302-SCONTRO TRA I CERDI E GLI ECTONIDI NEL CAMPO DI IVEONTE

Quando Iveonte aprì gli occhi, da poco la boscaglia aveva iniziato ad agitarsi in ogni suo angolo, poiché il sole già si era dato ad illuminare il nuovo giorno. Il suo risveglio fu salutato da una folla di sensazioni bellissime, le quali continuavano a farsi avvertire da lui da capo a piedi. Nel suo corpo restavano ancora gli strascichi dello stupendo sogno vissuto realmente durante la notte appena trascorsa. Per cui ora essi, oltre che appagarlo in ogni senso, glielo rendevano affrancato anche dal più lieve disturbo fisico. Il giovane, infatti, seguitava a percepire il contatto diretto con le flessuose ed eccitanti membra della sua Lerinda. Perciò continuava a sentirla, come se ella non smettesse di prodigargli le sue tenere carezze e gli andasse procurando intimamente il massimo piacere. Era questo il motivo per cui il nostro eroe si attardava ancora ad alzarsi dal letto ed intendeva proseguire a bearsi di quelle stupende percezioni, siccome esse gli provenivano dal fresco ricordo dell'indimenticabile sogno notturno. Dopo la gradevole esperienza onirica, ora gli risultava abbastanza gradito richiamare alla mente quei bellissimi istanti che aveva vissuti concretamente, nonostante fossero stati trasferiti nell'irrealtà della dolce visione notturna. La quale, da parte sua, induceva a dare una diversa interpretazione ai loro contenuti, poiché cercava di trasportarli nell'irrealtà e spogliarli rigorosamente di ogni reale concretezza.

Ma il sogno non poteva assolutamente confondersi con la effettiva quotidianità della vita; allo stesso modo, quest'ultima era sempre da considerarsi un fatto del tutto estraneo ad esso. Per logica, ciò risultava vero, a condizione che una qualsiasi vicenda venisse a svolgersi con la naturale regolarità dell'esistenza cosmica e sempre entro i suoi ordinari confini spaziali e temporali, senza mai sconfinare nel paranormale. All'inverso, finiva per rivelarsi inattendibile, quando l'interferenza di qualche divinità qualificata veniva ad alterare la consistenza temporale del suo essere e del suo manifestarsi. Esclusivamente in questo caso, gli attributi e l'essenza del fatto stesso, considerati nella loro irrealtà, potevano subire una trasformazione e diventare così fattivamente reali. La qual cosa finiva per realizzarsi, pur rimanendo gli uni e l'altra nella loro parvenza di illusoria irrealtà.

Adesso, però, siamo costretti a sorvolare su questo particolare dal sapore puramente filosofico e a ricondurci senza altro indugio ad Iveonte. Il quale aveva tutta l'aria di non volere più distaccarsi con l'immaginazione da quel benessere fisico e spirituale, di cui il sogno gli aveva permesso di inebriarsi nella nottata. Egli, pur essendo già desto da un bel pezzo, preferiva invece restarsene ancora a letto per compiacersi di quegli attimi incantevoli ed indescrivibili della notte, poiché essi non cessavano di assediarlo piacevolmente. Perciò neppure riuscivano a stornarlo da quel suo proposito i primi movimenti e rumori del campo, dove una buona parte dei suoi uomini già si era data ad armeggiare, allo scopo di rendersi utili in qualche maniera nel loro insistente affaccendarsi. Ma quel tramestio di persone e di cose, sebbene vi andasse divenendo sempre più frequente e più forte, lo lasciava del tutto indifferente. Quasi esso non appartenesse al suo attuale mondo reale e, quindi, non potesse essere percepito da lui! Poco dopo, invece, Iveonte fu costretto a porre fine ai suoi deliziosi vagheggiamenti, anche se essi lo stavano trasportando con la mente alla persona amata e gliela facevano rivivere con l'ardente amore che nutriva per lei. Difatti dei martellanti rumori d'armi e delle grida insistenti, venendo a scombussolare l'armonia del campo, finirono per interrompere gli estasianti trasporti mentali dell'eroe. Allora egli sentì il dovere di buttarsi precipitosamente dal letto e di uscire dalla sua tenda, essendo intenzionato a rendersi conto di persona di ciò che stava accadendo nel loro accampamento.

Come da disposizioni ricevute da Iveonte la sera precedente, Tionteo, non appena era spuntata l'alba, aveva iniziato a far rimuovere il campo dai loro Lutros. In esso, però, mentre si preparavano per la nuova partenza, era venuto ad aversi una specie di finimondo, il quale era stato prodotto da persone venute da fuori. A tale riguardo, va fatto presente che prima vi erano pervenuti un centinaio di guerrieri appiedati, i quali erano dotati di armi leggere ed avevano tutta l'aria di essere in fuga da un nemico senza dubbio più forte. Insieme con loro, viaggiava pure una fanciulla. Ella appariva terribilmente spaventata dagli sconosciuti, che stavano causando la loro precipitosa fuga e che non si facevano ancora vedere. Ma già qualche minuto dopo, i primi uomini arrivati erano stati raggiunti da altrettanti guerrieri a cavallo, i quali potevano essere anche un centinaio. Costoro, volendo essere precisi, si presentavano armati fino ai denti ed erano protetti dalle loro armature pesanti.

Con l'arrivo dei nuovi armati, in un attimo, il campo si era trasformato in un luogo di combattimento, poiché essi avevano iniziato ad assalire i guerrieri fuggiaschi. I quali, pur impegnandosi con ardimento e coraggio, si dimostravano impotenti a fronteggiare i loro agguerriti aggressori. Per tale ragione, venivano decimati da loro a vista d'occhio, come se fossero degli esili fili d'erba, che si lasciavano troncare di netto senza reagire dai colpi dell'impietosa falce. Ma siccome l'episodio era esploso improvviso sotto i loro occhi, senza possibilità di dare ad esso una giusta valutazione, nel campo tutti i Lutros erano rimasti di stucco. Anzi, non si erano dati alcun pensiero di intervenire in qualche modo in quello scontro, il quale era appena divampato. Anzi, esso come giustamente pensavano, a loro non interessava per niente. A dire la verità, anche Iveonte, quando venne fuori dalla sua tenda, all'inizio si comportò allo stesso modo dei suoi uomini. Per cui preferì starsene ad osservare la scaramuccia con disinteresse totale, ossia come uno spettatore qualunque, che ha soltanto voglia di godersi lo spettacolo. Quel suo atteggiamento forse era dovuto al fatto che questa volta non c'era l'amico Terdibano a sollecitarlo ad entrare subito in azione a favore di una delle due parti in lizza. Ma poi come poteva schierarsi al fianco di uno dei due gruppi di combattenti, se non riusciva a capirci un'acca di quello scontro in atto? Perciò, almeno per il momento, l'eroe continuava ad ignorare totalmente quali fossero i buoni e quali quelli cattivi, senza lasciarsi influenzare dalle apparenze.

Adesso il gruppo dei guerrieri che combattevano a piedi, i quali stavano chiaramente avendo la peggio, via via si assottigliava sempre di più, ad opera dei loro avversari a cavallo. Questi, come ci si rendeva conto, si mostravano più fieri e più esperti nelle armi. Comunque, non mancavano la tracotanza e le ingiurie a bizzeffe da parte dei più forti verso i più deboli, i quali non riuscivano a reggere al confronto. Per il qual motivo, senza mostrarsi affatto moderati, i superbi cavalieri li svillaneggiavano e li andavano umiliando ripetutamente, mentre li assalivano con grande determinazione. A causa del loro atteggiamento vistosamente protervo, i baldanzosi guerrieri a cavallo iniziarono a rendersi antipatici agli occhi del giovane Dorindano. Perciò egli dovette ricredersi del suo mancato intervento a favore degli aggrediti fuggiaschi, sebbene fossero apparsi, fin dal primo istante, i più bisognosi del suo aiuto. Solo quando il numero dei guerrieri appiedati si fu ridotto abbastanza, per essere calato a venti unità, la ragazza, che faceva parte del gruppo dei perdenti, fu spinta a rivolgersi agli uomini del campo. Per questo ella incominciò ad urlare: "Aiutateci, per favore, se siete persone giuste! Vi prego, non permettete ai nostri persecutori di ucciderci malvagiamente e senza pietà. Essi non si fanno alcuno scrupolo di darci la morte!"

Essendoci stata la sentita supplica della giovane donna, Iveonte non perse tempo a montare a cavallo, essendo intenzionato a porre riparo alla propria mancanza di prima. Tionteo, imitandolo, fece la medesima cosa, tenendosi pronto a combattere al suo fianco e a dargli man forte, se l'amico non fosse riuscito con le buone a fare ragionare gli spavaldi cavalieri assalitori. I Lutros, da parte loro, subito si armarono dei loro archi, sebbene dubitassero di poterli colpire, visto che le loro armature coprivano totalmente i loro corpi, proteggendoli anche dalle loro frecce. Il nostro eroe, invece, frapponendosi tra gli uni e gli altri, in un primo momento fece inalberare il suo cavallo. In seguito, tenendo le redini con la mano sinistra e reggendo la spada con quella destra, tuonò forte a coloro che seguitavano a combattere nel loro campo:

«Vi ordino di deporre immediatamente le armi, tracotanti cavalieri sconosciuti, e di sospendere ogni ostilità contro gli uomini da voi aggrediti, se non volete sfidare la mia ira! Vi garantisco che essa sarà davvero implacabile, se oserete disubbidirmi!»

Lì per lì, ci fu una momentanea sospensione delle armi, da parte dei due gruppi di combattenti che si lottavano, soprattutto di quelli che erano prossimi al collasso. Un attimo dopo, però, essendo cessata quella iniziale titubanza che si era avuta nei guerrieri più forti, la quale era stata originata dall'apparizione improvvisa di Iveonte, il più autorevole di loro, dopo averci ripensato qualche attimo, gli si contrappose, rispondendogli con queste parole:

«Invece, forestiero, tra poco sarai tu a subire la nostra collera, per esserti intromesso in fatti che non ti riguardavano per niente! Inoltre, ci hai perfino lanciato delle minacce, da persona imprudente!»

Contestualmente, egli assalì il suo interlocutore con una stizza inferocita, oltre che con l'intenzione di fargliela pagare a caro prezzo. Dal canto suo, logicamente, Iveonte non glielo permise; ma neppure ci tenne ad eliminarlo, come si meritava. Perciò, dopo aver prima eluso i suoi colpi sferrati rabbiosamente contro di lui, egli gli si scaraventò contro con forza e lo disarcionò senza alcuna fatica. Mentre poi il riottoso avversario giaceva a terra bocconi ed ansimava, nonché trovava difficoltà a rialzarsi da terra, come se avesse tutte le ossa ammaccate, l'eroico giovane lo riprese in questo modo:

«Ringraziami, arrogante cavaliere, per non aver voluto ammazzarti come un cane durante il mio primo urto e per averti soltanto scaraventato da cavallo. La prossima volta, però, se sarà tua intenzione riprovarci, ti avverto che non avrò nessuna pietà di te. Anzi, mi costringerai a fare del tuo corpo un gradito pasto degli sciacalli!»

Invece il combattente sbalzato di sella, sebbene ci fosse stato l'avvertimento del suo avversario, non volle darsene per inteso. Perciò, una volta che si fu rizzato da terra, anziché ringraziare colui che gli aveva risparmiato la vita, si rivolse ai propri uomini ed ordinò a tutti loro con grande stizza: "Uccidete lui e tutti gli altri, miei prodi cavalieri! Voglio assistere in questo campo ad una grande mattanza! Nessuno dei Cerdi e dei forestieri presenti dovrà sopravvivere ad essa! Il loro sangue dovrà scorrere a fiumi sul terreno in quest'angolo di bosco, fino ad arrossarlo per intero! Avanti, fate come vi ho appena ordinato!"

Al comando del loro capo, il quale nel frattempo si accingeva a rimontare sul proprio cavallo, il drappello dei cavalieri si adombrò e si infuriò. Poi assunse l'atteggiamento di un toro impazzito, che è sul punto di dare la carica contro il rivale torero. Allora Iveonte e Tionteo, appena la ebbero avvertita, non se ne stettero con le mani conserte, al fine di venirne travolti e trucidati senza difendersi. Al contrario, essi furono lesti a tenersi pronti con le loro spade e a prepararsi a riceverli degnamente, non volendo lasciarli strafare. Così l'assalto dei cavalieri ci fu a brevissima distanza di tempo e si manifestò con un misto di rabbia e di urla inferocite. Il loro impatto con i due forestieri, invece, non si rivelò come avevano creduto; né come i pavidi fuggitivi avevano temuto. Esso, contrariamente alle loro aspettative, risultò molto sorprendente agli assalitori e ai pochi fuggiaschi che erano ancora indenni, i quali risultavano ospiti non invitati dell'accampamento dei forestieri.

Già al suo esordio, la reazione di Iveonte si manifestò come una tempesta al culmine della sua forza devastatrice. Perciò i suoi mirati colpi di spada, assestati con gagliardia e risolutezza, diluviavano in ogni direzione, abbattendo con la furia di un ciclone quanti avevano l'ardire di assalirlo e di sfidare il suo sdegno. Perciò, in tempi molto brevi, egli riusciva ad atterrare e a maciullare decine di avversari, i quali venivano scorti nello stesso istante mentre si riversavano al suolo esanimi oppure feriti, tra grida disperate di dolore. Anche Tionteo, in verità, faceva la sua parte in quell'aspra lotta, benché essa si presentasse molto contenuta a confronto dell'azione eroica dell'amico. Comunque, egli faceva del suo meglio, mentre affrontava i suoi nemici con grinta e con coraggio inverosimile. Per cui i suoi colpi ugualmente andavano mietendo un numero modesto di vittime nel drappello dei superbi cavalieri muniti di armatura, causandogli delle rilevanti perdite. Quanto ai Cerdi, almeno per il momento, essi si limitavano solo a guardare, poiché erano rapiti dalla straordinaria valentia di Iveonte. Infatti, egli riusciva ad accoppare varie dozzine dei suoi assalitori senza sforzo, con nessuna difficoltà e con una rapidità incredibile. La qual cosa, oltre che entusiasmarli, a patto che non si sbagliassero, lasciava intravedere per loro ottime speranze di assistere assai presto ad un reale mutamento del loro destino.

Nel frattempo lo scontro seguitava a svolgersi aspro e terribile tra i due valorosi amici e i duri cavalieri militarmente bene equipaggiati. Questi ultimi continuavano a subire perdite considerevoli da parte dei loro due contendenti, pur risultando un esiguo numero. Iveonte e Tionteo non cessavano di sferrare contro di loro colpi imparabili e massacranti, facendone diminuire il numero rapidamente e in modo preoccupante. Insomma, si stava assistendo ad un vero tracollo dei boriosi assalitori, i quali non intendevano venir meno ai loro assalti brutali, pur constatando che le cose per loro si erano messe alquanto male. Soltanto quando restava la decima parte del loro contingente iniziale, poiché una novantina di loro giacevano già esanimi sul terreno, i cavalieri deliberarono finalmente di interrompere l'assalto. Ma essi furono costretti a ripiegare su tale decisione, dopo aver preso consapevolezza che nulla potevano contro un combattente come Iveonte. Il quale era in grado di infliggere ai suoi nemici sconfitte degradanti e perdite ingentissime. E ciò, anche quando risultavano di numero consistente! Tra i cavalieri ancora vivi, c'era anche il loro capo, il quale si chiamava Pulgus ed era già stato battuto in precedenza dal nostro eroe. Fu lui in persona a decretare la sospensione del combattimento, essendosi reso conto che unicamente in quel modo avrebbero riportato la pelle a casa. Prima di lasciare il campo con i suoi uomini superstiti, egli si diede a gridare forte: "Sappiate, forestieri, che non è finita qui, poiché in seguito non la passerete liscia! Touk vi darà la caccia e vi sterminerà tutti quanti! Ci tengo ad avvertirvi che nessuno mai è riuscito a farla franca contro di lui; ma ne è rimasto sempre stecchito al primo colpo!"

Se Iveonte e Tionteo non presero affatto in considerazione le minacce di Pulgus, i Cerdi superstiti che si trovavano nel loro campo, nel sentire pronunciare quel nome, se ne spaventarono tantissimo e ne tremarono da morire. Pure la ragazza, anche se di meno, reagì allo stesso modo dei pochi superstiti guerrieri suoi accompagnatori. Ma come mai quel nome aveva avuto un effetto così spaventoso su di loro? Doveva esserci un motivo, se essi avevano reagito in quella maniera, al nome del misterioso Touk. Ma chi, in realtà, era costui?


Non appena il campo fu sgomberato dai persecutori dei Cerdi, in esso ritornò a regnare la calma di prima; ma gli ospiti, che erano stati costretti a trovarvi asilo, per motivi che ci sono noti solo parzialmente, non avevano ancora recuperato la piena serenità. Pur avendo visto il campione dei forestieri ospitanti dare una lezione coi fiocchi ai loro nemici, continuavano a non sentirsi del tutto al sicuro dai pericoli, che seguitavano a minacciarli. Temevano che egli, in un secondo momento, venisse convinto dai loro avversari a passare dall'altra parte della barricata ed iniziasse a dargli la caccia, come già era avvenuto con il temutissimo Touk, a cui si era riferito il loro nemico Pulgus. La qual cosa li faceva esitare, prima di darsi a gongolare di gioia e a manifestare la loro soddisfazione più piena.

Vedendo allora che lo sparuto numero dei forestieri rimasti non si decideva ad esprimersi in nessuna maniera, né a dire chi fossero né tanto meno a ringraziarli per lo scampato pericolo ad opera loro, Iveonte decise di intervenire lui a fargli qualche domanda. Il suo scopo era quello di tranquillizzarli prima e di spingerli a parlare di loro successivamente. Così egli aprì la conversazione con tutti loro con le seguenti parole:

«Per favore, volete decidervi a dirci chi siete e perché ce l'avevano con voi i cavalieri, dei quali abbiamo ucciso la maggior parte, costringendo i restanti a mollare la preda, rappresentata da voi fuggiaschi? Sappiate che, mentre state presso di noi, per voi è come se foste in una botte di ferro, poiché nessuno potrà farvi del male! Ve lo garantisco io! Ma adesso siete pregati di dirmi chi siete e perché quelli vi inseguivano.»

Allora la sola ragazza intervenne a rispondergli, dicendo:

«Grazie, nobile cavaliere, per essere intervenuto generosamente in nostra difesa, salvandoci la vita! Noi apparteniamo al popolo dei Cerdi e non abbiamo più un villaggio dove poter vivere la nostra vita con serenità. Il nostro, il cui nome era Cerd, ci fu distrutto dai nostri nemici alcuni anni fa. La sua distruzione ci obbligò a rifugiarci nel luogo più riposto della Selva Intricata, dove oggi abitiamo. La nostra permanenza in quel luogo ci evita di essere sopraffatti da coloro che da anni ci danno una caccia spietata. Voi stessi siete stati testimoni di una delle tante schermaglie, alle quali siamo indotti spesso dai nostri implacabili nemici. Naturalmente, dopo averci teso un tranello oppure dopo averci avvistati per pura casualità!»

«A tale riguardo, avrei da farvi varie domande, graziosa fanciulla; ma conviene prima presentarci. Io mi chiamo Iveonte e il mio amico, che avete visto battersi al mio fianco, si chiama Tionteo. Un altro nostro amico è Speon, che puoi scorgere avanti a tutti i nostri accompagnatori. Essi sono abitanti del villaggio di Lutrosiak e ci danno una mano a sbrigare i lavori del campo, ma non sono dei veri guerrieri. A questo punto, tocca a voi farci le vostre presentazioni! Non ti pare?»

«Il mio nome è Tillia, prode Iveonte, e sono la figlia di Croed, che è il capo dei Cerdi. Fanno parte del nostro gruppo anche due miei fratelli, entrambi più grandi di me. Quello maggiore, che è alla mia destra, si chiama Dirus; mentre il minore, di nome Ruon, lo puoi vedere alla mia sinistra. Quanto agli uomini che ci accompagnano, che il tuo provvidenziale intervento ha salvato da morte certa, unitamente a me e ai miei fratelli, sono guerrieri di mio padre. Siccome eravamo diretti al lago Espor, dove ci conduciamo spesso per le nostre periodiche abluzioni, nonché per la lavatura dei nostri panni e dei nostri indumenti, essi ci scortavano. Loro compito era quello di difenderci da eventuali sorprese non gradite da parte dei nostri nemici. Precisamente, come quella che abbiamo avuto oggi nel primo mattino, essendo stati presi alla sprovvista da loro, che si sono trovati a passare di lì per caso.»

«Possibile che hai da dirmi solamente ciò, dolce Tillia, a proposito di voi e del vostro popolo? Oppure c'è dell'altro che, per una tua ragione, hai voluto ometterci? E perché mai poi lo avresti fatto?»

«Invece devo aggiungere, Iveonte, che con noi viaggiavano pure trenta donne, cioè le lavandaie. Esse, dopo che c'è stato l'avvistamento dei cavalieri nemici, sono corse a nascondersi nel bosco per evitare i loro abusi. Ma adesso che le nostre presentazioni sono avvenute regolarmente, nostro generoso salvatore, puoi anche iniziare a rivolgerci tutte le domande che vuoi. Ti promettiamo che, da parte nostra, cercheremo di essere veritieri e abbastanza esaurienti nelle risposte.»

«Innanzitutto, graziosa Tillia, voglio sapere da te chi erano i cavalieri che vi hanno assaliti e perché essi ce l'hanno a morte con voi. C'è forse della ruggine tra i vostri due popoli? In caso affermativo, se non ti dispiace, vorrei che tu me ne riferissi il motivo. Così dopo potremo farcene una idea e decidere ciò che possiamo fare per voi.»

«I nostri assalitori, Iveonte, erano cavalieri ectoni e risiedono nella fortezza di Ecton, dove sono a servizio di Ormus, che è il loro sovrano. Egli vive nel suo maniero, il quale è situato al centro della fortezza. Sono circa venti anni che tra i Cerdi e gli Ectonidi non corre più buon sangue. Per questo gli uni e gli altri, ogni volta che si presenta l'occasione, se le danno di santa ragione. In questi ultimi tre anni, cioè dopo la distruzione del nostro villaggio, i combattimenti tra i due popoli sono diventati meno frequenti. Infatti, da quando ci siamo rifugiati nella parte interna della Selva Intricata, non abbiamo più avuto modo di scontrarci con gli Ectonidi nostri nemici, come di solito avveniva un tempo. Per la verità, per noi è stato meglio così!»

«Ma stamani, Tillia, le cose sono andate diversamente e si è avuto tra di voi un violento combattimento, il quale, come si è potuto notare fin dai primi colpi, per voi volgeva al peggio. Se non ci fosse stato il nostro intervento, la vostra situazione, da male che si stava mettendo, di sicuro sarebbe diventata pessima. Perciò essa avrebbe fatto registrare la morte di voi tutti! Invece adesso, grazie a me e al mio amico Tionteo, almeno una parte di voi possono considerarsi salvi. Non ti pare che è andata come ti ho detto?»

«L'odierna scaramuccia, Iveonte, è stata del tutto fortuita. Ossia ci siamo imbattuti nel drappello dei cavalieri ectoni per pura combinazione e non oso pensare ad una delazione da parte di un nostro conterraneo. Ma se davvero io dovessi ipotizzarlo, mi riuscirebbe poi difficile immaginare le ragioni del suo agire, dal momento che la sua spiata andava contro i propri interessi! Né io potrei pensarla in modo diverso!»

«Dimentichi, Tillia, che per soldi si tradisce anche i propri genitori! Forse ignori che la forza del denaro, in certi casi, può corrompere le persone più integre, nonostante esse abbiano fatto della incorruttibilità la propria bandiera! A questo punto, però, veniamo alle altre cose che desidero sapere di più sul vostro conto, potendo esse interessarmi, anche se non conosco ancora il perché del mio interesse.»

«Sarà come dici, Iveonte; non voglio mettere in dubbio quanto hai affermato. Perciò puoi andare avanti a farci le altre tue domande, poiché continueremo a darti tutte le risposte che ti aspetti da esse! Poiché vi dobbiamo della gratitudine, come è nostro dovere, siamo disponibili a rispondervi senza riserve a ciascuna di loro! Nel caso poi che a qualcuna delle tue domande non sarò in grado di rispondere, al posto mio interverrà a darti la risposta giusta colui che sulle spalle ha più anni di me.»

«Prima di abbandonare il nostro campo, il capo dei cavalieri ectoni ha pronunciato un nome, facendolo tuonare quasi come una minaccia solo per noi, visto che per voi già lo sarà di fatto, come immagino. Se non mi sbaglio, esso è risultato a te e al resto del gruppo cerdico qualcosa di terribile e vi ha fatto perfino impallidire. Dunque, vuoi metterci al corrente di chi o di che cosa si tratta? Per noi, comunque, niente e nessuno potrà mai rappresentare una minaccia di qualche tipo: tienilo bene a mente, prima di darmi la tua risposta!»

«Se ti riferisci a Touk, coraggioso Iveonte, ti dico subito che egli è un guerriero invincibile. A causa sua, molti Cerdi ci hanno rimesso le penne. Perfino il nostro campione Bison, il quale era ritenuto un mitico eroe presso la nostra gente, soccombette sotto i possenti colpi della sua spada. Perciò, Iveonte, anche se ti sei dimostrato uno strenuo combattente, ugualmente voglio darti un consiglio: se ci tieni a vivere a lungo, stai alla larga dalla sua spada il più possibile! Mi sono spiegata? Non vorrei che tu ne venissi ucciso, a causa della nostra gente!»

Al consiglio della ragazza, Tionteo non ce la fece a restarsene zitto. Allora, intervenendo nella conversazione, si affrettò a contraddirla:

«Sai cosa ti dico, Tillia? Dovrà invece essere questo famigerato Touk a stare lontano dal mio amico mille miglia, se non desidera rimetterci la pelle! Non esiste al mondo il guerriero che possa affrontare e sconfiggere il qui presente Iveonte. Questo te lo garantisco io, che lo conosco bene! Neppure un intero esercito può batterlo!»

«Parli così, Tionteo, perché ignori ancora il valore e l'imbattibilità di Touk. Il mio popolo ha sperimentato l'uno e l'altra a sue spese. Se tu invece lo avessi visto combattere, come è capitato a noi, in questo momento non staresti qui a parlare di lui nel modo che stai facendo. Al contrario, esprimeresti su Touk un giudizio differente, che te lo farebbe tenere in grandissima considerazione, senza più dubitare del suo valore! Te lo possono confermare tutti i Cerdi presenti in questo campo!»

«Come constato, graziosa Tillia, non riesco a convincerti in nessuna maniera a pensarla altrimenti. Ma stanne certa che, se il mio amico deciderà di abbracciare la vostra causa e ci sarà il suo scontro con Touk, vedrai che dopo mi darai senz'altro ragione! Comunque, ciò è ancora da vedersi, dovendo essere lui a decidere in merito alla vostra questione!»

Le affermazioni di Tionteo, in un certo senso, rincuorarono in parte la ragazza. Per cui ella, tra timore e speranza, domandò supplichevolmente al loro salvatore:

«Iveonte, se te lo chiedessimo, faresti davvero tanto per noi? Hai forse al tuo comando un potente esercito, che non riesco a scorgere qui intorno? Tranne che un centinaio di uomini, i quali sono al tuo seguito solo per sbrigare le varie faccende del campo, come tu stesso hai affermato, non vedo nient'altro. Oppure esso si trova altrove, magari poco distante da questo luogo in cui ci troviamo adesso?»

«Tillia, non ho nessun esercito al mio comando. Le persone, che ora ti appaiono in questo luogo, sono le uniche a viaggiare al mio seguito. Ciò ti dispiace forse? Ad ogni modo, ti faccio presente che ho preso la decisione di aiutarvi, per cui presto non dovrete più temere né Touk né i vostri nemici ectoni! Ti garantisco che, da oggi in poi, sarà senza meno come ti ho affermato!»

«Allora mi dici, Iveonte, come farai a sconfiggerli, senza avere un esercito ai tuoi ordini? Se devo esserti sincera, è impossibile che tu possa ottenere quanto hai detto, se non ti segue un gran numero di soldati! Scusa il mio scetticismo, ma ho voluto fartelo presente!»

«Tu e la tua gente, Tillia, non dovete assolutamente preoccuparvi di ciò; ma vi chiedo soltanto di aver la totale fiducia in me. Il resto è compito mio e del mio amico Tionteo! Pericoli come Touk non rappresentano neppure la centesima parte degli altri che mi è capitato di affrontare in passato! Te lo posso assicurare senza esagerare!»

«Per te è facile parlare così, Iveonte. Noi, però, non vorremmo avere sulla coscienza anche la tua morte e quella dei tuoi accompagnatori, visto che non c'entrate per niente nel nostro conflitto! Se vuoi darci una mano, Iveonte, devi promettermi che non ti farai mai venire la folle idea di affrontare Touk a singolar tenzone! Allora sei disposto a promettermelo oppure contesti la mia raccomandazione?»

«Sappi, Tillia,» la contraddisse Tionteo «che Iveonte vale più di un esercito, per cui il mostruoso Touk, che tanto temete, ha i suoi giorni contati! Torno a ripetertelo!»

«Per carità, Tionteo, non parlare così di Touk! Egli, in verità, non è un mostro, come hai immaginato; invece è tutt'altro in ogni senso! Noi Cerdi gli riconosciamo grandi pregi e non sentiamo di odiarlo. L'unico suo grave errore è stato quello di non essersi accorto che si è messo a combattere dalla parte sbagliata. Perciò crede cattivi noi e buoni quelli, per i quali si batte strenuamente. In ciò, ha contribuito soprattutto la bella Elan, la donna che egli ama pazzamente e che è la figlia del malfattore Ormus. Oserei dire che ella, con il suo fascino e con le sue lusinghe, lo ha stregato, facendogli vedere solo ciò che vuole lei, travisando di nascosto la verità e la giustizia!»

«Allora, Tillia,» Iveonte intervenne a rassicurarla «quando affronterò Touk e lo batterò, prima gli risparmierò la vita e poi gli farò tornare la ragione. È una promessa! Mi sbaglio, se mi viene da pensare che tu sia innamorata di lui almeno un tantino? Oppure si tratta di una mia errata impressione? Sta a te asserirmi qual è la verità!»

«Iveonte, io ti avevo chiesto di non provarci ad affrontarlo; invece tu ti mostri già ansioso di fare il contrario! A quanto pare, mi sa che anche tu debba ancora rinsavire di un bel po'! Inoltre, perché mi fai certe domande davanti a tanti uomini, le quali possono soltanto farmi arrossire? Perciò tieni da parte la mia vita privata e lascia a me sola gestirla nel modo che più mi aggrada! Mi sono spiegata?»

«Non preoccuparti per Iveonte, Tillia!» le fece osservare Tionteo «Come già ti ho chiarito prima, egli vale più di un esercito. Perciò nessuno può metterlo in pericolo. Tanto meno quel tale di nome Touk! Oppure dovrei dire il tuo Touk, come anche il mio amico non a torto ha sospettato? Le donne diventano un mistero, quando si fa riferimento alla persona da loro amata! Ne so anch'io qualcosa per esperienza!»

Visto che anche l'amico stava contribuendo a mettere la ragazza in grande imbarazzo, Iveonte diplomaticamente si affrettò a tirarla fuori da esso. Perciò le domandò:

«Da quanto tempo, Tillia, siete in conflitto con gli Ectonidi? Quali ne sono stati i motivi? Se devo aiutarvi, ho bisogno di conoscere ogni cosa su di voi, sui vostri nemici e sulle ragioni che vi hanno spinti ad odiarvi a morte a vicenda per tantissimi anni.»

Alle nuove domande del giovane, la ragazza gli rispose:

«In verità, Iveonte, a causa della mia giovane età, personalmente non saprei farti un resoconto dettagliato e fedele dei fatti che ci sono stati in passato fra i nostri due popoli. Perciò invito Ansor, il consigliere di mio padre, a narrarteli come essi si svolsero realmente fin dall'inizio. Egli, per fortuna, è qui tra noi e li ha vissuti per intero insieme con il mio caro genitore. Soltanto lui potrà parlarcene in modo approfondito!»

Invitato dalla giovane figlia del suo capo, il maturo Cerdo si diede ad esporre i fatti che avevano portato alla rottura le ottime relazioni esistenti tra i due popoli amici.