32-IL SOGNO DEL RE CLORONTE

Un silenzio profondo dominava sulla reggia di Dorinda, intanto che si presentava avvolta dalle fitte tenebre di una notte serena. Erano anche cessati di esistere da tempo i vari frastuoni, i quali nelle ore diurne solevano dare al palazzo reale un aspetto caotico e rumoroso. Soltanto il cadenzato passo delle guardie di ronda interrompeva di tanto in tanto la quiete notturna, che ora si era data ad imperare ovunque. Allontanandosi e smorzandosi nel buio della notte, il passo compatto ed austero dei gendarmi, in un certo senso, dava da riflettere, poiché esso appariva simile alla vita umana. Questa, infatti, quantunque si mostrasse sovente vigorosa e superba, alla stessa maniera del fiero avanzare delle guardie, era destinata a soccombere davanti alla prepotenza del tempo. Per questo era costretta a precipitare nel nulla, inerme e riluttante.

In seno a tanta calma, però, c'era chi faceva parecchia fatica a prendere sonno, nonostante compisse grandi sforzi per riuscirci. Allora, palesando il suo insolito nervosismo che adesso si presentava in modo accentuato, egli si rivoltava di frequente nel proprio letto, dove non riusciva a trovare riposo. Si trattava di Cloronte, il re di Dorinda, la cui mente, in quella notte, si agitava in un vortice di tormentosi assilli. Essi, oltre a procurargli una invincibile insonnia, gli cagionavano alcuni patemi d'animo. Da quando si era coricato, il sovrano di Dorinda era stato assalito da mille strani pensieri, i quali lo spingevano a preoccuparsi per la sua famiglia, per il suo popolo, per la sua città e per i suoi territori. Il motivo? Il poveretto vedeva incombere la minaccia di un imminente pericolo sul proprio regno e sui propri sudditi. Ma poi, non essendo in grado di giustificare in qualche modo quelle sue preoccupazioni immotivate, egli fu indotto a convincersi che esse erano tutte destituite di fondamento. Perciò non valeva la pena preoccuparsene.

In seguito, pur di distogliere la sua mente da tali infondati timori, il re Cloronte a volte serrava forte gli occhi altre volte riandava ai momenti più lieti della sua vita trascorsa in famiglia. Ma pur ricorrendo a simili espedienti rievocativi, gli risultava ugualmente difficile procurarsi un diversivo che potesse farlo riconciliare con il riposante sonno. Per la quale ragione, il sovrano continuava a restare in preda al suo stato di ansia e di agitazione. Ma esso non gli permetteva di ristorare né le sue stanche membra né il suo spirito, che ne risentiva maggiormente. Così, a causa del suo forte nervosismo, ne conseguiva che la sua mente seguitava a spingerlo in un'agghiacciante morsa di angoscia e di inquietudine. Essa lo abbatteva non soltanto psichicamente, ma soprattutto fisicamente.

Adesso il preoccupato re Cloronte si sentiva il corpo interamente distrutto e prostrato, come se fosse stato impegnato a lungo in un lavoro spossante. La qual cosa, a un certo momento, lo fece diventare preda di un pensiero minaccioso, che lo spinse a buttarsi giù dal letto con l'intenzione di dirigersi verso l'alcova dei suoi tre figli. Nel procedere spedito verso di essa, egli faceva trasparire dal suo volto i segni di un'apprensione terribile e forsennata! Ma una volta che ebbe raggiunto il letto delle sue tre creature, il re di Dorinda finalmente si sentì rilassato e anche rassicurato. In pari tempo, riacquistò la fiducia in sé stesso e si vide liberato dal suo tremendo incubo. Il quale per alcune ore gli aveva insidiato il sonno e il riposo, senza mostrare alcuna pietà nei suoi confronti. Infatti, non appena aveva scorto i suoi tre bambini dormire placidamente, all'improvviso il suo animo si era finalmente rasserenato. Anzi, con una gioia incredibile, egli si dava ad ascoltare il loro respiro regolare. Esso, mentre si diffondeva per la camera, ne faceva udire, forti e distesi, i movimenti ritmici di emissione e di assunzione dell'aria. Nel contemplarli con il suo grande amore paterno, il sovrano provava nell'intimo una serenità immensa e pacata. Essa adesso gli infondeva nell'animo, che da poco aveva smesso di essere inquieto, parecchio ottimismo e maggiore fiducia nel genere umano. Alla fine, prima di allontanarsi dall'alcova, l'apprensivo genitore desiderò a ogni costo baciare con tenero affetto la fronte di ciascun suo figliolo. Comportandosi in quella maniera, egli era sicuro di manifestare l'inusitato e premuroso amore che provava verso di loro.

I figli del re Cloronte, considerati in ordine di età, si chiamavano Iveonte, Londio e Nucreto. Tutti e tre ricevevano dai loro genitori le cure più affettuose ed amorevoli che potessero esserci. Per questo i coniugi regnanti si mostravano degni di tal nome, anche perché si prodigavano per i loro bambini con ammirevole spirito di abnegazione. Entrambi provavano un bene non comune per i loro tre figlioli e, ogni volta che se li vedevano davanti oppure si rivolgevano a loro con la mente, si sentivano riempire il cuore di una gioia infinita. Non bastando ciò, quando li baciavano o li accarezzavano teneramente, nei loro occhi sfolgorava un raggiante sorriso: tanto immensa era la gioia che essi provavano in quegli istanti incantevoli!

Quando infine si fu rimesso a letto, il sovrano dorindano, nei cui pensieri restava ancora viva e leggiadra la visione della sua dormiente figliolanza, all'improvviso si vide assalire da un piacevole sonno. Allora egli ben si guardò dal resistergli; invece all'istante lo assecondò e si abbandonò ad esso, felice di diventare suo schiavo sottomesso. Ma, non appena si fu riaddormentato, il re Cloronte, mentre si godeva il proprio sonno con ingordigia, si ritrovò a fare uno strano sogno, quello che adesso ci daremo ad apprendere pure noi.

A un tratto, egli si vide aggirarsi tutto solo per una sala sterminata, che era completamente deserta. In essa spadroneggiava il silenzio più assoluto, dal momento che neppure il rumore più lieve poteva essere percepito in ogni suo angolo. Mentre poi si andava domandando dove potesse trovarsi, poiché quel luogo gli risultava del tutto sconosciuto, la sua attenzione fu colpita da qualcosa, che teneva ben stretto nella mano destra. Quindi, volendo rendersi conto di cosa potesse trattarsi, egli si affrettò a scoprire ciò che stringeva nel suo pugno. Fu così che, mostrandosi assai meravigliato, scorse nella sua mano tre magnifici diamanti, i quali, emanando sprazzi di vivida luce, scintillavano come stelle. Inoltre, notò che essi, se erano disuguali nella grandezza, erano uguali nella forma e nella bellezza. Intanto poi che contemplava con occhi sgranati quelle tre rarità di gioielli che gli brillavano sulla palma della mano, il monarca dorindano mostrava un grande stupore e provava una gioia indefinibile. A pensarci bene, in tutti gli anni del proprio regno non gli era mai capitato di possedere dei diamanti così stupendi! Perciò decise di farli vedere a tutte le persone di sua conoscenza, a cominciare da quelle che amava di più. Egli era desideroso che anch'esse li ammirassero e si compiacessero con lui per l'incredibile prodigio, del quale era stato il fortunato beneficiario.

Mentre si affrettava a raggiungere l'uscita della sala, la quale si trovava oramai a due passi, uno dei tre diamanti, precisamente quello più piccolo, a un certo punto gli scivolò di mano e cadde ai suoi piedi. Fu in seguito alla sua caduta a terra che si manifestò davanti ai suoi occhi un fenomeno terrificante! Infatti, una volta battuto sul lucido pavimento di marmo, il diamante si infranse in numerosi granelli, ciascuno dei quali all'istante si trasformò in un orribile serpente. Un attimo dopo, però, i feroci rettili, snodandosi e drizzandosi sulle loro code robuste, cominciarono ad aggredirsi a vicenda, dando origine ad una furiosa e sanguinosa baruffa. Essa proseguì, fino a quando la totalità degli ofidi non giacquero sulla policroma superficie marmorea, sgozzati e privi di vita. Nella lotta cruenta, il sangue, sprizzando in gran copia dalle ferite dei giganteschi serpenti, era schizzato dappertutto. Per cui il vermiglio liquido aveva imbrattato le dipinte pareti, la volta fatta a crociera; ma soprattutto si diede ad invadere il pavimento, sul quale esso era iniziato a spandersi a rivoli. Neanche l'illustre sovrano si era sottratto all'imbratto di sangue; per questo in quella circostanza esso lo faceva inorridire. Inoltre, si leggevano sul suo volto uno sgomento ed una ripugnanza inesprimibili, che lo privavano della precedente allegria.

Alla vista di quel macabro spettacolo, il re di Dorinda immediatamente si svegliò; ma dopo, per essere stato terrorizzato dal suo sogno fino all'inverosimile, non riuscì a riprendere più sonno. Perciò egli attese con impazienza che spuntasse presto l'alba, essendo ansioso di farsi spiegare il sogno dalla sola persona che stimava il più in grado di farlo. Si trattava di Virco, l'esperto indovino di corte. Nel frattempo, però, l'infelice sovrano andava contando gli attimi scombussolanti che precedevano il sorgere del sole, anche se essi erano ancora parecchi. La loro sequela, in quella circostanza, parve essere divenuta interminabile, considerata la lentezza con cui gli stessi si susseguivano l'uno dopo l'altro!

Giunto il nuovo mattino, il re Cloronte, senza alcun indugio, mandò a chiamare Virco, poiché era convinto che soltanto l'eccezionale oniromante avrebbe potuto svelargli l'oscuro significato del suo sogno raccapricciante. Il quale lo aveva tenuto agitato per gran parte della trascorsa notte e continuava a perseguitarlo e a tormentarlo pure al mattino. Invece, quando i servi andarono a chiamare il sant'uomo nel suo alloggio per conto del loro sovrano, lo trovarono stecchito ed esanime nel proprio letto. Più tardi i medici di corte diagnosticarono che egli non era deceduto di morte naturale, ma essa gli era stata causata da un avvelenamento. Comunque, non si sarebbe mai venuto a sapere chi era stato l'autore dell'infame assassinio. In quel momento, ciò che dava da pensare di più era il fatto che l'azione delittuosa era stata commessa, proprio quando l'aiuto dell'indovino risultava prezioso come non mai al re di Dorinda. Allora, non potendo ricorrere a lui, egli era costretto a macerarsi nella disperazione e nel dolore più lancinante.

Cosa aveva rappresentato Virco a corte? Possiamo saperlo? Ebbene, prima della sua morte, era considerato da tutti i cortigiani un vero profeta, siccome era dotato di uno spirito divinatorio straordinario. In tutti i novanta anni della sua esistenza, dalle sue labbra erano sempre sgorgate profezie infallibili, dal momento che per lui spiegare un sogno era come darsi ad un gioco da ragazzo! L'insigne oniromante aveva goduto grande stima sotto il regno di Kodrun e altrettanta ne godeva adesso anche sotto quello di Cloronte. Reputandolo uno spirito eletto, molti consideravano il vegliardo il diletto servo di Matarum. Il suo venerabile aspetto rispecchiava la sua interiorità candida e sublime. Per il quale motivo alcuni erano abituati a scorgerlo in un'aureola di luce soprannaturale, che in tutte le persone reprimeva il male e fecondava il bene.

Cloronte, dunque, non potendo fruire della preziosa consulenza dell'oniromante Virco, invitò nella sua reggia tutti i maghi e gli indovini della sua città. A loro chiese di spiegargli il terribile sogno, di cui era stato protagonista durante la scorsa notte. Ma essendo esso risultato di ardua interpretazione, ciascuno degli intervenuti non si mostrò all'altezza del difficile compito. Per questo rinunciò ad esprimersi sul vissuto onirico del sovrano, al fine di svelargli il suo oscuro significato. Allora il vivo desiderio del re Cloronte, il quale aveva sperato che qualcuno di loro riuscisse a spiegarglielo, rischiò di restare per sempre inappagato. Tale prospettiva negativa lo amareggiava moltissimo e gli contristava l'intimo. Egli era divenuto ormai intollerante di quella massa di buoni a nulla e di falliti, i quali erano solo in grado di stargli davanti muti come pesci, mostrandosi incapaci di fare uscire delle buone idee dal loro cervello. Il poveretto si andava anche chiedendo: Cosa avrebbero voluto quei fannulloni, che egli gli avesse chiesto quante dita ha una mano? L'oniromante Virco gli avrebbe spiegato egregiamente il suo sogno! Dal canto loro, tutti quei sedicenti maghi ed indovini, non essendo in grado di dare una mano al loro preoccupato sovrano, si sentivano parecchio mortificati. Essi facevano trasparire la loro mortificazione dal loro atteggiamento esteriore, il quale appariva confuso, sommesso e pervaso da un terribile imbarazzo, che li schiacciava psichicamente.

Poco dopo, mentre un silenzio profondo regnava nella sala del trono ed una viva costernazione soggiogava gli animi degli astanti, si presentò in essa il vecchio mago Ghirdo. Allora il suo ingresso fu accolto da un generale brusio da parte di tutti i presenti. Egli, però, non curandosene per niente e facendosi largo tra la folla con passo deciso, sebbene fosse claudicante, si avvicinò al trono e rassicurò il sovrano che a lui sarebbe risultato facilissimo interpretare in modo infallibile il sogno che aveva fatto nella scorsa nottata. La sua rassicurazione infuse una certa dose di speranza nell'abbacchiato re Cloronte. Il quale, nello stesso tempo, si augurava che il sogno non si rivelasse ostile ai destini di Dorinda oppure minaccioso per il suo popolo e per la sua famiglia.

Ma il vecchissimo mago che cosa rappresentava per gli abitanti di Dorinda? In verità, egli veniva considerato un essere misterioso, per cui era temuto da tutti i Dorindani, poiché sulla sua persona si narravano tante cose terribili. Alcune delle quali, solamente a sentirsi, facevano venire la pelle d'oca ed inducevano a fremere perfino i più arditi.

In città, il novantanovenne Zesto si stupiva della misteriosa esistenza di Ghirdo, la cui colonna vertebrale si presentava marcatamente cifotica. Il longevo uomo non riusciva a capacitarsi come facesse quello zoppo individuo a conservare le identiche fattezze che possedeva già molto tempo addietro, ossia quando la sua età era di appena cinque anni. Anche allora il nome del mago veniva pronunciato con una certa tremarella dai suoi concittadini. Essi lo temevano moltissimo e, quando lo scorgevano in una strada, facevano di tutto per scansarlo. A quel tempo, pure suo nonno Ispo, che aveva novantacinque anni, affermava di ricordarselo sempre come lo scorgeva ad un passo dalla fine dei propri giorni. Perciò anch'egli non sapeva come spiegarselo! Da parte sua, il boscaiolo Cuttro, facendosi prendere da un grande timore, sosteneva che un giorno aveva incontrato il mago nel bosco. In quel luogo, lo aveva scorto con un grosso sacco sulle spalle, dal cui fondo fuoriusciva attraverso un foro il piede di un fanciullo. Allora aveva deciso di pedinarlo e di sorvegliarlo a poca distanza, ma tenendosi nascosto dietro i numerosi cespugli che incontrava. Così essi gli avevano permesso di non farsi notare dal vecchio, pur seguendo da vicino i suoi accorti passi. A un certo punto, però, il taglialegna aveva scorto la terra prima squarciarsi e poi rinchiudersi subito dietro di lui, non appena il mago si era introdotto nella profonda fenditura e vi era scomparso.

Da quel giorno che la notizia si era diffusa in tutta Dorinda, in città si era incominciato ad avere una immensa paura del guercio Ghirdo. Per la quale ragione, ogni volta che egli si faceva vivo in qualche strada cittadina, gli abitanti della zona ne tremavano a non dirsi, quasi fossero diventati foglie sbattute dal forte vento. Se poi lo avvistavano in lontananza con l'intento di dirigersi dalle loro parti, i tremanti poveretti senza perdere tempo si davano a chiudere gli usci delle loro abitazioni e ne sprangavano le imposte dall'interno con molta cura. Essi, dopo le notizie che avevano apprese sulla sua persona, giustamente volevano sentirsi sicuri di non subire dei danni da parte del misterioso mago. Anche perché, in tantissimi anni, mai nessuno dei loro antenati aveva saputo affermare con certezza qualcosa sulla sua origine e sulla sua enigmatica esistenza, siccome l'una e l'altra si perdevano nella notte dei tempi.