286°-ZEGOVUT, LA POTENZA DELL’IMMAGINARIO VIVENTE

Poco più di un ventennio prima, le terre dei Drucifi formavano una valle meravigliosa sotto ogni aspetto, per cui essi giustamente l’avevano definita Valle Benedetta. Il loro popolo vi trascorreva una vita spensierata e laboriosa, senza che venisse afflitto da alcun genere di preoccupazioni. I campi erano fecondi, poiché venivano irrigati da molti ruscelli naturali; mentre i boschi erano abbondanti di selvaggina, che era costituita da mammiferi e da uccelli. Quanto ai prodotti della terra, eccetto che nei periodi particolarmente rigidi, essi si presentavano copiosi e nutrienti. Perciò i Drucifi si beavano di tanta ricchezza, che si metteva a loro completa disposizione: quella animale per l’intero anno, quella vegetale per circa i due terzi di esso. Per tutti loro, come si poteva ipotizzare, ogni cosa filava liscia come l’olio, senza mai subire neppure catastrofi naturali. Per la qual cosa, ognuno se la poteva dormire tra due guanciali, sognando all'insegna del benessere e della serenità. In seguito, però, quando il popolo drucifino meno se l’aspettava, c'era stata una brusca interruzione della sua tranquillità, della quale erano abituati a godersi per l'intero anno. Allora, per ciascun abitante, era iniziata ad aversi una esistenza amara, priva di ilarità e contestata da una nuova realtà, la quale era da ritenersi macabra e difficile da accettarsi. Per tutti loro, l'inversione di tendenza si era avuta, dopo che erano sopravvenuti dei fatti spiacevoli, che anche noi stiamo per apprendere.

Ebbene, si era al tempo della tanto sospirata vendemmia, per cui le vigne brulicavano di contadini felici ed operosi. Costoro erano intenti a raccogliere i grappoli di uva dai tralci delle viti e a riempire con essi i loro bigonci a spalla. Siccome i vendemmiatori lavoravano a coppie, l'addetto a raccogliere l'uva dalla vite versava i grappoli maturi nel recipiente che il compagno si teneva aggiustato dietro la schiena, seguendolo da vicino passo passo. Ad un tratto, però, mentre erano intenti a vendemmiare lieti ed alacri, ossia all'insegna dell'umorismo, dell'ottimismo e della laboriosità, gli agricoltori drucifini si erano ritrovati ad assistere ad uno strano fenomeno. Nel cielo erano cominciati ad accavallarsi alcuni banchi di nuvolaglia, i quali non facevano pensare per niente alle nuvole che erano abituati a vedere mentre lo solcavano. Infatti, si trattava di masse fumose, che andavano sfoggiando i colori più inverosimili. In mezzo ad esse, inoltre, si avevano dei lampeggiamenti intermittenti, che venivano accompagnati da sordi e cupi rimbombi. A quella strana visione, la totalità dei contadini se ne era spaventata ed aveva smesso di dedicarsi all'esilarante vendemmia; inoltre, essi si erano dati ad assistere esterrefatti al verificarsi di un simile prodigio che si aveva nel cielo. Tra di loro, c'era stato pure qualcuno che, venendo impressionato da tutto quel caos che vi si svolgeva, aveva dato per certa l’imminente fine del mondo. Anzi, in preda ad un terrore panico, egli si era messo perfino ad urlarla ai quattro venti, apparendo un folle.

Durava da circa un’ora quell'agitarsi nell’aria di colori, di luci e di rumori, quando i sensi dei Drucifi avevano cessato di percepire ciò che si stava rivelando a tutti loro un fenomeno singolare. Esso non poteva considerarsi un fatto normale, dal momento che non aveva mai avuto dei precedenti nella storia della loro valle. A quel punto, la gente sarebbe ritornata a vendemmiare con l’operosità di prima, anche se con una psiche letteralmente traumatizzata, se qualcos’altro di arcano non l’avesse ancora distratta da quei suoi buoni propositi. Difatti, non appena il cielo era ridiventato dappertutto limpido ed azzurro, come lo era stato in precedenza, i vendemmiatori drucifini avevano scorto in mezzo alla campagna un gigantesco uovo avente il guscio di colore giallo, la cui altezza poteva raggiungere una ventina di metri. A quell'apparizione, essi si erano precipitati intorno all'uovo con il proposito di scrutarlo da vicino. Alcuni di loro, in verità, presi dalla tentazione, avevano anche voluto sfiorarlo con le proprie mani. Ma al loro tocco, l’uovo all’istante aveva iniziato a mutare colore in continuazione. Allora, essendosene spaventati, i contadini se ne erano allontanati di una ventina di passi. Avvenuto poi il loro modesto allontanamento dal gigantesco uovo, il suo colore si era stabilizzato sul rosso, che aveva voluto anticipare il successivo evento che stava per accadere. Così, qualche istante più tardi, i Drucifi presenti avevano visto il suo guscio prima screpolarsi a mo’ di ragnatela e poi frantumarsi completamente, facendo proiettare i singoli pezzi tutt’intorno, fino a dieci metri di distanza. Nel medesimo tempo, ne era uscito fuori un essere orribile. Il quale aveva dei neri serpentelli al posto dei capelli e dei verdastri ramarri lì dove sarebbero dovute esserci le dita delle due mani. La sua testa, che era di forma triangolare, presentava invece un paio di grosse orecchie pendule e due grandi occhi infuocati, i quali seguitavano a roteargli nelle orbite come due dischi luminosi.

Dopo la sua comparsa, lo strano essere aveva emesso una sghignazzata prolungata, la quale era echeggiata per l’intera valle. Al termine di essa, egli si era dato a gridare a gran voce:

"Io sono Zegovut e personifico la potenza dell’immaginario vivente, dal momento che posso fare diventare effettivi i sogni e trasformare in sogno la vita reale. Inoltre, posso fare apparire falsa la realtà e vera l’irrealtà; come pure sono in grado di costringere chiunque a pensare e ad agire come io desidero, rendendolo impotente ad opporsi ai miei desideri. Mi è perfino permesso di ordinare alle vostre coscienze di ignorare ogni cosa che vi circonda e di rimuovere dalla vostra memoria i ricordi che vi si affollano. Non mi è vietato neppure di indurvi ad esistere nella fatua irrealtà, quella che io stesso costruirò per voi per il solo gusto di divertirmi e di distrarmi. In questo modo, vi annienterò come esseri concreti e liberi di agire secondo le vostre brame, che presto saranno surrogate da quelle mie, per contraffarvi ogni istante della vostra esistenza.

Io sono l’Onnipotente Mago, che può sostituire la vostra esistenza con la mia e tramutarla in larva di sé stessa; ma ho anche la facoltà di fare risultare realtà lo spettro del vostro essere astratto. Riesco ad abolire la linea di demarcazione esistente tra il reale e l’irreale, tra l’essere e il non essere, tra il concreto e l’astratto, tra l’infinito e il finito. In pari tempo, ho il potere di rendere confuso ciò che è chiaro e fare divenire alterato ciò che è genuino. Come pure non mi è difficile riprodurre il vostro immaginario sia individuale che collettivo in forma pressoché esistente ed impregnato di solida concretezza. Così facendo, ve lo faccio rivivere come vissuto emotivamente autentico in ogni sua componente esistenziale, ossia biologica, chimica, psichica, intellettuale e spirituale!

Io sono l’Indistruttibile Essere, che è stato il creatore di sé stesso e della propria vita; ma sono anche l’insuperabile mago, la cui magia risulta ineguagliabile nel mondo intero. Perciò pretendo da ogni essere umano la piena obbedienza, la schietta venerazione e l’assoluta dedizione. Quelli che mi si oppongono hanno davanti a sé una unica strada da percorrere, quella che conduce alla morte del proprio corpo e alla vessazione del proprio spirito. Essa, pur nella sua irrealtà, nel presentarsi alla persona umana, sortisce effetti reali, la fa disperare in concreto, l’avvia allo sfaldamento del proprio essere e divenire, all'annebbiamento della propria ragione, all’inconsapevolezza totale di ogni proprio atto volontario od involontario.

Io sono l’Essere Superiore, il quale è consapevole di tale sua prerogativa. Per questo motivo, Drucifi, pretendo da voi una fervida adorazione, come si conviene ad una vera divinità, nonostante io non lo sia. Chi di voi me la negherà non avrà vita facile, poiché sarà da me distrutto esistenzialmente, senza avere più la possibilità di esprimersi in una qualsiasi forma vivente. Soprattutto ricordatevi che, da oggi in avanti, la vostra valle entrerà in mio possesso e vi edificherò la mia dimora, la quale sarà sontuosa e degna della mia onnipotenza. Ad essa mai nessun essere potrà accedere, senza il mio consenso. Da lì vi sorveglierò e, se oserete opporvi ai miei vari voleri, vi invierò contro le mie legioni armate, le quali sono costituite dai Cavalieri Ombre. Allora essi vi colpiranno duramente, senza che voi possiate fare altrettanto nei loro confronti e respingerli in un qualunque modo.

Ricapitolando, questa gaia valle diverrà la vostra maledizione, se non ottempererete ad ogni mio desiderio e non conformerete la vostra condotta alla mia volontà! Riguardo alla vostra terra, voglio mettervi al corrente che giammai sarà permesso a qualcuno di voi di abbandonarla, allo scopo di rifarsi una nuova esistenza altrove. Chi ci proverà, sarà raggiunto dai miei cavalieri invincibili e punito con feroce spietatezza. La stessa cosa varrà per coloro che capiteranno in questa valle per un motivo qualsiasi, poiché anch’essi saranno vincolati a restarvi per sempre, pur non essendo d’accordo con tale vincolo. Dopo avervi avvertiti, Drucifi, nessuno di voi un domani potrà giustificarsi, dicendo che ne era all’oscuro. Ma ora è giunto il momento di lasciarvi alle vostre occupazioni. Comunque, vi anticipo che quanto prima riceverete altre mie notizie, le quali vi risulteranno altrettanto importanti. Perciò arrivederci a presto, o voi, che state ormai per diventare i miei devoti a vita e non avrete altro signore, al di fuori di me!"

Una volta pronunciate le sue ultime parole, Zegovut, nella sua apparente mostruosità, immediatamente era scomparso agli occhi dei vendemmiatori drucifini. Allora essi, lasciando le sole donne nei campi a portare a termine la restante vendemmia, avevano fatto ritorno nel loro villaggio. Dove avevano riferito al loro capo Tillisan tutto quanto era successo nei campi, di cui erano stati testimoni oculari ed uditivi.



Non appena era stato informato dei fatti accaduti in aperta campagna, senza perdere tempo, il loro capo aveva convocato l’assemblea popolare, alla quale avevano diritto tutti gli uomini del villaggio avente una età superiore ai quarant’anni. Oltre a lui, che la presiedeva, c’erano altri dieci suoi collaboratori, i quali avevano il compito di disciplinare i diversi interventi dei suoi numerosi membri, poiché spesso essi finivano per accavallarsi e non facevano ascoltare niente a nessuno. In quella assemblea, il primo a prendere la parola, né poteva essere altrimenti, era stato Tillisan, essendo il capo del villaggio. Egli si era espresso alla folla dei presenti con queste testuali parole:

«Voglio essere franco e sincero con voi, miei cari sudditi. In un caso come questo, non so quale iniziativa prendere, essendoci in me il timore che essa poi possa rivelarsi nociva a tutti noi. Perciò chiunque abbia dei preziosi suggerimenti da fornirmi, attinenti ovviamente all’ordine del giorno, è invitato a farsi avanti e a propormeli. Così gliene sarò molto grato, se, dopo essersi presentato a me, lo farà con gentilezza!»

All’invito del suo capo, uno dei due saggi del villaggio, il quale era l’ottantenne Verlom, aveva voluto dargli la propria risposta per primo. Così, senza voler essere un sapientone, aveva iniziato a dirgli:

«Hai senz’altro ragione, Tillisan, a dichiararti inidoneo a prendere una qualsiasi decisione in relazione all’argomento, siccome è la prima volta che ci capita di dovere affrontare una questione simile e di risolvere un problema, che non può non presentarsi a noi assai ostico. A mio avviso, però, bisogna pur decidere qualcosa in merito. E anche alla svelta, se intendiamo pervenire ad una sollecita soluzione del nostro arduo caso!»

«Con il tuo intervento, Verlom,» il capo lo aveva ripreso «non mi hai dato affatto l’aiuto che mi attendevo. Ci hai solo messi al corrente di ciò che già conoscevamo. Invece, come avresti dovuto sapere, ci interessa avere una idea sul provvedimento da prendere nella situazione in cui ci troviamo. Perciò, adesso che mi ti sono spiegato meglio, mi dici se ne hai qualcuna in serbo? Se la tua risposta è affermativa, sei invitato a proporcela subito, senza farci perdere altro tempo, come hai fatto poco fa!»

«In verità, capo Tillisan, avrei da suggerirvi qualcosa da adottare nel caso specifico, a cui ci stiamo interessando in data odierna. Ma non posso garantirvi al cento per cento che quanto vi proporrò si rivelerà poi a nostro totale vantaggio, per il semplice fatto che abbiamo contro un avversario temibile, quale appunto dimostra di essere il mago Zegovut.»

«Intanto tu inizia a metterci al corrente di quanto vorresti suggerirci, Verlom, per darci modo di valutarla. Dopo, come è giusto che sia, sarà la nostra assemblea popolare a pronunciarsi sul tuo suggerimento e a giudicarlo accoglibile oppure no. Quindi, sei pregato di esporcelo, senza altro indugio. Così sarà benaccetto anche il tuo prezioso contributo!»

«Secondo me, capo, per il momento occorre far finta di nulla. Ossia, dobbiamo continuare a vivere, come se niente oggi fosse accaduto nella nostra valle. Mica possiamo metterci ad adorare chi neppure ha dichiarato di essere una divinità, sottomettendoci alla sua volontà! Per la precisione, egli si è solo autodefinito un mago straordinario. Chi può garantirci che egli non è un emerito simulatore, il quale intende unicamente prendersi gioco della nostra buonafede? Inoltre, come possiamo metterci a sua totale disposizione, se neppure sappiamo ancora che cosa egli pretende in realtà da noi? Avete forse sentito che ce lo abbia detto? A mio parere, sono sicuro che egli non lo ha fatto!»

Le considerazioni di Verlom erano state considerate dettate dal buonsenso dalla quasi unanimità dei presenti. Per tale motivo, sotto un certo aspetto, esse potevano anche considerarsi accettabili. Al contrario, il suo coetaneo Leviod, il quale era l’altra persona saggia del villaggio, aveva preso le distanze da lui. Egli aveva giustificato la sua posizione divergente, facendo il seguente acuto ragionamento:

«Premetto che, se vado controcorrente, non lo faccio per spirito di contraddizione; ma perché dei seri motivi mi obbligano a dissentire da tutti voi. Io sarei il primo ad affermare che non bisogna mai piegarsi alla volontà altrui, specialmente quando essa tende a farci diventare autentici suoi burattini. Ma oggi ci troviamo a far fronte ad una emergenza senza precedenti nella nostra storia. Infatti, ci si prospettano davanti alcune terribili alternative, come le seguenti: Ci conviene cedere oppure opporci a chi neppure conosciamo? Zegovut è in grado di concretizzare le sue minacce oppure non lo è? Perciò faremmo bene o male a sottostare ai suoi ricatti? Un giorno ci pentiremmo sì o no, se ci rifiutassimo di dargli retta? Dalla parte sua, però, c’è il fatto che egli ci ha dimostrato di non essere un comune mortale, come lo siamo noi. Per questo illudersi di poter competere con lui potrebbe costarci assai caro, se non proprio fatale. A mio avviso, in seguito non avremmo più la possibilità di ripensarci e di piegarci di nostra volontà al nostro tiranno, al fine di riceverne in cambio almeno qualche beneficio, anche se spicciolo!»

«Hai detto senz'altro giusto, Leviod,» Verlom era intervenuto a ribattere la sua tesi «quando hai affermato che Zegovut intende unicamente diventare il nostro despota! Egli vuole instaurare tra sé e noi l’odioso rapporto che esiste tra un padrone e i suoi schiavi, per cui non potremo mai accettarlo. All'opposto, noi vogliamo vivere da uomini autonomi, liberi di determinarci come popolo e di decidere la nostra sorte. Quindi, non bisognerà permettere ad altri di farlo al posto nostro!»

Il nuovo intervento di Verlom era stato applaudito da tutti gli altri Drucifi. In verità, essi, agendo in quella maniera, avevano inteso fare anche loro ciò che proponeva il savio uomo. Così, una volta giunti a quella conclusione unanime, Leviod, dopo averne preso atto, lo stesso aveva voluto rilasciare la seguente dichiarazione:

«Se questa è la volontà del popolo drucifino, vorrà dire che io, allineandomi ad essa, democraticamente la seguirò senza oppormi. Ho sentito dire che ognuno è arbitro del proprio destino; ma nel caso in questione, a quanto pare, è stato il popolo a decidere il mio, senza che potessi agire diversamente. Ciò dimostra che il pensiero individuale, prima o poi, è destinato a scontrarsi con quello della collettività. Allora il primo è costretto a soccombere sotto il peso del secondo. Se a ragione o a torto, in verità non ve lo so dire. Ma cambierei l’asserzione "ognuno è arbitro del proprio destino" con quest’altra: "ogni popolo è arbitro del proprio destino". Oramai la massificazione di intenti e di tendenze è sempre pronta a sbucare da dietro l’angolo e ad appropriarsi della nostra vita privata! Essa non si arrende, finché non ha schiacciato la personalità e l’originalità del singolo individuo, insieme alla sua privacy. Chiedo scusa ai presenti di questa mia digressione, la quale, anche se la ritenete del tutto fuori luogo, ha voluto erompere dal mio animo con la sua naturale schiettezza!»

«Non devi scusarti di alcunché, Leviod, mio grandissimo amico!» gli aveva risposto Verlom «Le tue osservazioni non sono campate in aria, ma sono il frutto di una riflessione oculata. E poi chi può darci la matematica certezza che la mia tesi oppure la tua è quella giusta? Alla fin fine, tendiamo a perseguire l'identico obiettivo, ma viaggiando su binari differenti. In te si nota una maggiore preoccupazione per ciò che potrà capitarci, agendo in un modo anziché in un altro. Noi te lo riconosciamo e ti ringraziamo, restando ugualmente solidali al tuo pensiero!»

Visto che era stato lui ad aprire l'assemblea, il capo Tillisan aveva voluto anche chiuderla, esprimendosi in questo modo:

«Considerato che siamo tutti d’accordo ad accettare la proposta di Verlom, pur stimando anche l’intervento di Leviod estremamente interessato all’incolumità dell'intero nostro popolo, possiamo porre fine alla nostra assemblea. Il nostro atteggiamento nei confronti di Zegovut, dunque, sarà quello di non considerarlo in nessuna maniera. Attenderemo, invece, che sia lui a rifarsi vivo nel nostro villaggio e a chiarirci meglio ciò che realmente pretende da noi. Nel frattempo, invito tutti a parlarne fra di voi, cercando di approfondire meglio la questione, al fine di avere di essa la giusta visione e quant'altro possa esserci utile. Con queste mie parole, ritengo sciolta questa assemblea straordinaria.»



Almeno per alcuni giorni, nella valle non era accaduto nulla di particolare; per cui i Drucifi avevano trascorso nel loro villaggio una vita tranquilla. Ma un radioso mattino essi erano stati sorpresi da un avvenimento eccezionale. Sulla cima più alta della catena montuosa che cingeva la loro valle, adesso torreggiava un enorme castello, il cui imponente maschio si stagliava in un firmamento rosato. Eppure in precedenza essi l'avevano sempre scorta con il suo cocuzzolo interamente avvolto da un manto nevoso. A tale apparizione, gli abitanti del villaggio si erano resi conto che Zegovut aveva mantenuto una delle sue promesse, secondo la quale avrebbe costruito nei paraggi la sua dimora, con l’unico scopo di sovrastarli, di dominarli e di sorvegliarli. Perciò essi avevano iniziato a temere che il mago presto avrebbe potuto rivelarsi anche capace di attuare i restanti suoi piani. A mezzo dei quali, essi sarebbero diventati delle autentiche marionette da lui manipolate. A quella scoperta, più di un Drucifo aveva tentato di scalare la montagna, sulla cui cima poggiava la sua superba dimora. Ogni volta, però, ciascuno di loro era riuscito a raggiungere soltanto la medesima prominenza, ossia quella che sporgeva dalla rocciosa parete a guisa di un balcone tondeggiante. Poi da essa, che si trovava a dieci metri dal castello, il nuovo aspirante aveva spiccato il suo bel salto nel vuoto. Così, allo stesso modo dei suoi predecessori, era andato a sfracellarsi sul suolo sottostante, dove era morto sul colpo.

Un solo Drucifo, dopo la sua caduta nel vuoto, non era spirato all’istante. Al suolo egli si era ritrovato gravemente ferito e moribondo. Allora un compagno gli aveva chiesto perché mai si era buttato giù da quell’altezza alla maniera di un folle. Ma egli, prima di spirare, gli aveva risposto convintamente: "Se mi sono lanciato da quel posto, è perché ero diventato una bellissima aquila, per cui avvertivo un irresistibile bisogno di volare nel cielo e solcarlo con la più ampia libertà! Alla fine, la tentazione è stata più forte di me e mi sono lanciato per darmi al mio bel volo libero!" Dopo quella risposta, ogni Drucifo aveva compreso che era stato Zegovut a travisare la loro realtà, portandoli a credersi ciò che in effetti non erano e facendoli comportare di conseguenza. Quanto ai motivi che spingevano il mago a reagire con tale spietatezza alle scalate di alcuni temerari abitanti del villaggio, se ne intravedevano solo due. Da una parte, si pensava che egli desiderasse soltanto impedire ai protervi intrusi di pervenire alla sua irraggiungibile abitazione. Dall’altra, invece, lo si accusava di volersi divertire con le vite dei poveri scalatori drucifini, per avere essi osato sfidarlo in quella maniera, che egli considerava oltremodo sfacciata.

Comunque, anche dopo la comparsa della fortezza di pietra, la quale lo aveva riempito di grande stupefazione, il popolo drucifino si era dato ad ignorare appositamente la presenza di Zegovut nella loro fertile valle. Cioè, aveva mirato a non dargli alcuna soddisfazione, mentre la sua esistenza si dipanava nell’ingarbugliato flusso dell’inarrestabile tempo. Lungi dal darsi pensiero per il suo futuro, poiché non vedeva alcuna necessità di farlo, esso viveva solo del suo reale presente. Il quale, per il momento, procedeva sereno e senza rogne, poiché in esso non si avvertiva la presenza del mago. Invece Zegovut, dal canto suo, aveva deciso altrimenti riguardo all'esistenza dei Drucifi, visto che non gli stava piacendo il fatto che essi continuassero a godersi la loro spensieratezza e si gongolassero di gioia a più non posso. Allora, constatata la loro indifferenza nei suoi confronti, egli aveva statuito di fargliela pagare caramente e al più presto possibile.

Così, in una notte serena, quando il cielo veniva invaso dalle stelle, anche se non intendeva mettere in mostra la sua furia vendicativa, il mago ugualmente aveva voluto dimostrare ancora una volta la sua sconvolgente e spettrale potenza. Nel villaggio, tutti i Drucifi erano immersi nel loro sonno profondo, allorquando un boato, distraendoli da esso, li aveva resi completamente svegli ed in preda all’angoscia. Subito dopo, era seguito all’esterno un balenare di luci di ogni forma e di ogni colore. Una parte di esse, infiltrandosi perfino nelle loro abitazioni, li aveva attirati fuori all’aperto. Una volta all’esterno, essi si erano resi conto che nel cielo, sebbene fosse notte, si stava svolgendo il medesimo fenomeno, a cui una parte di loro già aveva assistito nei campi, durante la loro vendemmia. Nella nuova circostanza, però, c'era l'intero villaggio ad ammirarlo oppure a spaventarsene, a seconda di come ognuno lo interpretasse o con quale animo lo accogliesse nel proprio intimo. Da una parte, la fantasmagoria policromatica del fenomeno poteva anche riuscire gradevole agli occhi di alcuni. Dall’altra, al contrario, la si poteva interpretare come una livida visione, con il compito di angustiare le menti della gente, che era presente ed assisteva al fenomeno.

Dopo una dimostrazione di durata uguale alla precedente, il cielo era ritornato ad essere ancora stellato. Anche in tale occasione, come era avvenuto in precedenza nel luogo che conosciamo, qualche attimo dopo c'era stata l’apparizione del solito gigantesco uovo. Essa non si era diversificata dalla precedente nelle formalità. Così, identicamente alla volta scorsa, di nuovo era venuto fuori dall’uovo il mago Zegovut. Il quale si era dato a parlare subito dopo con la sua solita voce stentorea:

«Con rammarico, Drucifi, ho rilevato che non avete preso sul serio le mie precedenti parole, per cui avete preferito ignorarle oppure invischiarvene. Nessuna vostra voce mi è giunta per farmi richiesta di qualche tipo di chiarimento oppure per esprimermi la sua adorazione. Per questo motivo, mi costringete a prendere contro di voi i provvedimenti punitivi più drastici e confacenti. Assumendo tale atteggiamento nei vostri confronti, sono convinto che essi vi serviranno di lezione nella vostra vita ventura!»

Alle minacce del mago, che avevano voluto essere abbastanza dure nei riguardi dei Drucifi, Tillisan gli aveva rinfacciato:

«Potente Zegovut, nell’altra tua apparizione, ci hai forse rivelato come desideravi che ti manifestassimo la nostra adorazione? Ci hai forse impartito dei precetti o dei dettami che avremmo dovuto seguire, allo scopo di ingraziarci la tua benevolenza? Quindi, se quel giorno i miei sudditi non si sono perso qualcosa di ciò che era uscito dalla tua bocca e non hanno dimenticato di riferirmelo, nessuna delle due cose hai mai fatto presenti al mio popolo. Adesso sono io a chiederti espressamente di esplicitarcele in modo inequivocabile. Così in avvenire non ci saranno più, da parte della mia gente, fraintendimenti e cattive interpretazioni. Perciò questa notte ti chiediamo di palesarci ciò che realmente pretendi dal nostro popolo, affinché noi dopo facciamo le nostre considerazioni e prendiamo i nostri provvedimenti, circa ciò che ci avrai comunicato!»

«Se questa è la tua giustificazione alle vostre passate mancanze, capo Tillisan, per questa volta posso anche chiudere un occhio e tenerla per buona. Adesso, però, mi comporto in modo differente nei vostri confronti e vi dico chiaro e tondo quanto pretendo da voi per il futuro. Vi avverto che dopo non ammetterò più altre manchevolezze da parte vostra e non accetterò più altre scusanti. Per la verità, sono due le pretese che ho da avanzarvi e sulle quali non transigo. Con la prima, vi obbligo ad edificare, alle pendici del medesimo monte su cui adesso sorge la mia dimora, un’ara rettangolare, la cui mensa dovrà essere lunga dieci metri e larga quattro. Avvenuta la sua costruzione, innanzitutto dovrete dedicarmela; in seguito, mensilmente e alla presenza di almeno un migliaio di voi, sopra di essa mi immolerete dieci agnelli.»

«Dal momento che questa tua pretesa in linea di massima potrebbe trovarci d'accordo, esimio Zegovut, puoi anche passare a riferirci la seconda. Speriamo che anch'essa, come lo è stata la prima, non contrasti troppo con la nostra coscienza!»

«Con la seconda pretesa, capo Tillisan, intimo ad ogni abitante del villaggio, dopo che si sarà svegliato, di alzare le braccia verso la mia dimora e di recitare a mia lode la seguente preghiera: "Gloria a te, Zegovut, che sei il nostro padrone sovrano e possiedi una potenza illimitata!". Dopo avervi schiarito bene le idee, starò a vedere se già da domani saprete obbedirmi, in qualità di miei fedeli devoti!»

Pronunciate quelle ultime parole, il mago aveva posto fine alla sua apparizione, la quale questa volta aveva voluto che ci fosse nottetempo; ma essa aveva lasciato i presenti totalmente smarriti e in un'angustia insopprimibile. Il motivo? Essi, a loro parere, venivano forzati da quel personaggio misterioso ad agire in una maniera che non risultava conforme ai loro principi e a quelli dei propri antenati. Perciò non se la sentivano di ubbidire al mago, com'egli aveva dichiarato di pretendere da loro.