313°-I TERCIPI TRASFORMANO GLI STUCOS IN SPETTRI

La terra, nella quale vi trovate da ieri sera, sappiate che è quella del mio popolo, ossia degli Stucos. Essa è anche appartenuta ai loro avi da molte generazioni che si sono succedute nei secoli, venerandola e coltivandola con grandissima passione. Nello stesso tempo, i medesimi sono vissuti in pace con tutte le popolazioni finitime, con le quali hanno sempre intrattenuto dei rapporti cordiali ed amichevoli. A memoria d’uomo, il mio villaggio, almeno fino a qualche anno fa, aveva sempre conosciuto la serenità. Per cui la vita dei suoi abitanti era trascorsa senza interruzioni tra lavoro e spensieratezza, considerato che nessuna calamità naturale e nessun fatto bellico gliel’avevano mai perturbata o sottratta. Quanto alla guerra, essa sarebbe potuta esserci soltanto a causa della stoltezza, la quale spesso ha il predominio sugli esseri umani. In questi ultimi tempi, però, gli Stucos e il loro territorio sono andati incontro a due immani sciagure, l’una a breve distanza dall’altra. La prima ha interessato direttamente il mio popolo e ne sono stati colpevoli degli esseri ignobili. Essa tuttora sèguita a dimostrarsi impossibile per tutti gli abitanti del villaggio, i quali attualmente hanno come capo mio padre Agerio. La seconda, la quale è avvenuta a causa di forze naturali, quando non era trascorso neppure un anno dalla precedente, ha flagellato letteralmente il nostro territorio. Tale disgrazia, nell'arco di alcuni giorni, vi ha portato alla rovina le cose, le piante e gli animali e funestando la loro esistenza; invece noi persone siamo state risparmiate almeno da essa per ragioni che conoscerete in seguito. Ma adesso comincio a parlarvi della prima sventura, la quale ci capitò circa dodici mesi fa.

Fu in quell’epoca che si presentarono nel nostro villaggio degli esseri orribili, i quali, come venimmo a sapere poco dopo, si chiamavano Tercipi. Se la loro stazione si presentava eretta come la nostra, il loro aspetto si differenziava moltissimo da quello umano. Essi potevano essere considerati degli umanoidi di alta statura, poiché avevano un'altezza di due metri e mezzo; mentre il loro corpo era ricoperto interamente da una villosità rugginosa. Inoltre, gli stessi esseri, i cui bicipiti e tricipiti si presentavano visibilmente possenti, avevano le seguenti altre caratteristiche: in loro si potevano notare due padiglioni auricolari appena accennati, un naso camuso, un volto prognato, due occhi affossati e diabolici, nonché una chioma a pelo corto ed irto. Invece il loro tono vocale era decisamente gutturale e conferiva al loro linguaggio un timbro quasi metallico. Approfondendo poi il loro aspetto esteriore, non facevamo fatica a renderci conto che negli alieni erano assenti gli organi copulatori. Per cui essi risultavano essere degli ermafroditi con entrambi gli organi della riproduzione situati all’interno del loro corpo. A tale proposito, devo farvi ancora presente che di una simile specie abbiamo sempre conosciuto solo esemplari adulti. Per cui non abbiamo mai avuto l’occasione di esaminarne i piccoli oppure di assistere ad un loro parto.

Ebbene, quando ci fu il loro primo ingresso nel nostro villaggio, la presenza dei Tercipi vi fu notata all’istante dai suoi abitanti. In merito, vi metto al corrente che all’inizio i loro primi avvistatori non sapevano se stupirsene oppure spaventarsene. Quegli esseri bestiali, sebbene apparissero giganteschi mentre procedevano con una andatura fiera e sostenuta, lo stesso spingevano i più coraggiosi degli Stucos a stargli dietro, volendo rendersi conto dove quei bestioni erano diretti. Comunque, nessuno di loro aveva pensato minimamente di armarsi, prima di mettersi a seguirli e a controllarli, essendo convinti che i forestieri non avevano affatto intenzioni ostili nei loro confronti. Alla fine il lungo corteo dei curiosi apprese che la loro meta era la capanna del loro capo, siccome essi fecero la loro sosta proprio davanti ad essa. Una volta giunti in quel luogo, il Tercipe, che li precedeva e si faceva considerare il loro capo, chiamò per nome mio padre e gli ordinò di condursi fuori, siccome intendeva parlamentare con lui. Così, quando il mio genitore uscì dalla sua capanna con sollecitudine e si ritrovò al suo cospetto, subito ne provò un certo spavento. Allora l’alieno, senza curarsi del suo atteggiamento timoroso, incominciò a dirgli:

«Capo degli Stucos, noi facciamo parte del glorioso popolo dei Tercipi; mentre io, che sono alla guida dei miei uomini, mi chiamo Kumbut. Da oggi in avanti, è nostra volontà prenderci cura di voi ed essere gli artefici della vostra nuova esistenza. In questo modo, vi procureremo tutto il benessere di cui necessitate. Allora non siete contenti di apprendere questa notizia da noi, la quale dovrebbe risultarvi senz’altro stupenda? Immagino di sì, poiché vi considero un popolo intelligente!»

«In verità, Kumbut, se lo vuoi sapere, non ho compreso neppure un poco il significato delle tue strane parole. Per favore, se non chiedo troppo, vorresti spiegarti meglio e dichiararmi chiaramente quale messaggio hai voluto trasmettermi con esse? Se vuoi farlo, sono in ascolto.»

«Invece la questione è molto semplice, Agerio. Vi vogliamo rendere la vita il meno gravosa possibile, privandovela di ogni tipo di preoccupazione. Vi prometto che non dovrete più lavorare per il resto della vostra esistenza, allo scopo di sostentarvi e di sopravvivere. Dopo che avremo eseguito su di voi la nostra opera purificatrice, il lavoro per voi cesserà di avere un significato qualsiasi. In breve, dal momento che non avrà più alcun valore per la vostra nuova vita, esso cesserà di esistere per voi tutti, con vostra somma fortuna. Ciò dovrebbe risultarvi assai giovevole, se ci riflettete bene. Non potrebbe essere altrimenti!»

«Se ho bene inteso, Kumbut, hai voluto comunicarci che sarete voi a lavorare al posto nostro, visto che non me lo so spiegare in altro modo. Ammesso pure che sarà come hai detto, chi ci garantisce che dopo non dovremo contraccambiarvi il favore da voi ricevuto con qualcos'altro, che potrebbe risultarci peggiore del nostro tollerato lavoro? Comunque, sebbene la vostra proposta sia alquanto allettante, preferiamo non cambiare la nostra vita di sempre, che è quella attuale. Pensa un po’ come essa ci risulterebbe noiosa, se venissimo privati del nostro lavoro quotidiano! Perciò, ringraziandovi del vostro raro altruismo, vi preghiamo di togliere il disturbo dal nostro villaggio. I cui abitanti non intendono assolutamente dissociarsi da ogni sorta di fatica, considerato che essa riesce a rendere più interessante la loro esistenza. La quale, se venisse privata di ogni tipo di lavoro, sono certo che si annoierebbe a morte!»

«Invece, Agerio, constato che hai capito ben poco di ciò che noi Tercipi vogliamo fare del tuo popolo, per cui devo ricredermi sul vostro grado di intelligenza, trovando il vostro cervello sottosviluppato. A questo riguardo, devo chiarirti che la nostra non è affatto una proposta, con facoltà da parte vostra di accettarla oppure di respingerla. Al contrario, si tratta di un provvedimento che già abbiamo deliberato nei vostri confronti e che adesso intendiamo attuare, con o senza il vostro consenso. Per tale motivo, non vi sarà permesso di sottrarvi ad esso. Quindi, con le buone oppure con le cattive, sarete obbligati a sottostare a ciò che, già prima di presentarci nel tuo villaggio, abbiamo stabilito per la totale tua gente! Adesso ti sono stato più comprensibile di prima?»

«Kumbut, come mai non avete pensato al fatto che il mio popolo, lungi dal temere la vostra stazza, potrebbe insorgere armato e darvi battaglia, pur di non accondiscendere alla vostra imposizione, utile o nociva che sia? Perciò sono io a chiarirti bene le idee in merito, rendendoti manifesto che il mio popolo desidera essere lasciato libero di autodeterminarsi e di autogestirsi, senza che dei forestieri, venuti chissà da dove, lo facciano con la prepotenza al posto loro! Intesi?»

«Perché, Agerio, avremmo dovuto pensare ad una vostra insurrezione contro di noi, se essa, ammesso che ci fosse stata, non ci avrebbe scalfiti neppure minimamente? Infatti, nel caso che fossimo costretti dal tuo popolo a farne una carneficina orrenda, il peggio sarebbe soltanto suo! Dovendo chiudere qui la nostra conversazione, passo ad avvertirvi che avete tempo fino a domani per decidere la vostra bonaria accettazione della nostra proposta, dandoci la vostra risposta affermativa. Ma vi esorto ad essere ragionevoli, se non volete vedere estinguersi per sempre l’intera vostra stirpe! Domani ritorneremo con tutto l’armamentario, del quale avremo bisogno per procurarvi il benessere che vi ho promesso. Ma qualora voi vi ricusaste di accettare la nostra generosità, allora per noi non ci sarebbe altra alternativa che quella di rendervi l’esistenza un autentico luogo di sofferenze! Perciò rifletteteci bene, prima di rifiutarla incoscientemente e di ritrovarvi in guai molto seri! A domani, dunque, quando ci sarà il nostro salutare ritorno!»

Espressa la sua minaccia, Kumbut abbandonò il nostro villaggio con i suoi Tercipi, lasciando scioccati sia mio padre che quanti erano stati presenti al colloquio. Così nel pomeriggio, per volere del mio genitore, si tenne un’assemblea delle persone anziane che egli stesso presiedette, in qualità di capo del villaggio. Per la verità, la discussione assembleare ebbe una durata brevissima, siccome essa trovò i suoi membri tutti concordi a non cedere alle minacce dei Tercipi. Oltre alla loro opposizione agli alieni, a unanimità si decretò che l’indomani avrebbero fatto accogliere gli alieni da un migliaio dei loro armati, allo scopo di renderli più ragionevoli nei loro confronti.

Nella tarda mattinata del giorno successivo, come preannunciato dal loro capo, i Tercipi erano già nei pressi del nostro villaggio. Ma lì, a guisa di barriera umana, essi trovarono mille nostri conterranei. Costoro erano muniti di ogni sorta di armi bianche ed erano intenzionati a non farli andare oltre. Invece, anziché intimorirli, i nostri armati scatenarono la loro ira, dando luogo ad un putiferio. Ma la rabbia degli alieni sbollì, soltanto dopo aver fatto strage di cinquecento dei nostri uomini. Le restanti cinque centinaia, dopo essersi salvate con la fuga, ripararono terrorizzate nel loro villaggio. Il terrore dei nostri uomini era scaturito dal fatto che gli invasori Tercipi, oltre a non lasciarsi ferire dalle loro armi, mostrandosi i loro corpi molto sodi e praticamente invulnerabili, avevano riservato ai loro compagni un trattamento spaventoso. Dopo averli raggiunti ed abbrancati, li avevano scagliati ad una grande altezza. Allora, ricadendo al suolo come tanti pesi morti e sfracellandosi miseramente, essi vi avevano trovato una morte immediata.

La notizia giunse a mio padre e agli altri Stucos davvero sconfortante; né si seppe trovare qualche rimedio da parte nostra per tenere i Tercipi lontani da noi e dal nostro villaggio. Perciò ci mettemmo l’animo in pace e ci preparammo ad accettare remissivamente ogni richiesta che sarebbe provenuta da loro. Comunque, non sapevamo ancora cosa quei pochi invasori in effetti pretendessero da noi, come pure non avevamo capito in quale modo essi non ci avrebbero più fatto lavorare. In merito alla faccenda, il loro capo Kumbut si era tenuto sul vago e non aveva specificato con esattezza in cosa intendessero trasformarci. Così, in attesa di venirne a conoscenza al più presto, ci auguravamo che la mutazione non ci mettesse in una situazione scabrosa, considerato che Kumbut aveva escluso qualsiasi tipo di sofferenza. Nel discuterne con mio padre, egli aveva parlato in modo generico, poiché aveva soltanto accennato ad una esistenza senza dubbio migliore, ossia serena e niente affatto faticosa. Ma di che tipo essa sarebbe stata, se era lecito saperlo?


Un’ora prima di mezzogiorno, i Tercipi fecero il loro nuovo ingresso nel nostro villaggio. Eccettuato il loro capo, tutti gli altri reggevano sulla testa una grossa cesta, il cui diametro era di due metri. Essa era appoggiata sopra un grosso cercine, il quale, ammorbidendo il contatto con il loro cuoio capelluto, gli consentiva di sopportare meglio il pesante carico. Naturalmente, molti di noi del villaggio ci andavamo domandando che cosa mai contenessero quei recipienti di vimini dalla forma cilindrica. Nessuno, però, avrebbe mai immaginato che il loro contenuto, nel giro di poche ore, sarebbe servito a trasformare del tutto il nostro organismo. Inoltre, in seguito a tale trasformazione da esso operata, organicamente non saremmo stati più le stesse persone di prima; anzi, avremmo rimpianto il nostro precedente modo di esistere. La meta degli invasori fu ancora la nostra capanna, dove Kumbut chiese un ulteriore colloquio con il mio genitore, essendo la persona più autorevole del villaggio e il più in grado di relazionare con gli altri Stucos. Quando poi mio padre fu al suo cospetto, mostrandosi borioso, egli cominciò a dirgli:

«Agerio, adesso gli Stucos ritengono giusto avere cagionato, con la loro rivolta, la morte di cinquecento loro conterranei? Essi potevano benissimo risparmiarsi di causare una simile mattanza! I miei Tercipi sono stati costretti ad ucciderli. Inoltre, sono stati fin troppo generosi, se non hanno ammazzato anche gli altri, limitandosi invece a metterli soltanto in fuga. Capo degli Stucos, spero che la loro morte vi sia servita come lezione e che, per il vostro bene, adesso siate pronti a mettervi a nostra completa disposizione, ad evitare di spingerci ad altre inutili uccisioni! Noi non desidereremmo rifarle, se anche a voi sta bene schivarle!»

«La vostra cruenta reazione, Kumbut, ci ha fatto prendere coscienza che voi siete il martello e noi l’incudine. E siccome non siamo in grado di invertire i ruoli, possiamo solo essere alla vostra mercé, senza più la facoltà di decidere da persone libere. Stando così le cose, siamo obbligati a fare di noi ciò che volete. Oramai questo è il nostro destino!»

«Mi fa piacere, Agerio, apprendere che tu e i tuoi sudditi siete finalmente rinsaviti. È così che si ragiona, se si vuole vivere meglio e a lungo! Ma adesso veniamo a noi e stai attento, mentre ti parlo. Ci occorre la collaborazione di tutte le persone valide di entrambi i sessi. Esse dovranno cooperare con i miei Tercipi nella costruzione di due spaziosi capannoni, che dovranno avere le seguenti dimensioni: lunghi cento metri, larghi dieci e alti quattro. Il primo dovrà essere la nostra dimora; mentre il secondo dovrà contenere l’intero materiale portato con noi. Per il momento, la costruzione dei capannoni è il solo vostro compito.»

«Essendo questa la tua ferma volontà, Kumbut, darò subito l’incarico alla mia gente di collaborare con i tuoi Tercipi, dandosi a costruirli consenzienti, lungi dall'opporvi la minima resistenza. Vedrai che entro domani i due alloggi saranno già bell’ e pronti. Così voi potrete impiegarli nel modo che mi hai fatto presente poco fa!»

«Grazie, Agerio, per la vostra assoluta disponibilità! In riferimento alle altre disposizioni che mi restano ancora da darvi, esse vi saranno trasmesse molto presto, cioè non appena avremo sistemato per bene il nostro materiale in uno dei due capannoni, come già sapete.»

Quando infine i lavori delle due strutture lignee furono ultimati, i Tercipi vi presero sistemazione in breve tempo. I due capannoni erano stati costruiti con materiale vegetale misto e con una resina speciale, la quale era servita ad impermeabilizzare la copertura delle due strutture. Dopo la loro costruzione, la metà degli alieni rimase di guardia davanti al locale in cui avevano depositato le ceste munite di coperchio. Comunque, il loro contenuto era già stato visionato da uno dei nostri uomini; ma per riuscirci, il nostro conterraneo aveva approfittato della momentanea distrazione dei guardiani tercipini. Volendo specificare meglio la cosa, i due Tercipi erano stati distratti da una falsa lite inscenata da due Stucos proprio davanti a loro. Dopo, essendo curioso di sapere cosa fosse nascosto nelle ceste, egli ne aveva scoperchiata una ed aveva scoperto che vi erano conservate un centinaio di ampolle vuote non più grandi del pugno di una mano. I piccoli recipienti, i quali erano stati ottenuti con un materiale trasparente a noi sconosciuto, si presentavano panciuti nella loro parte inferiore e allungati nella loro parte superiore. A notte inoltrata, invece, un altro dei nostri, eludendo sempre la loro vigilanza, apprese che essi in serata erano stati tolti dalle ceste ed ora giacevano disposti tutti sul pavimento del capannone. Nessuno degli Stucos era riuscito a rendersi conto dell’uso che i Tercipi ne avrebbero fatto. Ma qualcuno già presentiva che non ci si poteva aspettare nulla di buono da loro, benché apparissero dei piccoli recipienti vuoti ed insignificanti. L’indomani Kumbut si ripresentò al mio genitore e gli comunicò:

«Capo Agerio, è giunto il momento di purificare il corpo degli Stucos, siccome attualmente esso si presenta immondo. Ti assicuro che, dopo la loro purificazione organica, nessun morbo potrà più intaccarlo e farlo ammalare. Così ogni malattia si terrà lontana da ogni abitante del villaggio molte miglia ed eviterà di contagiarlo!»

«Posso sapere come dovrà avvenire la purificazione degli Stucos, Kumbut? Mi piacerebbe conoscerlo prima, se non ti dispiace.»

«Tu e i tuoi conterranei dovrete mettervi in fila davanti al capannone attiguo al nostro, dove vi faremo entrare dieci per volta. All’interno di esso, ci saranno altrettanti Tercipi che saranno muniti di un congegno chiamato trasmigrat, il quale è cavo e non supera le otto spanne. Ogni Stucos, dopo averlo preso tra le labbra dalla parte del boccaglio, dovrà soffiarvi dentro tre volte in modo profondo. Così facendo, qualunque suo germe patogeno finirà in un recipiente di vetro, il quale verrà poi chiuso ermeticamente con un tappo. Da quel momento in poi, nessun morbo nocivo potrà più colpire il vostro corpo, perché esso inizierà a sprizzare salute da tutti i pori! Agerio, ti sei reso conto che si tratta di una cosa semplice e vantaggiosa per voi, che non vi recherà il minimo fastidio?»

«Dici davvero, Kumbut, che la purificazione dei corpi della mia gente consisterà soltanto in questo? Eppure pensavo che si dovesse procedere a qualcosa di più complesso e di più pericoloso, se lo vuoi sapere! Come vedo, davvero sono morti invano gli altri cinquecento Stucos!»

«Sì, Agerio, la temuta operazione consiste solo in questo: emettere tre lunghi soffi nel trasmigrat! Non ci sarà altro da fare, da parte vostra. Quando verrete fuori dall’altra uscita del capannone, vi sentirete già rigenerati e in preda ad una piacevole sensazione, quella che non avete mai avvertita in passato. Ti do la mia parola che sarà proprio così!»

«Se tutto avverrà come hai detto, Kumbut, allora quando desideri che la mia gente venga purificata? Sai, vorrei avvisarla e farla trovare in tempo utile davanti al capannone, in modo che ogni Stucos sia già preparato e predisposto a concedersi a tale operazione purificatoria!»

«Inizieremo ogni cosa oggi stesso, Agerio, precisamente subito dopo pranzo. Ma è molto importante che la nostra operazione termini, prima che giunga il tramonto, se si vuole che essa sia portata a buon fine! Vi raccomando la massima puntualità da parte di tutti voi!»

Una volta che ebbero pranzato, ubbidendo all’ordine ricevuto dal loro capo, tutti gli Stucos si fecero trovare davanti al capannone per far purificare il loro organismo. Essi, seguendo le direttive dei Tercipi presenti, si erano disposti su cinque file. Gli unici assenti furono i bambini che non erano in grado di soffiare. Quando poi il tramonto cominciò a rosseggiare dappertutto, le tre migliaia di persone che ci eravamo sottoposte felicemente alla purificazione suggeritaci dai Tercipi, per avere già soffiato nel trasmigrat, facemmo subito ritorno alle nostre case. Mentre ci dirigevamo verso di esse, come tanti creduloni, la felicità si leggeva sui nostri volti, poiché gli alieni avevano assicurato ad ognuno di noi che non avremmo più contratto alcuna malattia per l'intera nostra esistenza, grazie ai nostri tre profondi soffi immessi nel loro piccolo congegno.

Adesso vi riporto le mie impressioni soggettive, naturalmente quelle che mi provennero da quella stramaledetta esperienza, che i Tercipi ci avevano costretti a vivere con l'inganno e che non auguro a nessuno.

Dopo aver soffiato in quell’arnese strano, che i Tercipi chiamavano trasmigrat, ebbi la sensazione di avervi fatto entrare non solo il mio respiro, bensì qualcosa di me che neppure riuscivo a definire. Mi era parso che avessi permesso il travaso di una mia componente dall’entità da me rappresentata a quell’ampolla trasparente. Perciò avvertii nel mio intimo una specie di vuoto incolmabile, come se qualcuno avesse scardinato dentro di me i pilastri dell’esistenza. Nonostante quella mia sensazione, quando uscii dal capannone, nel mio animo primeggiava un giubilo indefinibile. Allora mi chiesi che cosa mai mi stesse succedendo e come mai venissi pervasa da quel brio inconsueto, il quale non mi faceva comprendere più niente. Esso, intanto che frastornava la mia mente, mi nascondeva l’incredibile mutamento che dentro di me si andava effettuando in modo insensibile ed invisibile.

Durante la serata, non sentii neppure l’esigenza di cenare, poiché il cibo, in quel momento, era l’ultima delle cose a cui pensavo. Invece era il sonno ad occupare il primo posto tra quelle che volevo. Venivo spinto ad esso, come non era mai accaduto, per cui il desiderio di assopirmi diveniva più preponderante nel mio cervello. Per questo, salutati i miei che mi apparivano nella mia medesima situazione, mi distesi sul mio letto e mi ci addormentai. Sono sicura che anche i miei familiari mi dovettero imitare poco dopo e se ne andarono a letto, anche se non ebbi modo di vederglielo fare. In seguito, non era trascorsa neppure qualche ora, da quando mi ero coricata, allorché mi accorsi che il mio sonno era diventato un dormiveglia continuo, poiché andavo incontro a momenti ora di sonnolenza ora di presa di coscienza. Ma il mio stato di lucidità mentale non mi riportava né al buio della notte né ai miei pensieri, che si davano a vagare nel mio presente e nel mio passato. Esso mi metteva di fronte ad una realtà talmente assurda, da considerarla un prodotto a volte dell’immaginazione altre volte della mia attività onirica.

Più in là nel tempo, incominciai ad avere la strana sensazione che il corpo mi stesse abbandonando, poiché lo vedevo sfaldarsi e dissolversi nel nulla. La sua disintegrazione, in un certo senso da considerarsi enigmatica, si andava attuando con la perdita progressiva di tre dei miei cinque sensi, per cui mi restavano a disposizione solo la vista e l’udito. In verità, in quel trambusto psichico, in me, più che l’olfatto e il gusto che mi risultavano ancora integri, era l’anomala attività del tatto a suscitare in me una grande preoccupazione. All’inizio, esso mi era sembrato oscillante tra l’esistere e il non esistere. Per tale motivo, tutte le cose che mi circondavano, compreso il mio stesso corpo, saltuariamente sfuggivano al suo controllo. Infatti, le mie mani non sempre erano in grado di sentirle e di toccarle. Sovente, tentando di afferrarle, si ritrovavano con i pugni chiusi, senza essersi impossessate neppure di un soffio d’aria. La qual cosa mi faceva impazzire dalla rabbia, perché mi rendeva consapevole che, se non sognavo, mi stava accadendo un fatto tremendamente grave. Così, più il tempo passava e più il mio corpo, almeno secondo la mia percezione, diveniva maggiormente leggero, diafano ed incontrollabile. La sua impercettibilità, che adesso si presentava in rialzo, mi frastornava le idee, mi gettava in uno stato nevrotico non di poco conto. Il quale faceva di me la vittima di un naufragio della mente in un oceano paradossale. Per la prima volta, essa si sentiva di rappresentare l’intera me stessa, senza più dovere condividere la mia entità reale con l’altra componente, rappresentata dal mio corpo. Essa, nella mia vita di ogni giorno, prima almeno riusciva sempre a fare la parte del leone. Mentre poi vedevo il mio organismo svanire in quel frangente arcano, fui indotta dalla circostanza a chiedermi se tale fenomeno strano, il quale mi stava succedendo in quella notte, non stesse interessando anche gli altri abitanti del villaggio, compresi i miei familiari. Venni tentata perfino di verificarlo con i miei genitori, però mi trattenni dal farlo. Avevo il timore che quella mia esperienza notturna non fosse reale e che fosse il risultato di un incubo. In quel caso, li avrei solo disturbati per niente, cioè senza un giustificato motivo.

Poco dopo, ad un tratto, mi accorsi di non avere più un corpo a mia disposizione, la qual cosa rendeva ogni mio movimento un atto privo di qualunque sforzo. Per cui adesso era la mia mente a farmi muovere; questa volta, però, con una prerogativa in più. Infatti, mi rendevo conto che ero in grado di spostarmi anche nell’aria, seguendo le varie direzioni da me volute, per cui me ne spaventai tantissimo. A quella nuova constatazione, decisi di uscire dalla nostra abitazione, volendo appurare se quella mia impressione fosse davvero reale oppure soltanto immaginaria. Nella fretta, però, non badai ad aprire la porta. Allora, senza accorgermene, attraversai addirittura una parete della mia capanna. Soltanto all'esterno della nostra abitazione, mi resi conto che mi spostavo completamente nuda, poiché prima la mia casacca, non avendovi trovato un appoggio, aveva abbandonato il mio corpo, lasciandosi cadere per terra.

Una volta fuori, avendoci riflettuto bene, mi resi conto che adesso potevo attraversare degli ostacoli materiali, senza un minimo di difficoltà. All'esterno, all’improvviso, iniziarono a farsi udire parecchi strilli di bambini, cioè di quelli che si trovavano ancora nel periodo di allattamento. I poveretti, pur avendo fame, non venivano nutriti dalle loro madri. Per questo, dandosi ad un pianto dirotto, davano luogo ad un piagnisteo colossale e senza fine, come non era mai successo in passato. Possibile che le loro mamme non provvedevano a sfamare i loro piccoli? Quel fatto mi incuriosì moltissimo e volli conoscere le ragioni, per cui tanti poppanti non venivano allattati dalle loro genitrici puerpere. Allora mi trovai davanti ad un’amara realtà: anch'esse erano diventate delle autentiche larve uguali a me e non possedevano più un seno per usarlo a tale scopo. Ciascuna di loro, nel sentire piangere il proprio piccolo, si era subito svegliata e si era precipitata presso la sua culla. Invece, ahimè, ella si era accorta di non possedere più un corpo e di essere diventata un puro spirito. Perciò invano cercava di prendere l'infante e di sollevarlo dalla culla, allo scopo di avvicinarlo alle sue poppe e consentirgli di sfamarsi. Quei suoi gesti si dimostravano impotenti, brancolavano nel puro vuoto, non producevano alcun effetto concreto. A causa di ciò, il suo piccolo lattante, assalito dai terribili morsi della fame, si disperava e riempiva di strilli la capanna, senza smettere un secondo. Perciò il dramma di quella penosa circostanza si poteva leggere negli occhi della donna. Essi mostravano una incredibile smania di risolvere il suo problema senza soluzioni, una immensa disperazione, un terrore sconfortante e un patema interiore che la conduceva alla follia. Come lei, sfortunatamente, pure le altre puerpere soffrivano per la doppia disgrazia che le aveva colpite. Penavano per loro stesse, poiché si ritrovavano senza un corpo da gestire e si tormentavano per i propri figlioletti, non essendo in grado di allattarli. Dinanzi a quello spettacolo sconcertante, mi venne spontaneo piangere sia la mia sventura sia quella di tantissime madri derelitte e dei loro figli.

Stando così le cose, mi resi consapevole che il capo dei Tercipi ci aveva ingannati. Nelle sue ampolle non erano finiti i nostri malanni, come egli ci aveva assicurato. Invece, per una strana magia, vi avevano fatto ingresso i nostri corpi spariti. Inoltre, ciascuno di noi aveva voluto dargli anche una mano, soffiandoci dentro il proprio organismo! Più tardi, in preda allo sconforto più deprimente, me ne andai in giro per il nostro villaggio fino all’alba. Quando poi i primi chiarori si affacciarono ad oriente, ebbi modo di osservare che ciascuna strada iniziava ad affollarsi di spiriti vaganti, i quali si presentavano anch'essi interamente nudi. Allora sul volto di tutti noi si potevano leggere una costernazione tremenda e un disorientamento pauroso, non sapendo in quale maniera vivere la nostra nuova realtà e protrarla a lungo nel tempo. Essa, come sospettavamo, ci era provenuta dall'avere soffiato in quello che a tutti era apparso un normale recipiente. Il quale, come avevamo appreso, era fatto di un certo materiale, che i Tercipi chiamavano vetro.