3-NON RIESCE AL MAGO GHIRDO DI RAPIRE LUCEBIO

All'inizio di un tramonto estivo, a ponente il cielo appariva del tutto infuocato, per cui rendeva rossastri i colli e le valli sottostanti. A quell'ora del giorno, un vecchio claudicante percorreva la strada maestra. Avanzando assorto nei suoi pensieri, egli si dirigeva verso il vicino villaggio di Litios, il quale era distante meno di tre miglia dalla località in cui si trovava. Strada facendo, a un tratto, lo strano viandante venne ad imbattersi in un vivace fanciullo, che si divertiva a giocare tutto solo. Il piccolo a volte inseguiva una verdastra lucertola, dopo che essa si era data alla fuga per sfuggirgli; altre volte, invece, rincorreva qualche farfalla variopinta che se la svolazzava tra i fili d'erba, posandosi ogni tanto sui fiori per succhiarvi il nettare. Nel vederselo davanti gaio e pieno di vita, l'uomo, che era di età molto avanzata, si fermò e si diede a squadrarlo a lungo, da capo a piedi. Quando infine il suo studio ebbe termine, per essersi convinto che il ragazzo poteva fare al caso suo, senza perdere altro tempo, egli tentò un approccio con lui. Così cominciò a dirgli:

«Ragazzo, che fai in questi paraggi deserti, senza la compagnia di una persona adulta, che ti faccia da balia? Se la mia vista non mi inganna, non scorgo alcun tuo parente a tenerti a bada, onde evitarti di farti andare incontro ai più impensabili pericoli! Oppure vorresti asserirmi che la mia constatazione è erronea, per essermi stata causata da una momentanea cecità? Ma ti avverto che, nel caso che fosse questa la tua conclusione affrettata, non sarei disposto a crederti, siccome ci vedo benissimo, non avendo i miei occhi alcun difetto di vista!»

«Invece io te lo affermo, forestiero, dal momento che il tuo errore è talmente grande, che lo si scorge da un miglio di distanza! E poi un vecchio rincitrullito del tuo stampo poteva mai imbroccarla giusta? Certamente no! Ebbene, al contrario di quanto hai supposto, io sto con mio padre. Inoltre, per tua norma e regola, nessuno né mi fa né mi ha fatto mai da babysitter, visto che so badare a me stesso, senza che lo facciano gli altri al posto mio! Mi sono spiegato abbastanza? Oppure dovrò ripetertelo ancora una volta, perché sei duro di comprendonio?»

«Invece non sono il vecchio citrullo che tu mi consideri, ragazzo permaloso! Ma ora vuoi schiarirmi bene le idee, dicendomi dove è finito il tuo fantomatico genitore? Non riesco ad intravederlo in nessuna parte di questo posto, per quanto mi sforzi a guardare a dritta e a manca! Scommetto che vorresti darmi ad intendere che egli è invisibile e adesso ci sta pure ascoltando! Se sei di questo parere, ti invito a scordartelo!»

«Vecchio sconosciuto, mio padre non è un fantasma che non si lascia avvistare. Egli è un uomo che può essere scorto anche a duecento metri di distanza! Se ora non lo vedi qui vicino, è perché il poveretto è dovuto assentarsi momentaneamente per motivi di lavoro. Siccome lo stallone della mandria si è allontanato dal branco, egli è dovuto corrergli dietro per cercare di recuperarlo, prima che esso si allontanasse troppo. Il mio babbo è un allevatore di cavalli; ma tu questo non lo puoi sapere.»

«Invece ne sono a conoscenza, ragazzo! Se invece non ne fossi stato al corrente, lo avrei capito lo stesso dalle poche decine di cavalli che sono rinchiusi nel recinto, che si trova alle tue spalle. Oggi bisogna pur praticare un mestiere, se si vuole vivere con dignità! Senza un guadagno fisso, oggi un uomo è costretto a tirare la cinghia oppure a fare i salti mortali, pur di sostentare sé stesso e la propria famiglia!»

Fatte le sue debite considerazioni sulla circostanza, alle quali lo sveglio bambino non aveva voluto porre attenzione, il vecchio gli domandò:

«Adesso, se non ti dispiace, vuoi dirmi come ti chiami? Così, dopo aver conosciuto il tuo nome, mi sarà più facile rivolgermi a te! Non sei d'accordo pure tu, ragazzo? Oppure la pensi in maniera diversa?»

«Prima di fartelo conoscere, però, mio decrepito vecchietto, che sei pure mezzo sciancato, voglio precisarti che io non mi chiamo con nessun nome; ma sono i miei parenti e i miei amici a chiamarmi Lucebio. Non ti sembra? Riferendoci a noi stessi, tutti diciamo "io" e non ci esprimiamo in altro modo! Prendine atto, se vuoi filare diritto con me! Intesi?»

«Hai forse deciso, monello, di divertirti a fare lo spiritoso con me? Sappi che oggi non sono in vena di accettare alcuna battuta di spirito, da parte di chicchessia! Tanto meno approvo che lo faccia un ragazzo moccioso della tua età! Perciò cerca di rispondermi con una certa serietà, quando ti faccio le mie domande, se vuoi essermi amico! Altrimenti è meglio troncare qui il nostro discorso! Ti sta bene così?»

«Non stavo mica scherzando, vecchio malandato! Da parte mia, cercavo soltanto di essere preciso. A volte, sai, le informazioni inesatte possono dar luogo ad equivoci e a malintesi. Anzi, in certe situazioni, esse creano perfino un sacco di confusione! Alla tua età, che appare quella di un matusalemme, dovresti già saperlo a menadito! Infine sappi che non ci tengo ad essere un tuo amico! Perciò non pensarlo neppure!»

«Hai proprio ragione, Lucebio! A esserti sincero, prima non ci avevo affatto pensato! Ti chiedo scusa, se un attimo fa, comportandomi da vero sciocco, mi sono risentito, a causa della risposta che mi hai data. Inoltre, ti preciso che non mi sono offeso, per avermi dichiarato che non ci tiene ad essere mio amico! Adesso, se non ti dispiace, smettendo di ignorare la mia decrepitezza, vorrei che tu mi dicessi quanti anni hai, senza nascondertene nemmeno uno! Vuoi accontentarmi almeno in questa mia richiesta oppure devo attendermi da te un netto rifiuto?»

«Tanti!» gli rispose il fanciullo, mostrandogli le due mani: quella sinistra bene aperta e quella destra che faceva vedere solo il pollice e l'indice. Per cui insieme esse mostravano sette delle dieci dita. Immediatamente dopo, però, egli ci tenne a fargli presente:

«Avanti, vecchio incredulo, ammettilo che, per la mia età, ne dimostro qualcuno in più! Per la qual cosa, ti risulto un vero osso duro, che non si lascia facilmente triturare da uno come te!»

Poi, memore della raccomandazione del suo interlocutore, aggiunse:

«Essi sono tutti i miei anni: né uno di più né uno di meno! Tu devi crederci, poiché mica faccio come talune femminucce, le quali sono abituate a nascondersene ogni volta qualcuno. Oppure addirittura un paio! Oramai noi maschi siamo al corrente che è diventato un loro vizietto il cercare di non dichiararli nella loro giusta quantità! Ma la cosa migliore è non prendersela, quando esse si comportano in tale maniera!»

Rasserenandosi in volto, il quale manifesto sintomo era da considerarsi di grande soddisfazione, l'ignoto vecchio sussurrò tra sé a fior di labbra: "Menomale che l'età del ragazzo è quella che fa al caso mio! A tutti i costi, quindi, non devo farmelo scappare!" Allora, rivolgendosi allo sveglio bambino, egli sostenne:

«Scommetto, Lucebio, che ignori che un tempo tuo padre ed io siamo stati amici per la pelle! Già, come potresti saperlo, bamboccio come sei? Scusami il termine, che potresti trovare antipatico! A dire il vero, esso mi è uscito di bocca senza volerlo, ossia per puro caso!»

«Infatti, vecchio! Non ho mai sentito parlare dell'amicizia di mio padre con uno come te e neanche lo avrei mai immaginato, considerata la grande differenza di anni che c'è tra voi due: la quale chiaramente non è poca! A tale riguardo, mi chiedo perché mai mio padre si scelse come compagno una persona molto meno giovane di lui. Quando egli aveva la mia età, scommetto che tu eri già un matusa! Se è vero quello che mi hai affermato, dovresti sapermi dire il nome del babbo. Allora vuoi convincermi che è tutto vero quanto hai affermato sul mio genitore, dicendomi il nome del tuo grande amico di un tempo?»

Quella domanda del ragazzo mise il vecchio in grande imbarazzo. Difatti, non conoscendo egli il nome dell'allevatore, gli risultava difficile giustificarsi con lui. Per questo essa, dopo averlo reso titubante all'inizio per giusta causa, alla fine lo costrinse a rispondere in modo confuso, pur di giostrare alla meglio in quella situazione scabrosa.

«Sì... no... forse lo ricordo oppure no, Lucebio.» gli rispose a malapena «Insomma, ad esserti franco, l'ho dimenticato. A tale proposito, ti prego di comprendere l'attuale mio vuoto di memoria. Anzi, perché non mi fai il favore e me lo ricordi tu? Te ne sarei molto grato!»

«Che bell'amico gli sei, vecchio babbeo, se ora non ricordi neppure il nome di mio padre, per cui adesso pretendi che te lo dica io!»

Il piccolo Lucebio lo rimproverò con fermezza, mostrandosi nel contempo sommamente stupito della dimenticanza del vecchio forestiero, che egli reputava molto grave. Perciò un attimo dopo, mostrandosi orgoglioso di quanto stava per attestare, con disinvoltura il ragazzo ci tenne a sottolineare al suo smemorato interlocutore:

«Al contrario di te, io li ricordo tutti i nomi dei miei amici! Adesso passo a dimostrarti che è vero quanto ti ho appena dichiarato! Ad esempio, il figlio del funaio si chiama Perto; il figlio dell'oliandolo si chiama Soton; il figlio del cuoiaio si chiama Olito; il figlio di Pirce il mancino si chiama Notto; il figlio del maniscalco si chiama Dukso, il figlio del lattivendolo, che è storpio dalla nascita, si chiama Latuco; il...»

«Basta, basta!» il vecchio intervenne ad interrompere il bambino, il quale pareva volesse fare ancora una lunga sfilza di citazioni «Ho visto che sei davvero bravo a rammentare i nomi dei tuoi amici! Ma devi sapere che tuo padre ed io non ci vediamo da moltissimo tempo. Inoltre, essendo un vecchio decrepito, come anche tu mi hai definito prima, la memoria ha smesso di essere il mio forte. Allora vuoi o non vuoi aiutarmi a ricordare il nome del mio inseparabile amico di un tempo? Non sai quanto piacere mi farebbe risentirlo ancora! Se lo vuoi sapere, esso mi suonerebbe all'orecchio come dolcissima musica!»

«Ebbene,» il ragazzo decise di appagare il desiderio del suo interlocutore «il nome del mio genitore è Chiorro. Esso ti dice qualcosa adesso oppure ti risulta ancora come se lo sentissi per la prima volta?»

«Adesso sì che il suo nome è tornato ad essermi familiare, come allora!» il vecchio cercò di farsi bello agli occhi del ragazzo «In verità, Lucebio, ce lo avevo sulla punta della lingua! A quel tempo, io e gli altri compagni lo chiamavamo Chiorrino, siccome egli era la mascotte della nostra banda. Se qualcuno lo avesse offeso, dopo avrebbe fatto i conti con me, poiché gli sarebbero subito arrivati due ceffoni da parte mia!»

Volendo poi fare apparire credibili le proprie asserzioni, l'uomo, che presentava una schiena spaventosamente arcuata, seguitò a dirgli:

«Lo sai che tuo padre, anni addietro, quando non avevo ancora questa gobba prominente, mi vendette due magnifici cavalli? Devo ammettere, Lucebio, che fu un bell'acquisto il mio! Ma poi fui sfortunato, poiché le povere bestie si ammalarono entrambe di cimurro e morirono l'uno dopo l'altro, a distanza di pochi giorni. A causa della loro morte, come puoi vedere, oggigiorno sono costretto ad andare a piedi per le varie contrade della regione, stancandomi che non ti dico!»

«Queste sì che sono frottole!» Lucebio intervenne a contraddirlo di nuovo «Come è possibile che mio padre tanto tempo fa ti vendette due cavalli, se è un mese esatto che egli si è messo ad allevare le bestie che scorgi, incluso lo stallone che si è allontanato dal recinto? Pensa che, per farlo, ha dovuto perfino chiedere un piccolo prestito al nostro capo Kodrun. All'epoca, a cui ti sei riferito, mio padre non possedeva neppure il cavallo su cui cavalcare lui! Vuoi conoscerne il motivo? Allora ti faccio presente che tanti anni fa siamo stati molto poveri e abbiamo passato dei brutti periodi di indigenza, durante i quali mio padre non riusciva neppure a sbarcare il lunario! Ma, come afferma il mio genitore, la vita va sempre affrontata come ci viene e a fronte alta!»

«Vorrà dire, Lucebio, che mi sarò ancora sbagliato! Se proprio non fu tuo padre a vendermi i due cavalli, sono sicuro che si trattò di un suo amico!» lo sbilenco forestiero si giustificò per l'ennesima volta «E poi non c'è bisogno di scaldarti tanto, come stai facendo in questo momento, se certe volte mi capita di essere inesatto in alcune mie asserzioni, sempre a causa della mia labile memoria! Mi sono spiegato?»

Dentro di sé, nel frattempo, egli si andava rodendo per la rabbia e serbava rancore a quel ragazzo presuntuoso, che appariva assai intraprendente. Anzi, la sua spigliatezza gli faceva perfino chiedere se egli avesse davvero gli anni da lui dichiarati. Secondo lui, per esprimersi con un tono così ragionevolmente contraddittorio, era probabile pure lui se ne fosse nascosto qualcuno, proprio come facevano le femminucce!

Il vecchio si adirò sul serio, quando Lucebio ci tenne a rinfacciargli:

«Secondo me, vecchio dalla camminatura sgraziata, tu fai l'accattone di professione, poiché ce l'hai stampato sulla fronte! Riconosco che è duro vivere di accattonaggio, poiché non è bello vagare di qua e di là, chiedendo le elemosine ad ogni persona che si incontra per la strada, dopo averle allungato la mano. Al posto tuo, di sicuro ne proverei parecchia vergogna! Per questo motivo posso soltanto commiserarti.»

«Invece, ragazzo mio, non faccio affatto il mendicante, come tu hai supposto! Io non ho mai vissuto di accatto e mai ricorrerò ad esso nella mia restante vita! Nella zona, tutti quelli che mi conoscono sanno benissimo che esercito la professione del commerciante. Lo saprà senza meno anche tuo padre, essendo un mio amico di vecchia data! Vedrai che, al suo ritorno, egli te lo confermerà senza meno!»

«Hai detto che fai il commerciante?!» sgranando gli occhi, Lucebio gli domandò molto meravigliato «Allora sono convinto che un poveraccio come te può darsi soltanto al commercio di serpenti e di rospi! A pensarci bene, tenendo conto della tua età abbastanza avanzata, neppure in tali animali potresti darti a commerciare. Te lo garantisco!»

«Che dici mai, Lucebio?! Contrariamente a quanto pensi sul mio conto, io vendo balocchi: quelli più belli che esistono! Ma vedo che la mia professione per te è stata una vera sorpresa! In merito ad essa, ti posso domandare se ti piacciono i giocattoli oppure non ti dicono niente?»

«Altroché, se mi piacciono, commerciante del cavolo! Forse hai già dimenticato che ho l'età adatta per divertirmi con spade di legno e balocchi? Dunque, come potrebbero essi non piacermi? In qualità di giocattolaio, non dovresti ignorare che tutti i bimbi, nessuno eccettuato, vanno pazzi per le une e per gli altri! Anzi, piacciono anche a coloro che hanno serie menomazioni fisiche, come il mio sfortunato amico Latuco!»

«Già...,» il vecchio cercò di scusarsi «hai perfettamente ragione, Lucebio, e ti chiedo venia. È tutta colpa di questa mia mente consumata, la quale non mi fa più ragionare, come quando ero giovane e senza difetti della memoria. Spesse volte, essa davvero mi fa dare i numeri! Allora non ti dico quanti sproloqui vengono fuori da questa mia testa bacata. Mi fa quasi sragionare del tutto! Un giorno essa voleva a tutti i costi farmi ubriacare con l'olio. Immagina un po' cosa successe al mio intestino, dopo aver tracannato in dosi massicce l'untuoso liquido!»

«Ah, ah! Dimmelo tu, invece, se vuoi farmi divertire!»

«Ebbene, esso ne rimase a tal punto scombussolato, che ogni cinque minuti mi faceva sentire il bisogno di evacuare. Non ti so dire il numero di evacuazioni, alle quali dovetti ricorrere, prima che l'inconveniente mi passasse. Ma ti posso garantire, ragazzo, che esse furono tantissime e liquide, tutte molto abbondanti di quello che sai!»

«Allora sei un po' picchiatello, a quanto pare! Addirittura volevi ubriacarti con l'olio!» ridendosela a squarciagola, l'arguto Lucebio gli fece presente bonariamente. «Scommetto che ti facesti anche addosso più di una volta, a causa della tua sciocca iniziativa! Non cercare di negarlo, per favore, poiché giammai ti crederò!»

«Ehi, Lucebio, vacci piano con i tuoi epiteti gratuiti! Adesso cominci ad esagerare, bricconcello! Diciamo che sono solamente un pochino smemorato e nulla più! Ti sta bene così? Inoltre, tengo a precisarti che in quell'occasione stetti attento a non farmi mai addosso!»

Il vecchio gli rispose, abbozzando un sorriso che, come poteva notarsi, non si dimostrava sincero. Intanto, però, dentro di sé iniziava ad arrovellarsi e a perdere l'intera pazienza.

«Allora ti posso chiamare Smemorato, sedicente amico di mio padre?» gli domandò Lucebio «Magari soltanto amichevolmente! A mio avviso, si tratta di un nome che ti starebbe a pennello, anche parlando sul serio nel tuo caso! Perciò consentimi di chiamarti così, se vuoi fare una cosa giusta! Ciò mi farebbe davvero piacere!»

«No no, Lucebio! Esso è un nomignolo che non mi garba, se lo vuoi sapere! Perché dovrei essere chiamato da te con il nome che dici, se invece il mio nome è Ghi...»

«Ghi...? Su, dimmelo per intero, vecchio!» Il ragazzo lo invitò ad andare avanti, quasi volesse strappargli di bocca la restante parte del nome, essendo desideroso di apprenderlo.

Il vecchio, da parte sua, tentennava e non si decideva a finire di pronunciare il proprio nome qual era veramente, poiché non intendeva affatto farglielo conoscere. Ma poi egli ci ripensò e, pur di non rivelargli il suo vero nome, deliberò di accondiscendere alla sua richiesta. Per questo, senza avere più dubbi, si sbrigò ad accontentarlo, dicendogli:

«Va bene, hai vinto, Lucebio! Chiamami pure Smemorato, se proprio lo gradisci! Comunque, unicamente in via confidenziale: ti sono stato chiaro? Tanto per me fa lo stesso, considerato che un nome vale un altro. La cosa importante è che alla fine ci intendiamo perfettamente, quando ci parliamo a quattr'occhi! Non è forse vero che ho ragione?»

«Non ti sbagli affatto, Smemorato! Adesso, però, vuoi dirmi dove ce li hai questi benedetti giocattoli che vai vendendo in giro, senza portarli con te? Oppure devo persuadermi che effettui la loro vendita esclusivamente con l'immaginazione, dal momento che essi mi risultano totalmente invisibili? Allora, se è come ho detto, sei un vero mentitore!»

«Li vendo sul serio, Lucebio!» si difese il vecchio con decisione «Sappi che sono un venditore ambulante abbastanza serio, oltre che molto conosciuto nella tua zona! Quanto ai giocattoli, non potendo portarli con me a causa del loro peso eccessivo, li tengo conservati in un posto sicuro, il quale si trova a pochi passi da qui.»

Nell'affermare ciò, egli diede intorno a sé alcune occhiate guardinghe, cercando di farle arrivare il più lontano possibile da quel luogo. Quando si fu accertato che non c'era anima viva nei dintorni, aggiunse:

«Lucebio, vuoi venire con me a constatare di persona che non mento e che dico soltanto la verità? Così ti accerterai anche di quanti ne possiedo nel mio nascondiglio segreto! Una volta lì, ti prometto che ti regalerò tutti quelli che risulteranno di tuo gradimento, poiché mi sei abbastanza simpatico. Come figlio del mio carissimo amico, non ti farò pagare neanche un centesimo! Dunque, ti piace la mia proposta?»

«L'idea mi alletta tantissimo, Smemorato. Ma devo chiederti il favore di attendere un breve momento, siccome mio padre è prossimo a rifarsi vivo da queste parti. Al suo ritorno, verrà anche lui insieme con me a vederli. Sono certo che egli, in qualità di tuo vecchio amico, sarà infinitamente felice trovarti qui! Dunque, sei d'accordo con me?»

«No no, tuo padre non potrà venire con noi. Altrimenti, egli non ti darebbe neppure il tempo di sceglierti quelli che preferisci di più! Perciò, se ci tieni ad avere i giocattoli che ti ho promesso, devi venire a prenderteli adesso che sei solo. Sennò non se ne fa niente! Quindi, scegli tu quello che vuoi fare veramente: venire in possesso di molti giocattoli oppure rinunciare ad averli con te per divertirti!»

«Perché dovrei venire con te da solo, Smemorato? Sarebbe forse tua intenzione rapirmi? Già, di sicuro vuoi farmi oggetto di un tuo rapimento, vecchio scimunito! Perciò mi sa che è tutto falso che sei un commerciante di balocchi. Per questa ragione, non appena tornerà mio padre con lo stallone riacciuffato, ti farò conciare bene per le feste da lui. Te lo assicuro che non la passerai liscia, per aver tentato di rapirmi!»

Non gradendo il nuovo atteggiamento assunto dal piccolo Lucebio, il quale a un tempo lo accusava, lo sbugiardava e lo minacciava, in un primo momento, il vecchio si infuriò. Dopo, non venendogli una idea migliore per la testa, egli si diede ad urlargli contro con tono minatorio:

«Taci, moccioso! Sennò ti farò pentire di essere nato!»

Lucebio, da parte sua, non si lasciava intimidire dalle sue minacce, per cui ricominciava sempre daccapo con la sua tiritera. La quale, nel medesimo tempo, risultava accusatoria e minacciosa contro chi voleva diventare suo rapitore. Allora, visto che le cose in un certo senso si mettevano male per lui, il vecchio preferì tagliare la corda con la massima sollecitudine. Così si dileguò, prima che ci fosse il ritorno del padre del bambino o si trovasse a passare da quelle parti qualcuno della zona.

Giustamente, il lettore si starà domandando chi fosse mai il vecchio che si era intrattenuto a parlare con Lucebio e se egli mirasse sul serio al suo rapimento. Magari, nel caso di una risposta affermativa, l'interessato vorrà pure conoscere il motivo per cui egli intendeva rapire il bambino. Risultando le sue pretese senz'altro legittime, è d'obbligo soddisfarlo in maniera esauriente. Ma bisogna procedere con ordine, se vogliamo una maggiore chiarezza sui fatti che si riferivano a lui.

Ebbene, ci troviamo di fronte al mago Ghirdo, il quale era molto diverso da tutti gli altri maghi, a causa della sua immortalità e della sua pericolosità. In Litios la gente, pur essendo a conoscenza che l'esistenza del mago si protraeva nel tempo da molte generazioni, non sapeva spiegarsi da chi gli provenisse quella sua esagerata longevità. Quanto alla sua vita superlongeva, i pareri dei Litiosidi erano discordi. C'erano quelli che attribuivano al mago l'età di trecento anni; altri, invece, si azzardavano a dargliene parecchi di più, forse anche seicento. A ogni modo, tali persone erano tutte in errore. Esse, a dire il vero, erano all'oscuro che il misterioso mago, da quasi un millennio, era diventato immortale, grazie all'intervento di un dio malefico, di nome Sartipan. Costui gli si era mostrato molto generoso, naturalmente in cambio di qualche favore.

Invece la pericolosità da cosa gli derivava? Forse dal fatto che era vero che il mago rapiva i bambini, per la qual cosa era da considerarsi pericoloso al massimo? Le due cose, in verità, non si presentavano affatto collegate tra di loro, visto che ciascuna seguiva un proprio differente binario. Sebbene i suoi rapimenti rappresentassero la morte di moltissimi bambini, come ci renderemo conto tra breve, il pericolo che si annidava in lui era ben altro! La divinità, che gli aveva fatto dono dell'immortalità, lo aveva anche investito della facoltà di trasformarsi in un terribile mostro invulnerabile. Il quale, per le sue prodigiose prerogative, non poteva essere affrontato ed ucciso da nessun essere umano. A questo punto, però, veniamo alle vere ragioni che spingevano il mago a sottrarre a tante povere coppie i loro teneri virgulti e, nello stesso tempo, cerchiamo di conoscere la periodicità dei suoi rapimenti. In relazione ad entrambe le cose, la risposta è una sola, siccome esse fanno capo ad un unico problema. Infatti, quando il dio Sartipan lo aveva reso immortale, in cambio aveva preteso da lui il sacrificio mensile di un fanciullo, il quale non doveva aver superato una certa età.

Certi di avere appagato appieno la curiosità del lettore, possiamo riprendere il nostro racconto. Esso questa volta ci porterà a rintracciare il mago proprio nel luogo che l'ospitava, ossia nella sua dimora. Nella quale, come vedremo, in un tempo assai remoto, perseverando fino all'impossibile, egli invano si era dato ad industriarsi con svariati miscugli, allo scopo di procacciarsi l'agognata immortalità. Ovviamente, senza essere mai riuscito ad ottenerla con i suoi molteplici tentativi da mago.


Costretto a sgattaiolare, il vecchio mago si mise a percorrere di buona lena svariati sentieri, i quali, susseguendosi serpeggianti, si insinuavano nella vicina boscaglia. Una volta al termine del suo tragitto, egli si ritrovò all'imbocco di una smisurata caverna. Dopo esservi entrato, si sedette sopra un grosso sasso di forma cilindrica, il quale gli fungeva da sgabello. Tenendo poi la fronte poggiata sulla mano sinistra e sorreggendo il gomito di quest'ultima con quella destra, rimase a lungo soprappensiero. Restando immobile in quella posizione, quasi fosse immerso in una profonda meditazione, Ghirdo faceva scorrere nella sua mente, l'uno dopo l'altro, alcuni importanti ricordi. Ora i suoi pensieri erano rivolti ad un millennio prima, quando era un mago in cerca di una esistenza immortale e non c'era in lui alcuna intenzione di rinunciarci.

Ebbene, a quel tempo, vedendo manifestarsi sul proprio corpo i segni della senescenza, egli appariva un'anima in pena. Sovente si mordeva le labbra e qualche volta dava perfino violente testate contro ogni cosa che gli capitasse davanti e che risultasse di consistenza compatta, cercando di farsi volontariamente del male. Inoltre, sapeste con quale faccia assisteva al crescente inclinarsi della sua colonna vertebrale, nonché all'irruvidirsi e al raggrinzirsi della sua pelle disidratata, la quale andava diventando sempre più rugosa, specialmente alle mani e al volto. A quel cambiamento del proprio corpo, egli dava nelle escandescenze più bestiali, si inviperiva orribilmente, si torceva simile ad un cinghiale messo ad arrostire vivo sullo spiedo. Ma invano l'esperto di alchimia seguitava a preparare senza cessazione mille intrugli con robacce di ogni tipo e li deglutiva con avidità. Peccando di ingenuità, lo sventurato non si rendeva conto che essi, mai e poi mai, avrebbero potuto procurargli l'immortalità, la quale era la cosa al mondo da lui più bramata!

Un giorno il pertinace mago, che era sempre alla ricerca di una esistenza senza fine, quella che non era in grado di procacciarsi con le sue infinite trovate, aveva deciso di preparare una ennesima pozione. Questa volta, ritenendola oltremodo prodigiosa, egli era sicuro di riuscire nel proprio intento. L'esperimento stava avvenendo in quella stessa grotta, dove si trovava attualmente. Si trattava di un vasto antro, che era frequentato da grossi pipistrelli e da giganteschi scarafaggi. Dopo aver versato in una provetta un po' di sangue di tali disgustosi animali, egli si era ferito ad un polso ed aveva lasciato gocciolare nello stesso tubetto di vetro anche il suo violaceo sangue, il quale in quel momento gli stillava lentamente dalla ferita. Tali operazioni ripugnanti, che di sicuro sarebbero apparse assai strambe a qualsiasi persona normale, erano state eseguite da lui con una cura meticolosa. Alla fine, dopo aver fatto amalgamare per bene i tre tipi di sangue, il mago aveva accostato la provetta alla viva fiamma del fuoco per fare intiepidire il bluastro liquido, che vi era contenuto. Avvenuto poi il suo lieve riscaldamento, egli lo aveva trincato senza alcuna esitazione, come se si fosse trattato di una gradevole tisana da gustarsi con immenso piacere.

Dopo l'illuso Ghirdo era convinto che sarebbe riuscito a procacciarsi l'immortalità. Infatti, l'aveva sentita già a portata di mano e si era preparato a godere dei benefici che da essa gli sarebbero derivati in breve tempo. Invece il poveretto era dovuto ancora andare incontro alla più amara disillusione! Infatti, non appena aveva ingerito quell'intruglio di sangue misto, che tra l'altro era risultato anche nauseabondo, all'istante era stato colto da tremende coliche intestinali. Allora l'infelice, imprecando orribilmente ed emettendo forsennate grida di dolore, si era lasciato cadere per terra, dove si era dato a voltolarsi e a dimenarsi convulsamente nella polvere. Ma poco più tardi, mentre il mago restava in quel suo stato penoso, all'improvviso, uno sghignazzare beffardo era intervenuto a scuoterlo, distraendolo dal suo persistente malessere. Esso, intanto che rimbombava ed echeggiava, si diffondeva per l'intera cavità dell'antro, facendo confondere la sua esatta provenienza. A quelle risate sarcastiche, chi era costretto a tollerarle controvoglia aveva domandato all'invisibile personaggio, che si stava prendendo gioco di lui:

«Invisibile intruso, che ti beffeggi dell'attuale mio stato disperato, possibile che non hai pietà di un povero disgraziato, al quale oggi la sorte è particolarmente avversa? Vuoi dirmi almeno chi sei e da dove sei sbucato fuori? Avanti, sbrìgati a rispondere alle mie due domande, se vuoi essere un tantino generoso con me, che sto soffrendo!»

«Sono un essere immortale, mago dalle idee bislacche.» aveva iniziato a parlargli una voce altisonante, la quale per il momento si presentava priva di immagine «Sappi che ti ho seguito in tutti i tuoi vani sforzi, mentre tentavi di procurarti l'immortalità, cercando di impossessartene con la tua bizzarra alchimia. Ma consentimi di essere sincero con te, Ghirdo, e permettimi di rinfacciarti che la strada da te percorsa per conquistarla non conduce da nessuna parte; anzi, porta solo a ripetuti insuccessi dannosi. Se la desideri ardentemente e ci tieni ad essa, ricòrdati che c'è un unico modo per ottenere l'immortalità. Ti basta seguire i miei voleri, i quali, nel caso che tu desiderassi saperlo, non sono neppure tanti. Ti prometto che, se mi darai una mano nel conseguire alcuni miei intenti, avrai quella immortalità che da infiniti anni vai invano ricercando caparbiamente con la tua insipida magia!»

«In verità,» aveva osservato il mago «non riesco a comprendere in che maniera un misero mortale come me possa risultare utile ad un prestigioso essere immortale del tuo calibro. Secondo me, se ricevessi da te un favore così inestimabile, quale rappresenta per me l'immortalità, non sarebbero sufficienti a ripagarti i miei preziosi servizi di una intera eternità! Ecco come la penso io, in merito alla tua proposta!»

«Invece, mago Ghirdo, stanne certo che gli obblighi, ai quali dovrai sottoporti, non esorbitano dalle tue possibilità umane. Da te pretenderò esclusivamente devozione ed obbedienza illimitate, incondizionate e perenni. Oltre a ciò, ogni mese dovrai immolarmi un fanciullo, il quale non abbia ancora superato i sette anni di età. In cambio di tali favori che ritengo irrisori, ti concederò l'immortalità e la facoltà di tramutarti in un mostro invulnerabile ed invincibile. Ti garantisco che, grazie al suo corpo indistruttibile, mai nessun essere umano, anche se avrà la tempra di un grande eroe, sarà in grado di sconfiggerlo con le sole sue forze! Dunque, a questo punto sta a te decidere se accettare la mia proposta oppure respingerla e restare mortale, senza possibilità di ripensamento!»

Il mago Ghirdo era ben consapevole dei meravigliosi doni che gli erano stati garantiti dal suo magnanimo interlocutore divino; come pure si rendeva conto che sarebbe bastata una sua risposta affermativa, perché egli ne entrasse in possesso. Allora, non volendo farsi sfuggire la bella occasione, aveva stabilito di approfittarne all'istante. Per questo, a tale proposito, si era dato a rispondergli senza esitazione:

«Non posso negare che sei infinitamente generoso, divinità a me ignota, se, in cambio di doni così eccezionali, esigi da me dei favori che considero insignificanti. Quindi, consapevole che da essi mi deriveranno dei benefici inopinabili, accetto il patto che mi proponi. A tal fine, ti prometto di servirti nel migliore dei modi e ti assicuro che non avrai mai da lamentarti della mia ubbidienza, la quale si dimostrerà integerrima!»

Era stato in quel modo che il vecchio mago si era visto diventare un essere immortale, anche se sostanzialmente non aveva potuto riacquistare le giovanili fattezze di un tempo. All'occorrenza, comunque, egli aveva la facoltà di assumere le sembianze di un qualsiasi altro mortale, indipendentemente dalla sua età. Ma Ghirdo, dal canto suo, era rimasto ugualmente soddisfatto e non aveva mai smesso di godersi la sua fantastica immortalità nel modo che più gli era congeniale.

Dopo essere diventato immortale, ogni tanto il mago aveva ricevuto la visita del suo protettore, il quale si era rifatto vivo esclusivamente per comunicargli alcuni suoi desideri oppure per esprimergli i suoi rincrescimenti: questi ultimi, solo quando se li meritava. Soprattutto lo aveva contattato per metterlo al corrente di notizie di una certa importanza, buone o cattive che fossero, facendo perfino comunella per conseguire determinati obiettivi di interesse comune. Anche il giorno precedente, a distanza di un anno dall'ultimo loro incontro, il mago aveva riudito la voce del suo protettore, che era il dio negativo Sartipan. Costui era andato a fare la sua ennesima visita al suo protetto, presentandosi a lui con il solito tono di voce, il quale risultava sempre stentoreo. Questa volta il dio era venuto a fare al mago un discorso per niente piacevole; per cui, fin dall'inizio, egli era apparso tutt'altro che soddisfatto. Perciò cerchiamo di seguirlo anche noi nella sua interezza.

"Ghirdo, devoto mio, ho scrutato i sentieri che solcano il prossimo futuro e, nostro malgrado, vi ho scorto, oltre che dei seri guai per te, anche qualche problema per me. Molto presto un essere mortale cercherà di vanificare i nostri piani, cioè quelli che avevamo messo a punto nell'ultimo nostro colloquio. Come ho appreso, egli insidierà la tua immortalità. Mi riferisco ad Iveonte, il futuro primogenito del re Cloronte. Un giorno non molto lontano, il principe dovrebbe regnare su Dorinda, la città che sorgerà dal rude villaggio di Litios e avrà un suo periodo di splendore. Da parte nostra, però, faremo in modo che tale evento non si verifichi e venga cancellato nelle pagine del destino. Ci adopereremo con ogni mezzo, ci industrieremo perché egli non possa nuocere a nessuno di noi due. Anzi, non permetteremo al nostro comune avversario neppure di diventare sovrano della sua città. Vedrai che, con un po' di fortuna dalla nostra parte, saremo in grado di superare lo scoglio rappresentato dal futuro principe dorindano!"

Quando il mago Ghirdo ritornò in sé, era già notte fonda tutt'intorno alla sua caverna. Allora pensò di darsi ad un sonno ristoratore per affrontare con maggiore vigoria il mattino seguente, che si prospettava molto movimentato. Difatti, non avendo ancora assolto il suo compito mensile, quello che gli aveva tanto raccomandato il suo protettore, egli si sarebbe dovuto dare un gran daffare per riuscire ad assolverlo in tempo. Oramai restavano solo tre giorni all'uomo di magia per mettersi in regola con il suo benefattore, il quale non era il tipo da transigere sull'accordo da loro concluso. A tale proposito, il mago, se non gli fosse riuscito operare alla chetichella in quel lasso di tempo, pur di raggiungere il suo scopo, sarebbe ricorso alla sua mutazione genetica. Cioè, si sarebbe trasformato nel mostro orrendo ed invincibile che il dio Sartipan gli permetteva di diventare al bisogno. In quel modo, egli si sarebbe procurato con facilità il bambino da immolare al suo protettore.

A questo punto, è opportuno conoscere qualcosa sulla vita del nostro mago, per renderci conto di come essa si era svolta in passato, fino a quando non gli era stata concessa l'immortalità dal dio Sartipan. Così, dopo aver percorso i sentieri della sua trascorsa esistenza di persona normale, fatto essenziale per il prosieguo della nostra storia, saremo certi di averlo indagato a fondo, secondo il nostro desiderio. Ad approfondimento avvenuto del nostro Ghirdo, ci sentiremo senza dubbio più appagati. Ciò, non soltanto perché un suo studio più approfondito ci risulterà utile; ma soprattutto perché esso ci darà l'opportunità di conoscere meglio il nostro nuovo personaggio. La quale conoscenza verterà precipuamente su quelle che erano state le esigenze interiori del mago, in qualità di semplice uomo, e sulle sue aspirazioni.


Ghirdo era nato da una coppia di giovani che avevano entrambi venticinque anni, i quali si dedicavano alla pastorizia. I loro nomi erano Lusiduk, quello del padre, e Meniap, quello della madre. I due coniugi pastori allevavano sia pecore che capre, dalle quali ricavavano vari prodotti caseari. Essi non li vendevano, ma se ne servivano unicamente per il loro sostentamento quotidiano. Difatti tali latticini, se mangiati con il pane, facevano da ottimo companatico. Dopo la nascita del loro primo figlio, che avevano avuto l'anno successivo al loro matrimonio, Lusiduk e Meniap non ne avevano avuti altri; della qual cosa si dispiacevano tantissimo. Essi non sapevano spiegarsi in qualche modo la sopravvenuta infertilità nella loro coppia.

Essendo cresciuto come figlio unico, il piccolo Ghirdo non aveva mai conosciuto altri bambini della sua età. Per questo era stato costretto a divertirsi con gli insetti che trovava nei suoi vagabondaggi, i quali di regola avvenivano entro un raggio di qualche miglio dalla sua casa. A tale proposito, va precisato che i suoi genitori si erano stabiliti in una località che, pur appartenendo ai territori di Litios, si trovava a ridosso del confine terdibano. Essi non si allontanavano mai dalla loro dimora e dai luoghi dove trascorrevano la loro vita da pastori e vi conducevano una serena esistenza vita natural durante. Inoltre, non si erano mai condotti nella città di Terdiba e nel loro villaggio, poiché l'una e l'altro si trovavano a molte miglia dalla loro abitazione. Quest'ultima era situata in una zona praticamente deserta.

All'età di dieci anni, il loro minorenne unigenito da solo era già in grado di condurre alla pastura gli ovini, i quali comprendevano un centinaio tra pecore ed arieti, nonché un centinaio tra capre e becchi. Volendo essere precisi, i montoni e i caproni, che erano dello stesso numero, insieme non superavano la decina. Nelle rare volte che gli capitava di pasturare le greggi senza il padre, lo coadiuvava egregiamente il suo fedele cane, al quale aveva dato il nome di Bau. Invece, quando non faceva la guardia agli ovini, l'animale riusciva a divertirlo un mondo, poiché non si stancava mai di giocherellare con lui, rendendogli gaie e per niente noiose le ore trascorse durante il pascolo delle bestie.

Ghirdo aveva quindici anni, quando era capitato dalle loro parti un uomo bizzarro, del quale in seguito si sarebbe appreso che era un provetto mago. Egli, che si chiamava Zaren, aveva chiesto ai padroni di casa di ospitarlo per qualche tempo imprecisato. Allora Lusiduk non aveva voluto rifiutargli l'ospitalità, nonostante fosse sprovvisto di ogni notizia sul conto del forestiero. Ma la sua generosa decisione non lo aveva fatto pentire, siccome, dopo alcuni mesi di permanenza nella loro casa, lo sconosciuto si era rivelato un personaggio molto interessante e degno della loro massima fiducia. Della persona di Zaren, affascinava di più la sua magia, la quale ai tre membri della famiglia risultava qualcosa di prestigioso e di stupefacente. Egli faceva sgranare gli occhi a tutti e tre, ogni qual volta mostrava la sua grande abilità nella professione di mago. Ma chi ne rimaneva ammaliato in maniera particolare era l'adolescente Ghirdo. Costui, perciò, si era subito riproposto di diventare un uomo di magia, magari superando perfino il loro straordinario ospite. Il mago Zaren, da parte sua, riconoscente dell'ospitalità che riceveva dai genitori del ragazzo, aveva accondisceso al suo desiderio di apprendere l'arte della magia. Per questo si era dato ad insegnargli ogni cosa ad essa pertinente, a cominciare dai rudimenti della medesima fino alle pratiche magiche più impegnative, quelle che davvero lo incantavano.

Quando era divenuto un giovane maggiorenne, il figlio di Lusiduk e di Meniap non aveva più niente da imparare sulla magia che era in possesso di Zaren, dal momento che egli si dimostrava dotto in ogni suo ramo, guadagnandosi così la stima del suo esimio maestro. Ma Ghirdo, il quale ora si mostrava all'altezza del suo arduo compito, aveva deciso di ottenere qualcosa di più spettacolare, rispetto a ciò che gli era stato insegnato dalla persona che ospitavano. Secondo lui, non erano pochi i problemi di alchimia e di magia che l'insegnamento del suo maestro non riusciva ancora a risolvere. Per questo doveva impegnarsi a fondo per giungere anche alla loro soluzione. Da parte sua, il mago Zaren non aveva distolto il suo discepolo dal pensiero di volere migliorare la magia da lui posseduta. Invece, suo malgrado, non aveva potuto seguirlo nei suoi diversi esperimenti, che si prevedeva sarebbero stati tantissimi. Gli era stato vietato da una tragica disgrazia, a cui era andato incontro. Infatti, in seguito egli era rimasto vittima di un serpente velenoso, il cui morso mortale lo aveva fatto morire in pochi minuti.

Ghirdo aveva trent'anni, quando aveva terminato di risolvere la gran parte dei problemi alchemici e magici che nell'erudizione del suo maestro erano rimasti irrisolti. Naturalmente, quelli che erano restati di difficile attuazione avevano avuto degli obiettivi che gli altri maghi avrebbero ritenuti irraggiungibili, poiché essi miravano a cose incredibili. Basti pensare alla terna di quelli che avevano i seguenti tre scopi: il superamento della barriera spaziale, l'abbattimento della forza di gravità e la sconfitta della morte. Con il primo della triade, il mago Ghirdo si proponeva la fruibilità del tempo passato e di quello futuro, oltre al presente che già gli apparteneva, facendo esso parte della sua esistenza da vivo. Con il secondo, egli intendeva avere la facoltà di tenersi sospeso nell'aria e di muoversi in essa senza ricorrere al volo. Con il terzo, egli aspirava a non morire mai, procurandosi l'immortalità, la quale era ambita da lui in modo precipuo e con una dedizione maniacale.

Dopo essersi impegnato attivamente e per lungo tempo, allo scopo di realizzare tali suoi progetti nell'ordine indicato, alla fine il mago, quando aveva compiuto già sessant'anni, aveva dovuto desistere e rinunciare ai primi due. Infatti, egli aveva finalmente preso atto che tra i suoi due progetti e la loro concreta realizzazione si ergeva in modo insormontabile la barriera dell'impossibile. Comunque, riguardo al secondo, aveva conseguito qualche mediocre successo. La difficoltà maggiore, che aveva presentato il primo di essi, era provenuta dal fatto che l'elemento tempo era qualcosa di invisibile e di inafferrabile. Per cui ogni sua forma magica, intenta a gestirlo e ad averlo in suo potere, era risultata del tutto vana ed impotente. In riferimento al secondo progetto, invece, egli era riuscito ad ottenere soltanto la levitazione; però senza ricorrere ad alcuna formula magica. Difatti era in grado di sollevare sé stesso nell'aria, ma esclusivamente dopo che era entrato in uno stato di trance. Egli riusciva ad ottenerla attraverso una immane forza di volontà, la quale lo avviava al fenomeno paranormale. Quest'ultimo faceva stupire enormemente quelli che assistevano ad esso, i quali, per la verità, potevano essere soltanto i suoi genitori.

Quanto al terzo progetto, con il quale si proponeva di procurarsi l'immortalità, ritenendolo fattibile attraverso una giusta pozione magica, il mago Ghirdo non aveva mai voluto abbandonarlo. Nel tempo egli aveva seguitato a coltivare la speranza intorno ad esso fino alla sua tarda età, quando i suoi genitori erano ormai morti da un trentennio. L'illuso mago si era dato a preparare di continuo dei filtri sempre nuovi, non perdendo mai la speranza che un giorno almeno uno di loro gli avrebbe permesso di sconfiggere la morte, facendolo così vivere in modo perpetuo. Infatti, come ci è stato consentito di apprendere da poco, non era stato nessuno dei suoi miscugli magici a procurare a Ghirdo l'immortalità. Invece essa gli era stata procurata dal dio negativo Sartipan; ma per ottenerla, il mago era dovuto diventare il suo devoto e fedele servitore. Nello stesso tempo, però, egli era divenuto il suo protetto, ricevendo dalla sua protezione altri benefici, quelli che abbiamo già avuto modo di conoscere.