306°-DOPO LA MORTE DELLA MOGLIE E DEL FIGLIO, OKSUR SI VENDICA

Oksur era venuto a sapere dal suocero Radron dell’accordo che si era concluso tra il re Guvop e il re Profus. Ma non appena aveva appreso che anche la moglie e il figlio erano stati designati come ostaggi, egli era volato come un fulmine a corte per chiedere spiegazioni al sovrano di quanto era stato stabilito a danno dei propri familiari. Invece il monarca, volendo evitare di incontrarlo, preventivamente aveva fatto pervenire un proprio messaggio al cerimoniere di corte. Con esso, lo aveva avvisato che, se si fosse presentato il comandante in capo dell’esercito a chiedere di lui, avrebbe dovuto riferirgli che egli era indisponibile per tutti, fino a data da destinarsi. Da parte sua, Oksur, anche dopo avere ascoltato le parole dell’alto dignitario di corte, ugualmente non aveva voluto sentire ragione. Perciò, senza darsene per inteso, si era diretto alla porta d’ingresso che conduceva agli alloggi privati del sovrano. Pur di oltrepassarla e raggiungere il re, egli aveva dovuto strattonare e scaraventare per terra le quattro guardie incaricate di sorvegliarla. Esse imprudentemente avevano tentato di impedirgli di accedere ai reparti da loro tenuti sotto un'accurata e rigida sorveglianza. Per lui, comunque, sarebbe stato facile eliminarle senza alcuna fatica; ma egli se ne era ben guardato dal farlo. Infatti, non era sua abitudine macchiarsi di sangue a scapito di persone che non erano responsabili di azioni colpevoli.

Così Oksur si era presentato con furia nel locale in cui il re Guvop era solito passare la maggior parte della giornata, a causa della sua passione aviaria. Egli ve lo aveva trovato, mentre si intratteneva nella grande voliera e si interessava con cura ai suoi numerosi pennuti. Questi comprendevano un centinaio di specie di uccelli, tutti che presentavano un piumaggio stupendamente variegato. Allora il sovrano, vedendolo irrompere nell'uccelliera senza preavviso e in preda ad un'acre rabbia, era rimasto perplesso, non sapendo se temere la sua collera oppure affrontarlo con determinazione. Ma poi aveva deciso di prenderlo di petto, dal momento che l'ospite indesiderato era un suo suddito. Per questo, facendosi coraggio, si era dato a redarguirlo come si conveniva alla sua regale maestà, senza temere di parlargli nel modo seguente:

«Come hai osato, Oksur, presentarti davanti a me, senza che io ti abbia prima concesso udienza?! La tua è stata una insolente ed imperdonabile iniziativa, la quale potrebbe anche costarti molto cara, se non te ne sei ancora reso conto! Tutto dipenderà da come la considererò io, dopo averla esaminata con calma! Credo di essermi spiegato sufficientemente, perché tu intenda ciò che mi è sembrato giusto farti presente!»

«Se ho agito in questo modo, sovrano Guvop, è perché tu mi ci hai costretto! Riconoscente dei grandissimi servigi che ho procurato a te e alla tua città, non avresti mai dovuto far risultare nella lista degli ostaggi di pace tanto la mia consorte quanto mio figlio Touk! Tu mi dovevi la tua stessa vita, alla quale aveva attentato tramite i suoi uomini la medesima persona, che ha voluto farmi questo torto esclusivamente per vendetta! Perciò la tua è stata un’assurda ingratitudine, che non mi sarei mai aspettata da te. Appena ne sono venuto a conoscenza, l’ira mi ha accecato e mi ha sollecitato a presentarmi alla tua maestà per farti ragionare nella maniera più saggia e spingerti a ripensarci, prima che risolvessi a modo mio la questione! Dunque, ora mi attendo da te la promessa che i miei due familiari non faranno più parte del gruppo degli ostaggi. Solo così riuscirò ad acquietarmi e me ne ritornerò a casa rasserenato! Altrimenti, non risponderò delle mie azioni irresponsabili, le quali neppure immagini a cosa potrebbero dar luogo!»

«Invece, Oksur, devo deluderti. Non posso ritornare sui miei passi, per il semplice fatto che ho dovuto esaudire la richiesta del re Profus. Egli mi ha domandato espressamente di includere tra gli ostaggi tua moglie e tuo figlio. Devi sapere che la ragion di stato viene davanti a tutti e prima di ogni cosa. Ecco perché non comprometterò la pace, che ci sarà a breve scadenza tra i Bruvos e i Cimmuz, di cui beneficerà il mio popolo. Per nessuna ragione, non me la farà mettere in pericolo il semplice compiacimento di accontentare un solo mio suddito, per quanto prestigioso egli possa risultare! Dovresti sapere che la cessazione delle armi farà evitare agli uni e agli altri molti massacri. Oksur, non scordarti che, alla pari di tutti i miei sudditi, comprese mia moglie e le mie figlie, mi devi una incondizionata obbedienza, se non vuoi cadere in mia disgrazia ed iniziare ad assaporare i frutti della mia punizione! Ti sono stato abbastanza chiaro oppure devo ripetertelo ancora una volta?»

«Mio ex re, visto che da oggi non ti considererò più il mio sovrano, allora sappi che non accetterò mai che i miei due familiari diventino ostaggi del re Profus. Anzi, ti avverto che tenterò di impedirlo con ogni mezzo. Se non lo hai ancora compreso oppure fai finta di ignorarlo, il re dei Cimmuz, attraverso le due persone a me più care, ha inteso colpirmi personalmente per due motivi. Primo, fui io a sventare il suo attentato alla tua persona, salvandoti da morte certa; secondo, non ho mai smesso di essere l’autore delle disfatte del suo esercito. Questi due fatti mi fanno pure prevedere che i miei due familiari non avranno vita facile presso la sua corte di Tulres! Ne sono fermamente convinto!»

«Come fai ad esserne certo, Oksur? Io non la penso allo stesso modo tuo. Ma considerato che ti è impossibile dimostrare la tua tesi con accuse fondate, preferisco credere nella buona fede del re Profus. Perciò anche i tuoi due familiari, insieme con gli altri novantotto Bruvos, andranno a fare da ostaggi presso il popolo cimmuzese. E tu non potrai impedirlo, essendo io la persona che detta leggi nella mia città e a cui tutti i miei sudditi devono obbedienza! Quindi, ti tocca accettare la mia decisione!»

«Invece non lo permetterò e non darò modo all’infido re Profus di vendicarsi di me, attraverso mia moglie e mio figlio. Se sarò obbligato, darò filo da torcere a voi due, come non potete neppure immaginare, senza che i vostri eserciti vi possano proteggere da me! Così conoscerete la mia furibonda indignazione, la quale è abituata a non arretrare neppure dinanzi a degli ignobili sovrani incapaci di riconoscenza e di gratitudine. Invano tenterete di sfuggire ad essa, pur ricorrendo a barricate umane, pur essendo composte da migliaia di soldati!»

Dopo aver pronunciato tali sue ultime frasi, le quali si erano palesate irrispettose e minacciose verso i due sovrani che avevano osato essergli di enorme disturbo, Oksur aveva piantato in asso il re Guvop, senza degnarlo neppure del suo saluto. Anzi, aveva abbandonato la reggia molto stizzito, avendo fretta di raggiungere il proprio suocero.

Secondo quanto stabilito dai due regnanti stipulanti, duecento soldati cimmuzesi avrebbero dovuto accompagnare i loro concittadini scelti come ostaggi ad Erbam. Di lì poi se ne sarebbero dovuti ritornare a Tulres con gli ostaggi bruvosini, dopo averli avuti in consegna dai soldati di Erbam. Le cose erano andate esattamente così nella città del re Guvop, anche se c’era stato un inconveniente da parte degli ostaggi, che erano stati costretti a seguire i militari del re Profus. Infatti, si era avuta la sola resistenza da parte di Sarnel, per cui si era dovuto trascinarla via con la forza. In verità, i soldati cimmuzesi non avevano perso tempo e rimettersi in viaggio verso la loro città, non sentendosi sicuri, dopo aver appreso che la donna era la moglie addirittura del leggendario Oksur.

Quando i soldati del re Guvop erano andati a prelevare nella loro abitazione sua moglie e suo figlio per consegnarli ai soldati cimmuzesi, Oksur si trovava presso il suocero. Egli vi si era recato, allo scopo di consultarsi con lui sulla vicenda dei cento ostaggi. L’uomo, che abitava in un posto isolato fuori città, non aveva approvato la condotta del genero nei confronti del sovrano e non aveva nemmeno condiviso ciò che egli intendeva attuare, pur di non farsi portare via i suoi due cari familiari. Ma dopo esserci stato fra di loro lo scambio di vedute sulla complicata vicenda, le quali potevano essere state solo abbastanza discordanti, Oksur generosamente si era offerto di dare una mano al padre della consorte. L’anziano uomo, infatti, aveva da ultimare alcuni lavori campestri, i quali erano stati iniziati già prima del suo arrivo. Per questo motivo l’aiuto dato al suocero gli aveva portato via il resto della giornata, facendolo rincasare nella tarda serata.

Una volta messo piede in casa propria, all'istante egli aveva compreso che il suo Touk e la sua Sarnel non stavano ad aspettarlo nel suo interno: essi erano spariti a sua insaputa e senza nemmeno avvisarlo. Ma alcuni vicini di casa si erano affrettati a farsi avanti e a riferirgli quanto era accaduto ad entrambi nel primo pomeriggio. Cioè, che i soldati, una mezzoretta dopo che egli li aveva lasciati da soli, si erano presentati a casa sua e li avevano condotti via con la forza. Allora il loro racconto aveva fatto diventare furibondo l’inossidabile guerriero, che immediatamente si era messo alla ricerca dei suoi due familiari. Comunque, per saperne di più sui vari particolari del loro prelevamento, innanzitutto Oksur si era rivolto al suo luogotenente Verdup. Costui, come suo grande amico ed ammiratore, si era messo a sua completa disposizione, pur non potendo farlo, per essergli stato vietato dal suo sovrano. Per prima cosa, egli aveva comunicato all'amico che il re Guvop lo aveva esautorato, privandolo della carica di comandante supremo del suo esercito, la quale era stata poi conferita a lui. Successivamente, il suo ex subalterno lo aveva reso edotto di ciò che era accaduto in città in sua assenza alle persone scelte come ostaggi. Infine, pur manifestandogli la sua solidarietà, lo aveva pregato di non commettere pazzie e di evitare di contravvenire alle disposizioni del sovrano connesse alla trattativa di pace con i Cimmuz. Se non gli avesse ubbidito, egli sarebbe stato obbligato ad agire contro chi stimava più del proprio re, allo scopo di non compromettere il suo attuale prestigio. Ma oramai Oksur aveva già stabilito come risolvere la questione e nessuno sarebbe stato capace di dissuaderlo dal suo fermo proposito. Perciò, dopo aver ringraziato l’amico Verdup, sia per le sue informazioni che per i suoi consigli non da lui condivisi, salutandolo affettuosamente, si era messo sulle tracce dei soldati cimmuzesi. Ci si riferisce a quelli che erano stati incaricati di condurre alla loro città gli ostaggi bruvosini, tra i quali risultavano anche la moglie Sarnel e il figlioletto Touk.


Il giorno seguente, nella tarda mattinata, i Cimmuz e i loro ostaggi erano arrivati in un luogo, il quale era conosciuto molto bene da Sarnel. Ella sapeva che nelle vicinanze si trovava un dirupo a strapiombo, che faceva registrare un vuoto che superava il centinaio di metri. Allora, ad un certo momento, tenendosi in braccio il suo bambino, la disperata donna si era messa a correre proprio in direzione di esso. Quando i soldati cimmuzesi se ne erano accorti, ella aveva già raggiunto il ciglio di quel vuoto profondo. Da quel posto, poi, la sventurata si era messa ad urlare forte, minacciando che, se non fosse stata lasciata libera di ritornare alla sua città di Erbam insieme con il suo piccolo Touk, di sicuro si sarebbe buttata giù nel vuoto, senza pensarci due volte. A quelle sue minacce, due soldati, standole ad una distanza ravvicinata, avevano cercato di scoraggiarla dal commettere il suo insano gesto. Soprattutto avevano tentato di farle comprendere che era meglio trascorrere una vita da ostaggio, anziché rinunciare ad essa per sempre. Invece, da parte sua, un terzo soldato era intervenuto a parlarle con alquanta protervia. Egli, beffardamente, si era messo ad affermarle:

«A che cosa ti serve ritornare nella tua città natale, se non vi troverai più ad attenderti tuo marito? Egli, dopo essere stato rimosso dalla carica di comandante in capo dell’esercito, a quest’ora certamente sarà stato arrestato ed incarcerato per ordine del re Guvop. Ecco perché ti conviene rinsavire e trovarti un altro uomo nella nostra città, il quale faccia a te da marito e da padre putativo al tuo bambino. Questa è la soluzione migliore per voi due, se proprio ci tieni a saperlo, donna sventurata!»

Alle parole del soldato, Sarnel si era data a gridare con quanta voce avesse: "Invece, se non possiamo vivere insieme con il nostro Oksur, io e mio figlio togliamo il disturbo da questo mondo ingrato! Non ci dispiace lasciarlo, per il grande male che esso ci sta arrecando!" Dopo aver pronunciato quelle frasi con uno schianto nel cuore, la sfiduciata ed inconsolabile donna si era gettata giù nel vuoto, tenendo il bambino stretto a sé. Così entrambi i familiari erano andati a sfracellarsi sul sottostante suolo, dove avevano trovato una morte subitanea. A quel lancio della donna da loro ritenuto sconsiderato, gli altri ostaggi suoi concittadini erano rabbrividiti ed avevano mostrato una sentita pietà verso la sciagurata madre. La quale, agendo in quel modo, aveva chiuso definitivamente con la sua esistenza, trascinando con sé anche il figlioletto. Inoltre, avrebbero voluto raggiungere l'una e l'altro in fondo alla scarpata per seppellirli secondo la loro usanza. Ma i soldati del re Profus si erano opposti al nobile gesto, che essi, da persone pie, intendevano compiere. Secondo loro, la sepoltura dei corpi avrebbe richiesto assai tempo, mentre c’era la necessità di raggiungere al più presto la loro Tulres. Specialmente, dopo che c'erano state quelle morti assurde dei due familiari del leggendario Oksur! Comunque, la loro fretta senza dubbio era dovuta al fatto che essi temevano, da un momento all’altro, l'apparizione sul loro tragitto dell’illustre e temuto marito della donna, il quale era anche il padre del piccolo. I Cimmuz erano convinti che Oksur avrebbe voluto vendicarsi senza meno della morte dei suoi due carissimi congiunti. Nonostante si fosse trattato di un suicidio bello e buono, egli ugualmente li avrebbe ritenuti responsabili del gesto irriflessivo a cui la consorte era stata costretta a ricorrere per disperazione. In seguito, però, quando il tramonto era appena alla sua fase iniziale, sbucando da un ammasso sterposo, Oksur aveva fatto la sua apparizione davanti al gruppo dei duecento soldati di Tulres e dei loro ostaggi. Tutti lo potevano scorgere sopra il suo cavallo grigio pezzato di bianco, mentre li scrutava in preda all’ira, la quale, in quel momento, pareva che gli uscisse dalle orbite. Si comprendeva al volo che egli stava rimuginando la sua tremenda vendetta contro i responsabili della morte dei suoi due familiari.

Bisogna sapere che il prodigioso uomo d’armi, seguendo le tracce degli ostaggi e dei soldati loro accompagnatori, era stato attirato da uno stormo di condor, i quali fendevano il cielo con voli ampi e radenti. Muovendosi in quel modo, essi si avvicinavano sempre di più ad una parte del suolo, che si trovava nascosta in una piccola depressione del terreno. Secondo lui, in quel posto dovevano trovarsi dei cadaveri non ancora putrescenti. Perciò, una volta superata la scarpata che conduceva nell’avvallamento, Oksur aveva fatto l’orrenda scoperta, poiché vi aveva trovato, morti da poco, la moglie e il figlioletto, ai quali non era stata data neppure una degna sepoltura. A quella vista agghiacciante, egli si era sentito avvolgere da una esacerbante afflizione: essa lo rendeva vittima dell’esperienza più conturbante che avesse mai vissuta nella propria esistenza. Ma la fase dell’angosciante patema interiore era durata brevemente, poiché ad essa aveva fatto sèguito una furia bestiale. Allora era cominciato a farsi avvertire in lui il bisogno di scatenarsi contro i responsabili prima possibile e con la massima ferocia. Oksur, però, innanzitutto aveva badato a dare una degna sepoltura alla coppia dei suoi amati congiunti, sottraendo i loro corpi sfracellati alla voracità degli ingordi uccelli rapaci. Soltanto dopo egli aveva ripreso a dare la caccia a coloro che avevano indotto la sua Sarnel a suicidarsi, trascinando nel suo folle gesto anche il figlio. Secondo lui, poteva essersi trattato esclusivamente di suicidio.

Adesso il formidabile guerriero era dinanzi ai numerosi soldati cimmuzesi e li squadrava da capo a piedi con uno sguardo torvo, quasi volesse distruggerli con gli occhi, ancor prima che con le sue mutilanti armi. In quel posto, ogni cosa era divenuta immota, immersa nell'assoluto silenzio, in balia di un’attesa spasmodica, pronta a subire la deflagrazione catastrofica dello sdegno esplosivo del mitico personaggio. Da una parte, la natura si andava tingendo del rosseggiante tramonto, il quale, in quell'ora del giorno, l'andava inondando dappertutto con il suo rosso sangue. Quasi intendesse preannunciare l’imminente strage dell'invincibile guerriero! Dall’altra, un’ansia terribile si andava incrementando nei soldati, nel frattempo che la cupezza della morte li andava investendo, simile ad un’ombra inarrestabile. La quale adesso si mostrava impaziente di avvilupparli con il suo manto funebre.

Quando infine in lui le occhiate minacciose si erano esaurite e i pensieri furiosi avevano cessato di imperversare con sete vendicativa nella sua mente, il figlio adottivo di Selun aveva taciuto per alcuni istanti. Alcuni attimi dopo, lasciando da parte il suo dolore, egli si era messo ad urlare contro quelli che aveva stabilito di punire con inaudita severità: “Sciacalli cimmuzesi, non vedete che questo tramonto si va espandendo ovunque rutilante? Ebbene, esso tra poco consegnerà la natura nelle mani della tenebrosa notte. Ma sappiate che questa parte del giorno rappresenterà anche il tramonto della vostra esistenza. Infatti, con la carneficina che farò di voi assai presto, tingerà di sangue la vostra vita e la costringerà a varcare la soglia della buia notte. Con tale mio primo atto, incomincerò a vendicare la mia Sarnel e il mio amatissimo Touk!”

Terminate le minacce, Oksur si era preparato ad assalire i soldati di Tulres, allo scopo di farne una grandissima strage, come non gli era mai capitato in precedenza. Data la circostanza, la quale faceva prevedere per loro la massima sventura, Stenk, che era il capo dei soldati cimmuzesi, essendosi accorto in tempo della sua chiara intenzione, aveva gridato ai suoi uomini: "Carichiamolo ed abbattiamolo con i nostri colpi potenti!" Alle parole del Cimmuz, era seguita l’impetuosa carica dei soldati tulresi, essendo decisi a spegnere nel loro rivale la manifesta tracotanza. Lo scontro, però, non si era svolto come una mareggiata che si abbatte sopra un isolotto e lo sommerge con i suoi marosi. Esso, metaforicamente parlando, era stato invece un'autentica esplosione, la quale intorno a sé si era messa a schiantare, a rovinare e a demolire ogni corpo cimmuzese che vi si trovava. Se era stato istantaneo l'accerchiamento da parte dei soldati, che avevano creduto così di averla già vinta contro l’intrappolato avversario, non l’aveva pensata allo stesso modo colui a cui essi avevano cercato di imporre la loro prepotenza.

Mentre parava quelli della controparte, Oksur era stato visto spedire i suoi colpi a destra e a manca con una rabbia ed una rapidità incredibili. Ovunque, nell’accerchiante folla dei numerosi armati, lo si era scorto sfasciare, atterrire, esplodere dirompente, creare vari vuoti di morte e di gravi mutilazioni, seminandovi molte vittime. I suoi assalitori, anziché godere di una posizione di vantaggio, come avevano ipotizzato, si erano ritrovati a subire un vero finimondo. Essi erano stati ricacciati nella loro stessa presunzione di volere frantumare il nemico con il loro assalto. Adesso Oksur aveva tutta l’aria di fargliela ringoiare con gli interessi, a giudicare la mattanza a cui stava sottoponendo i suoi numerosi assalitori! Oramai il ferito leone, da lui rappresentato, non riusciva più a frenarsi, essendo grandissima in lui la voglia di vendicarsi e di chiudere per sempre i conti con quei masnadieri di soldati, i quali avevano i minuti contati. Le sue sciabolate fulminee apparivano tanto decise e punitive, quanto devastanti ed apportatrici di morte immediata. Sembrava che nella sua mano ci fosse una molla a farle scattare rapide, imparabili e distruttrici di essenza vitale. Per tale ragione, i vuoti tra i suoi nemici andavano divenendo sempre più ampi, poiché vi venivano a mancare con ritmo crescente i corpi che in quel momento li occupavano, avendo essi smesso di essere quelli di persone viventi. Dopo che il massacro era stato ultimato, giacevano al suolo duecento corpi esanimi pronti a diventare carogne per gli uccelli rapaci, i quali, avendo tutto il tempo di farlo, se ne sarebbero saziati fino alla nausea.

Come era da prevedersi, la terribile reazione di Oksur non si era fermata all’uccisione dell’intera scorta degli ostaggi bruvosini, poiché egli era intenzionato ad andare ben oltre. Nella sua vendetta, il maestro d’armi aveva voluto comprendere pure il re Profus. Perciò era volato a Tulres, dove, sotto mentite spoglie, si era presentato alla reggia in qualità di ambasciatore del re Guvop. A corte, dopo essere stato ricevuto dal sovrano, Oksur gli aveva rivelato la sua vera identità. A quel punto, a niente più era valso il tentativo del monarca di arrestare la sua furia, chiedendo aiuto alla sua milizia personale, attraverso i ripetuti colpi di gong, considerato che ormai egli era alla sua mercé. Invece, in un attimo, il suo nemico giurato lo aveva raggiunto e lo aveva decapitato con un reciso colpo di spada. Per cui la sopraggiunta sua milizia di corte, oltre a non poter fare più nulla per lui, essa stessa era andata incontro a guai molto seri. Assalito dall’invincibile guerriero bruvosino, il gruppo delle guardie era stato messo fuori combattimento in più riprese. Allora, in quel luogo, i morti si erano contati a decine, per cui il sangue era scorso a rivoli sull’impiantito, siccome i cadaveri erano stramazzati al suolo sanguinanti, senza avere avuto il tempo di accorgersene.

Fatta piazza pulita a corte, Oksur era uscito all’esterno del palazzo per intraprendere il viaggio di ritorno alla sua Erbam. Nell’attiguo patio, però, egli aveva subito un secondo assalto dall’intera guarnigione che era di stanza presso la caserma annessa alla reggia. Essa era stata avvisata di ciò che stava succedendo nel palazzo reale, ma non della miserabile fine che era toccata al suo sovrano, essendosi ancora all’oscuro della sua funesta sorte. Così anche il personale in servizio presso tale reparto non aveva ricevuto un trattamento diverso. Sebbene fosse composto da cinquecento guardie, ugualmente esso, a più riprese, era stato sbaragliato e dilaniato dai suoi colpi inesorabili, poiché i medesimi avevano freddato ogni componente che ne faceva parte. Alla fine, quando nella reggia non aveva trovato più oppositori ad intralciargli il passo, Oksur si era allontanato indisturbato non soltanto da essa, bensì anche dalla città dei Cimmuz.

Ben presto la notizia dello sfacelo umano messo in atto nella città di Tulres dall’ex comandante in capo del suo esercito, era pervenuto anche all’orecchio del re Guvop. Egli allora immediatamente aveva statuito di adottare un severo provvedimento nei suoi confronti. Il sovrano non se l’era sentita di comminare la condanna a morte nei confronti di Oksur per motivi del tutto manifesti; ma aveva preferito bandirlo con l’ostracismo. Ma ammesso che il suo sovrano gli avesse inflitto la pena capitale, egli sarebbe stato poi in grado di farla eseguire dai suoi soldati? La risposta non lasciava dubbi. Dopo quanto si era appreso da Tulres, si poteva immaginare che il sovrano Guvop avesse temuto che, se l’avesse decretata, si sarebbe ritrovato a fare la fine a cui era andato incontro il re Profus. Ciò, pur restandosene arroccato nella propria reggia e venendo difeso da centinaia e centinaia di soldati.

Era stato il suocero Radron ad informare Oksur di essere stato ostracizzato dal proprio sovrano. Il saggio uomo lo aveva anche pregato di evitare di comportarsi, come aveva fatto nella città dei Cimmuz. A suo parere, invece sarebbe stato molto saggio che egli abbandonasse l’isola di Kraut e si cercasse una nuova patria sulla terraferma. Allora l’indomito guerriero aveva voluto dargli ascolto, anche perché era stanco di lottare ed aveva il cuore piagato dalla mancanza della moglie e del figlioletto, i quali si facevano terribilmente avvertire dentro di lui.

Una volta salpato dall’isola sopra una specie di zattera, la sua traversata dell’Oceano dei Draghi non era avvenuta senza imprevisti. I terribili mostri marini, non essendo una leggenda come i più sostenevano, infestavano davvero quelle acque e gli si erano perfino presentati, ovviamente non per accoglierlo amichevolmente. Perciò si era trovato a lottare pure contro di loro, uccidendone una dozzina. Aggrappandosi ai loro lunghi colli, li aveva poi decapitati con irresistibili colpi di spada, facendo finire le loro teste nella turbolenza delle acque oceaniche, che seguitavano a ribollire senza smettere. Sbarcato in seguito nei territori degli Aceski, Oksur non aveva avuto vita facile nell’attraversarli; ma alla fine era riuscito a superarli, raggiungendo la zona pedemontana dei Monti dell’Oblio. In seguito, attraverso un valico situato a bassa quota, egli era anche pervenuto nella Valle senza Tempo. Ma aveva evitato di attraversarla, siccome aveva preso la decisione di restare in quei paraggi per sempre. Considerando l’uomo soltanto dal punto di vista della sua malvagità, egli adesso lo schifava e voleva restare alla larga da lui, la qual cosa lo aveva spinto a chiudersi nel più completo isolamento. A dire il vero, c’era anche un altro motivo che lo costringeva a pensarla in quella maniera. La sua vita solitaria lo avrebbe tenuto più vicino, con il cuore e con la mente, alle persone che gli erano rimaste più care. Esse erano state la sua preziosa moglie Sarnel e il suo tenero figlioletto Touk.

Quando Oksur viveva già da tre anni in quei luoghi, lontano da ogni consorzio umano, si era imbattuto nel cavallo che trasportava il piccolo Temos. Egli lo aveva trovato sistemato sulla groppa dell’animale, il quale pascolava in un prato allo stato brado.