicamente dopo che l’atto compenetrativo fu attuato, la diva ingranò la massima velocità a lei consentita, dandosi a sfrecciare a ritroso nel tempo passato. Ella voleva ricongiungersi con quella evenienza che li avrebbe fatti trovare al momento esatto davanti allo straordinario fenomeno.

Una volta che ci fu la fine del viaggio temporale, i tre viaggiatori prima si decompenetrarono e poi si affrettarono ad attraversare il profondo solco, attraverso il quale sarebbero pervenuti in Parakosm. Poteva anche aversi che la loro traversata ci sarebbe stata in coincidenza con quella della Monotriad, mentre essa era diretta alla propria dimora insieme con la sua prigioniera. Invece, durante il transito da parte loro per il luogo in questione, non ci fu la temuta concomitanza. Per cui essi non individuarono nessuna traccia del passaggio avvenuto da parte della creatura aliena. La qual cosa fece supporre che la figlia della Deivora li avesse precorsi nel tempo, anche se non da molto. Diversamente li avrebbe seguiti poco dopo nel cunicolo che serviva come passaggio dall’uno all'altro universo. La verità, comunque, si sarebbe conosciuta soltanto sul pianeta Oblungus, dove era ubicata la dimora della Monotriad. Nel frattempo, però, conviene occuparci della rimanente parte del loro viaggio, quello che adesso si sarebbe svolto esclusivamente nello spazio parakosmico. Le cui caratteristiche non erano differenti da quelle dello spazio cosmico, siccome l'uno e l'altro universo avevano in comune il processo di espansione, la struttura spaziale e temporale, la composizione degli astri e la meccanica celeste. Quest'ultima, come ci si poteva rendere conto, avviava e stabilizzava i moti delle varie famiglie astrali, proprio come accadeva in Kosmos.

Fatto il loro ingresso nel nuovo universo, le due divinità e l'umano Iveonte ripresero la loro trasvolata, puntando questa volta direttamente sulla galassia verde, denominata dalla diva Kronel Verdania. Vista da quella immensa distanza, essa appariva come un gigantesco smeraldo trasparente, nel cui corpo di continuo caracollavano comete giallognole, sfavillavano rossastre stelle e sciamavano asteroidi infuocati. I pianeti e i satelliti, invece, in qualità di corpi spenti, solo quando venivano investiti dalla luce di qualche stella, mostravano una luminosità variamente colorata. Così, dopo una sosta sul pianeta Ruber, essi ripresero la loro corsa iperbolica, cercando di non deviare dalla loro traiettoria e di tenere sempre sotto controllo il loro obiettivo. La cui visione, certe volte, veniva offuscata da campi magnetici, i quali facevano apparire lo spazio tremolante e refrattario alle onde elettromagnetiche. In tali regioni, perciò, si verificavano varie turbolenze, che si dimostravano della massima disastrosità. Esse, mentre si esprimevano in quel modo, finivano per rendere lo spazio circostante brumoso e carico di emanazioni fosforescenti. Le quali impedivano agli occhi di osservare la grande moltitudine degli astri esistenti al di là di esso. Comunque, il dio, la diva ed Iveonte non si lasciavano ingannare da simili fenomeni fisici che provocavano l'offuscamento. Perciò, sebbene essi tendessero a cancellare la limpida visuale tra i nostri tre osservatori e gli astri situati ad una distanza maggiore, tale evento cosmico non riusciva ad annullare in loro una visione perfetta. Ad Iveonte, invece, un fatto del genere era permesso, grazie al suo prodigioso anello.

Infine i tre provetti viaggiatori dello spazio raggiunsero la galassia di Verdania, dove la loro nuova meta divenne la stella Irideab. Intorno alla quale orbitavano dieci pianeti, nei i quali era compreso quello a forma di fuso, ossia lo strano Oblungus. A proposito di quest'ultimo, esso si mostrava differente dagli altri nove dello stesso sistema non soltanto per la sua strana forma allungata, bensì anche per qualcos’altro, a cui nella sua precedente missione la diva Kronel non aveva fatto caso. Ad essere obiettivi, le era mancato il tempo materiale di appurarlo con un controllo più accurato. Ciclicamente, infatti, si aveva tra il pianeta e la sua stella qualche cosa di fenomenale, come se tra i due astri, l’uno emanatore di luce e l’altro fruitore di essa, venisse ad aversi una corrispondenza di intenti, i quali erano rivolti a seguire un disegno ben preciso. Ma prima di indagare a fondo il citato fenomeno e di renderci conto se qualcuno si prefiggesse con esso un recondito obiettivo, ci sarà utile prendere consapevolezza del perché della sua manifestazione. Ebbene, a scadenza trimestrale, dalla stella veniva irradiato verso il pianeta in questione un fascio di luce violetta, che lo investiva per una durata di tre giorni. In tutto il tempo che si aveva l'irradiazione stellare su di esso, l’astro diventava di fuoco, poiché una massa magmatica si dava a ricoprirlo completamente. Essa poi, intanto che ribolliva e scorreva sulla sua superficie, ne abradeva l'intera parte rocciosa. Dopo due giorni dalla sua permanenza sul pianeta, quando si era all’inizio del terzo giorno, la luce stellare cominciava a disseminare la lava incandescente di vari grappoli energetici. Questi, oltre che renderla scoppiettante, la mettevano in condizione di liberare taluni gas, i quali così esalavano dalle buche prodotte dagli scoppi. Gli stessi grappoli, inoltre, veicolavano sostanze che facevano raffreddare e solidificare la quantità di magma esistente ancora sulla superficie planetaria. Così, quando alla fine la stella madre ritraeva l'intero suo fascio luminoso dal pianeta, anche la lava era scomparsa totalmente dal suo suolo. Al suo posto, però, vi restava un diverso strato roccioso da definirsi altrettanto spigoloso e tagliente, il quale per qualche tempo continuava a presentarsi sulla stessa superficie fuligginoso e rovente.

Durante il tempo che era in atto il fenomeno invasivo da parte dei raggi stellari, cosa succedeva nella dimora della Monotriad? Avveniva anche in essa l’inondazione lavica, come è sensato sospettare? Nel caso di una risposta affermativa, la logica ci induce a pensare che il magma, dopo averla colmata ed essersi solidificato in essa, potesse averla soltanto fatta sparire. Ma era possibile che si verificasse un evento del genere? Al contrario, non succedeva niente di tutto questo, per la semplice ragione che la lava non era in grado di entrare in tale luogo. Ciò, perché la bocca dell’antro abitato dalla creatura aliena risultava protetta per un raggio non inferiore ad una decina di metri. Per cui sembrava che il materiale magmatico, quasi attenendosi a delle direttive di qualcuno o di qualcosa che non si lasciava individuare ed identificare, si guardasse bene dall’invadere quell’area interdetta. In virtù delle quali, essa veniva ad essere assolutamente invalicabile da qualsiasi fenomeno che fosse originato dalle forze endogene dall’astro spento. Un fatto del genere, però, non comprovava ancora che la figlia della Deivora avesse le mani in pasta in quella faccenda, non potendosi ipotizzare le motivazioni che ve la facevano considerare implicata. Comunque, questa impressione del suo non coinvolgimento nella vicenda in questione poteva essere soltanto apparente. Infatti, secondo quanto stiamo per apprendere dal nostro racconto in svolgimento, la realtà dei fatti era ben altra ed interessava la sua stessa natura immateriale. Prima di procedere in questo particolare e sviscerarlo nella sua evoluzione, bisogna anche sapere che l’antro, nel quale si era rifugiata la Monotriad, un tempo aveva fatto da dimora anche alla madre Deivora. Era stato nel suo interno che essa prima era diventata immateriale e poi aveva acquisito quella speciale caratteristica, la quale le aveva fatto tenere in scacco le divinità di Kosmos, fossero esse positive oppure negative.

Volendo essere più precisi, per quanto riguardava la figlia, essa era divenuta immateriale già al momento della sua nascita dalle ceneri materne. Tale prerogativa, va chiarito, non le era stata sufficiente sia per competere con una divinità di grado maggiore sia per trasformare in proprio alimento e potenziamento la componente psichica di qualunque divinità esistente nell'intero apparato fisico di Kosmos. Ma col passare del tempo, la Monotriad, per un senso innato, si era ritrovata con la consapevolezza che, se intendeva raggiungere tale obiettivo, oltre a nutrirsi del plasma galattico, aveva bisogno di condursi nella dimora materna. In quel luogo, inoltre, doveva sottoporsi alle infiltrazioni di una particolare energia, la quale era insita esclusivamente nell’irradiazione luminosa proveniente dalla stella Irideab. Unicamente essa, infatti, le dava il potere di diventare uguale alla genitrice. A questo punto, occorre anche apprendere ogni cosa sul passato della Deivora, fino alla sua trasformazione nella spaventosa entità che abbiamo conosciuta in un tempo anteriore molto remoto, rispetto a quello attuale. La quale, dopo essersi messa maledettamente all’opera in Kosmos, aveva iniziato a porre in ginocchio tutte le divinità che vi risiedevano, risultassero esse nella sua caccia benefiche oppure malefiche. Ciò ci condurrà a rintracciarla ai suoi primordi e a seguirla nel suo sviluppo infernale, quello che in seguito era divenuto il flagello di entrambi i tipi di divinità. Soltanto in questo modo, potremo avere la cognizione dell’essere spregevole, che la figlia cercava di diventare nel suo rifugio situato sul pianeta Oblungus.


All’inizio, la creatura aliena era stata un Simbios, ossia una specie di essere dalle peculiarità dubbie, per cui la sua natura non era né definibile né equiparabile a quella degli altri esseri viventi esistenti. Una entità simbiotica, infatti, non si lasciava decrittare in alcun modo, poiché non forniva dei criteri atti a decifrarla. Si dimostrava una trasformista d’eccezione della propria esistenza e della propria realtà, presentando il suo potere camaleontico come unica cosa accertata. L’enigmatico Simbios, quindi, si faceva ritenere mille cose e nessuna di esse, cioè un essere con un migliaio di nature, ma senza possederne nessuna. Anche alla fine dello studio più approfondito condotto sul suo essere, si rimaneva totalmente digiuni di informazioni che lo riguardavano. Non si sapeva se fosse uno spirito oppure rappresentasse una cosa. Anzi, non si era neppure certi che esso potesse costituire un brandello di energia, in qualche modo dotato di una propria volontà oppure di una certa autonomia decisionale. Un essere del genere, non avendo bisogno di respirare ossigeno in una forma qualsiasi, come facevano gli altri esseri viventi, preferiva dedicarsi alle escursioni astrali che esso compiva a cavallo di meteoriti. Essendo un misantropo per natura, lo stesso conduceva una vita appartata su tali corpi celesti di limitata grandezza, per cui sopra ciascuno dei quali si poteva rinvenire la presenza di un solo Simbios.

Anche le sue potenzialità risultavano sconosciute, visto che nessuno era in grado di definirle qualitativamente e quantitativamente. Secondo quanto era stato accertato, esse lo facevano sopravvivere nei più disparati ambienti di Parakosm, da quelli ritenuti più vivibili a quelli che offrivano scarsissime possibilità di sopravvivenza. La qual cosa lasciava supporre che la sua natura non fosse come quella dei Materiadi e si componesse di due elementi, i quali erano rappresentati dalla materia e dall’energia. Quest’ultima, da parte sua, non faceva capire se fosse esauribile oppure no. Ma pur ammettendo la sua inesauribilità, resterebbe ugualmente senza alcuna risposta la nostra lecita domanda, intesa a conoscere come facesse un Simbios a fornirsene all’infinito. Allora sarà meglio non rivolgercela e non perdere tempo in qualcosa da cui non caveremmo un ragno da un buco. La Deivora, in qualità di essere simbiosico, non aveva potuto esprimersi con la straordinaria potenza che aveva dimostrato di possedere in Kosmos. Perciò c’era stato di sicuro qualcos’altro a renderla talmente forte ed invincibile, da sottomettere a sé perfino degli esseri spirituali, come le divinità. Le quali si presentavano munite di una natura supereccezionale. Allora non ci resta che scoprirlo da noi stessi, dandoci ad indagarla a fondo a ripercorrere la sua evoluzione.

Un tempo il Simbios, che in seguito diventerà la futura Deivora, si lasciava tranquillamente trasportare dal suo meteorite. Questo procedeva nello spazio parakosmico con una velocità ragguardevole, allorquando, a causa di un imprevisto, era entrato in rotta di collisione con il noto pianeta Oblungus. Allora il cosmonauta solitario, siccome in quel momento era rintanato in una delle profonde cavità dell’enorme monolito roccioso, non si era accorto dell’imminente impatto. Perciò, non avendo potuto iniziare il suo conto alla rovescia prima dell’inevitabile scontro, non aveva badato ad eluderlo con un tempestivo abbandono del suo abnorme mezzo di trasporto. Una volta impattato sulla superficie del pianeta proprio mentre esso subiva l’irrorazione di luce dalla sua stella, il meteorite aveva causato su di essa un colossale evento negativo, ingenerandovi una catastrofe di immani proporzioni. In quella esplosione terribile, il Simbios, anche se si era trovato nel mezzo di essa, non aveva riportato nessun danno fisico. All'inverso, aveva accresciuto di molto la sua complessione e la sua parte energetica, come se fosse stato costretto a divorarsi l’intera energia liberata dallo scoppio. Alla fine, dalla sua grandezza iniziale, la quale era uguale a quella di una balena, il Simbios si era ritrovato ad assumere le notevoli dimensioni di una modesta montagna. Quanto all’aspetto, esso appariva come un ammasso pietroso attraversato da una speciale energia. Quest'ultima lo faceva espandere e ritrarre in continuazione, fornendogli perfino degli organi energetici appendicolari assai vibratili.

Se qualcuno o qualcosa avesse fermato in tempo il Simbios, dopo l’assunzione di tale grandezza e di tale forma, esso non sarebbe potuto ancora paragonarsi all’aliena creatura che stava per diventare. In seguito, però, molti altri corpuscoli energetici del luminoso fascio stellare avevano attivato in tale essere una metamorfosi strana, la quale aveva incominciato a farlo crescere a dismisura, come se le sue cellule fossero impazzite. Anzi, ad un certo punto, la sua crescita si era arrestata, siccome i corpuscoli saturi di energia non bastavano più a fare andare avanti il suo progressivo aumento. Per avere un ulteriore accrescimento, il Simbios si sarebbe dovuto sottoporre all’irrorazione di un nuovo tipo di energia, che avrebbe fatto dipendere la sua espansione costitutiva dalla componente psichica delle divinità di Kosmos. Perciò quanto più esso ne avrebbe divorata e metabolizzata, tanto più la sua mole non avrebbe conosciuto limiti, fino a diventare assai gigantesca. Per la verità, anche per ottenere una cosa del genere, la sua natura aveva dovuto subire una ulteriore modificazione, grazie alla quale si erano incorporati in essa l’istinto a cercare tale alimento e la facoltà di utilizzarlo a proprio potenziamento con crescita all'infinito. Ma siccome per esso le cose si erano messe in questi termini, si poteva asserire che non si era più di fronte ad un Simbios qualsiasi; ma si stava avendo a che fare con una creatura forgiata in maniera straordinariamente differente. La quale adesso si mostrava ghiotta delle sole essenze divine, ovvero della loro componente psichica. Per questo motivo, tenendo conto della sua nuova funzione, il nome che più le si addiceva poteva essere unicamente Deivora, che significava appunto "divoratrice di divinità".

La nuova entità aveva subodorato all’istante che nel Parakosm giammai avrebbe trovato delle essenze divine, anche a cercarle col lanternino. Ma poi, sulla scia del suo eccezionale istinto, era venuta a conoscenza che esisteva Kosmos, del quale il suo universo era parallelo, e che entrambi i cosmi periodicamente si fessuravano in una zona, divenendo comunicanti. Era stato così che la Deivora si era adoperata, perché anch’essa risultasse un prodotto del parziale travaso parakosmico in direzione di Kosmos, raggiungendo lo scopo dopo alcuni suoi tentativi falliti. Così, venuta a far parte del nuovo universo, essa aveva iniziato a provocarvi una specie di caos infernale e ad operarvi il rastrellamento di tutte le divinità che venivano a trovarsi sulla sua rotta stravolgente. In relazione a quanto era seguito alla sua diabolica incursione nello sconfinato spazio di Kosmos, non occorre rammentarlo di nuovo, per una ragione molto semplice. Esso rimane tuttora fotografato nella nostra memoria; anzi, seguiterà a restarci, per averne sperimentato in precedenza l'ingente orrore e l'immane spavento.

Da poco anche la Monotriad, facendosi guidare dal suo poderoso istinto, aveva percepito l’esistenza del pianeta Oblungus, sul quale la natura materna si era dovuta riprogrammare per diventare quella che poi era risultata. Per cui, dal Simbios che era stata all'origine, essa si era poi tramutata in una creatura immateriale dalla potenza illimitata e capace di destabilizzare una buona fetta di Kosmos. Inoltre, in virtù del suo sesto senso, in seguito la figlia della Deivora era giunta alla scoperta dello strano fenomeno che veniva ad interessare i due universi paralleli. Infine aveva avuto sentore che sul quinto pianeta di Irideab avrebbe acquisito il rafforzamento necessario per seguire le orme e le grandi gesta della sua genitrice, senza però imitarne il tragico epilogo. La Monotriad, però, non aveva voluto attendere il suo corroboramento per vendicarsi del dio Iveon, che era il suo nemico giurato, per aver mandato in rovina la madre. Invece, bramando già vederlo soffrire, prima ancora di polverizzarlo, gli aveva rapito la moglie, facendola sua prigioniera e portandosela in Parakosm. Secondo i suoi attuali intenti, in avvenire ella sarebbe stata la prima ad essere messa fuori gioco; ma dopo sarebbe toccato anche alle altre divinità che in Kosmos se la beavano, percorrendolo in lungo e in largo e producendovi catastrofi e distruzioni.